Stanzione Mirella

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Mirella Stanzione e sono nata a La Spezia l’11 marzo del 1927. Ho qualche difficoltà a ricordare il passato di deportata in un campo di sterminio nazista. Ricordare è doloroso. Inoltre mi chiedo: “Si vuole veramente sapere? Capire?”. Forse io non dovrei pensare e dire questo, forse la mia testimonianza può servire a far sì che non si ripetano gli errori commessi in passato. E quindi è giusto che in qualità di sopravvissuta io parli della mia esperienza.

Il 2 luglio del 1944 le SS tedesche, armi in pugno, sono entrate in casa mia, a La Spezia, e mi hanno arrestato insieme a mia madre. La mia era, ed è una famiglia antifascista; mio fratello era partigiano. Per la logica nazista combatterli ed essere contrari al regime vigente costituiva un motivo più che valido per l’arresto e la deportazione. Che io e mia madre personalmente avessimo partecipato attivamente alla lotta partigiana non aveva nessuna importanza, per il nazismo bastava che in famiglia uno solo li combattesse perché tutti gli altri componenti della stessa famiglia fossero colpevoli. Gli avvenimenti susseguitisi al mio arresto sono simili a quelli subiti da tutti coloro che hanno vissuto la mia esperienza: la prigione prima a La Spezia, a Villa Andreini, poi a Genova, a Marassi, indi al campo di smistamento di Bolzano in attesa di un ulteriore trasferimento in Germania. Tutti questi trasferimenti avvenivano nel più assoluto segreto. Dal giorno dell’arresto non abbiamo mai saputo quello che ci sarebbe accaduto e dove ci avrebbero portato. Il primo, ma non ultimo, trauma subito è stata la prigione. In cella in isolamento sino alla fine degli interrogatori da parte delle SS tedesche; il pagliericcio infestato da cimici, il bugliolo sono stati il primo impatto con la nuova realtà. Eravamo però solo agli inizi e non era il peggio.

La destinazione finale di questo calvario è stato per me Ravensbrück. Il viaggio da Bolzano a Ravensbrück in carro bestiame sigillati, insieme ad una sessantina di compagne, durato sei giorni e sei notti, mi ha fatto rimpiangere la prigione. Ignare di quello che sarebbe accaduto, ignare della destinazione, spaventate, confuse, parliamo poco, non sappiamo niente ma abbiamo paura. Nel nostro subconscio avvertiamo che i giorni a venire saranno difficili, la realtà però andrà ben oltre ogni più fervida immaginazione.

Ravensbrück era un campo di concentramento a ottanta km da Berlino, verso la Polonia. Popolato solo da donne e bambini. Questo è forse il motivo per il quale non  è molto citato. Al nostro arrivo vediamo mura, filo spinato e le torrette di controllo presidiate da soldati armati. Il Lager si presenta grigio, tetro, silenzioso. Si odono solo comandi secchi in tedesco e il latrato dei cani che insieme ai soldati ci circondano.

Sulla piazza del Lager notiamo una colonna di donne: sono le deportate che ci hanno precedute. Sono magre, sembrano affaticate, sono visibilmente sporche e molte sono rapate.

Hanno poco l’aspetto di donne, indossano una divisa a righe e ai piedi hanno gli zoccoli. Tutte però han ben visibile sul vestito un numero e un triangolo di colore diverso che le contraddistingue, le qualifica.

Il mio triangolo come politica è rosso e il mio numero è il 77415. Per la logica nazista il primo compito delle ausiliarie tedesche consiste nel rieducare la deportata. E per questo motivo la disciplina deve essere dura e duro deve essere il lavoro. Non è ammessa nessuna trasgressione, tantomeno qualsiasi forma di ribellione. Le botte, il frustino, il bastone, la cella di punizione servono a rendere chiaro questo concetto.

Questa forma di “rieducazione”, dico rieducazione fra virgolette, non è fine a se stessa: l’industria tedesca ha bisogno di manodopera e i deportati, anche se stremati dalla fame, dal freddo e dal lavoro servono allo scopo. Poco importa se non vivranno a lungo, qualcosa potranno fare lo stesso per aiutare la macchina bellica. Ad un costo minimo per l’industria. Per arrivare a questo, però non basta togliere ogni resistenza fisica, bisogna annientare psicologicamente la dignità, la personalità del deportato. Tutto mira a questo: il duro lavoro, la fame, il freddo, la sporcizia, i pidocchi, le botte, le umiliazioni, la paura del dopo. La paura del dopo: questa è una sensazione che non si può descrivere, non posso dire quello che provavo, non sono in grado di trasmettere a chi mi ascolta l’ansia, il terrore che sentivo dentro di me di fronte all’ignoto.

Il tutto acuito dal fatto che non conoscendo il tedesco e nessuna delle altre decine di lingue europee che sentivo intorno a me, ogni fatto assumeva proporzioni enorme. Tra l’altro essere italiana costituiva di per sé un aggravio: eravamo mal viste sia dalle tedesche che dalle francesi, dalle russe, dalle polacche; non veniva preso in considerazione che se eravamo state deportate era per i loro stessi motivi; per loro eravamo lo stesso fasciste. Solo dopo lunghi mesi questo atteggiamento mutò. Ho vissuto tutto il periodo concetrazionario con le sofferenze e le paure che tutti i deportati hanno provato e sono sicura che se ho potuto sopravvivere è stato proprio perché avevo accanto mia madre. La sua forza ha fatto sì che non abbandonassi mai il desiderio e la speranza di tornare a casa insieme a lei. Insieme a lei mi è stata di grande aiuto Bianca Paganini con la quale, sin dalla prigione di La Spezia ho vissuto questa tragica esperienza. Devo dire che mia madre è stata sì un aiuto psicologico, ma nello stesso tempo motivo di grande sofferenza. Non riuscivo a sopportare, quando anche per motivi più banali, dovevamo stare nude in fila davanti ai soldati e vederla vergognosa della sua nudità, cercare di coprirsi con le mani facendosi piccola piccola. Ed ora io dovrei parlare di tanti piccoli particolari, ma preferisco che mi vengano rivolte delle domande.

D: Grazie Mirella. Partiamo dall’inizio, vi hanno arrestate e sono entrati in casa le SS a Spezia e hanno preso te e mamma. Vi hanno accusato di qualcosa in particolare?

R: Più che accuse volevano sapere da noi… perché io avevo finito da poco 16 anni, non è che potessi dire di aver fatto chissà che cosa per il movimento partigiano, direi proprio di no, se non aiutare mio fratello nella distribuzione di qualche piccolo manifesto, ma veramente poca cosa. Quindi loro volevano sapere quello che stava succedendo in casa mia. Se conoscevo questo, se conoscevo quell’altro. Io ricordo che sul tavolo delle SS c’era una mia fotografia. Tra l’altro io non sapevo neanche da dove venisse questa, poi ho capito che era stato mio fratello che per giustificare la presenza in casa mia di un altro partigiano, gli aveva dato la mia fotografia dicendo che era il mio fidanzato. Quindi mi hanno chiesto questo. Naturalmente sono rimasta un attimo così, perché è logico, poi non ero in grado in quel momento di essere molto pronta nelle risposte, comunque ora non ricordo esattamente le domande … ma mi hanno … più o meno… le conoscenze, chi veniva, chi non veniva, che faceva, e io poi alla fine ho detto “io non so niente”. E lo stesso è stato per mia madre, più o meno le stesse domande, anzi dirò di più, mia madre è stata interrogata più volte, forse hanno preso in considerazione la mia giovane età, hanno capito che io più di tanto non potevo dirgli, ma comunque neanche mia madre poteva dire tanto.

Io sono stata due mesi nella prigione di La Spezia, a Villa Andreini, dove, il primo impatto l’ho detto, è stato tremendo, perché a parte che naturalmente non conoscevo nessuna cella, le celle di allora erano molto diverse da quelle che ora vediamo, non facciamoci illusioni, la mia era una piccola, piccola cella, molto sporca, con solo un pagliericcio e solo il bugliolo non avevo altro.

D: Ed eri da sola in cella o con mamma?

R: Ero sola in cella, perché dovevamo stare in isolamento fino a quando gli interrogatori non finivano. Dopo di che ci hanno unito.

D: Ti hanno immatricolata a Villa Andreini?

R: Sì, ma non so il numero. Non so niente, mi hanno preso anche le impronte digitali.

D: E gli interrogatori sono sempre stati condotti dalle SS?

R: Sempre, io non ho mai visto un fascista. Mai.

D: Presenza di italiani?

R: Mai, io ho solo visto le SS tedesche. Brigate nere non le ho mai incontrate.

D: E dopo due mesi?

R: Dopo due mesi ci hanno condotto a Genova. Ci hanno portato con un camioncino, anzi a metà del tragitto i partigiani hanno cercato di assalire il camion per liberarci, ma non ce l’hanno fatta, perché i tedeschi hanno fermato il camion e si sono messi tutti in cerchio con i mitra, non erano mitra non mi ricordo come li chiamavano allora Maschinenpistole forse… Quindi è stato un attimo di speranza svanito subito nel nulla. Voglio dire una cosa. A La Spezia c’erano le suore, che dopo il primo momento di incertezza, perché naturalmente chi entra in carcere in genere si presuppone chissà cosa abbia commesso, hanno capito invece dopo che eravamo lì per motivi politici e che eravamo delle brave persone. Questo invece non è successo a Genova a Marassi. Io ho un ricordo tremendo di queste suore, perché ci hanno trattato come trattavano le prostitute, le ladre e le assassine; ci hanno messo in una cella insieme a loro. Quindi un ambiente tremendo, c’era anche la Bianca con me, con la mamma e la sorella. Non hanno mai avuto, non dico una parola buona, ma un atteggiamento buono, non hanno mai fatto distinzione tra noi e le altre, perché eravamo diverse, se non altro i motivi erano diversi. Ho visto una volta sola la madre superiora in carcere; è venuta, e per consolarci ci ha dato un libro: “L’ultimo giorno di un condannato a morte”.. “Così potete leggere”. Ci siamo un po’ guardate, non potevamo fare nessuno commento perché era inutile.

Da Genova, sempre con dei camion, ci hanno trasferito a Bolzano.

D: A Genova, siete state nuovamente interrogate?

R: No, basta. Interrogazioni non ne ho più avuto.

D: E quanto tempo siete rimaste nelle carceri di Genova?

R: Noi a Genova siamo stati poco, meno di un mese, per fortuna; dico per fortuna perché non sapevo ancora quello che mi sarebbe successo.

D: Poi da lì, dicevi il trasferimento al campo di Bolzano.

R: Al campo di Bolzano, di cui ho quasi un bel ricordo confronto a tutto il resto, nel senso che ci davano delle zuppe di orzo discrete, ci trattavano anche non male direi. Ci facevano lavorare, mettevamo dei bottoni nelle tende da campo. E lì siamo stati un mesetto circa, ora le date non me lo ricordo bene.

D: Il percorso da Genova a Bolzano come l’avete fatto? Ed eravate solamente un gruppo di donne o c’erano anche uomini?

R: No, nel mio camion eravamo solo donne. Io ricordo solo donne e ricordo che ci hanno fatto fare una sosta proprio in Piazza del Duomo a Milano e chi ha potuto ha buttato dei bigliettini dicendo “avvisate” ecc. ecc. Abbiamo avuto per un attimo la speranza che la cittadinanza ci aiutasse in qualche modo, ma era molto difficile.

Di quel viaggio io ho un ricordo abbastanza triste e sconvolgente, almeno per me. E’ evidente che essendo su un camion ad un certo punto si doveva soddisfare i nostri bisogni fisiologici. Quindi ci hanno fermato in un campo, c’erano anche dei soldati italiani in questo trasporto che ci hanno accompagnato. Erano della milizia precisamente. Allora ci hanno fatto scendere in questo campo, ci hanno messo tutti, hanno fatto un circolo loro col mitra spianato, col viso rivolto verso di noi e ci hanno fatto mettere tutti in mezzo. Secondo loro in quel modo noi avremmo dovuto soddisfare i nostri bisogni. Tra l’altro questi, e mi dispiace dirlo perché erano italiani questi, sghignazzavano; questa è una cosa che veramente non riesco a perdonargli.

Poi il resto del viaggio è proseguito più o meno normalmente.

D: Ti ricordi più o meno in quante donne eravate in questo transport?

R: No. Il camion era pieno di donne, quindi ne potrà contenere, una trentina; eravamo una addosso all’altra quindi, ma non mi ricordo perché… a parte che sono passati tanti anni, a parte che ho cercato di rimuovere, anche perché io sono stata zitta per parecchio, per quasi cinquanta anni a dire il vero, non volevo parlare di queste cose. E dirò poi perché. In quel momento non è che si guardava tanto, si contava, eravamo veramente spaventate e frastornate.

D: Come ti ricordi l’ingresso nel campo di Bolzano?

R: Ricordo che ci hanno fatto andare subito alle docce, ci hanno spogliato, ci hanno … A Bolzano non rapavano nessuno, almeno che mi risulti. Ed è la prima volta che mi sono trovata insieme a tante donne nude. Io ogni tanto casco nella storia del nudo, perché io parlo di avvenimenti avvenuti più di cinquanta anni fa; allora il nudismo non era di moda. Il fatto anche di vedere un’altra donna nuda a me personalmente dava fastidio, non solo vederla ma farmi vedere, avevo un certo pudore. E quello era ancora il meno, perché poi la cosa naturalmente si è aggravata. Ci hanno dato delle tute, pulite devo dire la verità. Non ricordo di avere un numero, non lo ricordo assolutamente.

D: E il blocco te lo ricordi?

R: Sì, il blocco me lo ricordo vagamente. Neanche il numero mi ricordo, no quello di Bolzano l’ho quasi cancellato, perché era una cosa che, per mangiare …

D: Per mangiare dicevi cosa ti davano?

R: Era discreto diciamo, venendo dalla prigione; ad un certo punto una zuppa di orzo era ancora accettabile.

D: Ti sei mai chiesta il fatto, allora La Spezia Villa Andreini, poi carcere di Marassi, poi Bolzano, lo sradicamento dal tuo territorio da casa tua, dalle tue amiche, dai tuoi amici, mentre eri in viaggio, mentre eri su, se te lo ricordi. La separazione forzata diciamo…

R: La separazione forzata era soprattutto quella con mio padre, mio fratello, non sapevo cos’era successo di loro; non ho mai saputo niente di loro fino al mio ritorno. Non solo ma noi abbiamo lasciato la casa aperta, il nostro appartamento è rimasto aperto e quindi è stata fatta un po’ man bassa; non so se devo ringraziare i tedeschi o gli italiani, ma comunque qualcuno devo ringraziare di questo.

D: Quando eravate a Bolzano avete potuto comunicare con l’esterno?

R: Mai, mai potuto comunicare. L’unico momento in cui abbiamo potuto far questo è stato a La Spezia, nelle carceri, perché i miei familiari – io avevo zii, la nonna ecc. -, quando hanno saputo del nostro arresto si sono informati dove eravamo, quindi hanno preso contatto con le suore e anche per questo forse c’era un trattamento anche benevolo nei nostri confronti, in quanto nel limite del possibile portavano anche qualcosa alle suore, parliamo di cibo insomma, perché allora era quello che serviva.

D: Scusa Mirella, a Bolzano ti ricordi se hai visto dei religiosi?

R: No, mai visti. Io non ho mai incontrato religiosi, mai, almeno non si è mai qualificato nessuno come religioso.

D: Parlavi prima di lasciare la casa aperta. Cosa significa concretamente? Che non avevate chiuso niente?

R: Io sono uscita per prima dall’appartamento, mi ha seguito mia madre, la porta è rimasta aperta. Non chiudeva nessuno.

D: Quindi religiosi non ne hai mai visti. E di bambini, di ragazzetti a Bolzano?

R: A Bolzano i ragazzi no, li ho visti durante il trasporto per Ravensbrück; e una volta arrivati a Ravensbrück c’è stata la divisione tra noi donne e i bambini, dopo di che io non li ho più visti.

D: Ma questi bambini sono partiti da Bolzano con voi per andare a Ravensbrück?

R: Sì, per forza, perché sono arrivati con noi, perché c’erano delle mamme che avevano dei bambini; non erano nel mio blocco però, erano in altri blocchi. Deve essere stato uno degli ultimi che è partito per la Germania.

D: E c’erano, se ti ricordi, anche degli ebrei a Bolzano che potevi capire che fossero ebrei, o che qualcuno ti ha detto?

R: No, perché noi, non so se abbiamo fatto bene o no, in un certo qual modo forse sì, è servito a noi, abbiamo fatto come un gruppo ben unito: io, mia madre, la Bianca, la Bice, eravamo sempre insieme, ci sostenevamo a vicenda. Quindi, sì le altre le ho conosciute ma non come queste che ho appena citato.

D: Poi un giorno vi hanno chiamato, a Bolzano?

R: E ci hanno messo sul treno.

D: Dal campo dove vi hanno portato e come vi hanno portato? Per prendere questo, per mettervi sul transport, se ti ricordi naturalmente…

R: Molto probabilmente con un altro camion, giuro che in questo momento questo non me lo ricordo.

Io mi ricordo il carro bestiame, quello me lo ricordo molto bene.

D: Ma vi hanno fatto salire in una stazione, in uno scalo?

R: Sì sì, penso quella di Bolzano. Penso perché eravamo lì, e quindi…

D: Vi hanno dato del cibo per il viaggio, vi hanno dato qualcosa?

R: No, io non ricordo questa storia del cibo. Sì, ci hanno dato qualcosa durante il viaggio, forse un pezzo di pane, però giuro che non me la ricordo bene questa storia. So che qualcuno aveva fatto anche un buco nel vagone, perché c’erano i bisogni fisiologici da soddisfare. Eravamo ammassati, eravamo una sessantina.

D: E ti ricordi più o meno il viaggio quanti giorni è durato?

R: Sei giorni e sei notti, con intervallo a Linz sotto bombardamento. E’ stato lungo il viaggio, è stato molto lungo.

D: E poi il treno si è fermato dove? L’ultima stazione, chiamiamola così

R: A Fürstenberg. Quando siamo scese ci siamo guardate intorno e abbiamo visto un posto diciamo delizioso: c’è il laghetto, le villette, quasi quasi ci siamo sollevate, dice: “Be’ insomma non è che ci hanno portato …”. Non ci eravamo accorte che accanto al laghetto c’era il Lager. Però entrati nel Lager, a piedi siamo andati quel pezzetto, lì è l’unica volta che ho visto un gruppetto di uomini dall’altra sponda del lago, saranno stati una ventina, non di più, con la divisa. Quindi è questo che ce li ha fatti riconoscere come deportati. Dopo di che uomini non ne ho mai visti. Ho saputo che c’era qualche cosa anche per gli uomini, perché io parlo di Ravensbrück come di un campo di sole donne e bambini ma evidentemente c’era un distaccamento; perché io sono stata a Spello a una manifestazione, una signora mi si è avvicinata e mi ha detto: “Signora mio marito è stato anche a Ravensbrück”. Il che mi ha lasciato un po’ sorpresa, perché a parte quel gruppetto di uomini io non avevo mai visto, non sapevo neanche che esistesse; quindi non so dire, ma probabilmente era un piccolo Lager perché come uomini ce n’erano pochi.

D: L’ingresso di Ravensbrück come te lo ricordi, il giorno che siete arrivati?

R: L’ingresso l’ho detto un po’ prima, è stata una cosa come una mazzata sulla testa. Perché vedere i block, tutti uguali, vedere solo soldati, cani, questo grigio, questa cosa stretta, fili spinati, che poi ho saputo dove passava la corrente elettrica. La piazza del Lager dove siamo stati in quarantena per un giorno e una notte, non sapendo che cosa sarebbe successo, e ogni tanto quando poteva qualche detenuta si avvicinava e ci chiedeva se avevamo l’oro … noi non riuscivamo a capire perché questa storia dell’oro. Dopo l’abbiamo capito, evidentemente serviva come baratto per avere qualcosa, che c’era un certo traffico anche lì; è logico soprattutto da parte di coloro che c’erano da parecchi anni, quindi erano ben smaliziate, quelle che avevano i posti di comando tra le stesse deportate e che erano le peggiori tra l’altro.

Dopo alla mattina siamo andati alla cosiddetta visita. In fila indiana entriamo, la prima cosa che ci fanno, naturalmente nude, ah no prima ci portano alle docce. Non sapevamo che esisteva la faccenda della doccia l’abbiamo saputo dopo per fortuna; ci danno un asciugamano così quello che usiamo per il bidet, con un pezzettino di sapone, per lavarci. Però non potevamo asciugarci con un asciugamano così, comunque l’abbiamo fatto lo stesso.

Siamo andati alla visita e la prima cosa che hanno fatto è stata la visita ginecologica … anche quella è una cosa che non si può; mia madre era così terrorizzata che diceva: “Mia figlia è signorina non me la rovinate”. Va be’. La visita ginecologica cercavano l’oro, era questo lo scopo. Poi ci hanno guardato se avevamo i pidocchi, noi non avevamo i pidocchi, mentre aspettavamo fuori ogni tanto vedevamo uscire una donna rapata e la cosa ci aveva alquanto sconvolto perché evidentemente non rapavano tutti. Era un altro modo così di demolirci, perché non si sapeva quello che ci sarebbe successo. A me non mi hanno rapato; poi ci hanno dato non più la divisa, perché erano finite, quando sono arrivata io, parliamo della fine di settembre, quindi ormai le divise si vede non arrivano più. A me hanno dato una gonnellina di seta marrone, con una camicetta marrone sempre di seta con le maniche corte, questa camicetta ricordo, marrone con dei fiorellini bianchi e questo basta.

Tutto quello che avevo di mio me l’hanno requisito.

D: Biancheria intima?

R: Niente, niente. Io avevo quelle che avevano loro, della roba che noi lasciavamo della nostra, poi buttavano tutto da una parte, e poi la davano a quelle che venivano dopo, quindi magari venivi con una scarpa di un tipo e la scarpa dell’altro, però un buon paio di scarpacce ce l’avevo, ma quello che non avevo era il sopra.

Per quanto riguarda la biancheria intima forse è bene che si sappia che fino a che livello di cattiveria: tempo addietro, ogni tanto naturalmente ci penso, mi sono detta, ma la biancheria non me l’hanno data, “Ma come mi cambiavo?”. Allora ho pensato a lungo, ma non è possibile che io per tutto quel periodo sia stata con le stesse mutandine, perché è assurdo pensare a questa cosa. Allora incontrando la Bianca, le ho detto: “Bianca tu mi devi togliere una soddisfazione: come abbiamo fatto?” La risposta è stata: “Abbiamo fatto”. E questa è un’altra cosa…

D: Vi hanno tolto tutto?

R: Tutto, non avevamo niente. Hanno pensato bene di toglierci pure le mestruazioni e quindi secondo loro biancheria non ne avevamo più bisogno tra l’altro. Subito appena entrate in campo immediatamente a tutte noi si è fermato tutto, non so che cosa; qualcuno parlava di bromuro, non lo so cosa mettevano nel famoso Kaffee; dicono che mettevano qualche cosa lì. Uscite poi dal campo, dopo la liberazione, tutte abbiamo ripreso; quindi evidentemente veniva dato qualcosa che bloccava, però le iniezioni non ce le hanno fatte; per me mettevano qualcosa nel cibo, chiamiamolo così cibo per essere bravi.

D: L’immatricolazione quando ve l’hanno fatta?

R: Subito all’ingresso del campo. Ci hanno chiesto nome, cognome professione, chi era studente naturalmente almeno così mi ha dato l’impressione … una volta vestite ci hanno consegnato una pala. Io non avevo mai visto una pala; io vengo da una città di mare e non capivo che cosa dovevo farci con questa pala. Ci hanno portate fuori dal campo, dove dovevamo secondo loro spianare una collinetta di sabbia in circolo. La cosa avveniva in questo modo: io una palata la passavo alla vicina e si tornava sempre in tondo, senza senso la cosa. Questo per dodici ore sotto la pioggia, sotto il vento, sotto il freddo. Vestita poi come ho detto prima, il primo giorno con questa pala in mano ci siamo guardate tutte negli occhi, tutte intendo il mio gruppo e abbiamo visto dei lacrimoni che scendevano giù. Tra l’altro io avevo accanto a me una russa che evidentemente era una contadina, perché lei questa spalata la prendeva bella colma e mi rimproverava, mi chiamava “Mussolini” perché io non ero svelta a fare queste cose.

Per fortuna non è durato molto questo tipo di lavoro.

D: Scusa, oltre al numero e al triangolo vi hanno fatto per caso una foto?

R: No, a me non risulta.

D: Quando declinavi le tue generalità riempivano una scheda?

R: Tutto, i tedeschi sono precisissimi. Riempivano una scheda, tanto è vero che quando io per il vitalizio che c’è stato concesso chiesi … perché non avevamo niente in mano, mica avevamo il libretto di lavoro; sì potevamo testimoniare una con l’altra, ma concretamente fogli non ne avevamo. Allora ho scritto alla Croce Rossa Internazionale di Bad Arolsen, la quale mi ha risposto dicendo che non risultava niente perché in effetti quando il campo è stato evacuato, i tedeschi hanno tentato di bruciare tutti gli archivi. Però pare che non ci siano riusciti completamente, perché dopo alcuni mesi Bad Arolsen mi ha scritto che avevano trovato qualche cosa che si riferiva a me e mia madre, però solo nome e cognome, numero di matricola e la qualifica politica. Basta non hanno trovato altro. Comunque a me bastava per lo scopo che serviva.

D: Il blocco di quarantena.

R: Il blocco di quarantena mi sembra il 17. Non sono sicura, perché ne abbiamo cambiati due: nel primo blocco dove c’erano le francesi, queste ci hanno fatto una specie di rivolta, non ci volevano. Quindi ci hanno sbattuto in un altro blocco dove c’erano invece le tedesche con il triangolo nero, triangolo verde ecc.; quindi non erano politiche erano tutta un’altra razza.

D: Dopo questi primi lavori diciamo inutili

R: E gravosi …

D: E gravosi, mamma era sempre con te?

R: Sempre non ci siamo mai separate. Soltanto una volta, pare quando eravamo all’appello. “Voi sapete cosa è l’appello?” Questa triste cosa che poteva durare dalle due alle tre ore, sempre alle quattro del mattino, vestita come ero vestita. Tanto è vero che dopo un po’ di tempo l’ausiliaria tedesca, si vede in un momento di  follia, ha provato pietà per me e mi ha chiamato e mi ha fatto dare un vestito, con le maniche corte, ma non era di seta, perché, fra l’altro quella gonna di seta, e le donne lo sanno questo, la seta quando è sporca si trincia, e mi si era trinciata tutta in senso verticale; quindi avevo il gonnellino un po’ alla Josephine Baker, quindi lasciamo perdere… Allora mi ha dato questo vestito; no, anzi mi ha dato una divisa che io ho passato a mia madre perché mia madre aveva un vestito anche lei con le maniche corte, ma un po’ più pesante del mio, dopo, non so in che modo misterioso, sono riuscita a trovare una specie di cappotto, in questi mucchi di cose perché c’è qualcuno che maneggiava e che me l’ha fatto avere. Questo cappotto era nero, abbastanza lungo, deforme logicamente, però non avevo le calze; allora, io ho tolto le fodere della manica del cappotto e mi sono fatta le calze con quella e con quella io sono rimasta fino alla fine.

Dicevo prima che l’appello era una cosa … bisogna provarla per sapere cosa significa, perché alle quattro del mattino, sotto il mar del Nord, con quella temperatura stare ore e ore in piedi immobili perché non era permesso fare un piccolo movimento; c’erano i cani lupi che ci circondavano e chi ci controllava, a parte i soldati. Questa conta non tornava mai e si ricominciava, quindi poteva durare due, tre, quattro ore. Era una cosa veramente allucinante, due volte al giorno: all’inizio e alla fine del lavoro.

D: A proposito di lavoro dopo vi hanno mandato a lavorare?

R: Sì dopo. Dicevo prima che una volta ho rischiato di dividermi da mia madre, e pare, così mi è stato detto, perché io le lingue non le sapevo, però il francese quello scolastico un po’ lo conoscevo,  aveva una Stubova che era una prostituta francese, che in fondo era buona quella, e pare che così mi è stato detto… quando venivano effettuati i famosi trasporti, passaggi da un campo all’altro, lei ha visto che c’era il mio numero e quello di mia madre, perché quello di mia madre precedeva, era il 77414 e ha capito che ora non ricordo se era lei o se ero io che era, e allora ha fatto in modo di mettere al posto di mia madre o mio non ricordo… un’altra persona che era sola. Ecco, l’unica volta, poi per il resto siamo stati sempre assieme.

Dopo questo periodo nel Lager grande siamo andati nel sottocampo di Ravensbrück, dove c’erano dei blocchi adibiti alla lavorazione di manometri per la Siemens. Anche lì il lavoro era dodici ore di giorno e dodici ore di notte; non era particolarmente gravoso, perché eravamo sedute, dovevamo equilibrare questi manometri, eravamo al chiuso non lavoravamo all’aperto e già questo era un vantaggio; quindi da questo lato sono stata anche abbastanza fortunata… però in quelle condizioni fisiche, denutrite in quel modo, dodici ore di lavoro … poi io dovevo fare in parte anche quello di mia madre, perché mia madre non ci riusciva. E  fare tutta la notte era una cosa, perché poi quando tornavi al block non è che ti facevano dormire tranquillamente: tra l’appello, tra che ti chiamavano  perché dovevo fare qualche servizio nel campo, portare bidoni o che so io, caricare carbone ecc. queste cose qua, il riposo era minimo.

Premetto che questi manometri non so quanti, erano delicati, bastava poco che saltava la spirale non si poteva più usare; e allora dovevamo cercare il modo di buttarlo via senza che se ne accorgesse. Avevamo una sorvegliante belga che ti aiutava in questo senso.

Un giorno, a Natale, i dirigenti della Siemens o chi per loro ci hanno chiamato e volevano darci un regalo, un regalo! Volevano, io ricordo, un sacchetto di sale come regalo e invece mi si dice che era un marco, due marchi non mi ricordo che doveva servire sempre per il sale; ci siamo messi in fila e davanti a questi, abbiamo detto tutti “Nein” non abbiamo accettato niente. Era il minimo questo. Le polacche e le russe lo hanno preso.

Siamo stati lì nel sottocampo fino quasi alla fine, siamo rientrati circa un mese prima della liberazione. Nel Lager grande, dove abbiamo trovato una situazione molto peggiore di quella che avevamo lasciato. A parte il fatto che ormai essendo la guerra agli sgoccioli non arrivava più niente, quindi se prima ci davano un pezzetto di pane, che doveva durare tutto il giorno, una fetta così, la zuppa di rape… all’inizio può darsi che c’era qualche patata io non l’ho mai vista perché ci pensavano le capoblocco prima a prendersele e a distribuirle; comunque, qualche volta trovavo qualche buccia di patata. E il “Kaffee” la mattina e poi basta non avevamo niente.

Nel Lager grande gli ultimi tempi è stata una cosa tremenda, perché non c’era neanche più questo: c’era una brodaglia nera con dei filetti che sembrava erba, una cosa stomachevole, comunque la mangiavamo.

Lì è successo, eravamo sempre tutte unite, che ad un certo punto ci hanno diviso: la Bianca e la sorella sono finite in un altro piccolo sottocampo, io e mia madre e altre siamo rimaste lì. Non si sa perché, io dico sempre per ulteriore forma di cattiveria, il mio gruppo viene fatto evacuare, le altre rimangono in campo. Perchè l’idea era quella di ammazzarci tutte così non rimanevano testimoni, comunque a noi ci fanno evacuare. Io premetto che avevo sulla schiena sedici ascessi, sedici lo dico perché me li hanno contati, purulenti, dovuti al fatto che le mestruazioni, l’organismo cominciava a reagire, quindi io li ho avuti tutti sulla schiena. C’era chi li aveva sulle gambe, sulle braccia, sul viso; naturalmente questi ascessi purulenti, erano così e così rimanevano. All’uscita del campo per la prima volta mi viene consegnato un pacchetto della Croce Rossa, uno a me uno a mia madre; dopodichè ci mettono in fila, ci troviamo in una colonna composta da noi, dai soldati tedeschi in fuga e dalla cittadinanza tedesca in fuga. Si diceva che la destinazione era Amburgo. I tedeschi scappavano perché i russi ormai erano alle porte, loro sapevano che i russi avevano il dentino avvelenato nei loro confronti, quindi avevano una paura matta. Camminiamo per due giorni e due notti, in quelle condizioni, io poi portavo anche questa cosa di mia madre. Allora a me sembrava molto vecchia mia madre, ma in realtà poi non era così vecchia perché aveva 44-45 anni; quindi cercavo di alleviarle … poi in effetti non era ridotta molto bene.

Questa evacuazione è stata una cosa tremenda perché eravamo sfinite, gli unici riposi erano quando arrivava l’aereo russo, che ci mitragliava, allora ci facevano sdraiare per terra, nelle cunette, lungo la strada no? E questo abbiamo fatto, ormai eravamo in condizioni … mia madre tra l’altro aveva perso una scarpa e non si sapeva come fare; alla fine non so per quale misterioso motivo ne ha trovata una che si vede era stata abbandonata, e allora ha messo questa scarpa e mi pare che non fosse neppure quella giusta … non ti potevi fermare durante la colonna manifestare la stanchezza, perché se cadevi per terra ti sparavano. Questo, davanti a me è successo questo: una donna è caduta l’SS è arrivato o soldato, ha sparato, aveva una copertina questa non so come l’aveva trovata, in quel momento tu non guardi bene, “Ma che sto facendo?”. Io ho preso istintivamente questa copertina, perché capivo che mi poteva servire. Dopo due giorni o due notti ho detto “Sentite, c’ero io, mia madre e una bambina ebrea che proveniva da Auschwitz ed era rimasta sola, aveva dieci, undici anni circa, perché i suoi erano stati tutti ammazzati e lei siccome era di Rodi e parlava italiano, ha sentito parlare noi in italiano, si è avvicinata, ed è stata sempre con noi negli ultimi tempi. C’era una signora milanese, c’era un’altra signora di La Spezia. Ho detto: “Sentite qui moriamo”, perché non c’è possibilità che si riesca  ad arrivare dove loro pensano di farci arrivare. A quel punto se dobbiamo morire, moriamo sedute. Allora quando durante un bombardamento ci siamo messe in questa cunetta, dove c’era vicino una casetta, quando ha fischiato il soldato, non ci siamo alzate non ci potevano puntare in quel momento di grande confusione, la colonna è partita e siamo rimaste lì.

E lì è cominciata la grossa avventura, sole in un paese in quelle condizioni, perché raccontare delle evacuazioni ci vorrebbe un romanzo perché è una cosa allucinante anche quella, con la croce sulle spalle, perché sul mio cappotto c’era una grossa croce, perché doveva essere riconoscibile facilmente, cosa potevamo fare? A un certo momento passano degli italiani, ex militari internati, sentono che parliamo italiano, ci chiedono, rispondiamo ecc. vi cerchiamo noi dei vestiti; vanno e cercano dei vestiti, stanno con noi. Un giorno, ci mettiamo in cammino, dietro la colonna, dice “Voi state zitte, in modo che non si capisca che voi siete prigioniere”; la mattina dopo ci svegliamo e i nostri pacchi della Croce Rossa, non aperti, erano partiti e così erano partiti gli italiani. Non ho avuto neanche la soddisfazione di aprirlo, a parte il fatto che non avrei potuto neanche mangiare perché succedeva un guaio grosso, però pezzettino per pezzettino … e lì io ora finisco perché credo di capire che ormai … è cominciata la grande avventura per venti giorni, venticinque giorni in su e giù per la Germania dell’Est non sapendo dove si stava andando non si capiva niente, avevamo trovato un carretto con un cavallino che poi è stato requisito dai russi, ah perché la mia liberazione è avvenuta in questo modo: io dormivo in un fienile, ad un certo punto apro gli occhi e mi vedo davanti un soldato russo, lì ho capito che era finita la guerra, perché lì ancora non sapevo che era finita. Mi offre della vodka, dopodichè se ne va; poi ho visto un manifesto per la strada dove si diceva che l’8 maggio era stata firmata la pace. Però noi eravamo lo stesso ancora sbandate, ci dicevano che dovevamo verso Lodz. Arrivati, un ufficiale russo ci ha fermato e ci dice: “Ma voi siete italiane? Dovete andare verso Lemperg”. Quindi abbiamo fatto dietrofront, sembra quasi una barzelletta, viverlo è stata una cosa, finchè poi dopo ci hanno fermato definitivamente. Era una grossa confusione, era una massa di persone che stava girando per la Germania, uno di qua, uno di là, chi andava in Russia, chi andava in Polonia, chi andava in Francia … Ci hanno bloccato e ci hanno messo in un campo di raccolta insieme ai militari italiani in attesa del rientro che per me è venuto il 25 ottobre, quindi è stata lunga, sono rientrata il 25 luglio…

D: Cioè, sei rientrata il 25 ottobre perché è venuto qualche rappresentante dello Stato italiano?

R: Troppo lusso vedere un rappresentante dello Stato italiano. Poi in ottobre, forse qualcuno all’inizio si è fatto vivo, con il risultato che, e questo è bene che io lo dica … beh da Bolzano poi mi hanno messo sul treno, sono arrivata a Genova, dove avevo la zia, l’ho fatta chiamare, quando la zia ci ha viste vestite in quel modo, ha fatto un falò … perché è evidente eravamo … pidocchi dopo non li avevamo più perché io e mia madre ce li toglievamo a vicenda e poi siamo arrivate a Spezia dove, ho saputo da mia zia che i miei erano vivi. Ho avuto la fortuna non solo di ritrovare i miei vivi, ma la casa non bombardata, perché c’era anche questo da aspettarci.

E lì è ricominciata la mia vita chiamiamola normale, ho ricominciato a studiare. Ma una cosa, ecco perché io sono stata zitta per cinquanta anni, nessuno neanche i miei compagni di scuola, nessuno mi ha domandato “Ma che cosa ti è successo?”. Nessuno. Non solo, e questo mi aveva colpito, non perché io volessi raccontare, non avevo nessuna voglia, pensavo che ci fosse un certo interesse a capire, a sapere … qualche cosa, era così fresca la cosa. Ancora qualcuno non lo sa che io sono stata in campo di concentramento, perché siamo arrivati agli estremi di provare quasi un senso di vergogna a dire “Sono stata in un Lager tedesco”. Tutto questo accentuato dal fatto che ero donna quindi “Perché non sei rimasta a casa? Chi te l’ha fatto fare e che cosa avrai fatto, eh! Sia con i tedeschi che con i russi.” Io ho visto solo i russi, gli americani li ho visti a Monaco quando sono rientrata … Allora di fronte a questo uno dice “Ma no, non vale neanche la pena che io sprechi la mia parola per queste persone; mi dispiace mettere nel mucchio tutti gli italiani, ma devo dire che è così. Qualcuno probabilmente invece lo farà proprio perché non vuole spingermi a parlare, pensando che mi faccia molto male, è vero questo, però si capisce se a una di queste persone non gliene importa niente o addirittura mi giudica una prostituta.

D: Ancora un salto a Ravensbrück. Era un campo esclusivamente per donne, eravate tantissime..

R: Se pensi che io avevo il 77415 significa che prima di me ne erano arrivate 77 mila.

D: Di sicuro c’erano anche donne in stato interessante, le hai viste tu?

R: Certo, certo. Le ho viste prima, dopo non ho visto più niente.

D: Anche i bambini?

R: Anche i bambini perché venivano messi in blocchi separati, quindi i bambini io non li ho più visti. Non so quanti di questi ne siano sopravvissuti.

D: Ti ricordi del forno crematorio

R: Sì, mi ricordo, l’ho visto. Per fortuna non mi ci sono avvicinata, ci si sentiva sempre l’odore acre, tra l’altro mi è stato detto che le ceneri sono state tutte buttate nel lago di Fürsternberg. C’erano le cornacchie, sopra, ho detto tutto.

D: Il caffè .. ma in realtà..

R: Il caffè non era caffè, insomma era una brodaglia nera che veniva data al mattino al risveglio perché entrava aprendo la porta, questa urlando “Kaffee”.

E in quella gamella dove facevamo tutto lì, veniva messo …

D: In fabbrica, c’erano anche dei civili?

R: No, io non l’ho visti dei civili perché i tedeschi avevano, probabilmente lo erano, perché avevano un camice bianco i capi, può darsi che erano civili, può darsi, perché erano gli emittenti della Siemens.

D: Un’altra cosa sul lavoro, era un turno di dodici ore…però tu accennavi che eravate sedute, al coperto quindi non esposte alle intemperie. Ma c’era un controllo fisico psicologico durante il momento del lavoro?

R: Certo, certo. Non ci potevamo muovere, non era possibile, anche nel campo. Mia madre un giorno aveva la febbre a quaranta, avevamo una piccola infermeria, è stata ricoverata, per fare che cosa non lo so, perché non avevano niente, ma comunque è stata ricoverata. Io non sapevo niente di mia madre, allora un giorno di nascosto, perché non si poteva fare questo, sono arrivata al Revier e ho cercato di vedere dalla finestrella se vedevo mia madre. E questi blocchi avevano intorno, dire aiole è un po’ troppo … i tedeschi sono molto molto “poetici”, infatti dentro al blocco dovevamo entrare senza scarpe sennò lo sporcavamo. Io ho messo naturalmente un piede su questa terra e non mi sono accorta che avevo dietro di me un comandante del campo; mia madre non l’ho vista, però a un certo punto ho visto lui, il quale ha cominciato a urlare come un pazzo in tedesco, quindi non ho capito niente, fra l’altro la lingua tedesca, voi lo sapete è una lingua dura, rabbiosa, poi se sono alterati ancora peggio; si è accorto che ero italiana, perché mi ha chiesto chi ero, ho detto che ero una italiana, ha urlato come un pazzo, alla fine mi ha fatto segno di tornare nel mio blocco. Io sono tornata nel mio blocco, non so descrivere il terrore di quel momento, perché io non avevo capito cosa questo mi voleva fare; sapevo che avevo fatto una cosa contraria al regolamento, quindi mi dovevo aspettare qualunque cosa, perché lì se commettevi qualcosa non era strano che ti mettessero all’ingresso del campo con un cartello, in piedi tutto un giorno dicendo quello che avevi commesso. Ora io non potevo capire e sapere che valutazione dava a questo mio atto, quindi sono andata dentro al mio block, perché era un giorno che facevo il turno di notte, per quello ero libera di giorno; mi sono sdraiata sul letto, sul giaciglio, i castelli tremando come una foglia, a questo punto la mia vescica non ha retto dalla paura, quindi che è successo che ho bagnato la compagna di sotto che me ne ha dette di tutti i colori. E io ero raggomitolata in questo pagliericcio aspettando da un momento all’altro che mi venisse qualcuno a prendere, perché mi ha dato le botte, non è solo che mi ha urlato, prima mi ha dato le botte, poi ha urlato come un matto, invece dopo non è successo niente. Però io credo … un’ora, due ore, quanto è stato … non so se potrò mai provare quello che ho provato in quel momento, il fatto di non capire le lingue era tremendo, veramente peggiorava tutto.

D: Hai mai assistito ad atti di violenza nei confronti di altre deportate?

R: No, in modo particolare no. Se no, con il frustino queste cose, lì erano piccole cose in confronto.

D: In confronto a cosa?

R: In confronto a quello che ti potevano fare, perché c’era anche la cella di punizione, di isolamento, dove non si sapeva bene quello che veniva fatto lì; insomma i sistemi di punizione erano tantissimi. E poi chi mi diceva che non mi potevano … è vero che io ero giovane e quindi potevo essere ancora valida come mano d’opera, ma mi potevano anche mandare al forno.

D: Selezioni non ne hai mai subite?

R: No, l’unica selezione se così si può chiamare è questa del ritorno dal campo: quando sceglievano le più giovani per mandare, e a me non hanno scelto, non sembravo tanto giovane.

D: Hai detto che quando sei tornata a casa…

R: Mezza vuota; i mobili c’erano quasi tutti, a parte quelli che allora si usavano col grammofono, quello penso è partito subito, la biancheria e poi come si chiamano i gingilli che si adoperano a casa, quelle cose più preziose se le sono prese.

Baroncini Nella

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Baroncini Nella, sono nata a Bologna il 26 agosto del ‘25. Ho sempre abitato a Bologna. Tutta la mia famiglia è stata arrestata il 24 febbraio del ’44. Siamo stati arrestati dalle direttamente SS. Prelevarono nostro padre dall’officina dove lavorava, vennero a casa nostra. Abitavo a Bologna, non dico la via. Ci trovarono tutti a casa: eravamo tre sorelle, la mamma e il babbo che è stato prelevato all’officina. Quel giorno lì eravamo tutte a casa perché mia sorella era stata licenziata: eravamo in tempo di guerra, quindi una sorella era a casa licenziata, un’altra sorella lavorava in una fabbrica fuori Bologna; e quella mattina era a casa, io stavo andando in ufficio, ero ancora a casa che stavo mangiando il caffelatte. Ci trovarono tutti a casa e ci prelevarono tutti quanti.

D: Perché vi hanno arrestato?

R: Naturalmente deve essere stata una spiata. Abitavamo in una casa popolare, avevamo una macchina da scrivere in casa, facevamo un lavoro di stampa: stampavamo, i ciclostili per l’Unità, per la Lotta – un giornale locale bolognese – per il movimento delle donne, adesso mi ricordo come si chiamava esattamente allora … il movimento di liberazione della donna mi sembra. Praticamente noi eravamo tre sorelle e sapevamo tutte e tre scrivere a macchina; eravamo impegnate a fare questo perchè pensavamo fosse utile per la Resistenza. Noi eravamo solo ragazze, però abbiamo pensato che non ci sembrava giusto non fare niente. Non abbiamo fatto molto perché come ho detto il 24 febbraio del ‘44 eravamo ancora in principio della Resistenza, ci presero.

Ed è cominciata l’odissea della nostra famiglia, che è stata una tragedia nella tragedia.

Era una mattina, aveva nevicato tutto il giorno prima; io ricordo che non poterono neanche venire sotto casa, ci dovettero portare in mezzo alla strada perché c’era la neve alta. Ci portarono direttamente al comando delle SS, allora era in viale Risorgimento. Ci han tenuto lì fino a sera, ci hanno diviso, hanno trattenuto mia sorella, che si era presa la responsabilità del lavoro che facevamo in casa. Quindi trattennero mia sorella e mio padre lì al comando delle SS; noi ci portarono al carcere di Bologna, San Giovanni in Monte: io, una sorella e la mamma.

Mia sorella e mio padre sono stati torturati, sono stati interrogati per un mese, sono stati nel sotterraneo delle SS, hanno subito tutto quello che era possibile subire, e dopo un mese vennero portati anche loro a San Giovanni Monte, dove siamo rimasti fino ai primi di maggio, quando siamo stati trasferiti a Fossoli, nel campo di Fossoli. Siamo stati lì altri tre mesi, nel periodo in cui fucilarono i settanta  di Fossoli.

A Fossoli tutto sommato non stavamo neanche male, anche perché a Fossoli c’eravamo riuniti, eravamo assieme anche a nostro padre …  non sapevamo più niente di lui. Tutto sommato a Fossoli eravamo ancora in Italia, ci sembrava di stare male ma in confronto a quello che abbiamo passato dopo, pensando a Fossoli non si stava male del tutto. Però ci fu quella fucilazione dei settanta, poi c’erano parecchi compagni che conoscevamo, parecchie persone.

E quella fu una cosa abbastanza tragica.

Verso la fine di luglio partì l’ultimo scaglione di uomini, fra cui c’era nostro padre, non sapevamo per dove, poi dopo ho saputo …

D: A Fossoli vi hanno immatricolato?

R: Sì, ci hanno immatricolato, però non ricordo il numero di matricola di Fossoli.

D: Neanche la baracca ti ricordi?

R: In un primo tempo ci misero in una baracca insieme a tutti gli altri. Poi dopo ci hanno diviso nelle baracche delle donne, che erano quelle lungo la strada. Sì difatti è l’unico di cui n’è rimasto un pezzo, delle due baracche delle donne. Lungo la strada c’erano le baracche degli ebrei, poi c’era una suddivisione e c’erano le due baracche delle donne. Da lì noi facevamo anche un po’ le staffette lì dentro: perché c’era, parlavo col sindaco di Carpi, una casa di contadini lì di fronte e noi facevamo un po’, sapete i parenti che venivano si fermavano in questa casa e noi attraverso la strada ci facevamo dire il nome di chi cercavamo, li andavamo a cercare nel campo, e li portavamo. Facevamo praticamente un po’ il lavoro di staffette anche lì dentro. Lì a Fossoli siamo stati tre mesi. Poi ci si parlava, parlavano del trasporto in Germania e tutto quanto, ma non sapevamo che cosa volesse dire naturalmente. Noi siamo state l’ultimo gruppo di donne che sono partite; anzi pensavo che fossimo state l’ultimo gruppo invece ho saputo da Varini che erano rimaste lì un gruppo di cinque-sei ammalate che partirono dopo di noi.

D: Siete partiti prima voi o prima il vostro babbo?

R: Papà è partito verso la fine di luglio; noi siamo partiti i primi di agosto, mi sembra il 2 di agosto, dovrebbe essere il 2 di agosto. Praticamente siamo state l’ultimo gruppo, eravamo in quarantacinque: un po’ politiche e una parte di ebree. Ci caricarono, abbiamo passato il Po con il barcone, ricordo, ci siamo fermati a Verona una notte. Lì cominciarono a fare la separazione specialmente per quanto riguardava gli ebrei e il mattino dopo ci hanno messo sul carro bestiame, da Verona. Io ricordo che naturalmente il carro bestiame.. era proprio un carro bestiame, eravamo peggio delle bestie, stretti, senza poter tossire, senza poterci sdraiare. Mi ricordo che quando passò la notte, la mattina quando aprii gli occhi e vidi scritto stazione di Bressanone … allora non sapevo neanche, comunque ho capito che eravamo al confine, verso la Germania, verso l’Austria.

D: A Verona dov’è che vi hanno sistemati?

R: Non so esattamente, penso che fossero delle caserme. Ricordo un cortile in cui ci radunarono la mattina dopo; mi ricordo un camerone che stemmo lì sdraiati in terra tutta la notte, però esattamente non ti so dire che cos’era, penso che fosse una caserma.

D: E con te c’era la Iole

R: Eravamo tre sorelle e la mamma; la Iole, la Lina, io e la mamma.

D: Mentre invece appunto il tuo babbo?

R: Era partito prima non sapevamo più niente, non sapevamo che cosa fosse …

D: Mamma come si chiamava?

R: Benini Teresa

D: A Bressanone poi cosa è successo? Il cognome della mamma scusa?

R: Benini Teresa.

A Bressanone niente, il treno è proseguito. E poi ricordo, non è che avessimo dei gran finestrini, c’era il finestrino dei cavalli, con naturalmente le sbarre, quindi guardavamo un po’ fuori dove potevamo; e ricordo, perché siamo stati quattro giorni, perché siamo arrivati a destinazione il giorno 6 agosto. Ricordo, queste erano foreste, capivamo che andavamo verso il nord della Germania, anche se non è che fossimo molto pratiche dell’estero perché non avevo mai viaggiato molto. Poi ci fermavano un po’ alla sera, qualche volta, non mi ricordo forse ci facevano scendere. Però so che era un macello quattro giorni in questo carro bestiame, naturalmente puoi immaginare, non ricordo neanche quanti eravamo. So che da Fossoli eravamo partiti in quarantacinque, ma dopo sul carro credo che fossimo anche di più perché a Verona avevano caricato altra gente.

Quando finalmente siamo arrivati a destinazione abbiamo visto Ravensbrück, naturalmente non sapevamo né che cosa era né che cosa significasse. Ci hanno fatto scendere, a spintoni, a calci; ci hanno fatto mettere per cinque, abbiamo attraversato un bellissimo boschetto, con delle belle villettine con dei gerani alla finestra, che in un primo tempo ci si è un po’ allargato il cuore, perché abbiamo detto: “Be’ insomma se è così non è poi neanche male del tutto”. Poi allora avevo diciotto, diciannove anni, quindi c’è una gran fiducia, c’è una gran voglia di credere, non si vuol pensare troppo male. Quando invece siamo arrivati all’entrata del campo, lo scenario, naturalmente, è cambiato completamente.

Lì abbiamo cominciato a vedere che cosa voleva dire un campo.

D: Il treno non si è mai fermato?

R: Sì. Si fermava qualche volta. Mi sembra che si è fermato qualche volta alla sera, non mi ricordo se scendevamo se dovevamo andare a vuotare questa specie .. o quello che era. Ricordo solo che non ci si poteva né sedere né sdraiare, bisogna fare i turni per metterci un po’ a sedere perché eravamo talmente stretti … ricordo i disagi: essere chiusi in un carro bestiame senza poter uscire, senza poter bere; da mangiare avevamo qualche cosa di rifornimento che ci avevano dato a Fossoli, avevamo con noi mi sembra del formaggio, della roba, però non c’era da bere e soprattutto erano i bisogni corporali … era una cosa bestiale, non eravamo ancora abituati. Dopo purtroppo abbiamo dovuto anche abituarci anche a quello, però allora venivano ancora dall’Italia.

D: L’ingresso del  campo di Ravensbrück come te lo ricordi?

R: Mi ricordo questo: come siamo entrati ci hanno messo dentro delle docce che erano a destra dell’entrata. Ci hanno messo lì e c’erano con noi delle ebree, noi pensavamo che fossero delle esaltate, che ci dissero: “Non aprite l’acqua, non aprite il rubinetto perché viene fuori il gas. Noi naturalmente ci siamo messe a ridere, non pensavamo neanche lontanamente che potesse esistere qualcosa del genere. Finché dopo qualcuno ha provato ad aprire, invece quella volta venne fuori l’acqua sul serio. Siamo stati lì tutta una notte e il giorno dopo. Il giorno dopo ci portarono una specie di zuppa di cavoli, impastata con dell’orzo, con qualche cosa, che dopo sarebbe diventata una cosa buona, ma quella volta lì naturalmente ci siamo rifiutate proprio di mangiare perché avevamo ancora qualche cosa dal campo di Fossoli. Solo che quello che ci ha spaventato è vedere quel poco che riuscivamo a vedere del campo: questa gente che sembravano tutti degli alienati, gente che andava a rimescolare dentro i rifiuti per esempio. E quello che riusciva a venire vicino alla baracca, ci diceva di dare tutto quello che avevamo perché tanto ci avrebbero preso tutto. Noi sempre in buona fede, naturalmente non ci credevamo; però nel vedere questa gente che sembrava di un altro mondo, pensavamo che fosse gente che si fosse lasciata andare; non pensavamo che dopo poco saremmo state ridotte così anche noi. Ci ha fatto un certo effetto, non riuscivamo ancora a renderci conto di quello che poteva essere il campo. E poi quando è finito, il giorno dopo, abbiamo fatto la nostra doccia e tutto quanto, ci han fatto spogliare tutti quanti nudi; naturalmente dopo ci abbiamo fatto l’abitudine, ma le prime volte, specialmente pensare alla mamma che … Allora pensavo che avesse una certa età, aveva cinquant’anni, non era così vecchia; però allora, a quell’epoca noi, nostra madre non l’avevamo mai vista neanche in sottabito. Quindi pensare a doversi spogliare nuda di fronte a tutti per lei .. oltre all’umiliazione nostra, noi ci potevamo anche rassegnare, è che stavamo male a pensare, a vedere la mamma …

Ci hanno spogliato tutte; ci hanno fatto tutte le visite del caso; alcune le hanno rapate a zero, magari quelle che avevano i capelli migliori; e poi ci hanno dato due stracci, un paio di mutande, mi ricordo che erano sempre grandi, una specie di sottabito e un vestito. Allora eravamo in agosto, era un vestito che aveva le maniche corte, aveva due croci di stoffe diverse che erano praticamente il segnale del campo. Era un lusso avere la divisa. E ci diedero questo vestito, roba che abbiamo tenuto per dieci mesi praticamente. Ricordo che quando dovevamo lavarlo dovevamo girare con la roba in mano finché non si era asciugato perché non potevi appoggiare niente, perché se appoggiavi qualche cosa spariva.

Questo è stato l’arrivo al campo. Abbiamo fatto per venti giorni la quarantena, così chiamata, non si andava a lavorare, si andava fuori all’appello alla mattina. Abbiamo cominciato a capire un po’ l’andamento del campo: alle 4 della mattina c’era la sveglia, a urla e spintoni bisognava andar fuori, si stava fuori fino alle 7 e mezza, cioè due o tre ore in piedi, ma lì eravamo ancora in agosto in principio andavamo ancora bene. Poi nel periodo di quarantena c’erano le visite. Finito l’appello ci mettevano davanti al Revier, a questa specie di ambulatorio dove dovevamo fare le visite, nude naturalmente; dovevamo stare lì tutta la mattina nude. Ricordo che una volta la mamma poverina sempre a tenere le mutande, passò un tedesco gli diede due sberle perché naturalmente aveva le mutande. E lì alla fine ci fecero varie visite, io avevo solo diciannove anni, allora eravamo anche ingenue e tutto quanto, compresa una visita ginecologica naturalmente che fu una cosa tragica quasi. Magari ci tenevano lì tutta la mattina e poi alla fine ci guardavano in bocca, forse volevano vedere se qualcuno aveva dei denti d’oro. E questi furono i primi venti giorni di quarantena, ed eravamo ancora tutti assieme, tutte le italiane assieme.

D: L’immatricolazione quando ve l’hanno data?

R: Quella ce la diedero nella spoliazione: ci diedero questi due stracci e ci diedero il triangolo rosso e il numero di matricola. Il mio numero di matricola era 49.553: c’era mia sorella Angelina, era la prima, poi c’era la Iole, io quindi ero il 51, 52, 53, la mamma non mi ricordo se era il 54, se era subito dietro di noi dato che era Benini anziché Baroncini. Non ricordo esattamente se il numero della mamma era in seguito al nostro o forse era uno di più perché in mezzo a noi. Dopo c’era anche un’altra, era una di Savona mi ricordo, che era un pochino più anziana della mamma, che dopo rimase assieme a noi al nostro gruppo.. Dopo i venti giorni di quarantena una mattina, dopo l’appello ci misero in fila per andare a lavorare, ci dettero un badile … Era il 26 agosto, è il giorno del mio compleanno tra l’altro.. pensai che mi facevano il regalo di compleanno. Con noi, nel nostro gruppo c’erano le due della vicenda di Cuneo, c’erano delle intellettuali di Milano, c’era Maria Montuoro. C’erano parecchie persone, nessuno naturalmente sapeva tenere un badile in mano. Ricordo che ci mandarono a caricare sabbia con quei carrellini: dovevamo caricarli, trasportarli, vuotare da un’altra parte. Penso che non fosse molto utile come lavoro ma dovevamo farlo e quello era il lavoro che ci facevano fare in un primo tempo. E abbiamo fatto per qualche giorno quel lavoro lì.

D: Anche mamma?

R: No. La mamma era riuscita a stare in baracca; doveva fare però il lavoro a maglia. In baracca erano in due sedute su un panchetto, una davanti e una di dietro, e poi dovevano lavorare. Io sono sempre riuscita a non farla venire almeno fuori all’aperto a lavorare. E’ sempre stato un lavoro continuo. E poi, dopo, naturalmente abbiamo cominciato a sentire la fame: i primo giorno abbiamo rifiutato sì di mangiare i cavoli, dopo erano rape che erano ancora più tristi dei cavoli; il pane il primo giorno non ci piaceva, però dopo era diventato l’unica cosa mangiabile, era un pane nero, credo che fosse fatto appositamente per i deportati, quindi non so che cosa ci fosse in mezzo. Ad ogni modo era l’unica cosa che si mangiava, perché le rape nonostante la fame erano proprio tristi, si faceva proprio fatica a mangiarle perché erano dure, legnose, proprio senza niente, non c’era proprio niente, niente.

Ad ogni modo quella era la nostra razione di mangiare, era quasi sempre quella lì che mi ricordo io. La sera invece delle rape c’erano delle patate, solo che, finita la quarantena ci cambiarono anche di baracca: noi quattro, assieme a una di Savona, mi ricordo che era più anziana della mamma, andammo in una baracca; tutte le altre italiane rimasero in una baracca diversa. Eravamo proprio sperdute lì in mezzo, tanto è vero che provai ad andare a letto ricordo che suonò l’allarme: fecero un appello di sera, che non avevano mai fatto. Quando tornammo dentro c’erano le luci spente, provai ad andare su questo letto ma mi presero a pugni e a calci finché ho dovuto venire giù. Mi sono messa lì, per la mamma non c’era il posto l’avevano messa con un pagliericcio lì in terra sotto la finestra, io sono andata lì con lei. E ricordo che lì dopo succedeva questo: provavamo ad aprire un po’ la finestra, cominciammo a litigare, allora venne la capo blocco, capì che non avevo il posto per andare a letto, mi presero per un braccio e mi misero su dei castelli dove erano già in quattro. L’han già spiegato in tanti: erano castelli di legno, pagliericci che non avevano più la paglia, ci stavi in due, una dalla testa e una dai piedi; quindi lì dove mi portarono c’erano già in quattro su due di queste piazze, quindi io dovevo fare la quinta, su due piazze praticamente ero proprio completamente in più. Per fortuna erano italiane, non hanno avuto il coraggio di prendermi a pugni e di mandarmi giù; ho dovuto stare lì per un pezzo, ho dovuto stare lì con loro.

La vita del campo è indescrivibile quella che poteva essere la vita del campo.

D: La vita del campo, cosa ci puoi dire della vita del campo?

R: Cosa si può dire della vita del campo? Era una cosa che non so come si possa descrivere, perché per quanto si descriva una cosa brutta, non si può arrivare a capire quello. Intanto la cosa che ti colpiva di più era la gente che vedevi intorno. Praticamente ti trovavi vicino dei cadaveri, insomma tu vedevi dei cadaveri con la pelle, vedevi solo la pelle della gente, gli occhi aperti. Io ricordo che una volta, non so come, mi trovai seduta vicino alla baracca, si vede che era un giorno che non si lavorava. Non so, mi trovai vicino quelle fotografie che si vedono nelle mostre, nelle cose; io vidi una di quelle lì che aveva la bocca aperta, gli occhi aperti … ancora adesso non so se era viva o se era morta. Tu vedevi solo della gente di quel genere lì.

Nel campo di Ravensbrück tra l’altro c’erano parecchi zingari, quindi c’erano anche dei bambini. La prima volta che li vidi, mi sono venuti in mente i documentari che facevano a quell’epoca: i fascisti naturalmente facevano vedere i bambini della Russia, come si vedono anche adesso purtroppo, come degli scheletri. Come ho visto mi è venuto subito in mente quel fatto lì, l’ho messo subito in relazione: venivano a prendere i bambini per questi documentari.

Quello che ricordo questa gente, gente che non era gente, eravamo … Lì, ad un dato momento cosa fai? A diciannove anni, non pensi di dover finire in quel modo lì, quindi hai sempre un po’ di speranza. Allora in principio abbiamo cominciato a parlare naturalmente soprattutto di ricette. Allora ognuno faceva l’invito, compresa l’Enrichetta, che viveva in montagna, e ricorderò sempre che alla fine quando si parlava di ricette diceva: “Io che ricetta vi posso dare? Io l’unica ricetta che posso darvi è la polenta di fagioli”. Ricordo quel particolare lì, che si prendevano degli appunti, adesso non mi ricordo, perché non avevamo mica niente, qualche pezzo di matita che ero riuscita a trovare, si facevano anche delle punte, c’è chi ha portato a casa anche delle ricette addirittura.

Ma l’unico pensiero era quello lì: il mangiare, il ritorno.

E poi passò settembre, era passata l’uva. Passò l’ottobre erano passate le castagne. Arrivammo a Natale abbiamo detto: “Qui non si torna più a casa”. Quindi quando siamo arrivate a Natale abbiamo smesso di sperare di arrivare a casa naturalmente, perché eravamo già messe piuttosto male. Noi della mia famiglia eravamo in quattro: abbiamo cominciato a fare i turni nelle infermerie, siamo riuscite finalmente a trovare due cucce per stare tutte e quattro insieme, però non riuscivamo perché una o l’altra era sempre in infermeria. Cominciò prima mia sorella Lina con il tifo; addirittura andò nella baracca del tifo che fece una vita, naturalmente lì si trovava la gente morta nel castello. Dopo andai io in infermeria, poi andò la Iole. Insomma abbiamo fatto sempre un po’ il turno ad andare in infermeria, tanto è vero che dopo ci lasciavano soltanto due letti perché tanto in quattro non c’eravamo mai.

Dopo cercavamo di scegliere i lavori. Per un pezzo mi ricordo che ci misero a fare … dunque il pavimento era tutto sabbia a Ravensbrück; la pavimentazione era fatta con il carbone e mi ricordo che c’è stato un periodo che andavamo a scaricare questi vagoni dietro dal campo, non molto lontano, col carbone, li dovevamo caricare su delle carriole piene naturalmente e trasportare su questa sabbia che dovevamo mandare avanti. E poi c’era chi faceva la pavimentazione, dopo dovevamo passare con il rullo: c’era il famoso rullo presente in quasi tutti i campi, è rimasto il simbolo anche di Ravensbrück naturalmente; e poi c’era un gran tubo lungo che doveva bagnare, bagnare con l’acqua. Quello era anche un lavoro abbastanza leggero, però far venire l’ora del rancio della sera era abbastanza lungo.

Quello è uno dei primi lavori, dopo i carrelli della sabbia e poi dopo cercavamo di andare; quando restavamo, cercavamo di scappare, in baracca non ci si poteva stare. Ti mettevano in fila in mezzo al campo, dovevi aspettare di andare a trasportare i bidoni del rancio, quindi non era una gran bella soddisfazione neanche quella: mi ricorderò sempre che una volta eravamo lì in fila, passò un tedesco, disse qualche parola in tedesco naturalmente, qualcuno, non so se era proprio l’Enrichetta o se era la Giovanna, gli scappò detto “Nicht verstehen” perché era l’unica cosa che capivamo in tedesco, prese un fracco di botte naturalmente perché quello non si poteva dire, si doveva capire lo stesso anche se non si capiva.

Allora dopo imparai che c’erano le colonne dove si andava a segare gli alberi alla foresta, davano un piccolo supplemento di pane, ma una fettina trasparente .. in confronto al lavoro che si faceva naturalmente non è che fosse gran che, però … E poi davano la divisa, davano il vestito a righe, che era già un successo avere quello lì. Quindi mi ricordo che andai là in fila, mi feci dare il vestito, mi diedero anche un paio di calze di lana; eravamo già ottobre novembre, cominciava già a far freddo. Mi diedero un paio di zoccoli col fondo di legno, era il numero quarantadue … con le scarpe sono sempre state anche abbastanza handicappata perché il primo giorno me le feci portar via subito. La prima sera … il castello era nel terzo piano, non sapevo che le scarpe dovevano servire da cuscino sul vestito, io lasciai le scarpe naturalmente sotto il castello, roba neanche da pensare. Quindi la mattina neanche a pensare che trovassi le scarpe. Provai ad andare dalla capo blocco, provai a spiegare che non avevo le scarpe, mi fece segno che c’erano un paio di zoccoli olandesi di quelli di legno che erano lì sopra, mi fece segno di prendere quelli, come tentai di toccarli mi sentii un mucchio di botte, era la padrona probabilmente degli zoccoli. Era un paio di scarpe da soldato, senza fondo naturalmente, per un pezzo io sono andata con queste scarpe da soldato che non riuscivo, facevo fatica anche a camminare. Quindi quando decisi di andare alla colonna della foresta a segare gli alberi mi diedero questo paio di zoccoli che in novembre, dicembre non è che facessero molto caldo, comunque erano il numero quarantadue.

Poi andai a questa colonna, non mi trovavo male, a parte il fatto che naturalmente non è che sapessi segare alberi. Quindi partivamo la mattina con il segone e tutte le misure di queste seghe. Un bel posto avevamo, erano tre rimorchi con un macinino che andava, so che c’era il  camino che fumava. So che una volta, eravamo già in inverno c’era il ghiaccio nel paese, c’era una piccola salita e non andava avanti: dovemmo scendere per spingere e naturalmente lì ci tiravano dietro i sassi addirittura i bambini del paese. Non so erano istruiti, non so se sapevano in paese che cos’era il campo di sterminio, però forse vedevano il camino fumare perché era a pochi chilometri il paese. Quindi ricordo quel particolare lì, a lavorare là alla foresta, dovevamo segare alberi, se ti fermavi ti buttavano dietro i cani. Naturalmente nessuno era molto pratico di questo lavoro. Ci davano questa specie di supplemento e poi quando arrivava, tutto quello che avevi era sempre legato in cintura, avevamo la scodella legata in cintura, quella specie di cucchiaio dentro le asole del vestito ecc. Quando arrivava il rancio a mezzogiorno, le solite rape, era abbastanza lontano dal campo … come mettevano questo mescolo di rape dentro alle gamelle naturalmente si gelava addirittura perché eravamo arrivati anche sotto i venti gradi sotto zero. E lì anche se era triste comunque le mangiavamo lo stesso.

Mi ricordo che c’è stato un periodo che eravamo in una foresta, facevano la carbonella con la legna, c’era una gran cisterna con il fuoco e noi di nascosto naturalmente andavamo a rubare dei pezzettini di questa carbonella perché faceva bene per la dissenteria; la dissenteria è stata la nostra compagnia dal principio fino alla fine. Alla notte ti dovevi alzare anche cinque volte naturalmente, prendere pugni e calci perché dovevi pestare la faccia a quella sotto e finché potevamo, cercavamo di stare più in alto possibile.

D: Le mestruazioni

R: Quelle lì, io ho litigato un po’ con tutti i ginecologi di Bologna. Le mestruazioni … dunque lì c’era chi le aveva, per esempio mia sorella ha avuto la disgrazia che le aveva sul carro bestiame nell’andare là; però dopo quindici giorni sono venute a tutte. A tutto il gruppo sono venute le mestruazioni e poi non sono più venute a nessuno. Allora qualche giornalino ha scritto che era per la mancanza degli uomini e qualche ginecologo ha detto che era la debolezza. E io continuavo a dire: “Guarda che lì in quella porcheria che ci davano da mangiare c’era qualche cosa per forza in mezzo, perché non si può in quarantacinque donne tutte quante fermarsi all’improvviso e tornare due mesi dopo la liberazione, dopo cioè che hai smesso di mangiare quella roba che ti davano loro”. Anzi un ginecologo addirittura ha detto che è impossibile perché ci fosse stato qualcosa del genere, cioè da poter fermare le mestruazioni quando si voleva si sarebbe saputo. E mi ha portato l’esempio di Auschwitz: c’erano stati dei casi di donne rimaste in stato interessante, dato che ad Auschwitz c’erano anche uomini e donne. Ma in un primo tempo penso che a tutte si fermassero le mestruazioni, almeno a quello che risulta a me. Anche perché per fortuna ad un dato momento, a parte tutti i disturbi che ti poteva dare fisicamente, ma con la mancanza di igiene che c’era, se c’era anche quella faccenda lì non so come si sarebbe fatto, anche perché ci avevano portato via tutto. Quindi lo sapevano di partenza che dopo un mese noi non avevamo più niente.

D: Tu non sei mai uscita con le tue sorelle a lavorare in una fabbrica?

R: Lì c’era chi usciva ad andare a lavorare alla Siemens, oppure alla sartoria, non è che stessero molto meglio perché dovevano andare fuori dal campo e lavoravano al coperto, ed era una gran bella cosa. Noi eravamo in quattro ad andare lì, la mamma non potevamo certamente portarla via; quindi abbiamo sempre evitato per riuscire a stare tutte assieme. Poi, come dicevo, qualcuno era sempre in infermeria, quindi avremmo dovuto separarci, cosa che abbiamo cercato di non fare, anche se dopo alla fine ci siamo riuscite lo stesso, purtroppo. Dopo siamo arrivati a Natale facendo un po’ i turni nelle infermerie un po’ come si poteva, a Natale eravamo già messe piuttosto male, mi ricordo che il giorno di Natale addirittura ero in infermeria. In infermeria poi è una parola, un eufemismo perché era il Revier che era tutta un’altra cosa, dire in infermeria si pensa che ci siano dei dottori e degli infermieri. Comunque lì c’erano delle dottoresse che provavano a far quel che potevano, però non si poteva far niente.

La mamma cominciava già a stare piuttosto male; la Iole era già in infermeria e noi facevamo un po’ il turno. Mi ricordo nel mese di gennaio finalmente siamo riuscite a ricoverare la mamma che stava male: non stava più in piedi, era sfinita praticamente, solo che quando marcava visita non potevano ricoverarla, perché non aveva la febbre a più di 39. Io la prima volta che marcai visita mi ricordo erano tre giorni che stavo male, non avevo il coraggio, perché specialmente noi italiane, in infermeria non trovavi nessuno che potesse capirti.

Ho detto quello che, … altre cose, comunque non ne ho delle altre cose da raccontare. La vita del campo che ormai è stata raccontata e raccontata.

In gennaio siamo riusciti a ricoverare la mamma. E’ stata una decina di giorni ma poi si è consumata completamente, siamo riusciti a vederla fino all’ultimo: a rischio però riuscivamo, l’abbiamo vista l’ultima sera, l’abbiamo vista la mattina nel letto che non l’avevano ancora portata nel mucchio dei cadaveri della notte, perché facevano l’ammucchio nei Waschräume, nei lavandini.

Lì, la mamma è finita così. Rimanemmo io e le mie sorelle che eravamo ancora in piedi; la mamma è morta verso il 21 di gennaio.

Lì cominciavano a parlare che avanzavano da una parte, al radio-campo si sentiva un po’ delle notizie ma non è che si sapesse molto. I primi di febbraio ho cominciato a star poco bene io, avevo la tosse, avevo la febbre, non volevo marcare visita perché avevo paura che ci separassimo anche io e mia sorella, quelle che eravamo rimaste in piedi. La Iole era già in infermeria da un pezzo, e poi ho tirato finché ho potuto poi dopo alla fine ho dovuto marcar visita e sono andata in infermeria che era il 12 di febbraio. Era un lunedì. Al giovedì 15 febbraio partirono tutte le italiane che erano nel campo, in mezzo ci cascò mia sorella, l’unica rimasta in piedi. Quindi rimanemmo lì, io ero alla baracca n. 7, un supplemento dell’infermeria perché era provvisoria, e la Iole che era rimasta nella baracca 10, sempre chiamata l’anticamera della morte. Comunque mia sorella stava benino, non stava male, però, non so se era una forma tubercolare, quello che avevamo un po’ tutti naturalmente. E lì siamo rimaste per quindici giorni: ci siamo scambiate qualche biglietto, lei scriveva dei biglietti facendo coraggio a me, non le avevamo detto che era morta la mamma, abbiamo cercato di non dirglielo; lei mi scriveva, parlava della mamma, parlava di tutti noi, parlava che tornavamo a casa, che eravamo giovani, che ci saremmo riprese presto, che la mamma e il papà non dovevano più lavorare. E poi l’ultimo bigliettino me l’ha scritto gli ultimi giorni di febbraio, i primi di marzo: il giorno 4 marzo partirono un gran trasporto da tutte le infermerie del campo, ne chiamarono parecchie anche da dove ero io e imparai che mia sorella partì con quel trasporto in cui tutti finirono nei forni del crematorio dello “Jungerlager”. E quella è la fine. Non c’ho creduto per un pezzo però la fine che hanno fatto era quella lì. Lì sono partite dal campo già selezionate per i forni crematori, non sono andate là per la selezione come si faceva di solito, li presero dall’infermeria già decise. Anche perché le infermerie, queste specie di infermerie erano sovraffollate quindi avevano bisogno di posto, perciò nessuno era più utile per il Grande Reich, perciò dovevano finire tutte nei forni crematori.

Lì dopo rimasi da sola. Mi ero trovata con una compagna jugoslava, la famosa Julkee. Julkee era stata arrestata in Italia, lavorava per la Resistenza italiana; è stata arrestata con una di Bologna che ci conosceva di nome, conoscevamo bene suo fratello, non lei. E quando partirono tutte, lei arrivò lì al campo col trasporto di settembre-ottobre che veniva da Bolzano. Lei fu arrestata che era in stato interessante, quindi rimase lì al campo dove partorì. Dopo l’abbiamo persa un po’ di vista a dir la verità, perché noi eravamo di un’altra baracca; ho saputo che ha partorito verso Natale ed è stata molto assistita dalle jugoslave; c’erano parecchie dottoresse, sono state bravissime, han fatto di tutto, l’han salvata, addirittura mi han detto che hanno perfino fatto una trasfusione di sangue … dirlo così sembra una cosa da ridere ma pensare ad una trasfusione di sangue nella situazione in cui eravamo, perché anche le dottoresse potevano forse riuscire a stare un pochino meglio di noi dato che erano in una posizione migliore, però la fame era per tutti.

Mi sono ritrovata appunto con Julke quando sono stata in infermeria, nella baracca n. 7. Mentre ero lì, comunicarono che era nata una bimba a cui mise il nome Julopodeski, mi ricordo che vuol dire, non so se si dica proprio così comunque so che voleva dire “libera”, la traduzione in italiano. La bambina morì naturalmente dopo due mesi, era una di quelle che stava bene: una notte mancò l’infermiera quella che ci teneva dietro, era malata; non so cosa fecero, lasciarono accesa una stufa, quelle che stavano meglio che erano di sopra morirono, quindi in mezzo ci capitò anche lei. Quando andai per farle coraggio lei mi guardò e mi disse: “Cosa vuoi far coraggio te a me?”. Eravamo tutte e due in una situazione. Comunque eravamo un po’ alla baracca n. 7 provvisoria e poi ci perdemmo anche da lì perché la mandarono pochi giorni prima di quella famosa chiamata del 4 marzo. Lei era in quella lista lì, perché era di quelle che stava abbastanza male però la mandarono fuori dall’infermeria appositamente appunto perché non cascasse in quella lista. E dopo quando cambiai baracca, che andai alla baracca n. 8, la ritrovai, e dopo siamo sempre state insieme fino alla liberazione, finché abbiamo potuto.

Praticamente era un’altra sorella per me, aveva l’età della Iole e parlava molto bene l’italiano; era praticamente incinta di un compagno italiano, poi siamo arrivati alla liberazione, riuscì a scrivere qui in Italia ma capiva che non ce la faceva a tornare. E poi dopo siamo state assieme per un pezzo fino dopo la liberazione. Io sono stata liberata, adesso torno indietro un momento, sono stata liberata il 30 aprile del ’45.

D: Dov’eri?

R: Sempre a Ravensbrück, non mi sono mai spostata da Ravensbrück. Sono stata penso una delle poche che ha fatto tutto il campo di Ravensbrück. Non so io mi sono salvata, penso anche Julke e le dottoresse slave difatti ce l’han detto che più di una volta ci han tirato fuori dalle liste. Mi ricordo che una volta quando eravamo lì alla baracca n. 8 che doveva venire il controllo, perché ci facevano ogni tanto le visite di controllo, mi dissero, se mi chiedevano qualcosa, di dire che avevano male alle giunture, che ero lì da dieci giorni, mentre invece erano già due mesi che ero lì in infermeria. E dopo la liberazione ce l’han detto: se io sono qui lo debbo alle slave, adesso non so se erano della Boemia o della Slovenia, erano jugoslave e posso dire che mi hanno salvato. Se sono qui lo devo soltanto a loro, perché secondo me quando parlano della solidarietà nel campo, io non ho mai trovato solidarietà; nel senso che tra italiane eravamo così in poche, non sapevamo la lingua, eravamo anche abbastanza separate, non è che abbiamo mai potuto fare. Ma fra i grossi gruppi c’era della solidarietà effettivamente, perché fra le francesi che erano molto numerose c’era solidarietà. Mi ricordo il giorno di Natale che ero appunto in infermeria … il giorno di natale non si andava a lavorare, ricordo questi gruppi di francesi che facevano il giro, facevano un po’ di raccolta, portavano addirittura la tartina, il sabato alle volte ci davano un po’ di burro; regalare una fettina di pane voleva dire tirarselo fuori dalla bocca un po’ tutte quante. E ricordo che c’era questa solidarietà fra le polacche. E’ una cosa che mi ricordo e che ogni tanto ancora adesso mi viene in mente. Alla sera quando, magari fino all’ultimo momento sentivi litigare in tutte le lingue naturalmente; poi spegnevano la luce, dopo un po’ si sentiva qualcuna che diceva “Bonne nuit” in francese, dopo un po’ quell’altra rispondeva “dobra noc” che erano le polacche, cioè in tutte le lingue. E questo ti dava una certa emozione perché col buio, pensavi alla casa e quella era l’unica nota gentile che ho trovato nel campo.

D: La Liberazione come te la ricordi?

R: Tutto il mese di aprile mi ricordo che avevamo fatto una specie di calendario, io e Julke, perché non riuscivamo ad avere la cognizione del tempo. E poi ci sbagliavamo anche addirittura coi giorni. Eravamo molto intontite e messe male. Il giorno della liberazione mi ricordo che stavo dormendo, sognavo che invece delle rape distribuivano dei porri, che erano un pochino meglio delle altre, bolliti, comunque erano meglio delle rape. Sognavo qualche cosa del genere, sentivo del trambusto, poi mi sono svegliata e ho visto tutta questa gran confusione.

Ormai alla liberazione eravamo rimaste soltanto quelle dell’infermeria perché gli ultimi giorni avevano fatto partire tanti di quei trasporti, il camino del forno crematorio che non si poteva tenere aperta la finestra dalla puzza che c’era. Alcune di queste cecoslovacche mettevano fuori degli stracci rossi, non so come avessero fatto a procurarseli, tutto quanto, e ho capito che dicevano che c’erano i russi alla porta, che c’era la liberazione. Il primo istinto naturalmente è venir giù dal letto, ho fatto due passi e sono caduta lunga distesa, perché proprio non ce la facevo più a stare in piedi. Mi ricordo che passò la dottoressa che disse: “Ma non importa, tanto ormai sono qui sta tranquilla che adesso arrivano qui”.

E mi ricordo appunto, naturalmente pensavo che era finita, che eravamo arrivati a quel punto lì, poi ricordo … E’ un’immagine che non me la so spiegare però me la ricordo così bene: quelle che riuscivano ancora a girare, andarono alla porta e trovarono un russo, mi ricordo che aveva due gran baffoni, con qualcosa in mano non so perché, aveva proprio il tipo del mugik e poi lo fece girare per queste baracche. Io ricordo questa faccia con due lacrimoni che gli venivano giù che ci guardava in faccia e che scuoteva la testa, perché eravamo ridotte, come dico eravamo tutte lì quelle messe peggio, che non dovevamo essere lì naturalmente dovevamo essere già tutte crepate.

Poi dopo in un momento ci siamo guardate in faccia, siamo state liberate. E poi alla fine ho pensato “Poi adesso?”. Siamo partiti in cinque, ero lì da sola, la mamma non sapevano che era morta, la Iole, non volevo credere che fine avesse fatto però lo sapevo, papà non pensavo neanche che potesse essersi salvato, visto la fine che avevamo fatto noi, era già messo male a Fossoli dopo tutto quello che aveva passato agli interrogatori. Mia sorella non sapevo dov’era, quell’altra non sapevo che fine avesse fatto, ero l’unica che ci speravo naturalmente e poi niente.

E poi ho aspettato, ho aspettato sei mesi, perché io sono rimpatriata in ottobre del ’45. Dopo da lì, dopo due o tre giorni ci hanno comunicato che ci avrebbero dato da mangiare tre volte al giorno. Questa era una gran notizia per noi, lì ci fu un po’ di confusione che ricordo un po’ vagamente. Ad ogni modo gli ultimi giorni del campo arrivò la Croce Rossa, riuscì a mandar dentro dei pacchi della Croce Rossa Internazionale, che ci distribuirono. Cosa succedeva? Che la maggioranza moriva coi crauti, in questi pacchi c’erano dei crauti, della carne di maiale, delle sigarette Camel, c’era tutta roba… quindi una gran parte morivano addirittura col crauto in bocca, coi wurstel. Quindi quando arrivano i russi ci ritirarono questi pacchi, cosa che naturalmente a molti non era piaciuta. Però cominciarono poi a darci delle pappine dolci, mi ricordo che mi prendevo delle gonfiate perché andavo a raccogliere tutto, Julke poverina mangiava poco quindi mangiavo la mia e la sua parte. Poi se ne trovavo delle altre mangiavo anche quelle. Mi ricordo che cominciammo a fare l’analisi e tutto quello che ci davano da mangiare. Un giorno ci diedero del riso, abbiamo pensato a fare l’analisi, ma sai quante vitamine ha il riso, noi ci sentivamo già molto, così, sono state quelle cose, pian piano come dico diciannove anni digerisco tante cose. Sei incosciente.

Io il ricordo dell’ultimo mese, del mese di aprile era che l’unica cosa che pensavo era quella di riuscire ad arrivare a casa; non è che pensassi cosa potevo fare una volta a casa, però solo quello di arrivare a casa mi sembrava una cosa impossibile da poter fare. Difatti sono arrivata a casa, però penso è tutto quello che ho potuto fare, non ho potuto fare molto di più. A casa, pensa dopo la liberazione è stata lunga perché poi da lì ci hanno spostato, ci avevano ripulito, ci hanno curato, perché ci hanno fatto parecchie … Poi sono stata sei mesi in attesa del rimpatrio e siamo rimpatriati in ottobre del ’45.

D: Dove hai trascorso questi sei mesi?

R: Questi sei mesi li abbiamo trascorsi, in un primo tempo ci portarono a questo Jungerlager che l’avevano ripulito, si stava abbastanza bene. Dopo lì mi ricordo che un giorno venne una delegazione italiana a cercare se c’erano delle italiane. Mi parlarono che erano in caserme un po’ lontano dal campo e mi parlarono di molti nomi di quelli che erano partiti con mia sorella. Allora io provai a chiedere se c’era mia sorella ma non mi seppe dire; naturalmente da una parte mi dispiaceva perché dovevo lasciare la Julke, lei non poteva poi venire in Italia anche se era stata arrestata qui in Italia, lei sarebbe dovuta tornare in Jugoslavia. E mi dispiaceva perché, sì stava abbastanza male, però non credevo che stesse così male. Ci han portato in questo campo italiano, ho trovato parecchie del nostro gruppo che eravamo partite assieme da Fossoli: c’era appunto l’Enrichetta, c’era la Giovanna, c’era la Maria Montuoro. E poi niente, poi ci hanno spostato due o tre volte però eravamo nel nord della Germania, quindi dovevamo aspettare che ricostruissero le ferrovie. Poi un bel giorno, siamo arrivati fino a ottobre, ci hanno caricato su questo carri bestiame, io ero su uno in cui c’era la Croce Rossa sopra, perché ero una di quelle che stava peggio; era sempre un carro bestiame, un pochino più largo di quando siamo partiti. E poi niente, comunque anche quando siamo passati dalla parte americana non è che siamo stati molto meglio. Quando siamo arrivati naturalmente alla frontiera ci hanno accolto dicendo che in Italia comandavano i comunisti e i partigiani. Mi dispiace dire questo, non so se faccio bene a dirlo, però è così, quando siamo rimpatriati alla frontiera ci hanno un po’ spaventato dicendo che saremmo stati qui, che in Italia c’era del caos, della confusione. Però non ho avuto il coraggio di venire fino a Bologna, tra l’altro io ero fra quelli più ammalati; mi han fermato a Merano, da Merano ho provato a scrivere, non sapevo chi ci poteva essere a casa, ero sola, non sapevo niente, e per un pezzo, credo quindici giorni sono venuti a prendermi dall’officina dove lavorava nostro padre e seppi che era tornata a casa mia sorella, la Lina. Lei aveva avuto tutta la sua peripezia, era stata portata lontano dal campo, liberata dagli americani ed era tornata però in settembre; il suo ritorno è stato ancor peggio del mio perché lei non ha trovato nessuno addirittura, io almeno ho trovato una sorella, lei non ha trovato nessuno e non sapeva chi sarebbe tornato. Però poi siamo tornate noi due. Del resto dopo …

D: E il babbo, Nella?

R: Il babbo ho imparato poi da loro che era morto; abbiamo trovato dei compagni che conoscevamo da Fossoli, c’era un certo Carenini che era molto affezionato a noi e a nostra sorella soprattutto. Ci raccontò appunto che un giorno, partito con quella che chiamavano la “corriera blu”, a Mauthausen, abbiamo imparato di Mauthausen perché non sapevamo niente, non sapevamo neanche che esistesse ad un certo momento. Dopo piano piano abbiamo imparato.

D: Il babbo era stato portato a Mauthausen?

R: Sì, sapevamo che era stato portato a Mauthausen.

D: E poi da Mauthausen con le corriere blu

R: Non so se era stato portato all’infermeria o alle cose, quello che ho saputo da quel nostro compagno Carenini; poi dopo abbiamo ritrovato altri compagni che ci hanno aiutato molto.

D: Quindi della tua famiglia sei tornata te e tua sorella…

R: Eravamo le due più giovani, mia sorella ha patito molto più di me perché lei ha subito quegli interrogatori che sono state la cosa più bestiale che qualcuno possa subire.

D: I fascisti, i nazisti che hanno interrogato tua sorella sono stati …

R: Sì, più che altro quelli che hanno fatto la spia, poi dopo … Io poi ho fatto tre anni di ospedale, comunque non hanno avuto gran che.

D: Sono in libera circolazione

R: Sì sì. Sì, adesso non so neanche poi se sono al mondo.

D: Della tua amica Julke sai più niente?

R: E’ morta dopo poco tempo che sono partita, da quando ci siamo separate … perché dopo la liberazione avevano concentrato le varie nazionalità, italiane con italiane; lei, allora dopo trovai il gruppo delle slave, che era poco distante da noi, a noi ci avevano messo nelle caserme, trovai qualcuno che conoscevo e chiesi appunto di Julke, mi disse che era morta una decina di giorni dopo che ero partita. Dopo mi è sempre rimasto lo scrupolo perché da una parte ci tenevo a partire per avere notizie, perché speravo di avere notizie di mia sorella, che invece nessuno mi ha potuto dare; dall’altra parte mi dispiaceva lasciare lì Julke, però non mi rendevo conto che fosse proprio così alla fine, ero convinta che riuscisse almeno a tornare. Invece forse lo sapeva lei.

Marostica Aldo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Aldo Marostica, sono nato a Castagnaro in provincia di Verona, il 3.11.1925. Mi hanno arrestato il 27 marzo 1944. Il motivo dell’arresto è lo sciopero, come tutti gli scioperanti del 1° di marzo. Però, prima di essere arrestato contribuivo a portare le armi ai partigiani con la motocarrozzetta della FALCK, andavo a Macugnaga in provincia di Domodossola. Io avevo due denunce, uno per lo sciopero e una per le armi ai partigiani.

D: Scusa Aldo, perché tu dove abitavi allora?

R: Abitavo a Sesto San Giovanni.

D: E lavoravi?

R: Alla FALCK, Acciaierie Lombarde FALCK.

D: Chi ti ha arrestato?

R: Mi hanno arrestato, quelli dell’OVRA, i fascisti. Mi ricordo che erano in nove. Sono venuti in piena notte, hanno cominciato a battere la porta. Noi non aprivamo perché non sapevamo chi era, avevamo un po’ di paura; dopo a furia di picchiare, picchiare ci siamo accorti che eravamo obbligati ad aprirla. Abbiamo aperto e hanno chiesto di me, hanno detto a mia madre “Guardi che suo figlio lo portiamo al Commissariato, vedrà che domani mattina ritorna senza problemi”. Mi sono avviato e siamo andati al Commissariato. Strada facendo ne hanno presi altri due o tre in viale Marelli sempre a Sesto San Giovanni; lo comandava il Commissario Di Spirito; e ci siamo trovati in una quarantina di arrestati in quella notte. Erano quasi tutti della FALCK, qualcuno della Breda e della Pirelli e ci hanno portato nel carcere di San Fedele, sempre nella notte. San Fedele era un carcere vicino al Duomo. Siamo stati due giorni o tre. Erano i primi momenti che erano ricominciati i bombardamenti degli alleati e avevamo anche paura perché si vedevano fiamme dappertutto attraverso la finestra, ma andava ancora bene. Dopo due o tre giorni ci hanno portato al carcere di San Vittore, al 5° Raggio; entrati nel carcere ci hanno messo con la faccia al muro e girati per vedere se avevamo delle armi, dei coltelli, ci hanno perquisiti poi ci hanno mandato in una cella del 5° Raggio. Siamo stati lì due o tre giorni ed ogni mattina ci mandavano giù alle dieci a prendere un po’ d’aria e poi ci mandavano su. Eravamo in quattro in quel carcere, di quei quattro sono tornato solo. Da San Vittore ci hanno portato a Bergamo, non ricordo se in via Colleoni o alla caserma Colleoni… mi sembra che la caserma era il 5° Fanteria. Dopo Bergamo siamo stati lì qualche giorno e nel frattempo sono arrivati altri deportati da Fossoli.  Hanno fatto un carico unico di treno e siamo partiti da Bergamo il 5 aprile.

D: Scusa Aldo, questa caserma era gestita da chi?R: Dalle SS. C’erano i tedeschi ma delle SS. Infatti da San Vittore ci ha portato lì quel famoso Franz, quel SS. tremendo, e siamo andati in mano alle SS. Mi ricordo che lì erano sei o sette di SS.

D: Era gestito da loro?

R: Non erano i militari, era la caserma dei militari; però durante la deportazione ne sono passati tanti di deportati, sempre da quella caserma lì.

D: Scusa, da San Fedele e da San Vittore, tu non sei mai stato interrogato?

R: A San Vittore sì, a San Fedele no. A San Vittore siamo stati interrogati in quattro. Ho preso un po’ di ceffoni; io dicevo che non sapevo niente, cascavo dal mondo delle nuvole, e dato ero giovane avevo diciotto anni e mezzo, non so se ci avevano creduto; di ceffoni ne ho presi un bel po’, ma non è che mi hanno fatto questo male tremendo come certi interrogatori, quando uno usciva malandato. Volevano sapere veramente se era vero che portavo su le armi e io dicevo “No, prendevo la motocarrozzetta qualche volta e facevo un giro al lago”, perché per andare a Macugnaga bisognava passare dal Lago Maggiore e si passava da Gravellona e poi si andava a finire prima di Domodossola. Io ho sempre negato, non so se l’hanno bevuta… però l’interrogatorio a San Vittore me lo hanno fatto.

D: Ti hanno accusato di cosa?

R: Volevano sapere se era vero che portavo su le armi. Io invece ho sempre negato e basta. Volevano saperlo, non era un’accusa diretta “…Tu portavi su qua… è vero che facevi questo, è vero che facevi l’altro?”; mi hanno fatto un interrogatorio un po’ benevolo, non di quegli interrogatori che ho saputo che hanno fatto ad altri.

D: Poi a Bergamo, dicevi, sei rimasto alcuni giorni…

R: Alcuni giorni fino al 5 aprile. Hanno fatto questo treno di carri bestiame e siamo partiti da Bergamo per Mauthausen.

D: Scusami, dalla caserma alla stazione, come ti hanno portato?

R: A piedi. Erano le cinque del pomeriggio, insieme a tutta la gente che piangeva, però siamo passati a piedi.

D: Ti hanno caricato sul carro bestiame…

R: Sul carro bestiame. Durante il tragitto sul carro bestiame .. Forse potrei dire ancora prima ancora alla FALCK … Prima di essere arrestato, nel ’43 a metà febbraio facevo il meccanico; insieme ad altri eravamo andati su una gru a cambiare un riduttore – allora non c’erano le guarnizioni da mettere ma si metteva la vernice -, e un bel momento mi sono messo a fare “falce e martello”. C’era ancora Mussolini allora, perché Mussolini l’hanno combattuto il 25 luglio. E da quella volta lì ero già un indiziato perché con me lavorava uno che era un confinato sull’isola di Ponza, un politico e mi diceva “Guarda che se ti chiamano, ti fanno così…”, perché quando ho fatto la falce e il martello è venuta la polizia fascista a fare tutte le indagini, a sapere chi l’ha fatto. L’altro che ha saputo subito la faccenda dice “Guarda che se ti chiamano, dal momento che l’hai fatta te, che me l’hai detto, digli che non sai niente, però non negare che hai adoperato la vernice, di’ che la vernice l’hai adoperata però il barattolo l’hai lasciato su”. Siccome là andavano altri meccanici, elettricisti e falegnami, non si poteva dare la colpa ad uno se non eri preciso. Comunque dopo, ero già un indiziato, poi è venuta la faccenda e tutto si collegava.Tornando al discorso della partenza del treno, nel viaggio da Bergamo a Mauthausen, prima di partire sono venuti mio padre e mia madre a portare tutta la roba perché tutti pensavamo che si andava a lavorare là; però ho sempre pensato – nel mio piccolo, nella mia giovinezza -, che se andavamo là a lavorare: “Perché ci dovevano portare via di notte? Perché ci portavano nelle carceri?” E non ho mai creduto che andassimo a lavorare là; pensavo sì, di non andare a lavorare, ma non di finire in un posto così. E quando sono venuti mio padre e mia madre a portare questo sacco di roba, gliel’ho fatto portare indietro. Sono l’unico fra tutti i deportati che ha fatto portare via la roba perché immaginavo che si andava a finire male, non come siamo finiti però. Dal viaggio in treno io e Mancini, che era un amico di mio padre, Mancini Antonio, volevamo scappare; però quelli del vagone non volevano perché dicevamo “Poi vanno a prendere i nostri, poi c’è la ritorsione”, e c’era specialmente uno che diceva “…mia moglie, mia moglie”, “ma che mi frega di tua moglie, tua moglie è a letto che dorme nelle lenzuola belle e pulite e te nel carro bestiame in mezzo alla paglia”. Cerchiamo di scappare, non facciamo arrivare il treno, però nessuno ci ha creduti. Allora, avevamo una bottiglia di acqua piena. Questo Mancini mi ha tenuto su di peso in piena notte quando dormivano tutti, perché andava talmente adagio il treno verso Tarvisio che si poteva scappare fin che si voleva. Allora lui mi alza e io comincio con la bottiglia… c’erano due pezzi di legno inchiodati dall’esterno e dall’interno ho cominciato a picchiare; nella premura di picchiare mi si è spaccata la bottiglia che ha fatto baccano, è venuta giù l’acqua che ha bagnato gli altri e la fuga non si è fatta. La SS. passava sempre a vedere nei finestrini, fortuna che quando non siamo riusciti ad andare, abbiamo ripreso questi legni e li abbiamo ritirati, in modo che non se ne accorgessero. Siamo arrivati a Mauthausen, nel campo, poi tutti dicevano “Avevano ragione Mancini e Marostica, dentro là lo dicevano, ma nessuno l’aveva pensato prima”.

D: Scusa Aldo, perché tu dici che siete passati dal Tarvisio?

R: Perché il treno è passato a Tarvisio.

D: Non dal Brennero.

R: No, dal Brennero no. Il nostro trasporto è passato da Tarvisio.

D: Ti ricordi in quanti eravate più o meno?

R: Mi sembra che fossimo quattrocentoquaranta, però in certe liste che vedo c’è scritto duecentottanta; a me sembrava fossimo di più e tra noi c’erano anche quaranta donne delle quali due donne di Cinisello che si sono salvate. Non so se se ne sono salvate delle altre in qualche altro posto. E mi ricordo che arrivati a Mauthausen, ci hanno fatto scendere alla svelta: con dei calci, ci hanno incolonnato per mandarci sul campo; c’erano degli anziani che non ce la facevano a portare su tutta quella roba, io davo una mano a un paio di persone, ma più di tanto non potevo fare.  Nel frattempo sul treno c’erano quelli che avevano le valigie piene di mangiare; c’erano dei deportati che venivano da Fossoli, avevano una fame peggio della mia perché là già mangiavano poco, arrivando a Bergamo si è visto poco o niente; mio padre mi aveva portato un pezzo di pancetta e l’ho divisa con loro. Quando siamo arrivati nel campo, questi hanno aperto delle scatole di tonno, mi viene da ridere ma anche da piangere. Uno di questi di Fossoli, ha preso la scatola e gliel’ha messa in testa, tanto per dire “Potevi darmela prima, non venirmela a dare adesso perché non sai che fine fa”.

D: Scusami Aldo, ma questi di Fossoli erano dei politici come voi?

R: Politici, venivano dal campo di Fossoli.

D: Non erano ebrei?!

R: No, non erano ebrei, di ebrei non ce n’erano con noi in quel trasporto. Venivano di là. Ci hanno raccontato che a Fossoli forse era peggio che a Bolzano. Nei campi in Italia non avevano quella rigidità, come in Austria e in Germania, cioè i familiari potevano avvicinarsi, potevano dare qualcosa. Siamo arrivati a Mauthausen per andare su, la fatica che abbiamo fatto e piano piano siamo arrivati. Quello che mi ha fatto più impressione è quella specie di infermeria, che poi era più anticamera della morte che infermeria; prima di entrare nel campo si è fatto quel pezzo fianco al campo, ora c’è una distesa con un bel prato, ma allora abbiamo visto queste torrette, con le luci, e abbiamo detto “che cosa sarà quella roba lì?”. Poi abbiamo fatto il giro e siamo entrati nel portone principale. Nel portone principale, appena entrati, abbiamo già cominciato a prendere delle botte; entrando nella porta principale abbiamo girato subito a destra e poi a sinistra, a destra era quel famoso muro del pianto che adesso è pieno di fotografie. Siamo entrati lì e poi a destra e ci hanno incolonnati. Abbiamo già cominciato a prendere lì le cose. Al primo imbrunire che si cominciava a vedere c’erano degli aguzzini che ci guardavano continuamente e dicevano “se avete questo, se avete l’altro”, perché tra l’altro uno dei nostri deportati parlava tedesco, ma nessuno si fidava ad ascoltare quello che dicevano. Poi sono arrivate la SS. e hanno cominciato a gridare di mettersi in fila tutti. C’era un vecchietto che non si metteva in fila bene, mi ricordo che era cinquecento di matricola ma non ricordo gli altri numeri, era uno dei primi deportati lì a Mauthausen; gli hanno dato una sberla, a fianco lì c’era uno che si chiamava Chiona, non ho mai dimenticato il suo nome, un giovanottone che era sposato, con due bambini, e non sapendo cosa era questo campo, ha preso l’aguzzino e l’ha picchiato. Questo si è messo a gridare, ha chiamato le SS., che hanno portato fuori questo Chiona e davanti all’entrata prima delle docce, gli ha fatto smozzicare tutte le gambe dal cane … le urla che faceva questo. “Ma chi si muoveva per andare a difenderlo? Era impossibile”. Poi l’hanno rimandato sempre nella fila.

Dopo un po’ hanno portato dei sacchi di carta, ognuno doveva mettere il suo vestiario e tutto quello che aveva con l’ordine di non nascondere niente, specialmente l’oro, i soldi, questo avevano detto. Io non avevo niente. E invece questo mio amico che lavorava con mio padre, questo Mancini, aveva un orologio, un Tavanes, ricordo anche il nome, dice “piuttosto di lasciarlo a loro…” l’ha schiacciato, e poi l’ha messo dentro. Poi cinquanta per volta, come aveva detto Antonio, siamo andati nella doccia, però i primi ad entrare sono state le donne, perché loro le hanno fatte spogliare giù nel lavatoio. E quando sono tornate con i vestiti a strisce e tutte pelate, siamo rimasti sbalorditi, “Ma cosa hanno fatto?”. Poi anche noi, cinquanta per volta, abbiamo fatto la stessa faccenda e siamo andati nelle docce. Non ero nella prima fila, nella seconda fila e la seconda doccia, ogni volta che vado la vado sempre a vedere, sono andato quarantasei volte dalla fine della guerra a Mauthausen… Dopo fatta la doccia ci hanno depilato i capelli e tutte le parti del corpo; siamo tornati nell’anticamera delle docce e lì c’erano i vestiari e ci hanno dato una camicia e un paio di mutande con degli zoccoli olandesi, ma erano talmente mal fatti che mettendo il piede dentro, se non era la tua  misura ci stava male, però bisognava metterli per forza. Nel frattempo ci hanno dato anche un lamierino con il numero di matricola; l’hanno attaccato loro, l’hanno fissato con un pezzo di fil di ferro e da questo momento quello che lo metteva diceva “Guarda che tu non ti chiami più col tuo nome ma sei questo numero. Quando ti chiamano ricordati il numero”. Ma chi sapeva il tedesco?

D: Aldo, il tuo numero.

R: 61685.

D: Te lo ricordi in tedesco?

R: Se lo ricordo! Poi via di lì ci hanno mandato di corsa nei famosi blocchi di quarantena.

D: Aldo, se hai voglia ce lo dici in tedesco il tuo numero?

R: Ein­und­sechzig­tausend­sechs­hundert­fünf­und­achtzig… più o meno un affare così!

D: Scusa Aldo, insieme al tuo numero ti hanno dato qualche altra cosa?

R: Niente.

D: Il triangolo te l’hanno dato?

R: No, il triangolo non l’hanno dato a nessuno. Il triangolo non c’era, il triangolo non te lo danno. Siamo andati nel blocco di quarantena, nel blocco 18. Dal cinque  aprile siamo arrivati all’otto, era la vigilia di Pasqua; e dall’otto siamo andati via da Mauthausen a Gusen il giorno 28, 29 di aprile; mi pare il 29 di aprile.

D: Nel blocco di quarantena eravate chiusi tutto il giorno?

R: Non eravamo chiusi nel blocco. Eravamo nel blocco e nel cortiletto del blocco, non ci si poteva muovere per niente, dal blocco 18 al blocco 19. Nel 19 era pieno di francesi – non c’era il muro che c’è adesso all’aprile del ’44, l’hanno messo dopo per i falsari, per le sterline false che dovevano fare lì -. In questi venti giorni che siamo rimasti lì di quarantena, nel campo due di quarantena in cui eravamo noi, per fare il campo tre, ci hanno mandato giù in cava a portare dei massi; eravamo quattro, cinquemila, una biscia che non finiva più, diretti verso la cava a portare le pietre per finire il campo terzo; infatti adesso c’è il muro. Mi ricordo che in quel muro lì c’era un nostro amico che ho portato con noi che si chiamava Bivari, dato che lui era muratore era in cima a questo muro a mettere a posto queste pietre. Siamo andati in cava perché difficilmente quelli che erano in quarantena andavano in cava a lavorare, erano mandati in altri campi, ma al momento dato che servivano queste pietre, siamo andati. Lì ci siamo spaventati perché abbiamo visto qualcosa di incredibile, a parte la scala, a parte la strada ad andare su, che è ancora la strada, tutta malfatta, siamo andati e ci hanno mandati per non intralciare quelli di qu; in fondo alla scala per fare il giro per non intralciare quelli che venivano giù, e ognuno raccoglieva la sua pietra e se la metteva in spalla. Bisognava prenderla grossa, perché se la prendevi piccola erano fior di legnate e basta. Però per andare giù c’era al blocco 18 uno spagnolo che mi diceva “Dato che tu sei giovane, l’ha detto a due o tre giovani di noi, mettetevi sempre nella fila dei cinque, perché quando si fa la scala, difficilmente picchiano il terzo, picchiano prima il secondo, ma non rompono la fila per picchiare; e difatti mi sono messo in mezzo e non ho preso neanche una legnata, una batosta, però andando giù nella cava, facendo il giro abbiamo visto la compagnia di disciplina. Il modo in cui trattavano i prigionieri praticamente erano i famosi votati alla morte: gli facevano prendere dei massi tremendi, poi quando li avevano messi in spalla ributtarli giù e rimetterli su di nuovo e questo picchiare continuo, e urlava questa gente. Ma nel momento in cui ci passi davanti e li vedi, se dobbiamo fare quella fine lì non torniamo più a casa. Siamo rimasti sempre con lo spavento fino a quando siamo partiti per Gusen. Il giorno che siamo partiti per Gusen ci hanno dato la giacca e i pantaloni; nella giacca e nei pantaloni c’era un pezzo di stoffa che non hanno dato a noi, era già cucito col nostro numero. Sia qua che lì e siamo partiti sempre con questo numero, però a noi non hanno dato niente, alla doccia ci hanno dato solamente la targhetta e basta.

D: Scusa Aldo, parlaci della cava un attimo. Giù in cava c’erano dei macchinari?

R: No, in cava io non ho visto macchinari. C’erano scalpellini e poi c’erano dei giovani che squadravano le pietre per mandarle a Vienna; la DEST, era quella che comandava tutte queste cose delle cave e anche delle gallerie; la DEST e un’altra, due ditte; dopo nelle gallerie entrava la Messerschmitt e la Steyr, che entravano quando le gallerie erano già ultimate. Dunque nella costruzione delle gallerie non so se chi lavorava alla Steyr o alla Messerschmit potrebbe dire “Noi siamo quelli che abbiamo costruito le gallerie per quella ditta”, mentre noi della Gusen 2 costruivamo le gallerie e siamo compresi in questa costruzione.

D: Ti chiedevo della cava per sapere…

R: Non c’era niente nella cava di Mauthausen. I macchinari non li ho visti, ho visto gli scalpellini e dei carri grossi dove mettevano su le pietre e basta; non ho visto nient’altro.

D: Non c’erano treni?

R: No, non c’erano treni nella cava; neanche fuori perché li portavano con i camion. I treni c’erano a Gusen ma ci sono stato due giorni in quella cava lì. Arrivo il 29 di aprile, e ci fanno venire a Gusen 1. Qui ci hanno mandati al blocco 32, dopo di noi è diventato un blocco di convalescenza dell’infermeria. C’era un criminale polacco che picchiava anche lui; quando lo hanno mandato in infermeria in un secondo tempo era bravo come il sole però gliel’ho detto, “Tu due mesi fa picchiavi come un accidente”; si sono meravigliati tutti quelli che hanno sentito, lui non si aspettava che qualcuno glielo dicesse. Mi voleva un bene da matti questo (poi l’ho visto a fine guerra a Sankt Georgen, gli ho detto “Ti ricordi?” dice “Sì, ma poi ti ho fatto del bene”, quello è vero ma non la prima volta. Arriviamo a questo blocco 32: il giorno bisognava andare a lavorare a Sankt Georgen e bisognava prendere il treno che partiva da Gusen 1. Hanno fatto una conta, dato che eravamo sette o otto in più di deportati, hanno fatto una cifra unica e li hanno mandati a lavorare a Gusen 1 e noi in baracca tutto il santo giorno lì, pioveva un accidenti. Era l’ultimo di aprile, primo giorno di lavoro, 1° maggio, tutti a lavorare a Sankt Georgen, ma quelli che hanno lavorato il giorno prima mi hanno detto “Non torniamo più a casa perché quella bolgia infernale che c’è a Sankt Georgen è impossibile poter vivere”.

E io mi sono spaventato, finché uno non vede non si rende conto.

Primo maggio ’44, si sale tutti e si va a Sankt Georgen. Mi mettono con un kapo polacco, una delle belve peggiori di Gusen, Mauthausen, e tutti insieme. Si chiamava Iane ed era un tatuato e comandava quaranta persone alla stazione, loro lo chiamavano il “Banof”, il comando era Banof Ausladen; però delle quaranta persone non mandava tutti lì alla stazione, quindici li mandava lì, una decina li mandava là per fare le baracche di nuovo, altri sette, otto o dieci li mandava a portare i sacchi di cemento; erano suddivisi e quindi lui non era sempre in un punto per guardare tutti noi, un po’ era lì, un po’ era lì. Un bel momento siamo lì che lavoriamo, pioveva, c’era tanto di quel fango che con quei zoccoli olandesi mal messi … mentre lavoravamo è passato lui, passavano anche la SS., lui ha cominciato a picchiare, lui picchiava sempre, io mi sono sentito una botta nella schiena e dico “Ma perché mi devi picchiare?”. Mi giro e gli dò una pacca. E’ andato giù; tutti gli altri deportati cecoslovacchi, francesi, mi hanno fatto segno e parlavano… mi ricordo la parola “mort in crematorio”, poi uno spagnolo mi ha detto che il crematorio è per i morti; insomma lui è andato giù, si è alzato e non mi ha detto niente, tutti si sono meravigliati; abbiamo ricominciato a fare il nostro lavoro e se ne è andato. Dopo venticinque minuti è tornato ma non l’ho visto, perché se lo vedevo dietro di me con la pala lo uccidevo. Ma non l’ho visto e vedevo che tutti si fermavano di lavorare, ho pensato “Ma se il capo vi vede che non fate niente, che fate i pelandroni in quel modo lì ve ne suona tante…”, come dico così ho sentito una sventola poi sono svenuto, caduto, e ho preso una fila di botte, mi ha rotto la pelle, ci ho messo tre anni prima di guarire, e anche a Loano si ricordano… Me ne ha suonate talmente tante che ero tutto malandato, perdevo sangue dappertutto e lui pensava forse di avermi fatto fuori, perché rivolgersi ad un capo vuol dire morte sicura, a quello lì poi… Lui se ne va, mi hanno tirato su pian piano, sono rinvenuto, ma mi faceva un male, avevo tutta la carne indolenzita; piano piano mi alzo, e me la sono cavata così.

Nel frattempo lui non è più tornato lì, ha mandato il secondo Kapò dopo di lui e io ho fatto finta di lavorare; stavo in mezzo ai francesi perché mi hanno aiutato, e mi ha aiutato da matti un certo spagnolo che si chiamava Cardona, quello non lo dimentico mai. Mi hanno aiutato e siamo andati in baracca la sera, fortuna che il capò non mi ha più visto. Torniamo alla baracca numero 1 e c’è lo scrivano, che poi era antinazista, a cui lo spagnolo racconta la faccenda e dice “Domani e dopodomani non vai a lavorare, stai in baracca, fai finta di far qualcosa e via”. Passati i sette giorni ero tutto rotto ma mi ero un po’ ripreso, mi hanno mandato di nuovo a Sankt Georgen a lavorare, dove ho visto di nuovo quel capò lì; ho visto che è rimasto di stucco, mi guarda ancora però gli mando la pala dell’altro, allora caricavamo i vagoni, avendo la pala in mano non si è più azzardato a venire avanti. Mi ha visto parecchie volte e non mi ha detto più niente. Alla fine della guerra, parlando mentre eravamo liberi, tutti dicevano “Sei l’unico secondo noi che sei sopravvissuto essendosi ribellato a un kapò”.

Comunque si torna al lavoro; c’era da portare dei tronchi d’albero dalla stazione ai vagoni, per poi portare questi carri all’entrata delle gallerie dove c’erano dei falegnami che tagliavano queste piante in base ai pali che servivano per fare le gallerie. Perché per fare il cemento occorrevano le impalcature, queste impalcature erano tronchi così grossi, sette-otto metri con dei legni sopra adatti per mettere questo cemento. Solo che pioveva dalla mattina alla sera, essendo il mese di maggio c’era il nevischio, c’era vento, tutti bagnati fradici e andava l’acqua dappertutto. Ti fermavi quella mezz’ora per quel poco di acqua e rape, tornavi alla sera e ti stringevi tutto il vestito; mettevi sotto la testa, la mattina ti svegliavi eri metà gelato perché dormivi sul bagnato. E’ andata avanti per una quindicina di giorni. Praticamente mi sono un po’ ammalato, ma tiravo sempre avanti perché non volevo andare in infermeria: dicevano che chi va in infermeria con una puntura di benzina moriva, e invece non era vero.

Un bel giorno ero talmente malandato che dovevo andare in infermeria. Allora lo scrivano mi dice “Va bene, domani quando vengo a Gusen 1 ti porto…” e infatti mi ha portato; ma se non avevi 39 di febbre non eri adatto ad entrare infermeria, io ne avevo 39… Mi ha fatto fare la doccia, misurato la febbre e poi mi hanno portato al blocco 27. Al blocco 27 c’erano due dottori: uno si chiamava Dr. Antoni Gościński [1] e l’altro si chiamava Dr. Feliks Kamiński; e poi c’era uno spagnolo, di cui  non ricordo il nome e un aiutante paramedico, che si chiamava Stefan Malost [2]. Mi hanno operato, e sono andato avanti un po’ di giorni, sono stati bravi, erano tre polacchi e uno spagnolo. Nel frattempo lì ho conosciuto Signorelli di Sesto San Giovanni e anche il Prof. Carpi, quel famoso che faceva le pitture.

Dato che io ero talmente malandato, alla sera passava una SS che prendeva i numeri, controllava se eravamo tutti; lui si chiamava Giovannacci, parlava l’italiano e mi ha messo al vitto K, era un vitto speciale; sembrava un sogno mangiare in quel modo lì, si mangiava meglio che a casa nostra. E’ durato una settimana, ma io con la febbre che avevo non riuscivo a mangiare, e allora lo davo un po’ a questo Carpi, un po’ a uno che faceva il parrucchiere, insomma la dividevo un po’. Quando poi mi è venuta la fame, mi hanno levato dal vitto K.

In infermeria ho passato un po’ di tempo, e tra il blocco 27 e il blocco 29 che era la medicazione, poi sono passato al blocco 30 e abbiamo visto il 31. Dal 32 non si vedeva il blocco dalla parte dove buttavano giù i cadaveri poichè c’era la cameretta della dissenteria.

Dal blocco 30 vedevi tutto quello che capitava, in fondo al blocco 31 c’era una cameretta, non so quanto era lunga, dove andavano i dissenterici, chi entrava lì non usciva più perché moriva, e si vedeva che li buttavano fuori giorno e notte, quando la notte pioveva e venivano puliti come fossero raspati. Ho visto anche quell’esperienza lì che poi, in un secondo tempo, a Gusen 1, verso la fine della guerra, il blocco 31 l’hanno fatta camera a gas e lì  ne sono morti parecchi.

Via di lì torno a Gusen 2, rivado al blocco Sankt Georgen, ma ero talmente malandato che dopo pochi giorni, a causa dello stesso lavoro bestiale, non ce la facevo più. Allora mi hanno messo fuori a pulire i giardini, eravamo circa duecento deportati, ci guardavano solo le SS, trascinavamo i piedi .. “Dove vuoi andare oltre di lì?”.

Caso vuole che fuori, nel pulire i giardini, in quella baracca lì passa un generale delle SS, che poi l’ho saputo alla fine della guerra chi era, l’ho saputo in Francia a Clermont Ferrand, era niente di meno che Oswald Pohl, uno dei quattro che comandava lì: c’era Hitler, Himmler, Kaltenbrunner e Oswald Pohl. E quando veniva lui però ordinava sempre decimazioni dei più malandati, si vuotava un bel po’ il campo.

Non gli partiva più la macchina, io mi sono offerto di fargliela partire, gliel’ho fatta andare, e allora mi ha raccomandato a questi criminali che comandavano il blocco; e difatti ho fatto un mese e mezzo, quasi due che mangiavo tre-quattro volte più degli altri, ero in baracca, non prendevo freddo, né acqua, né niente, e non prendevo botte. Mi ero ripreso abbastanza bene data l’età che avevo.

Ma cosa capita? Dato che a Sankt Georgen, ebrei, non ebrei, chi a Mauthausen aveva ancora i denti d’oro, che venivano mandati a Gusen, questi criminali impiccavano questa gente e poi portavano via i denti che tenevano loro, senza darli alle SS, e giocavano a carte tra loro. Quella notte erano venticinque, ventisei nel giocare, uno ha truffato l’altro e si sono ammazzati tra loro. La mattina la SS l’ha saputo e cosa ha fatto? Pur essendo criminali che uccidevano i deportati, li hanno presi e impiccati tutti, anche quelli a cui io ero raccomandato. La SS li aveva impiccati perché non dovevano tenersi l’oro, ma darlo alla SS Questo era il motivo, e hanno dato l’esempio; da allora non si è visto più nessuno impiccato nelle gallerie.

Impiccati questi, sono arrivati altri criminali a Mauthausen, e il capo blocco, quello nuovo dice “Ma questo qua cosa fa lì?”. Io non sapevo spiegarmi bene e allora dice domani va anche lui a Sankt Georgen a lavorare. Dico: “Se mi mandano a Sankt Georgen non torno più a casa”. Caso vuole che questo scrivano mi mette in una squadra di un capò tedesco, non sapevo che era antinazista quello lì, ho visto che era politico perché i politici avevano il triangolo rosso, mi hanno messo con loro perché il giorno prima era morto uno della Lettonia, e so che hanno parlato tra loro. In quel comando, eravamo in dieci e dovevamo estrarre, dato che nelle gallerie c’erano delle gomme larghe lunghe tre o quattrocento metri; erano le gomme sopra che poi passavano anche sotto, però le gomme sopra erano con le pale e i deportati caricavano tutta questa sabbia delle gallerie che scavavano e la portavano fuori sui vagoni per poi portarli fuori davanti alla stazione. E allora quei rulli che erano ingranati bisognava sostituirli e mettere quelli che giravano perché poi consumavano anche la gomma. Era un lavoro abbastanza… che fortuna che ho avuto… però i primi tempi, non sapendo lui che ero io, i primi tempi qualche ceffone, qualche calcio lo prendevo però non mi faceva tanto male. Allora, lo stesso spagnolo, questo Cardona, dice a questo Kapò “Guarda, questo è quello che si è ribellato con Iane”, perché ne parlava mezzo campo di quella ribellione. E allora lui sapendo chi ero, faceva come con gli altri nove deportati: non mi ha più toccato e non solo, mi ha anche insegnato come dovevo buttarmi giù quando lui faceva finta di picchiarmi. Allora quando passava la SS, lui con quella voce tremenda che aveva, cominciava a darmi uno sberlone, ma te lo dava nella spalla e non nel collo, e allora tu dovevi urlare e buttarti giù; quando eri giù sembrava che coi piedi venisse lì a sfondarti la pancia come faceva con gli altri, invece lui passava sempre sopra al corpo, però diceva “Dovete aiutarmi a rotolarvi, che io faccio finta”, insomma mi ha insegnato per una settimana. Eravamo talmente perfetti a picchiare così, che abbiamo imparato tutti, quando capitava si vedeva questa cosa. Difatti quello era antinazista, deportato, di quattromila assassini che c’erano in giro ce n’erano undici antinazisti come lui; si chiamava Alvin Muller, che non ho mai saputo dov’è; l’ho cercato per mare e per terra, l’ho detto ai tedeschi, ai congressi, mai saputo dove è andato a finire. Comunque ci ha salvato tutti e dieci e tramite lui abbiamo tirato fino alla fine della guerra, perché senza lui, se era un Kapò come gli altri era impossibile.

So che una volta un SS aveva picchiato un deportato, mi pare un cecoslovacco, lui è andato dalla SS, gli ha dato una spinta sulla spalla, tra me e me ho detto “Quello è matto, se viene un altro Kapò che fine facciamo noi?” E si è messo ad urlare per dire “Tu fai le SS ma non fai il capo, il capo lo faccio io, se c’è una punizione da dare lo dici a me e poi la dò io al deportato, tu no”, urlando con le mani così, e quello sembrava che fosse spaventato. E’ andato ancora bene, tanto per dire chi era questo: ha fatto un rischio, ci siamo spaventati tutti in quel momento.

Sempre nel tragitto, perché ci sarebbe da raccontare di quello che avveniva nelle gallerie, tra i peggiori Kapò c’era uno che si chiamava Ermann che era uno grosso, era un Oberkapò, poi c’era un altro polacco che era un Oberkapò anche lui, cioè il capo dei capi. Poi una volta per trasportare la macchina che trascinava le gomme di trecento metri, sono macchine grosse, ci volevano 50-60 deportati a spostarle, eravamo in duecento nell’incrocio delle gallerie perché c’era una galleria che era da finire di scavare per mettere tutto il materiale nelle gomme. Un giorno siamo lì e lavoriamo un po’ tutti per tirare su questa roba, poi un bel momento ci scappa di andare al gabinetto, lo diciamo al nostro capo; il nostro capo non stava mai lì con noi, andava, girava, quando è passato ho detto “Senti, mi capita così e così”, dice andate. Abbiamo aspettato due o tre minuti per finire di tirare questa macchina che eravamo in tanti, prendiamo e andiamo lontano 30 metri, crolla tutta la galleria: sono rimasti sotto i duecento deportati, i due SS i loro cani, se fossimo stati mezzo minuto non saremmo qua a parlare. Il bello è venuto dopo: venendo gli altri deportati con gli altri SS e controllare, piano piano si cercava di tirare via con queste pale più terra che si poteva e non infierire, quando invece capitava ai russi e la SS non c’era, che poi sono venute a galla le teste degli SS, gli hanno portato via le due rivoltelle. Le SS non vedendo queste rivoltelle dove erano hanno voluto sapere dov’erano e nessuno parlava. Alla fine siamo andati in baracca alla sera, c’erano tutti i deportati nel piazzale  e venne il capo del campo e disse “Se non escono quelli che hanno preso le rivoltelle, bruciamo mezzo campo”. E difatti c’erano fuori delle autoblinde piccole con i lanciafiamme; invece hanno detto “No, non bruciamo mezzo campo, facciamo  così: facciamo una eliminazione, ogni dieci file fuori cinque”. Dico ma senti un po’, per capitare quella faccenda lì io devo…” ho preso il mio capo che era del comitato internazionale e sapeva le cose, sapeva anche chi rappresentavano questi russi qua, l’ho conosciuto dopo la fine della guerra perché prima  non sapevi chi erano, e gliel’ho detto al mio capo  e disse “Se sei  sicuro chi sono è meglio che ne crepi due che a crepare a centinaia a centinaia”. Difatti è finita così, questi due sono saltati fuori, hanno consegnato le rivoltelle e li hanno impiccati ed è finita lì, ma è stato uno spavento anche lì. Ma fra le tante cose da raccontare, dopodomani saremmo ancora qua a dirle tutte.

Dopo questa faccenda avviene la disinfezione del mese di gennaio, un freddo tremendo; so che c’erano certi ebrei che morivano in piedi gelati; c’è stata una eliminazione che il campo si è quasi svuotato. Dove siano finiti tutti quei morti non si sa perché noi eravamo chiusi in baracca. Il mio capo dice che questi morti sono stati portati al di là del campo e nei vagoni e poi portati via, può darsi, solo che nel campo anche se vivevi lì non potevi mica sapere cosa capitava di là! Era difficile, bisognava girare ma non potevi perché eri obbligato lì.

Abbiamo visto anche questa faccenda della disinfezione: so che sono morti a migliaia, dal cinque al dieci di gennaio. Era un freddo tremendo ma solo che ci facevano andare a piedi scalzi perché la neve era alta mezzo metro ma il ghiaccio era venti centimetri perché i deportati schiacciavano la neve. Per una mezz’ora dovevi andare a lavarti e alle volte non veniva nemmeno l’acqua, dovevi far finta di esserti lavato ed uscire. Ma cose che uno non può neanche immaginare. E dopo tutti questi morti siamo arrivati al giorno 24 di aprile. Dato che arrivavano gli altri deportati dagli altri campi, e precisamente sono arrivati anche molti ebrei da Budapest, quattrocentomila ebrei, la maggioranza sono finiti a Mauthausen, Evens e Gusen, sono finiti lì. Arriva il 24 di notte, la sera come siamo arrivati dal lavoro abbiamo visto sei, settecento deportati tutti magri, denutriti con la coperta in spalla senza vestiti e niente, e durante la sera li hanno fatti uscire. Prima hanno chiuso tutte le baracche, tutto chiuso, che non si poteva vedere niente o sentire niente, li hanno fatti uscire e li hanno portati nel campo delle patate, tra Gusen 1 e Gusen 2; non c’era un chilometro e mezzo di distanza, c’era mezzo chilometro di distanza difatti se uno va adesso lo vede che non fa un chilometro e mezzo, li portano lì… perché a Gusen 1 c’era il muro, invece a Gusen 2 non c’era il muro, c’erano i reticolati, non avevamo neanche la corrente tra l’altro, invece a Gusen 1 sì. Li hanno portati là e uccisi a colpi di ascia e a bastonate, hanno fatto una carneficina… sentivamo le urla ma le sentivi leggere perché tutto era chiuso. Quando hanno finito il mio capo mi dice “Hanno ammazzato tutti quelli che erano lì e adesso li portano via”.  Ma dove li hanno portati non si sa. E’ stata l’ultima carneficina che si è vista a Gusen 2.

Quando ci si andava a lavare al Waschräume c’era sempre la camera dei morti là; era sempre piena, perché le fatiche a Gusen 2 erano ben diverse di quelle di Gusen 1. A Gusen 1 avevi il tuo tornio ed eri lì, eri riparato dall’acqua, dal vento, dal sole, dal freddo, invece a Gusen 2 se lavoravi fuori te la prendevi tutta, invece noi lavorando in galleria, eravamo riparati e siamo venuti alla fine della guerra per questo, perché altrimenti per pura forza fisica… mi fanno ridere quelli che dicono “Io ho avuto la volontà, sono venuto a casa”; non c’è la volontà lì, quando facevi tre mesi  a Gusen 2 alla stazione la tua volontà te la mettevi in tasca, te lo dico io.

Nel frattempo lì ho conosciuto anche un sacerdote, don Narciso Sordo e disse “Sto qua con la mia gente, non vado a Dachau”… come facesse a saperlo non si sa, perché nel novembre del ’44 hanno raccolto tutti i sacerdoti di tutti i campi e li hanno mandati tutti a Dachau a fare i lavoretti leggeri. Tra essi, Don Gaggero mi pare che anche lui fosse lì. Comunque chi è rimasto a Gusen 2 c’era questo e basta, però anche lui con il lavoro massacrante che era non poteva durare tanto, e infatti è morto anche lui. Tra tante conoscenze lì, ricordo Vallardi che verso la fine della guerra l’hanno levato dall’infermeria di Mauthausen e l’hanno mandato a Gusen 2 perché avevano fatto tre baracche per l’infermeria fuori, che poi la chiamavano infermeria ma entravi lì ad aspettare di andartene di là.

Tra le tante cose che ho visto una volta, i primi giorni prima che aprissero Gusen 2, l’hanno aperto il 14 di maggio del ’44, l’apertura ufficiale. In quei giorni mi hanno mandato alla cava di Gusen, era tremenda, non c’era la compagnia di disciplina che io ho visto lì, ma era bestiale, sotto l’acqua, il freddo e il vento a portare pesi, e lì c’erano i vagoncini che portavano al frantoio, il frantoio di Gusen 1 c’era e c’è ancora adesso. Infatti l’ho visto poco tempo fa. Portavano queste pietre e le portavano lì, ma erano i Kapò che erano tremendi, che picchiavano continuamente, urlavano sempre; era la vita balorda di loro, perché oltre l’acqua, il freddo e il vento erano sempre loro che massacravano tutti.

Un mese prima di finire la guerra, il mio capo, visto che io ero bravo anche a cambiare non solo i rulli ma i cuscinetti dei rulli, mi disse “Sei capace di mettere a posto una rivoltella?” dico “Io sì, se me la dai”, ne avevo messe a posto tante prima di essere arrestato”. Me ne dà una fasulla, tutta smontata. La guardo,  mi ha portato in una baracchetta nel piazzale di Sankt Georgen, uno guardava fuori, lui, e io l’ho rimessa a posto. E’ rimasto di stucco. Mi ha fatto una prova, cinque giorni prima Himmler aveva dato l’ordine di ammazzare tutti nelle gallerie. E allora lui dice: “Io ho tre rivoltelle, una a te, una a me e una ai cecoslovacchi”; dei polacchi non si fidava, perché più criminali dei polacchi non c’è stata nessuna nazione nel campo, erano peggio dei tedeschi e degli austriaci, non tutti intendiamoci, ma la maggioranza. Dice noi dobbiamo premunirci per fare una cosa: quando verrà il momento che saremmo incolonnati per entrare nelle gallerie, a duecento metri prima di entrare, al primo sparo, se sentite uno sparo anche prima dei 200 metri non importa, al primo sparo che sentite tutti addosso alle SS, però tu, disse a me, e tu cecoslovacco, non dovete stare vicino a quelli della Vehrmacht, perché c’era Vehrmacht SS, dovete stare in fila vicino alle  SS che avevano le pistol-machine, invece la Verm aveva i fucili,  e abbiamo detto “Abbiamo capito benissimo”, ci ha istruiti in un modo… dice “Non occorre tanti colpi, quando c’è la pistola carica, con quattro cinque o colpi, più di lì non riesci ad andare se riesci a stare in vita, però cedendo quello lì tutti gli altri addosso a questi qua, sarebbe troppo stupido crepare tutti noi e loro salvarsi, è meglio che crepiamo metà di noi e tutti loro” e difatti così è partita la faccenda. Arriva la notte tra il 2 e il 3 di maggio e il mio capo mi dice “Dammi la rivoltella che non serve più”, e mi prende e mi porta fuori, in piena notte, non c’erano più le SS, ma c’erano quelli dei pompieri di Vienna, chiamiamoli così, non ci ammazza più nessuno. E’ la volontà. Allora mi è venuto in mente di dire “Ma dove le hai prese?”, dice “Tu non devi sapere niente”. Ma come faceva lui ad avere tre rivoltelle dentro nel campo? O gliele ha date i civili o c’era qualche militare, comunque le aveva, l’ha volute di nuovo.

Arriva il cinque maggio di sabato, le cinque della sera e sono passati questi americani della Croce rossa con una bandiera bianca e lì è successo il finimondo, nel senso della gioia di essere liberi. Però come qualcuno scrive di Gusen 2, a Gusen 2 non c’è stato quel linciaggio di Kapò come c’è stato a Gusen 1 e a Mauthausen, perché lì non c’erano le mura da saltare, c’erano i reticolati senza corrente, (vbabe’ che la corrente non c’era nemmeno in altri posti), e i Kapò i più svelti, erano più vicino all’uscita, perché loro erano ben tenuti e non malandati come gli altri, e ne ho visto uno solo di capò, quello che mi ha picchiato la prima volta, ma quello è stato preso il giorno 6. Il giorno dopo, nella baracca degli indumenti dei deportati, è stato preso e l’hanno inchiodato in terra e dalla parte del piccone gli hanno messo tutta la punta intera nello stomaco, un russo alto due metri, a cavalcioni, l’ha pestato. Erano le otto, otto e mezza, nove del mattino e non crepò mai, ha respirato fino alle cinque del pomeriggio, tanto che bestia che era. Ecco, l’unico che ho visto è quello lì a Gusen 2. Ho fatto il giro sempre al giorno dopo, c’era pieno di cadaveri e tutto, ma di Kapò distesi per terra… perché se uno ammazzava un Kapò lo lasciava a Gusen 1, però lì sono scappati tutti, se poi ne hanno presi qualcuno fuori… Però ho letto dei libri che hanno scritto lì,  specialmente Corazza di Bologna che ha detto “Abbiamo preso le SS…” ma come avete fatto a prendere le SS che sono andate via il giorno prima?”.

Finalmente è venuta la liberazione, ci hanno disinfettati e siamo andati tutti a Gusen 1; dopo una decina di giorni gli americani hanno bruciato Gusen 2 perché era pieno di pidocchi, cimici, era indescrivibile, e infatti mentre bruciava il campo di Gusen 2 io ero sulla strada a vedere. Mi piacerebbe trovare qualcuno di quegli americani che avesse una foto, una che brucia la mia baracca, di Gusen 1, ce l’ho su un libro che ha messo il Comune di Sankt Georgen, ma trovassi qualcuno che ne avesse, guai. Non c’è più nemmeno la pianta, però dalle fotografie dall’alto che hanno preso gli americani il 15 di aprile, ce n’ho una dall’alto che si vede bene questo campo. E’ stato bruciato e poi siamo stati a Gusen 1, siamo stati lì un bel po’. Ci hanno disinfettati con DDT e tutto e dopo un po’ ci hanno portato a Mauthausen, e dopo Mauthausen siamo partiti verso il 23, 24 e con i camion ci hanno portato a Linz, dove abbiamo preso il treno e ci hanno portati a Salisburgo, da Salisburgo ci hanno portato a Innsbruck. Da Salisburgo ad Innsbruck passavano gli altri treni e il nostro no perché si è guastata la macchina; per fortuna che su quel treno lì c’era uno che si chiamava Zerbinati di Sesto San Giovanni ed è andato a casa a dirglielo ai miei. Poi ci hanno portato a Innsbruck in un campo fuori lì, avevamo tanta fame perché siamo rimasti fermi due giorni. Siamo andati in questo campo dove  c’erano dei militari italiani, poi siamo ripartiti di nuovo da Innsbruck e siamo venuti col treno a Bolzano. A Bolzano trovo i miei amici che lavorano in garage con me alle acciaierie FALCK, e poi ci hanno portato a casa. E lì finalmente è finita.

D: Aldo, alcune cose: Da Gusen 2 a Sankt Georgen vi mettevano sul trenino?

R: Sul treno normale. In un primo tempo si doveva uscire dal campo e andare sulla linea che da Gusen 1 portava a Sankt Georgen. In un secondo tempo hanno fatto il treno che proprio parte da Gusen 2 che si collegava con la ferrovia di Gusen 1. I primi tempi era brutto perché non c’era la rampa come c’era prima che salivi normale, dovevi salire su quel gradino lì, essere in tanti e salire lì metteva un po’ male… è durata poco quella faccenda però è durata un bel po’. Poi l’hanno fatta a Gusen 2 e il treno di lì passava sotto il ponte e si collegava con la ferrovia di Gusen 1 e andavamo a Sankt Georgen a lavorare. A Sankt Georgen c’era sempre una curva e c’era una steccata, un parquet, e mentre il treno passava scendevamo di corsa; facevamo una strada e passavamo davanti una casa di una che in un primo tempo quando noi abbiamo lavorato due o tre giorni fuori dalle gallerie, lei dalla finestra buttava giù qualche pezzo di pane. Si chiamava Bürger quella donna lì… qualche pezzo di pane con la marmellata, quello che capitava, ma si doveva guardare in giro, è stata l’unica che ci ha dato qualcosa… non perché era stata l’unica, ma perché suo padre era ex deportato a Dachau. Dopo la guerra mi ha fatto vedere i documenti di ex deportato. Ecco perché lei buttava qualcosa per i deportati, perché altrimenti gli altri… Dal tragitto da Mauthausen a venire a Gusen c’erano dei bambini che gli davano di quelle bacchettate, allora dico “I bambini non c’entrano niente, ma se uno non ha il cuore cattivo anche se è un bambino non da le bacchettate agli altri”. Erano istigati dalle SS, tanto per dire che anche i bambini picchiavano anche loro.

D: Aldo, tu parlavi delle gallerie di Gusen 2, cioè di Sankt Georgen, ma erano molto grandi?

R: Non erano molto grandi come immensità, come altezza erano più basse di quelle di Ebensee, però non erano così; ho le fotografie a casa..

D: Ma a cosa servivano queste gallerie?

R: Le gallerie servivano a mettere Maschinenpistole …. Non dimentichiamoci che il primo aereo a reazione è stato fatto a Sankt Georgen, lì è stato fatto; è stato costruito a Sankt Georgen. E al di là del fiume c’erano ancora le gallerie di prova degli aerei.


[1] Detto anche “Toni” o “Dr. Toni”.

[2] Come studente di medicina faceva parte personale dell’infermeria di Gusen.

Arnaldi Antonio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Arnaldi Antonio, nato a Finale Ligure Marina il 15.1.1925. Arrestato il primo marzo del ’44 in base a quello sciopero generale in tutta l’Italia. Arrestato dai carabinieri di Finale Ligure il primo marzo del ’44. Portato subito all’ospizio Cremasco insieme agli altri deportati della provincia di Savona.

D: Scusa Antonio, tu lavoravi dove?

R: Alla Piaggio.

D: Alla Piaggio di dove?

R: Finale Ligure.

D: Ti hanno arrestato sul posto di lavoro?

R: A casa, di notte.

D: Ti hanno arrestato da solo?

R: Io da solo, poi portato in caserma. In tutta la notte ne han presi ventisei.

D: Lì ti hanno fatto degli interrogatori?

R: No. Mi han preso, mi han buttato in una cella dove c’era già qualcheduno; poi han fatto arrivare una camionetta imbarcati otto per volta, ammanettati uno con l’altro e portati all’Ospizio Merello.

D: Che cosa era l’ospizio Merello?

R: E’ una colonia.

D: Era gestita da chi?

R: Non so da chi. A un bel momento lì ci siamo trovati in centosessanta, tra Finale Ligure e tutte le fabbrica che c’erano in Liguria, lì, nella provincia di Savona.

D: E lì quanto sei rimasto?

R: Una notte e mezza giornata. Poi sono arrivate un treno di tradotte, caricate su due-tre vagoni e portati a  Genova alla Villa di Negro. Era una villa di un ebreo; là c’era tutto il comando tedesco con le impiegate, i dottori e tutto. Hanno fatto una selezione: cento li hanno spediti all’indomani a Sesto San Giovanni come lavoratori liberi in Germania e gli altri sessanta, ci hanno tenuto lì a far delle visite perché dicevano che eravamo malati; in Germania i malati non li vogliono. Poi invece un bel giorno ci hanno preso e ci hanno portato a San Vittore.

D: A San Vittore dove scusa?

R: In carcere.

D: A Milano?

R: Milano sì.

D: E lì cosa è successo?

R: Lì siamo stati tre notti e tre giorni. Poi hanno aperto le carceri e ci hanno mandato a Bergamo, alla caserma Colleoni. Lì siamo stati cinque o sei giorni a dormire nella paglia, con poco mangiare, finché un bel giorno sono arrivati quelli di Milano e quelli di Torino. E’ arrivato un treno alla stazione di Bergamo, caricati sui carri bestiame: destinazione Germania.

D: Scusa un attimo Antonio, il viaggio da Genova a Bergamo

R: Da Genova a Milano.

D: Da Genova a Milano, scusa, come l’avete fatto?

R: Col treno.

D: Eravate ammanettati?

R: No, non eravamo ammanettati. C’era la scorta dei carabinieri; non eravamo ammanettati perché secondo quello che avevano detto, dovevamo andare a casa.

D: Ma tu non sei mai stato interrogato?

R: No, non siamo stati interrogati; nessuno.

D: Cioè ti hanno arrestato perché avevi partecipato allo sciopero..

R: Poi a Genova dicevano che ci mandavano come lavoratori; allora “te dove vuoi andare a lavorare, in Germania?” In Germania ci sono troppi bombardamenti; abbiamo scelto di andare a Vienna, in Austria. Allora eravamo quattro del paese, ci siamo messi d’accordo tutti e quattro per fare i montatori aeronautici. Ti mettevi d’accordo con un gruppo per essere insieme a lavorare e invece cento li han mandati via e sessanta siamo andati a finire lì.

D: Antonio cosa vuol dire abbiamo scelto?

R: Abbiamo scelto di andare a lavorare in Austria perché c’erano meno bombardamenti che in Germania.

D: E questa scelta l’hai fatta a Bergamo?

R: No. Quella scelta lì l’abbiamo fatta a Genova, quando c’erano i contratti di lavoro, che poi è stata una truffa: ti dicevano che ti mandavano a lavorare quando invece, una volta che arrivavi a Sesto San Giovanni chissà dove andavi a picchiare.

D: Ma a Genova son venuti dei civili per proporvi questa scelta?

R: A Genova c’erano tutte impiegate dell’esercito tedesco, dottori e i comandanti dell’esercito.

D: Antonio scusa, ma tu hai firmato un contratto?

R: Non sono riuscito a firmare il contratto. Per quello mi hanno messo con i malati: perché se firmavo un contratto, partivo come lavoratore.

D: Poi dopo allora da Bergamo cosa è successo?

R: Poi da Bergamo, dopo tre giorni e tre notti siamo andati a finire.. No a Bergamo siamo stati lì cinque giorni, poi una mattina han portato tutti i prigionieri di San Vittore di Milano, e quelli di Torino, ci han caricato sulle tradotte di un treno, destinazione Germania.

D: Ascolta dalla caserma di Bergamo alla stazione di Bergamo

R: A piedi, scortati dall’esercito tedesco.

D: C’erano anche delle donne con voi?

R: C’erano una ventina di donne e una quindicina di preti.

D: Ti ricordi la provenienza di queste persone?

R: Guarda mi ricordo solo un prete, Don Gaggero.

D: Di dove era Don Gaggero?

R: Non lo so. Ma lo ricorderò per tutta la vita.

D: Ti hanno caricato sul treno…

R: E siamo andati direttamente a Mauthausen

D: In quanti eravate sul tuo transfert?

R: Ecco è quello lì il problema, eravamo settecentottanta o ottocentosettanta, quello non lo so; è un trasloco dei primi di marzo.

D: Ascolta ma perché ti ricordi di Don Gaggero?

R: Perché mi è capitato lì come nome, come tutto, quei due-tre giorni che eravamo lì. Poi che sia rimasto a Gusen  non mi ricordo più, ma penso che era Gusen.

D: Quanto è durato il viaggio?

R: Da Bergamo? Sarà durato due giorni, un giorno e mezzo.

D: Ti avevano dato da mangiare e da bere?

R:Alla frontiera ci hanno dato una minestrina e basta.

D: Ti ricordi più o meno che periodo era?

R:I primi di marzo, cioè i primi dieci giorni di marzo.

D: Di che anno?

R:Del ’44.

D: Siete arrivati alla stazione di Mauthausen, lì cosa è successo?

R: Lì siamo scesi; sono venuti a prenderci le SS, ci hanno messo in fila per cinque, e strada facendo siamo andati su su su, finchè siamo arrivati al campo di concentramento.

D: Come ti ricordi l’ingresso del campo?

R: Siamo entrati schierati con tutte le SS ai due lati, abbiamo fatto il giro della prima baracca e ci siamo fermati dove adesso – chi va a Mauthausen – vede quel muro che sarebbe il muro del pianto. Di lì abbiamo atteso, siamo entrati a Mauthausen verso le nove e mezza, prima delle dieci e abbiamo atteso adagio, adagio che in cinquanta per volte andassimo giù a far le docce; però i primi che sono andati a fare la doccia erano le donne poi i preti.

D: Tu avevi delle cose con te?

R: No, guarda noi di Savona… Sì avevamo il vestiario, è stata una truffa quella quando ti prendevano: mandavano a dirti “scrivi a casa, manda questo che ti portano i vestiari che poi andrai a lavorare civile, uscirai alla sera o alla domenica”; tutti avevamo indumenti, però noi dalla provincia di Savona non avevamo da mangiare, perché era già troppo che giravamo.

D: Antonio tu hai subito la spoliazione?

R: No.

D: Cioè ti hanno fatto spogliare?

R: Quelli tutti. Come entravi giù facevi la doccia, cioè prima di toglievano i capelli, i peli da tutte le parti, poi ti davano il petrolio poi facevi la doccia. Finito di fare la doccia bello nudo passavi da un’altra parte, ti sceglievi una mutanda e una camicia, e poi ti sceglievi un paio di scarpe, zoccoli olandesi, quelli che c’erano, di premura perché loro di aspettare non avevano tempo e picchiavano. E poi ogni cinquanta per volta ci portavano nella baracca.

D: Ti ricordi la tua baracca di quarantena?

R: Non so se deve essere stato il 20, mi sembra il 20, o il 18. Non mi ricordo sai adesso. Era proprio davanti alla strada, cioè alla passeggiata del campo.

D: Cioè vorresti dire alla piazza dell’appello

R: Sì.

D: E lì quanto tempo sei rimasto?

R: Lì siamo rimasti quattro o cinque giorni, forse meno. Poi un bel giorno ci han dato i calzoni e la giacca, il numero da imparare a memoria, subito,

D: Il tuo numero te lo ricordi?

R: 58673.

D: Ma quando all’appello ti chiamavano lo pronunciavano in italiano?

R: No, in tedesco.

D: Te lo ricordi in tedesco?

R: Achtundfünfzigtausendsechshundertdreiundsiebzig.

D: Ma lo hai imparato subito?

R: Per forza, perché altrimenti erano manganellate.

D: Assieme al numero ti hanno dato qualche altra cosa?

R: Ci hanno dato la striscia dove c’era il triangolo rosso e il numero lo mettevi qui, nei calzoni, e una lamiera qui al braccio.

D: E dopo che ti hanno immatricolato cosa è successo?

R: Niente. Poi siamo scesi giù a Gusen, da Mauthausen un pomeriggio ci hanno dato un paletot, un paio di calze, un pezzo di pane e un pezzo di margarina e siamo scesi giù a Gusen 1.

D: Quanto tempo sei rimasto a Mauthausen?

R: Da marzo fino al 5 maggio. Poi dopo ancora di più perché dopo la liberazione non tutti potevano rientrare. Io sono venuto a casa il 28 di giugno.

D: No no, ma prima di andare a Gusen quanto tempo sei rimasto a Mauthausen?

R: Te l’ho detto, cinque o sei giorni.

D: Il percorso da Mauthausen a Gusen, e poi di quale Gusen parli, di Gusen 1?

R: Gusen 1, però ci hanno messo in una baracca fuori in quarantena perché noi dovevamo andare a costruire un altro campo, che sarebbe Gusen 2. Poi terminato di costruire quel campo lì siamo passati a Gusen 1, facevamo già parte di Gusen 1 ma eravamo staccati.

D: A Gusen ti hanno fatto un’altra immatricolazione?

R: No, sempre il medesimo numero.

D: Cosa ci racconti della costruzione di Gusen 2?

R: Cosa vuoi che ti racconti? Fai conto di vedere un posto tutto nudo e di far uscire baracche, strade, tutto completo. In un periodo di quaranta giorni ci abbiamo lasciato quaranta morti. Perché picchiavano dalla mattina alla sera; c’erano persone che non erano capaci a lavorare a pala e piccone, gli intellettuali, quella gente lì; e sai loro picchiavano, e non c’era altro che picchiare lì.

D: Quanto tempo ci avete messo a mettere Gusen 2?

R: Quaranta giorni.

D: Cioè cosa vuol dire costruire Gusen 2?

R: Costruire un paese.

D: In grado di accogliere quante persone?

R: Non lo so quante persone tenevano, non lo so; se teneva diecimila, non lo so. Perché una volta entrato a Gusen 1, io di Gusen 2 non ho mai sentito parlare. Sentivo parlare in questo senso, che a Gusen 2 non avevano né crematorio né infermeria. Quindi i malati alla mattina li portavano a Gusen 2.

D: Che distanza c’è tra Gusen 1 e Gusen 2?

R: Ci sarà un chilometro, un chilometro e mezzo.

D: Una volta che avete finito di costruire Gusen 2 tu sei ritornato..

R: Io son passato dentro a Gusen 1.

D: Ti ricordi il numero del blocco di Gusen 1?

R: Ne ho cambiati tanti di blocchi. Sono andato alla baracca 4, sono andato al 19, sono andato al 21, perché ogni tanto ti cambiavano per le disinfezioni. Quindi in tutto quel periodo lì ne ho cambiati tanti.

D: Quando sei ritornato a Gusen 1 cosa facevi?

R: Mi hanno sistemato alla Steyr.

D: Cos’è la Steyr?

R: La Steyr era una fabbrica dove facevano le rivoltelle, canne da fucile, canne da mitragliatrice, tutto quello lì; si lavorava dodici ore di giorno o dodici ore di notte, sempre continuamente. Poi c’era anche la Messerschmitt, c’era un’altra fabbrica, e poi c’erano quelli che lavoravano nella campagna e nella cava.

D: Nella cava di Gusen?

R: Sì, c’era una cava grossa.

D: Andiamo con ordine un attimo, tu lavori alla Steyr, ma queste officine della Steyr dove si trovavano rispetto al campo?

R: Sopra il campo. In un primo tempo facevamo una strada fuori, in un secondo tempo hanno buttato giù un muraglione, ci hanno costruito una scala e si saliva di lì.

D: E tu lavoravi?

R: Alla baracca n. 2.

D: E cosa facevate voi esattamente?

R: Lì da noi facevano le canne da fucile.

D: C’erano anche dei civili?

R: Venivano i civili dalla Steyr sì. Un primo tempo venivano alla sera andavano a casa, man mano che si andava avanti le facevano dormire lì anche loro.

D: Ci puoi spiegare una giornata dal mattino quando facevi il turno di giorno?

R: Allora la mattina ti svegliavi d’estate alle quattro e mezzo d’inverno alle cinque e mezzo. Ti andavi a lavare al Wäscheräume, ti lavavi la faccia non avevi né sapone né asciugamano, una volta lavato ti mettevi la camicia, perché se non ti lavavi ti vedevano e te le davano già prima. Entravi nella baracca ti davano, se lo volevi, ma più tanti non lo volevano nemmeno, un po’ di caffè che poi era acqua del Danubio scura, quindi era questo. Il kapò ti mandava fuori perché dentro davi fastidio, prima delle sei c’era l’appello; se tutto il numero era giusto l’appello .. dieci minuti, un quarto d’ora finiva; se mancava qualcheduno finché non lo trovavano dovevi rimanere lì, quando lo trovavano lo portavano lì perché lui era un numero, quindi se eravamo a novantanove lui era cento. Finito l’appello ti mettevi in colonna e andavi a lavorare: quelli che han fatto la notte scendevano, e tu salivi. A mezzogiorno ti davano quel litro di zuppa di rape, continuavi a lavorare e alla sera alle sei scendevi nel campo; ti davano quel po’ di pane diviso in quattro o in sei, in dieci, a seconda com’era, una fettina di margarina, il caffè lo prendevi di nuovo ma non lo prendevi perché ti faceva andare al gabinetto e nient’altro, e poi quando dicevano di andare a dormire andavi a dormire, se non c’era il controllo dei pidocchi. Questa era la giornata.

D: Scusa cosa vuol dire, Antonio, il controllo dei pidocchi?

R: Sì perché ogni tanto ti facevano il controllo dei pidocchi, perché avevano paura del tifo petecchiale. “Ma cosa facevano il controllo dei pidocchi che ne avevamo tanti in corpo?”.

Allora quando dicevano “il controllo dei pidocchi”, il primo che alzava la mano andava a fare il controllo. Andavi là e gli davi la camicia e le mutande, però se avevi una sigaretta e gliela davi loro dicevano che non avevi pidocchi. Era tutto …

D: Voi che lavoravate nelle fabbriche avevate una razione alimentare diversa dagli altri deportati?

R: No, come mangiare uguale. Solo che la Steyr passava le sigarette, secondo la lavorazione. Ogni mese passava il capo del campo, insieme al direttore della Steyr e più il capo della baracca, e dicevano “questo qui fa una lavorazione grossa, questo qui meno, questo qui meno”. A quello più grosso davano due marchi, era un pezzo di carta e lo consegnavi a Schreiber quando entravi nel campo; voleva dire: due marchi, venti sigarette; un marco, dieci; mezzo marco cinque. Quando poi arrivavano le sigarette, chiamavano, ti prendevi la razione. Però di dieci una la voleva già il kapò che era lì che ti aspettava e ne rimanevano nove. Nei primi tempi qualche sigaretta qualcheduno la fumava, poi adagio adagio si tenevano per comprare le zuppe, la margarina, tutte queste cose qui. Allora se ce n’era sigarette il mercato era più debole, se non c’era diventava più alto.

Però poi il kapò un bel momento non ne aveva più, gridava, e tu dovevi dargliene un’altra. In poche parole di dieci te ne rimanevano poche.

D: Questo era il turno di giorno, e il turno di notte poi?

R: Di notte ti alzavi verso.. scendevi da lavorare come gli altri, andavi a dormire; alle tre ti svegliavano, ti davano da mangiare, facevi l’appello e andavi a lavorare fino alla mattina alle sei, sempre dodici ore.

D: Nel blocco con te, tu dormivi in castello con chi?

R: Io ho dormito in castello tanto con Gavazza di Torino, con Barbera, con Magliano no. Magliano era in un altro blocco, sempre con quei due lì.

D: Ma in quanti dormivate per ogni castello?

R: Due, tre.

D: Chi distribuiva le sigarette?

R: Il kapò con Schreiber.

D: Ti ricordi se a Gusen 1 hai trovato dei religiosi?

R: Sì, c’erano i preti con noi. Don Gaggero, poi gli altri adesso i nomi non me li ricordo, sono passati anche tanti anni.

D: Antonio, questi religiosi erano deportati come voi?

R: Come noi vestiti come noi, niente da fare, uguali.

D: Ti ricordi se c’erano anche delle donne?

R: Le donne, ti dico, le abbiamo viste i primi giorni e poi non le abbiamo più viste a Mauthausen.

D: Ti ricordi se c’erano anche dei ragazzini?

R: Ce n’era uno di Savona, il più giovane di tutti: Corrado, aveva 14 anni.

D: E di più piccoli non te li ricordi?

R: No.

D: Prima accennavi che a Gusen 1 c’era anche una cava, tu l’hai vista?

R: Sì, perché era dietro le fabbriche. Poi a mezzogiorno quando davano le mine, mezzogiorno e sera; ci lavoravano due o tremila persone.

D: Ti ricordi se c’era anche un frantoio per macinare le pietre?

R: Non lo so perché non potevamo andarci. Non ti fidavi ad allontanarti dalla baracca. Lì c’erano i binari dei treni, perché si lavorava quasi tutti sui binari, i vagoni per portare via gli scoli, tutte queste cose. Poi con tutte le sentinelle che c’erano, era difficile, io non mi son mai arrischiato di allontanarmi dalla baracca.

D: Prima dicevi che a Gusen 2 non c’era il crematorio né il Revier, perché a Gusen 1 invece c’erano?

R: A Gusen 1 c’era l’infermeria, il Revier e il forno crematorio.

D: Ma tu li hai visti?

R: Sì, avevamo anche l’impiccagione, la fucilazione tutto lì davanti.

D: Cioè, spiega bene.

R: Le ultime baracche che han portato A, B, C, erano proprio le ultime che hanno aumentato il campo, lì di fronte avevamo dove fucilavano la gente, quando c’era l’impiccagione ci portavano nel piazzale a vedere.

D: Tu sei stato testimone di queste cose?

R: Sì. Abbiamo visto l’impiccagione di due tedeschi perché dicevano che avevano sabotato.

D: E fucilazioni ne hai viste?

R: Quando c’era la fucilazione chiudevano le finestre.

D: Cosa facevano, il block …? tutti chiusi nei blocchi?

R: Chiudevano i blocchi, chiudevano le persiane diciamo, le finestre, sentivi sparare poi basta. Poi aprivano. Invece l’impiccagione ti portavano a vedere; ti portavano a vedere quello che era nel campo e quelli che scendevano da lavorare dovevano vedere anche loro.

D: Ti ricordi il Natale del 44 a Gusen 1?

R: Sì.

D: Perché te lo ricordi?

R: Me lo ricordo perché erano già quindici giorni che non si lavorava: i bombardamenti avevano rotto tutte le centrali elettriche, quindi non c’era corrente. E poi perché quelli del ’43 dicevano che allora la Germania avanzava, c’avevano dato un po’ più di pane, un po’ di margarina, e noi avevamo una fame, pensavamo già a Natale. Invece a Natale eravamo a far l’appello, l’albero di Natale nel campo, tutto illuminato, con tutti i morti appesi così, ha suonato l’allarme. Invece di portarci nelle gallerie ci hanno messo nel fossato del campo, tutti lì, tutto intorno lì così. Siamo stati lì quasi fino alle due e mezza. Quando è venuta l’ora di darci da mangiare era verdura cruda e basta.

Alla sera era di notte ho dovuto andare su a lavorare, ma non abbiamo lavorato quella notte lì, abbiamo solo scaldato dei gran pezzi di ferro per sciogliere il ghiaccio nelle macchine. E’ stata quella notte, non solo io, ma diversi dal freddo che ci credevamo di non avere più i piedi, di averli congelati. L’unica notte proprio più terribile di tutte è stata quella lì.

D: Scusa Antonio, tu parlavi di un fossato? Cioè Gusen 1 attorno aveva un fossato?

R: C’era dove passavi; poi c’era un fossato, alto 1.80 x 80; poi c’era il filo spinato, poi c’era come una passeggiata dove viaggiavano le sentinelle, ogni cinquanta metri una sentinella, poi c’era il muro col filo spinato ancora, con i fari, e poi le garritte con i fari e le mitraglie.

D: Prima parlavi di molti binari ferroviari, lì a Gusen 1 che tu hai visto. C’erano molti binari ferroviari?

R: Sì lì nella cava; per viaggiare i vagoni per portare via le pietre.

D: E a proposito di Natale dicevi che nella piazza dell’appello hanno eretto un albero di Natale?

R: C’era un albero di Natale bello grosso. E i morti sotto.

D: Cioè i deportati morti sotto?

R: Sì, i morti che trovavano nei Wäscheräume, in quei posti lì, quando il campo era sgombro diciamo, che la gente andava a lavorare …, passavano quelli addetti, cioè avevano un carro su cui c’era scritto “crema” e c’erano in tre, uno teneva le stanghe nel carretto, e due prendevano i morti e li buttavano sul carro. Quella mattina lì avevamo appena fatto l’appello quando è suonato l’allarme, quindi non l’avevano ancora tolti.

D: Tu quanto tempo sei stato in totale a Gusen?

R: Dalla metà di marzo, fino al 5 maggio.

D: In tutto questo periodo i tuoi vestiti sono stati cambiati?

R: No, io ho sempre avuto la giacca e i calzoni a zebra, quella blu e bianca; una volta solo mi han cambiato, due volte la camicia quando facevano disinfezione. E basta.

D: Hai sempre tenuto quella?

R: Sempre tenuto quella.

D: L’alimentazione ce l’hai già raccontata, cosa vi davano da mangiare. Tu al Revier sei mai stato?

R: Sì ho marcato visita due volte, mi è andata bene, mi hanno mandato di nuovo indietro.

D: In che senso ti è andata bene?

R: Mi è andata bene .. una prima volta avevo come un’epidemia qui sotto. Ho trovato un dottore che mi ha dato della pomata e in poco tempo sono guarito. La seconda volta avevo la febbre alta, il capetto dell’officina mi ha fatto marcare visita, sono andato lì e ho trovato di nuovo fortuna, un dottore, non so se era spagnolo o tedesco, m’ha dato delle pastiglie da prendere, sono andato a lavorare la notte ma m’è passata. Avevo qui che non potevo nemmeno digerire la margarina, alla gola, mi ha dato delle pastiglie e sono riuscito in due giorni a liberarmi.

D: Prima parlavi che quando c’erano gli allarmi, i bombardamenti, ti portavano nelle gallerie. A Gusen 1 c’erano delle gallerie?

R: Noi andavamo lì penso tra Gusen 1 e Gusen 2. In quelle gallerie lì, dopo le ville dei tedeschi, delle SS, andavamo lì nella seconda galleria.

D: Ma che gallerie erano quelle lì?

R: Gallerie che hanno costruito i deportati, e poi dentro c’erano anche i macchinari dove lavoravi.

D: Antonio, come ti ricordi la liberazione di Gusen 1, tu dove eri?

R: Eravamo di domenica, eravamo nel campo. Le SS erano già scappate, erano già partite. Era mezzogiorno, abbiamo sentito un carro armato, poi le voci cominciavano già a circolare perché i fronti erano vicini. Qualcheduno è salito sulla baracca per vedere se era un carro armato, è arrivata ancora una raffica di mitra. Erano gli ultimi che scappavano verso il Tirolo. Allora niente. Al pomeriggio alle cinque facevamo di nuovo l’appello, un bel momento si è aperto il portone del campo, è entrato un carro armato, sulla torretta della fortezza, come a Mauthausen. Lì sopra, è uscito fuori tutto il comando americano, il carro armato ha fatto un giro e poi è partito è andato su a Mauthausen. E di lì è stata la rovina: perché più tanti si son buttati nei magazzini dove c’era il pane, nella margarina, in tutti questi magazzini, i primi che entravano avevano il pane ma non uscivano, perché non so se eravamo quindicimila, ventimila, puoi immaginarti, tutti avevamo fame. Poi però ognuno si è disperso, io con questi quattro Magliano, Gavazza e Barbera siamo usciti fuori dal campo, ci siamo accostati nella baracche dove c’erano le SS. Ce ne siamo fatti dare un pezzo, abbiamo raccolto delle patate e hanno fatto una specie di zuppa da mangiare. Però in un raggio di tre chilometri ci abbiamo lasciato tremila morti, perché avevamo le budella piccole così, a mangiare tanto le allargavi ti prendevi la dissenteria. E così in quel raggio lì del campo ci sono stati tutti questi morti.

D: E dopo il 5 maggio del 45 tu cosa hai fatto?

R: Eravamo sempre lì nel campo.

D: Fino a quando?

R: Ci siamo stati fino ai primi di giugno. Poi ci hanno portato a Mauthausen.

D: E poi?

R: E poi siamo stati lì finché un bel giorno han fatto una autocolonna di carri, di camion e ci hanno portato giù adagio adagio. Abbiamo fatto Linz, Innsbruck, tutti quei posti lì, però ogni campo che entravamo noi ci mettevano da una parte, ci mettevano  da una parte perché per esempio arrivavi a Linz ce n’erano milioni e milioni tra civili, militari; noi deportati eravamo da una parte, ci trattavano proprio bene.

D: Tu sei entrato in Italia quando?

R: Io son venuto a casa il 26 di giugno.

D: Attraverso quale strada?

R: Fino a Linz col camion, poi da Linz con le tradotte, poi scendevi perché le ferrovie non andavano. Poi siamo arrivati a Innsbruck, poi da Innsbruck ci hanno preso, ci hanno portato lì a .. non so se il Lago di Garda o Gardesan. Lì ci hanno messo dove c’erano le suore una notte a dormire lì. Poi ci hanno portati alla stazione ma il treno partiva di lì; arrivavi magari in un posto poi non ce n’era più, poi adagio adagio aspettavi un altro treno, finché siamo arrivati a Genova. Quando sono arrivato a Genova son rimasto solo perché quei pochi alla stazione arrivavano i parenti. E poi da Genova a Savona un po’ a tradotta, un po’ una cosa e l’altra, finché sono arrivato a Savona. A Savona eravamo in due, quello là sono venuti i familiari; io sono rimasto solo, poi son passati dei camion, quelli che andavano a fare la borsa nera, uno mi ha riconosciuto, mi ha preso e mi ha portato a casa col camion.

D: Del tuo trasporto quanti sono sopravvissuti, se ti ricordi?

R: Non lo so perché leggevo nel triangolo rosso ultimamente la matricola 58, 59, sono quasi andati via tutti. Io conosco Signorelli, qualcheduno di quelli lì ma gli altri non ci siamo mai visti, io ero a Finale e loro erano a Milano. Per esempio chi vedo tanto è Maris, perché lui viene a Finale Ligure.

D: Antonio tu in tutti questi anni sei mai stato intervistato?

R: No. Nelle scuole così qualcosa, ma mai intervistato.

D: E tu non hai mai scritto nulla?

R: No. Premetto questo, che tu devi prendere atto che a dieci anni a questa parte che andiamo nelle scuole e tutto, perché fino a prima cosa contraria nessuno ci credeva a queste cose.

Ricci Raimondo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D.: Ci dice come si chiama, quando è nato?

R: Io sono Raimondo Ricci, sono nato nell’aprile del 1921; ho compiuto 79 anni e la mia vicenda relativa alla deportazione ha delle origini non immediate rispetto al periodo in cui sono stato deportato: sono entrato nel movimento antifascista, cioè ho preso delle posizioni antifasciste ed ho cominciato quella che allora chiamavamo la “cospirazione” quando ero studente universitario alla scuola normale superiore di Pisa, esattamente nell’anno 1939-1941, cioè da quando ho vinto il concorso nel settembre del 1939 a quando sono stato richiamato sotto le armi. Nella seconda metà del 1941 ho finito il corso di allievo ufficiale all’accademia navale di Livorno e sono stato designato, nominato ufficiale di marina. Come ufficiale di marina ho potuto scegliere la destinazione e l’ho scelta – nel frattempo mio padre, che era magistrato, era morto in Africa – nel comando di Imperia, la mia città di origine e anche già durante il periodo militare ho continuato ad avere rapporti in qualche modo anche progettuali ed organizzativi ma, in una forma ancora abbastanza informe con gli amici che avevo sia a Pisa, Genova e Imperia avevo e che appartenevano al movimento antifascista.

L’8 settembre del 1943, dopo un lungo periodo di servizio militare come ufficiale, allora ero  addetto all’ufficio cifra del mio comando – io ho potuto seguire l’occupazione da parte dei tedeschi del comando marina di Genova; poi il 9 settembre ho visto i tedeschi del comando marina di Genova arrivare ad Imperia perché da Genova sono venuti dalla riviera di ponente per completare l’occupazione. 

Nel frattempo da ponente, diciamo dalla Francia affluivano tutti quanti i militari sbandati dell’esercito italiano, che si era in gran parte dissolto, anche se poi c’erano stati episodi di resistenza di coloro che non avevano voluto cedere le armi, quindi anche qualche scontro a fuoco ma nella grande generalità il motto imperante era, come è noto, “tutti a casa”. Questo anche e soprattutto perché erano mancati gli ordini, era mancata l’organizzazione di una qualsiasi previsione di difesa rispetto alla ben prevedibile occupazione tedesca quando si fosse da parte italiana annunciato l’armistizio; quindi vi fu quella specie di fuga dalle proprie responsabilità del Re, di Badoglio e di tutto quanto lo staff dei militari italiani e di casa Savoia, che è ben noto e consegnato – anche in un modo abbastanza sconcertante – alla storia del nostro Paese.

Fin dai giorni immediatamente successivi al 9 settembre del 1943 io mi sono dedicato a sperimentare la possibilità – naturalmente insieme a tanti altri amici – di organizzare un movimento di resistenza armata all’occupazione tedesca. Il fascismo di Salò non era ancora sorto: cominciò a segnare la propria esistenza nel mese di novembre; il nostro nemico era sostanzialmente il tedesco occupante, il quale faceva già sfoggio dei propri metodi, che del resto i militari italiani avevano conosciuto anche quando avevano combattuto fianco a fianco con i tedeschi. Io insieme ad altri amici, in particolare ad Imperia, dove ho operato, ci siamo impossessati di armi, di qualche mezzo meccanico, l’abbiamo portato in montagna e di lì è nato il primo lavoro molto faticoso: era un lavoro che sembrava promettere una possibilità di organizzazione e poi invece magari deludeva questa prospettiva per poi rialimentare la speranza di riuscirvi, di organizzazione delle prime non ancora formazioni vere e proprie ma chiamiamole “bande” – così del resto si chiamavano nel gergo comune –“bande armate della Resistenza”. 

A metà dicembre del 1943, praticamente tre mesi dopo circa l’inizio di questa attività e dopo l’armistizio io ebbi l’incarico, dato che avevo anche assunto una responsabilità di commissario in una banda partigiana, di recarmi a Genova per prendere dei contatti con il Comitato di Liberazione Nazionale della Liguria che, a sua volta, era via via in fase di organizzazione.  

Stetti a Genova, cercai di partire in treno il più riservatamente possibile e tuttavia fui segnalato da qualcuno che riferì di questo mio spostamento – la mia presenza in montagna era ormai nota. Mi fu fatta la posta per tre giorni, tre giorni mi fermai a Genova e la sera del terzo giorno quando dalla stazione ferroviaria di Imperia e porto Maurizio, di sera inoltrata mi recavo in bicicletta, verso l’interno per ritornare in montagna, fui fermato da militari armati – chiamiamoli così – dell’UPI, cioè ufficio politico investigativo della Guardia Nazionale Repubblicana, che nel frattempo si era costituita. Venni arrestato insieme a mia sorella, che mi era venuta a prendere alla stazione, mia sorella fu detenuta per tre, quattro giorni e poi lasciata libera. Io invece venni sottoposto a pressanti interrogatori perché si voleva sapere da me evidentemente l’organizzazione armata a che punto era e così via. Per fortuna – dico per fortuna per me – non c’erano ancora stati scontri particolarmente accesi e c’erano state però molte azioni d’impossessamento di armi, vettovaglie e tutto quanto serviva all’organizzazione logistica delle formazioni che andavano costituendosi; fui pestato a sangue e non torturato perché c’è una bella differenza tra l’essere picchiato e l’essere torturato e fui detenuto ad Imperia abbastanza a lungo, cioè fino al febbraio del 1944; quindi stetti ad Imperia quasi due mesi e nel frattempo il movimento partigiano, che io avevo lasciato forzatamente a seguito del mio arresto andava avanti, si organizzava.

La provincia di Imperia è stata la provincia che ha partecipato fortemente alla lotta di Resistenza: vi furono i primi morti, vi furono i primi combattimenti e nel febbraio del 1944 avemmo la notizia del combattimento di Alto, sopra Albenga, in cui fu coinvolto uno dei nostri più bravi, più valorosi e prestigiosi comandanti, Felice Cascione, che diede poi il nome ad una divisione garibaldina, la divisione Cascione. Ebbi notizia in carcere di questo combattimento con i tedeschi appoggiati  da armati appartenenti alla Repubblica di Salò e dell’uccisione di Felice Cascione, un giovane medico di qualche anno più vecchio di me, ma un giovane particolarmente prestigioso, grande sportivo, grande figura anche morale nella Resistenza impierese e nazionale; motivo questo di profonda amarezza e di profondo dolore.

Proprio in quel periodo, subito dopo, i fascisti mi consegnarono alla Gestapo.

Venni trasferito nel carcere di Savona dove stetti  diverso tempo e successivamente fui trasferito ancora nelle mani delle SS; attraversai un lungo periodo di detenzione nelle carceri di Imperia, esattamente nella IV sezione delle carceri di Marassi, che era quella proprio organizzata ed a disposizione delle SS dove comandava il comandante del servizio di polizia di sicurezza nazista di tutta la Liguria, che aveva sede a Genova, cioè quel tenente colonnello delle SS Siegfried Engel, che, con una sentenza abbastanza recente del 15 novembre 1999, quindi pochi mesi fa, è stato condannato all’ergastolo per le responsabilità che ha avuto in quattro grandi eccidi compiuti nei dintorni di Genova.

Venni arrestato, voglio dire trascorsi questo periodo di detenzione nel carcere di Marassi fino a quando agli inizi, nei primi giorni del giugno 1944 fui trasferito insieme ad altri detenuti, a tanti compagni,  tra cui uno dei massimi dirigenti del partito d’azione, l’avvocato Eros Lanfranco, ed altri  amici carissimi come il commercialista di  grande cultura, Franco Antolini, mio amico fraterno anche se di qualche anno più vecchio di me. Insieme a tanti altri venimmo trasferiti in campo di smistamento di  Fossoli di Carpi – il campo di Bolzano non aveva ancora cominciato a funzionare in quell’epoca – e poi successivamente, a metà giugno del 1944 venni in vagone piombato trasferito nel campo di eliminazione di Mauthausen, e di qui cominciò la mia esperienza di deportato.

D.: Le volevo chiedere, si ricorda il suo numero di Fossoli?

R.: No.

D.: Si ricorda se assieme a lei nel campo di Fossoli c’erano anche dei religiosi?

R.: Mi pare di sì. Io a Fossoli non stetti molto, meno di quindici giorni, stetti una decina di giorni. Vi incontrai degli amici di Imperia che erano stati mandati là prima di me perché erano stati in un primo momento arrestati poi liberati poi riacciuffati da parte dei fascisti e dei tedeschi. Lo so che c’erano dei religiosi sicuramente. Uno, di cui divenni poi fraternamente amico, e che condivise l’esperienza della deportazione è stato don Andrea Gaggero. Quindi don Gaggero è stato uno degli uomini che hanno più fortemente testimoniato l’esperienza della deportazione e quindi don Gaggero era con noi. I religiosi furono numerosi.

D.: Il viaggio di trasferimento da Fossoli a Mauthausen come se lo ricorda?

R.: Ma, dunque io questo viaggio di trasferimento lo ricordo come un viaggio estremamente faticoso e l’idea dominante fu quella però di vedere se riuscivamo ad organizzare e realizzare la fuga. Nello stesso vagone dove io mi trovavo vi fu l’organizzazione di un tentativo di fuga che solo in parte riuscì. L’organizzammo nel senso che uno di noi, che io non conoscevo precedentemente, piuttosto magro ma estremamente deciso progettò e poi realizzò nel corso del viaggio d’infilarsi nel piccolo finestrino che era chiuso da filo spinato, diciamo spostando, questo sbarramento di filo spinato, portarsi dalla parte esterna del vagone e poi attaccandosi alle sporgenze del vagone stesso riuscire a ribaltare la chiusura a gancio calante dall’alto che quindi poteva essere ribaltata. Riuscimmo, riuscì con questa manovra lui stesso a gettarsi fuori perché era riuscito ad uscire dal finestrino ma con grandi sforzi e con l’aiuto naturalmente di coloro che erano all’interno e poi ad aprire di un breve spiraglio la porta, appunto operando dall’esterno in modo da consentire a tre di noi di fuggire. Il tentativo di fuga degli altri, io dovevo essere il quinto a prendere il via, non fu più possibile perché il treno arrivò in una stazione; si fermò, le SS si accorsero di ciò che era avvenuto, chiusero ermeticamente il finestrino e si diedero anche alla caccia di coloro che erano fuggiti, per fortuna senza essere riusciti a riprenderli. Comunque si scatenarono anche contro di noi; non vi furono lì per lì delle esecuzioni, ma insomma cominciò quell’operazione di terrore che ha poi accompagnato tutta quanta la nostra vita nei tempi successivi.

Io posso dire che durante questo avvicinamento a Mauthausen, non sapevamo, quale sarebbe stata la nostra sorte poichè ignoravamo tutto, io almeno ignoravo tutto ed anche i miei compagni ignoravano tutto. Ci scherzavamo persino sopra: qual era nei campi il sistema di eliminazione, come i tedeschi, i nazisti l’avessero organizzato e sapevamo che andavamo in una destinazione che il fatto stesso che era ignota apriva la nostra possibilità, il nostro destino ad ogni possibile soluzione ma non eravamo assolutamente informati di ciò che sarebbe avvenuto.

Siamo arrivati a Mauthausen, come normalmente avveniva per i trasporti, di notte. Era una notte calda perché eravamo come ho detto alla metà di giugno e con le nostre povere suppellettili, le nostre valigie con quel poco che eravamo riusciti a trasportare, un po’ di effetti personali, un po’ di cibo, qualche marco tedesco in tasca, che le famiglie erano riuscite a farci avere attraverso il filo spinato di fossili, che non era del tutto impenetrabile. La mia unica sorella – i miei erano morti tutti e due – venne a trovarmi e mi diede un aiuto sia in cibo, perché io avevo ormai cominciato a soffrire la fame durante il carcere, e mi fece avere questi generi di conforto e anche un po’ di marchi tedeschi che avrebbero potuto servire.

La realtà è che arrivati a Mauthausen ci trovammo in un mondo non preventivamente immaginato. Io ho sempre considerato molto difficile raccontare l’esperienza dei campi di eliminazione e quindi anche la mia esperienza personale perché il mondo nel quale venimmo a trovarci era un mondo talmente diverso sotto mille profili da quello che potevamo immaginare o da quello che avevamo vissuto; pur nelle sue privazioni, nelle sue violenze e nelle sue sofferenze, ho sempre pensato che raccontare del campo di eliminazione fosse come raccontare l’esperienza di Marte agli abitanti della terra: siccome gli abitanti della terra non hanno mai conosciuto né potuto immaginare quale fosse l’ambiente di Marte era difficile riuscire a realizzare una comunicazione ed una comprensione reale della situazione in cui venimmo a trovarci.  Posso tentare di dare qualche elemento.

Noi arrivammo di notte, fummo concentrati nella parte del lager che era destinata proprio ai trasporti in arrivo, era la prima parte della notte e progressivamente con il passare delle ore venimmo privati via via di tutto. Ci vennero portate via progressivamente le valigie, quelli di noi che le avevano, gli abiti, ci fu ordinato di toglierci gli abiti e poi via via, tutto quanto avevamo. Questa progressiva spoliazione, che veniva fatta su ordini delle SS un po’ da lontano, ma soprattutto dei kapò o di altri internati,  i quali erano delegati a questa funzione, continuò fino al momento in cui si realizzò il solito rituale di accoglimento – che è diventato il solito quando lo abbiamo poi conosciuto – che era un rituale attraverso cui il sistema concentrazionario nazista dei campi di eliminazione ed anche di sterminio tendeva ad annullare completamente la personalità degli  individui. Insomma l’attacco, io ho sempre pensato che il sistema era studiato scientificamente perché poi questo rituale era uguale per tutti i campi. I campi che furono installati in Germania, soprattutto nel corso della guerra, furono ben 1.200 circa, forse più perché alcuni vennero distrutti e se ne persero le tracce. Quindi un numero enorme. L’obiettivo era quello di ottenere prima l’annullamento della personalità degli individui cioè degli etfling, cioè dei prigionieri, degli internati che non erano prigionieri di guerra, che non erano detenuti – diciamo come uno normalmente detenuto per aver commesso un crimine – erano soltanto dei segregati destinati all’eliminazione. Se appartenenti poi a determinate categorie, per esempio alla razza ebraica, addirittura allo sterminio programmato. Possiamo interrompere un attimo?

Quando possiamo riprendere me lo dice.

Prego.

E questo rituale consisteva nella spoliazione completa, anche di tutti gli indumenti anche più intimi, quindi nella nudità assoluta; eravamo tutti uomini, nel transport di cui facevo parte non c’erano donne. Ma il trattamento che veniva riserbato alle donne, che venne riservato anche a Mauthausen. Mauthausen fu un campo nel quale le donne affluirono solo nella fase finale perché fu uno degli ultimi campi, se non l’ultimo campo, ad essere liberato. Il trattamento anche per le donne era lo stesso. Quindi denudati completamente e poi avviati alle docce; per noi furono effettivamente docce di acqua caldissima, di acqua bollente prima e di acqua fredda dopo e alla depilazione completa di ogni parte del corpo, quindi dei capelli, della testa, del pube e di tutto quanto il corpo. Quando uscivamo da queste docce, voi sapete bene che nell’ esperienza dei campi soprattutto, ma anche a Mauthausen c’erano le camere a gas; ma soprattutto di quelli che furono costituiti appositamente per lo sterminio degli ebrei e degli altri oppositori e quindi quelli in cui lo sterminio aveva dimensioni più massicce e di quelle che furono realizzate nei campi organizzati in una prima fase, a cui Mauthausen apparteneva.

Ma la questione non era tanto metodologica quanto quantitativa: c’erano delle grandi stanze che sembravano delle docce ed invece erano delle camere a gas, e dai tubi usciva il gas venefico anziché l’acqua come nel caso nostro. Anche a Mauthausen c’era questa situazione che però non era di normale funzionamento nei confronti dei trasporti ma perché venisse realizzato dovevano esserci determinate condizioni che poi per molti internati si verificarono anche a Mauthausen.

Dopo tutto questo noi eravamo praticamente come dei vermi. Naturalmente questo trattamento era particolarmente scioccante perché la spoliazione completa, questo trattamento di depilazione assoluta, queste docce calde e fredde, la  distribuzione di indumenti che erano dei pantaloni e camicie a strisce bianche e blu verticali che venivano distribuite assolutamente in  modo casuale senza alcun riferimento alle dimensioni di ciascun individuo, per cui qualche aggiustamento si poteva fare soltanto  tra di noi scambiandocele quando un indumento troppo stretto era capitato ad una persona troppo alta, troppo grassa, troppo grande o viceversa e  tutto questo creava una situazione di sgomento, era come un gran pugno nello stomaco dal quale non era facile riaversi. Noi abbiamo cercato, direi un po’ tutti di tenerci alto il morale l’uno con l’altro, eravamo italiani per fortuna tutti insieme almeno in quella prima fase. Però questo era la prima accoglienza alla quale si univa lo spettacolo, in particolare a Mauthausen: lo spettacolo era a sua volta molto scioccante perché Mauthausen ha l’aspetto di una grande fortezza medioevale. Occorre ricordare ma noi non lo sapevamo allora, io stesso queste cose le ho sapute dopo la liberazione; ecco perché la nostra memoria deve anche essere elaborata successivamente al momento in cui noi abbiamo vissuto determinate esperienze.

Mauthausen era sorto, sulla collina sulla quale era stato edificato a tre, quattro chilometri dal paesino di Mauthausen appunto, perché lì c’era una grande cava di pietre, di pietra particolarmente pregiata, molto dura e consistente di pietra scura che era divenuta per acquisto fatto proprio di proprietà delle SS.

Le SS erano un’organizzazione, è nota come la milizia al servizio totale e indiscutibile del Fuhrer – di Hitler – comandata dal reich Fuhrer delle SS, Himmler; fin dalla nascita legata però da un patto di morte con il Fuhrer della Germania, del popolo tedesco, cioè Adolph Hitler. Questa milizia, legata da questo patto cadaverico al suo conduttore ed al capo del popolo divenne ad un certo momento un vero Stato nello Stato, uno Stato dentro il Terzo Reich, uno Stato che aveva poteri assoluti su tutti i cittadini tedeschi, non parliamo poi sugli abitanti degli altri paesi che venivano via via invasi dalla Germania e quindi un potere di vita e di morte. Io arrivo a dire questo che non si può capire l’essenza, e le SS erano la quinta essenza del sistema nazista come sistema di potere, non si può capire se non si acquisisce questa consapevolezza: il nazismo concepiva il proprio potere come un poter assoluto e indiscutibile di cui a nessuno si sarebbe dovuto rendere conto sulla vita degli altri; il potere assoluto di vita e di morte. E le SS, gli appartenenti alle SS erano i depositari di questo potere a assoluto che discendeva loro direttamente dal loro grande capo, il Fuhrer della Germania e del popolo tedesco.

Il sistema concentrazionario al quale Mauthausen apparteneva era una delle espressioni dirette di questo sistema di potere che avrebbe dovuto essere il modello attraverso cui si esprimevano i grandi privilegi della razza superiore, la razza ariana, come ben sappiamo; e nella razza ariana il popolo tedesco come popolo destinato a dominare il mondo. Una concezione che aveva anche quella base ideologica che via via fu creata dagli  ideologi del Terzo Reich perché c’era questa concezione che sapeva anche di tradizione barbarica, come è noto; e difatti confluiscono tutti questi elementi nel progetto di dominio fondato su una superiorità di razza e sul diritto di eliminazione delle razze  ritenute inferiori o dannose, come gli ebrei, rispetto ai grandi destini del popolo tedesco o delle altre razze che erano destinate comunque ad essere ridotte in  schiavitù o soggiogate dal potere della razza dominante. Questa era la concezione di cui i campi di eliminazione tra cui Mauthausen, erano non gli unici ma fondamentali strumenti di attuazione.

D.: Senatore, si ricorda quando è stato immatricolato lei a Mauthausen?

R: Certo, noi fummo immatricolati, io non mi ricordo nemmeno la matricola 41 mila e tanti, ma i numeri di matricola erano assegnati riassegnandoci i numeri dei morti insomma, quindi diciamo il numero di matricola in sè.. Io ho i documenti a casa con il numero di matricola però adesso in questo momento a memoria non lo ricordo. L’immatricolazione avvenne immediatamente. Ci fu assegnato un numero che dovevamo poi portare sulla nostra cosa, non ci venne a Mauthausen tatuato come in altri campi avvenne sulle braccia o sulle mani però l’immatricolazione avvenne il giorno successivo a quello del nostro arrivo, quando cioè fummo destinati al blocco di quarantena. Io fui destinato alla baracca 17; adesso nel campo di Mauthausen la baracca 17 non esiste più perché è stata demolita; sono state conservate soltanto alcune baracche esempio nel campo di Mauthausen, del così detto campo di quarantena.

Perché Mauthausen era una grande centrale di un sistema di circa 40 campi dipendenti, campi satelliti per così dire. Quindi Mauthausen, significa non il solo campo di Mauthausen, ma significa altri 40 campi. Lo stesso sistema vale per Dachau, vale per Buchenwald vale per tutti gli altri campi che vennero via via costituiti successivamente. Ecco perché la dilatazione enorme del numero dei campi alcuni dei quali avevano molti prigionieri, altri erano fatti anche da piccole unità di prigionieri.

Il sistema della quarantena, dunque anche durante la quarantena fummo destinati a lavorare. Io lavorai per giorni e giorni di seguito alla cava di pietra, un luogo terrificante di morte: era il luogo nel quale, quando si volevano eliminare un certo  numero di individui, questi venivano mandati sotto le scudisciate delle SS e di kapò su per i centottantasei gradini della scala con dei carichi di pietra sulle  spalle, carichi che potevamo scegliere noi quando non eravamo destinati all’eliminazione; ma se qualcuno un gruppo era destinato all’eliminazione, venivano scelti dagli aguzzini, chiamiamoli così, dai capi, i quali caricavano i prigionieri anche in rapporto alle loro forze di carichi superiori a quelli che avrebbero potuto portare sulle proprie spalle per centottantasei gradini. Allora i prigionieri naturalmente non ce la facevano, cadevano, venivano colpiti dagli aguzzini con i bastoni di gomma, con gli scudisci, venivano colpiti con i calci dei fucili delle SS che seguivano e poi venivano uccisi; e questa scala fu un luogo nel quale venne uccisa moltissima gente.

Io ricordo che nel luglio del 1944, prima di andare in trasporto in un campo dipendente, come adesso dirò tra un attimo, vidi lungo quella scala che veniva  proprio percorsa dagli ex ufficiali, dagli ufficiali e sottoufficiali tedeschi che erano stati coinvolti nell’attentato a Hitler nel luglio ’44 in cui Hitler rischiò di perdere la vita ed invece gli furono bruciati solo i pantaloni, quello che avvenne nel suo bunker sul fronte orientale, vennero in gran parte inviati nel campo di Mauthausen ed erano  proprio in un blocco vicino al nostro, vicino al blocco 17 dove io ero ristretto. Costoro dovevano essere destinati all’eliminazione ed io li vidi lungo quella scala caricati di quelle pietre e poi mitragliati dall’alto con fotografie che mostravano tentativi di fuga perché i tedeschi avevano anche cura di cercare di operare le messe in scena nelle quali erano maestri. Avevano già fatto la messa in scena dell’aggressione alla Polonia fingendo un attacco dei polacchi nei confronti delle loro postazioni di confine, avevano fatto la grande mistificazione dell’incendio del Terzo Reich attribuito ai dirigenti e sindacalisti socialdemocratici e comunisti nel 1933 e quindi erano maestri di mistificazioni di questo tipo.

E anche lì si tentò di rappresentare la fuga di questi poveri, diciamo valorosi militari che avevano avuto il coraggio di ribellarsi ad Hitler e di organizzare il tentativo di sbarrare la sua strada verso la distruzione del mondo e della stessa Germania. Comunque questa cava fu un luogo di tortura e badate qui c’è una contraddizione terribile alla quale io ho sempre pensato, che in qualche modo non ho risolto. Era un luogo nel quale si sono eliminate decine e decine di migliaia di persone ma in genere il campo di Mauthausen e la cava in particolare ancor più che la camera a gas, era un luogo in cui veniva tratto dalle SS un ritorno  economico perché le pietre che venivano tratte da questa cava furono quelle che servirono per edificare questo campo sulla collina e dargli quell’aspetto di fortezza medioevale sulla quale campeggiava il famoso motto “Arbeit macht frei” “il lavoro rende liberi” e poi per esportare e per inviare questo materiale. Questa pietra sezionata a Berlino per essere utilizzata in quelle costruzioni, in quei progetti architettonici che erano uno dei sogni di grandezza di Hitler: Hitler si occupò sempre molto di architettura e pensò sempre ad un’architettura che tramandasse il suo grande disegno che avrebbe dovuto avere durata millenaria nel tempo consegnarlo anche i grandi edifici e le grandi realizzazioni simboliche che dovevano configurare architettonicamente la stessa faccia del Terzo Reich.

Ad un certo punto del luglio del 1944 venni inviato in un campo dipendente a Großramming vi arrivai con un gruppo che era di circa duecento, trecento e tanti italiani – con me vi erano l’avvocato Elio Lanfranco, di cui ho parlato prima, vi erano il povero Mino Steiner di Milano, vi erano altri amici della deportazione – e venimmo trasferiti in questo campo di Großramming dove fummo adibiti alla costruzione di una centrale idroelettrica. Quindi lavoro all’aperto, lavoro molto duro sotto il sole per quel primo periodo; il campo era un campo relativamente piccolo, meno di 1.500 internati. Facile era la previsione del nostro destino se fossimo rimasti a lavorare in questo campo anch’esso governato secondo gli stessi sistemi che venivano attuati in tutti i campi di eliminazione. Poco cibo, un cibo assolutamente inadeguato a contrastare la fame e la fame acuta diventava fame endemica, cioè una fame non più saziabile perché derivante da un assoluto deperimento organico e non dalla mancanza di cibo per uno o più giorni o anche da più settimane ma proprio da un  decadimento dell’intero fisico; i prigionieri che via via diventavano larve,  diventavano esseri che molto spesso perdevano anche il dominio dei propri istinti e questo era uno degli scopi a cui tendeva il sistema concentrazionario e quindi anche dal punto di vista lavorativo rendevano anche molto poco.

Ecco la contraddizione. Da un alto si volevano realizzare grandi progetti come quello della cava di pietra, come quello della centrale idroelettrica, come quello di tanti altri lavori attraverso lo sfruttamento del lavoro di questa massa di schiavi. E dall’altro lato si aveva nei confronti di questi schiavi che eravamo noi un trattamento tale da non consentirci neanche di conservare quelle forze che avrebbero reso il nostro lavoro più redditivo, e trattati in un modo tale per cui il nostro destino era inevitabilmente quello della morte, cioè quello della malattia, della consunzione, della morte per deperimento, la morte per i mille accidenti che possono capitare in una situazione di questo genere quando la situazione dominante è quella del terrore, dovuto alle mille insidie della nostra vita. Un terrore che a poco a poco nel tempo si affievolisce e poi la fame e il terrore, la fame e il terrore.

Noi vivevamo tra l’assillo della  fame da un lato e le urla dei comandi che ci veniva gettati addosso in tedesco dall’altro lato ed i contatti che riuscivamo ad avere tra di noi, quel tanto di solidarietà che ci stringeva, che fu anche solidarietà molto intensa in alcuni momenti ma che non sempre era solidarietà, è inutile nasconderlo: le condizioni estreme nelle quali noi conservavamo la vita hanno fatto anche sì che nei campi molto spesso si verificarono anche delle situazioni non di solidarietà ma di contrasto, quando un pezzo di pane ed una gamella di zuppa potevano rappresentare un elemento di sopravvivenza. Rubare il pezzo di pane o impossessarsi della gamella diventava un qualche cosa che era direttamente connesso con la possibilità di sopravvivere.

Io non so se dire qualcosa della mia esperienza diretta, sono sopravvissuto perché a Großramming il campo è stato smantellato ed è stato smantellato per fortuna il primo di settembre del 1944; quindi tutto il comando, tutto il gruppo di prigionieri di quel campo ritornò a Mauthausen, perché nei piani economici tedeschi la costruzione di quella centrale fu ritenuto un lavoro non prioritario rispetto alle necessità dell’economia bellica.

Questa fu una fortuna per noi perché se così non fosse avvenuto, ai primi freddi sicuramente la massima parte degli italiani … io stesso sarei stato tra quelli perché molto malconcio, nonostante avessi allora ventidue anni e quindi una certa capacità di resistere, quando si è così giovani; la nostra fine sarebbe stata inevitabile. Intanto perché le nazionalità arrivate per ultime non avevano trovato il loro incasellamento e quindi in qualche modo erano le più esposte alla decimazione per così dire, e quindi saremmo sicuramente morti nella grandissima maggioranza.

Il campo fu smantellato ai primi di settembre, non era ancora arrivato l’inverno; rimpatriammo a Mauthausen ed io da allora feci tutto quello che potei, quel poco che mi era possibile per andare ancora una volta in transport perché mi resi conto che un grande campo di trenta, quarantamila internati, come era Mauthausen, c’erano maggiori possibilità di sopravvivenza.

Io vidi tutto a Mauthausen, subii tutto, tutto: le torture, i pestaggi, il lavoro, vidi nella parte finale della mia esperienza le fosse dei cadaveri, che venivano riempite quando i forni crematori non erano più adeguati a bruciare i morti, nel senso che le morti si succedevano con un ritmo eccessivo.

 Fui in qualche modo spettatore se non testimone diretto della rivolta del blocco 20, dove gli internati che ivi avevano un trattamento particolarmente offensivo e vessatorio, tentarono la rivolta e riuscirono a fuggire in seicento morendo al 99%, se ne salvarono 5 o 6, non di più. Vidi, subii tutto. Dovetti anche trasportare i cadaveri ma ebbi anche alcuni elementi di fortuna, come appunto può accadere in un grande campo.

Conosco bene lo spagnolo, per metà del mio sangue sono di origine sudamericana, mia madre era argentina ed ho avuto modo di conoscere degli spagnoli, soprattutto due fratelli, che mi hanno aiutato a salvarmi la vita. Nel senso che gli spagnoli erano una delle prime nazionalità che prima della guerra, o perlomeno all’inizio della guerra, non prima, furono concentrati a Mauthausen perché catturati nel cerchio di Dunquerque; “Perché?: una rapida spiegazione”.

Questi spagnoli erano reduci della guerra di Spagna, espatriati dalla Catalogna quando la Repubblica spagnola venne definitivamente sconfitta in Francia, dai francesi internati in campi di concentramento che si trovavano vicino alla costa atlantica. Quella parte della costa dove fu poi accerchiato l’esercito inglese, che si trovava presente nel territorio francese. Ecco perché rimasero, furono praticamente, caddero nelle mani dei tedeschi quando i tedeschi spinsero a mare gli inglesi e la vicenda di Dunquerque è nota.

Questi ex combattenti della guerra di Spagna, combattenti per la repubblica, per la libertà della Spagna, vennero offerti da Hitler a Franco e Franco non li volle. E allora Hitler li concentrò in vari campi ed in buonissima parte nel campo di Mauthausen.

Vi arrivarono e si dedicarono alla costruzione e all’ampliamento del campo, buona parte del campo fu costruita da loro. Subirono le loro perdite poi, via via che il campo si dilatò, nelle loro mani si trovarono tutti i servizi essenziali del campo: le lavanderie, le cucine, i servizi di barberia, quelli stessi che vennero a rasarci con i rasoi, a toglierci i peli dalla testa, dal pube, dalle ascelle, dappertutto, dal petto chi li aveva, erano spagnoli. Quindi i servizi del campo erano in mano loro e naturalmente questo possesso dei servizi consentiva loro di avere delle inevitabili posizioni di privilegio.

Devo dire la verità, tra loro c’era una fortissima solidarietà e gli spagnoli non si prestarono mai anche perché erano tutti combattenti della stessa guerra e quindi un grande spirito di fraternità ed anche di comunanza ideale li univa e quindi erano, molto forti. Nessuno di loro si prestò a quelle funzioni repressive e vessatorie che furono invece le funzioni attribuite ai kapò, che erano quelli che dominavano i blocchi, cioè le baracche, quelli che conducevano i gruppi al lavoro, che nella grandissima maggioranza erano dei triangoli verdi, cioè dei criminali comuni, criminali della peggiore specie che proprio per la loro capacità criminale governavano gli altri.

Ecco quando io ho parlato di Marte rispetto all’esperienza della terra, io non dico che in una situazione normale nel mondo in cui viviamo i migliori siano sempre al vertice ma perlomeno c’è una sorta di riconoscimento di ciò che dovrebbe essere il meglio al vertice, insomma, cioè si agisce sempre in nome di fini di carattere superiore o comunque la selezione dovrebbe, ed in molti casi lo è stato, una selezione positiva. Il mondo era completamente ribaltato cioè la selezione che consentiva di porre con assoluta potestà di dominio degli uomini a governare gli altri, ad ucciderli sempre naturalmente come emissari e longa manus delle SS, quindi su mandato delle SS, erano i peggiori.

Erano i criminali, erano coloro che avevano capacità di continuare a commettere crimini. Questa specie di ribaltamento di quello che dovrebbe essere l’ordine naturale delle cose è un qualcosa che bisogna vederlo, bisogna sperimentarlo per rendersi conto di cosa significhi. Il mondo alla rovescia per così dire.

Ecco perché la realtà dei campi non è facilmente comprensibile nella sua estrinsecazione e poi nella vita di ogni giorno. Questa è l’esperienza attraverso la quale sono passato. Ho avuto anche la fortuna di qualche italiano. Ho avuto un amico fin dal periodo di Imperia, un architetto, l’architetto Alberto Todros di Torino, quasi mio coetaneo, uno o due anni più di me, con il quale fummo deportati insieme; era un giovane molto aitante, molto simpatico, conosceva un po’ il tedesco, quando fu censito ed immatricolato gli si chiese cosa faceva e lui, non so esattamente cosa disse, ma insomma un’attività di carattere pratico ed allora venne destinato a dei lavori, a delle attività – perché tutti dovevano lavorare nel campo – che in qualche modo creava qualche situazione di maggiore possibilità di sopravvivenza.

Noi che eravamo studenti, io, per esempio, studente in legge, in giurisprudenza, ero fatalmente destinato come tanti altri giovani alla pala ed al piccone, quindi ai lavori di assoluta manovalanza, che erano quelli in cui si rischiava la propria esistenza.

Questo mio giovane amico ebbe la fortuna di entrare nelle grazie di un capo tedesco esclusivamente – di un capo di un comando importante – esclusivamente perché si era dimostrato capace, su sua richiesta, di tracciare determinate linee su di un quaderno dove questo capo, essendo a capo di un grande comando, il Baukommando, doveva scrivere le statistiche del lavoro giornaliero. Tramite questo amico Alberto, io ebbi tutta una serie di facilitazioni sia pure episodiche, sia pure momento per momento, che certamente mi aiutarono ad uscire vivo da questo inferno, anche se poi però la mia vita, proprio per il fatto di essere passato attraverso esperienze di ogni tipo fu molto condizionata dal caso, molto affidata alle circostanze casuali per le quali uno può vivere e morire proprio come getta i dadi su un tavolo verde.

D.: Senatore prima parlava di due fratelli spagnoli che l’hanno aiutata. In che modo?

R.: Dandomi qualche zuppa in più. In particolare in questo modo, e facendomi avere dei piatti di zuppa aggiuntivi rispetto a quella di rape del tutto acquosa e quindi assolutamente inconsistente, in cui si trovava qualche pezzo di carne in più. Essenzialmente in questo modo.

D.: Come si ricorda la liberazione di Mauthausen?

R.: Mauthausen venne liberata in due fasi successive. La liberazione ufficiale avvenne il 5 maggio del 1945, perché questa è la data in cui arrivarono gli americani in forze con le loro autoblinde, i loro carri armati al campo. Però le SS fin dal 2 maggio se ne erano andate ed avevano lasciato il campo nelle mani della polizia di Vienna. Quindi in un regime già meno vessatorio anche se la gente moriva ancor più di prima perché la denutrizione galoppava ed il campo, essendo diventato il punto dove erano affluiti dai campi circostanti o anche lontani, molti internati; erano arrivati ed anche grossi contingenti femminili, pullulava di gente in cerca di cibo.

Quindi la fame galoppava. I morti erano tanti ed aleggiava un’aria di decomposizione e di morte sopra questi campi. Noi ad un certo momento, dopo che le SS se ne andarono, riuscimmo a liberare il campo, a disattivare cioè il circuito elettrico, ad alta tensione nel filo spinato che circondava il campo e a impossessarci delle armi che erano all’armeria delle SS e poi anche in un’altra armeria, a distribuirle a coloro che erano in grado di cooperare con il comitato di liberazione del campo.

Perché lì c’era un comitato clandestino, che aveva funzionato anche nei periodi più bui, naturalmente estremamente segreto, che tuttavia era riuscito ad avere diciamo dei momenti organizzativi. Il fratello di Gian Carlo Pajetta, Giuliano Pajettta, faceva parte di questo comitato clandestino, quindi aveva una funzione, anche perché veniva riconosciuto a livello internazionale perchè nel campo c’erano – vi ho parlato degli spagnoli, ma c’erano anche molti superstiti, reduci, della guerra di Spagna e lui era uno di quelli.

Quindi il Comitato di Liberazione armò dei gruppi, delle squadre, alcune delle quali si posero in condizione di difendere il campo, perché c’era sempre il ritorno delle SS. I nazisti avevano il progetto di distruggere tutti i campi e questo progetto lo attuarono in molti casi, alcune volte li evacuarono, altre li distrussero.

Io credo che di molti campi si siano perse le tracce perché furono completamente distrutti. Naturalmente a Mauthausen non riuscì perché per uccidere decine e decine di migliaia di persone ci vuole tempo ed organizzazione e naturalmente mancavano il tempo e mancava l’organizzazione in questa fase convulsa del finale della guerra per fare un’operazione di queste dimensioni.

C’era in più anche da parte loro, finalmente, il bisogno di cercare di salvarsi e c’era anche e quindi si realizzò una situazione di questo tipo.

Feci parte di uno di questi gruppi ed il compito che mi venne assegnato, con il fucile a tracolla, o in mano o in braccio era quello di fare la guardia, anche di notte alle cucine, perché nel campo c’era ormai una torma di persone ridotte ad una vita puramente istintiva, quella condizione alla quale avrebbero voluto condurci i nazisti, proprio come uno dei loro elementi programmatici, il cui fine era quello di trovare cibo ad ogni costo.

Quindi se le cucine non fossero state presidiate sarebbero state invase e saccheggiate e questo avrebbe provocato ulteriori guai in una situazione nella quale il problema dell’alimentazione era diventato un problema drammatico. Quindi io feci armato la guardia alle cucine del campo di Mauthausen per impedirne il saccheggio.

Questo è il mio ricordo della liberazione del campo. Furono catturati alcuni dei capi nei dintorni da questi gruppi che si erano resi responsabili. Io ne vidi linciare sulla piazza alcuni. Io mi sono sempre rifiutato; nonostante tutto quello che ho subito avevo conservato tanta coscienza di me e senso di responsabilità per riuscire a comprendere nonostante tutte le sofferenze e tutta la fame che la via della ritorsione violenta era proprio quello che dovevamo cercare di evitare. Li vidi linciare, e quindi compresi le ragioni del linciaggio; era la naturale vendetta di chi aveva subito cose inenarrabili da parte di queste persone; molti riuscirono a farsi rendere prigionieri, non so bene quale sia stata la loro sorte. Quindi questo è il mio ricordo della liberazione del campo; so che subito dopo il comitato di liberazione del campo fu sottoposto anche a me; emanò un proclama a livello internazionale; perché vedete noi oggi parliamo tanto di Europa ma questi campi erano una riproduzione di unità europea perché c’erano tutte le nazionalità dell’Europa in cui il dominio nazista si era esteso; quindi in tutta Europa, direi fino al Caucaso o fino a Mosca e alla Norvegia; tutte queste nazionalità erano presenti nel campo. Direi che questa esperienza di unità europea nella sofferenza dell’annientamento e dell’eliminazione ha una grande (importanza).

Canestrari Alessandro

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Alessandro Canestrari, sono nato a Marano Lagunare, provincia di Udine, il 10 agosto 1915.

D:  Quando sei stato arrestato e perché?

R:  Mi hanno arrestato il 20 dicembre del 1944 perché ero il comandante del battaglione “Tregnago”, che io stesso fondai. Avevano il sospetto che io fossi l’artefice dell’atto di sabotaggio nei confronti del municipio di Tregnago, in quanto con un gruppo di altri partigiani lo avevamo bruciato per evitare il bombardamento aereo sullo stabilimento Italcementi. Il motivo di questo atto di sabotaggio, che mi fu richiesto dalla RYE, di cui facevo parte, consisteva nel fatto che nei pressi c’era un gruppo di una grossa divisione tedesca: sopra Finetti stavano facendo delle fortificazioni per arrestare l’avanzata degli alleati. Allora gli inglesi chiesero, tramite la RYE, di bombardare lo stabilimento dell’Italcementi di Tregnago.

Io convocai i pochi partigiani – erano pochissimi durante la lotta, diventarono tanti al 25 aprile del 1945 …

Pur essendo giovani di età, ci opponemmo al bombardamento dello stabilimento perché gli operai sarebbero rimasti senza lavoro, ed erano 225. Inoltre il bombardamento avrebbe provocato delle vittime civili. Siccome la RYE esigeva un atto di sabotaggio a motivo della presenza dei tedeschi nel paese, approfittai della situazione e dissi: “Bruciamo l’anagrafe con i documenti ed accontentiamo il comando della RYE!” Una notte, di cui non ricordo più la data, con le corde siamo saliti nella sala consiliare; io avevo in mano una latta di benzina, la buttai nell’ufficio anagrafe, naturalmente il fuoco si propagò, per fortuna arrivarono i pompieri e l’incendio fu domato: però tutti i documenti vennero bruciati.

Allora le Brigate Nere, ma soprattutto l’UPI, l’Ufficio Politico Investigativo, la cui sede era presso l’ex caserma del Teatro Romano dove pure fui prigioniero, ebbero sentore che il comandante dei partigiani fossi io. Naturalmente fui avvisato; approfittai di un fratello missionario comboniano che per un paio di giorni mi nascose nella casa madre di Verona dei Padri Comboniani. Sennonché quando vennero a casa, le Brigate Nere, non trovandomi, misero in prigione mia sorella Costanza, che era staffetta partigiana. Mia sorella aveva una gamba rigida a causa di un’operazione subita a 4 anni; quando seppi che mia sorella era stata arrestata al mio posto non vi dico il mio stato d’animo! Avevo rimorso; mio padre, pur essendo antifascista, mi accusava, della faccenda della sorella. Vagai un po’, nascosto a Verona, poi una certa sera, preso dalla nostalgia di mia moglie e del nostro bambino, tornai a casa.

La seconda notte, alle due del mattino, buttarono giù la porta e mi arrestarono. Mia madre uscì, aveva le trecce, i capelli lunghi, uscì in camicia da notte, gridando: “Siete voi la rovina dell’Italia!”; la risposta di un certo Pollastri fu: “Queste parole le pagherà suo figlio”; infatti mi diedero una bella dose di bastonature.

Mi portarono alla sede delle Brigate Nere nella scuola Sanmicheli di Verona, ed il giorno dopo nell’altra sede del Giardino Giusti, dove c’era quel famoso criminale, il capitano Gradenigo delle Brigate Nere.  Ero al Giardino Giusti il giorno 23 dicembre del 1944; Gradenigo mi disse: “Questo è il più bel regalo di Natale” e mi diede una dose di bastonate. Non sentii alcun dolore, pur avendo la schiena striata di nero e di rosso e sanguinante. Ne chiesi il motivo ad un medico dopo la liberazione: mi disse che era la tensione nervosa. Volevano sapere i nomi dei miei partigiani; sapevo che bastava un nome perché tutti venissero arrestati. Allora accusai i partigiani morti della “Pasubio” dell’incendio del municipio. Ringraziando Dio, avevo una lingua discreta, e mi aiutò la divina provvidenza, tanto è vero che sono decorato di medaglia di bronzo al valor militare per non aver rivelato niente di importante alle Brigate Nere.

Da lì mi portarono alla sede dell’UPI, dove subii un altro interrogatorio. Lì seppi che avevano ucciso il colonnello Giovanni Fincato, poi medaglia d’oro al valor militare. Dall’UPI finii al Forte San Leonardo, dove rimasi per 15 giorni circa. Dal Forte San Leonardo mi richiesero le SS e finii al palazzo dell’INA. L’interrogatorio delle SS fu pesante; avvenne mi pare al quarto piano. L’interprete tedesca, trovandomi con la lingua sciolta, mi chiese un sacco di cose; dissi di essere stato ufficiale di collegamento col maresciallo Rommel in Africa. In parte era vero ed in parte non era vero, perché allora ero solo sergente maggiore; la mia divisione, la “Trento”, era in contatto con la divisione tedesca; vedevamo spesso il maresciallo Rommel che portava sempre i guanti grigi anche in Africa, rispettato da noi perché era un grosso generale. Dissi che mentre il Re tradiva e scappava, dimenticando che centinaia di migliaia di soldati erano morti al grido di “Avanti Savoia!”, io facevo il partigiano soprattutto perché quando fui promosso ufficiale in Grecia davanti alla bandiera giurai fedeltà alla Casa Savoia. Questo fu il motivo per cui io, ancora il 9 settembre del 1943, andai alla ricerca di armi e cominciai ad organizzare Tregnago, Illasi, Selva di Progno, Badia Calavena, Calmiere, cioè la mia zona. Poi diventai il presidente del CLN mandamentale.

L’interrogatorio durò sette ore; inavvertitamente, parlando misi le mani sulla scrivania, e il tenente tedesco mi diede un colpo con la stecca e mi disse: “Educationen, educationen!”

Morale della favola, mi condannarono a morte. Immaginarsi, avevo le mascelle che battevano da sole! Ero giovane, avevo una moglie di 20 anni con un bambino di otto mesi. Andai in cella, eravamo 16 / 17 persone; c’era un frate, padre Corrado Toffano, morto  nel 1996 in odore di santità, sorrideva sempre. Ricordo un episodio che lo riguarda: un mattino, quando ero in campo di concentramento, le SS furono con noi particolarmente dure. Dissi a padre Corrado: “Padre Corrado, c’è un salmo nel breviario di cui non ricordo il numero in cui si maledice il padre ed il padre del padre”.  “Date le maledizion alle SS! – rispose padre Corrado, che parlava sempre dialetto – un prete benedice sempre, non maledice mai”;  mi colpì, lo ricordo con immenso affetto.

D: Che cos’era la RYE?

R: Informazione militare, comandata da militari, formata quasi tutta da militari; il comandante a Verona era il dottor Carlo Perucci, allora capitano. Si fece paracadutare sulle linee dei partigiani. Alla Liberazione lo accusarono di aver abbandonato i suoi aderenti, di aver fatto il professore. Alcuni anche lo accusavano, ma questo io non lo so, del fatto che non arrivavano mai i lanci ai partigiani. La RYE però, più che atti di sabotaggio, era incaricata di fare spionaggio. Quindi io parecchie volte ho dato al dottor Bonamini, che faceva parte della RYE, elenchi di armi che i tedeschi avevano in Tregnago, in particolare quel tipo di mitragliatore che chiamavano “la lingua di Hitler”.

Poi nel CLN fui istruito dal dottor Gianfranco De Bosio, che rappresentava il partito della Democrazia Cristiana. Andato nel campo di concentramento, ebbi la ventura e la gioia di conoscere il professor Perotti  che sapeva parlare di politica; noi non sapevamo niente. Ci parlò per la prima volta di marxismo, alla sera quando ci chiudevano nei blocchi. Girava il libro “Il Capitale” di Carlo Marx, che io lessi proprio in campo di concentramento. Ricordo che quando mi fermai sulle parole secondo cui la religione era l’oppio dei popoli, siccome io provenivo dall’Azione Cattolica, dissi a Perotti, che il comunismo non faceva per me.

Proprio alla fine, verso i primi di aprile (1945), si formò il CLN del campo. Siccome il partito della DC era già ricoperto dal professor Baroncilli, ma era libero il posto del Partito d’Azione, io immediatamente volli rappresentarlo.

D: Ritornando ancora alla RYE, chi la sosteneva? chi dava gli ordini?

R:  Il capitano Perucci era il capo, poi c’erano dei colonnelli, tra i quali il colonnello Andreani, che finì in campo di concentramento con me, medaglia d’oro al valor militare.

D: Prima hai parlato del giardino Giusti: cosa c’era al giardino Giusti?

R: Lì fui interrogato dal capitano delle Brigate Nere Gradenigo; lì si picchiavano i partigiani. L’interrogatorio non avveniva alle scuole Sanmicheli; alle scuole Sanmicheli c’era il carcere al piano sotto, e al piano sopra c’erano le Brigate Nere, tra cui bambini di 11 / 12 anni che dallo spioncino della porta puntavano la pistola contro i prigionieri e dicevano: “Partigiano, domani sarai morto!”. Lì c’erano anche le ausiliarie e il cappellano delle Brigate Nere don Calcagno, o padre Eusebio.

Siccome era Natale, mi pare padre Eusebio chiese chi volesse confessarsi. Nessuno di noi andò a confessarsi perché sapevamo che era il cappellano delle Brigate Nere, anche se il prete ha il segreto confessionale e non c’era motivo di avere dubbi, ma nessuno di noi si confessò.

Direi che sono stato trattato con maggior dignità dai tedeschi che non dai fascisti.

Le SS in campo a Bolzano picchiavano. Seppi da amici comunisti del campo che vi entravano armi. Io ero caposquadra cavi telefonici e un giorno ci fecero la perquisizione al nostro rientro dal lavoro. Il maresciallo Haage prese il mio portafoglio, che era un regalo molto bello di mia moglie da fidanzata, ne tolse la fotografia di noi due a Venezia coi colombi in mano, sulle spalle; dietro la foto avevo scritto “due colombi fra i colombi” e la data. Eravamo andati in viaggio di nozze a Venezia nel 1942, in piena guerra; ero venuto su dalla Grecia per sposarmi. Il maresciallo mi disse “Venise, ja Venise”, ed inspiegabilmente mi arrivò un gran sacco di pane, pane biscotto, con speck, uova sode, tanto è vero che entrai nel blocco G e dissi: “Putei, se magna!”, e distribuii. Probabilmente avrà avuto un ricordo di avventure veneziane, insomma mi trattò col massimo rispetto, al punto che alla fine di aprile arrivò a Bolzano mia suocera, che era di Trento, e quando alla guardia disse che cercava il prigioniero Alessandro Canestrari, la guardia lesse gli elenchi e disse: “Grande capo”: mi ritenevano un grande capo, invece ero un capetto, cosa da poco, avevo fatto il mio dovere e basta.

D: Con cosa ti hanno portato da Verona a Bolzano per raggiungere il campo?

R: Col camion.

D: Uno solo?

R:  Un solo camion, pieno, stipatissimo. C’era anche il professor Perotti, tre SS sedute dietro e due avanti col mitra puntato verso di noi. Lì c’è stato un episodio che racconto perché sono cattolico: quando passai sotto la Madonna della Corona, guardai su e mi raccomandai alla Madonna: “Se ritorno vivo, una volta l’anno verrò a trovarti”. Difatti adesso vado alla Madonna della Corona ad adempiere al mio giuramento, perché sono ritornato e perché mi ritengo miracolato.

D: E quando siete arrivati nel campo di Bolzano cosa accadde?

R: Quando arrivammo al campo di Bolzano ci fecero denudare. Eravamo pieni di parassiti, scherzando dicevo che c’erano pidocchi di varie qualità, alcuni avevano i baffi bianchi, altri i baffi rossi, altri i baffi neri … Ci portarono via tutti i vestiti e ci diedero una tuta bianca. Non avevamo la tuta a strisce dei campi di concentramento nazisti, bensì una tuta bianca col triangolo rosso e il numero di matricola.

Il mio numero era 9586. Penso che prima di morire ringrazierò il padreterno e poi dirò “matricola 9586”.

Perché? Perché non ti chiamavano più con il cognome ma col numero di matricola, e quando non rispondevi ti colpivano col calcio del moschetto alle reni.

Ricordo un episodio che capitò ancora a Verona al palazzo delle assicurazioni INA, presente anche l’amico Perotti, che potete leggere nel suo libro “Inferriate”. Una SS con una bottiglia vuota colpiva sulla testa un partigiano, giù nelle celle. Io gridai “Vigliacco!” alla SS: era roba dell’altro mondo! Ecco perché sono un miracolato. La guardia si fermò, era una SS italiana, disse: “Chi è stato?”; io avrei dovuto tacere ma ero un vecchio soldato e dissi: “Io”. Andai fuori, mi diede una botta in testa col calcio del fucile, andai a sbattere contro il muro. Non ero svenuto del tutto, e vidi il calcio alzato a darmi la seconda botta che mi avrebbe ucciso. Alla fine avevo sulla testa un bernoccolo talmente alto che un colpo di vento mi portò via il berretto.

Un altro episodio è narrato dal professor Perotti nel libro citato. Andando a lavorare a Gries presso Bolzano, sentii un bolzanino dire: “Centoventi divisioni sovietiche sulla Vistola”. Allora entrai nel campo e dissi: “Putei, hanno perso la guerra! 120 divisioni sulla Vistola!”

D: Sei entrato subito al blocco G?

R: Sì.

D: Nel periodo in cui siete rimasti  nel Lager di Bolzano, c’erano con voi anche dei religiosi deportati?

R: C’era frate Corrado del convento di via Baranna che è da ricordare, perché il suo arresto è avvenuto in conseguenza dell’asilo dato ad ebrei e partigiani; i frati assistevano gli antifascisti, e ne deportarono 5 / 6 con lui; ora ricordo padre Corrado perché era con me alle carceri di Verona.

D: Ricordi altri religiosi?

R: C’erano dei preti nel Lager; di uno, di cui non ricordo il nome, so che era stato arrestato perché non rivelava il segreto confessionale. Mi pare che fosse di Rovereto.

D:  Donne ne avete viste nel Lager?

R: Tantissime, ce n’erano di bellissime. Credo che fossero 2/300 dietro i fili spinati.

D:  Nel periodo in cui sei rimasto a Bolzano, hai avuto la possibilità di scrivere a casa o di ricevere posta da casa?

R: No, mai ricevuto niente e mai scritto niente. Solo al Forte San Leonardo abbiamo dato un biglietto al cappellano del carcere; era il parroco della chiesa dei 12 Apostoli di Verona. A lui abbiamo dato un biglietto, che però non arrivò a destinazione.

D:  Nel campo, a Bolzano, hai visto se c’erano anche dei ragazzi?

R: C’erano alcuni ragazzetti ebrei, presi a calci dalle SS, gettati a due metri di distanza, li ho visti con i miei occhi. Poi c’erano quelli che venivano da Fossoli.

Ad un certo momento arrivò la casa di tolleranza di Bologna, arrestarono tutti gli ultimi giorni, e c’era la curiosità di veder entrare le donne della casa di tolleranza, invece poi non le abbiamo viste.

D: In fondo al campo …

R: … c’erano le celle della morte, e da lì uscivano le grida dei torturati. Direi che ogni giorno abbiamo sentito gridare di dolore e di disperazione qualche amico; tra di essi c’era l’onorevole Arnaldo Coleselli, che fu deputato con me e senatore e parlamentare europeo, purtroppo ora deceduto. L’ho visto là un paio di volte quando usciva mezz’ora per cambiare aria. Nel 1958 quando andai a Roma come deputato lo incontrai nel transatlantico e gli dissi: “Tu sei stato in galera con me!”. Non sapevo come si chiamasse, me ne sono ricordato dopo anni e anni. Era l’onorevole professor Arnaldo Coleselli, deputato con me per 4 legislature, che poi passò una legislatura al Senato e divenne parlamentare europeo.

D: A proposito di nomi, il cognome  “Signorato” ti ricorda qualcosa?

R: Era proprio monsignor Signorato il parroco della chiesa dei 12 Apostoli, di cui parlavo poc’anzi.

D: Cosa avvenne durante la Pasqua del 1945 nel Lager di Bolzano?

R: Venne monsignor Piola, che celebrò la messa, e lì fummo assolti in articulo mortis e facemmo la comunione; ho portato il santino come ricordo.

D: Chi era monsignor Piola?

R: Monsignor Piola è quello che ha intimato la resa ai tedeschi il primo maggio (1945); ci disse che c’era l’ordine di Hitler di uccidere i prigionieri politici. Ma lui, almeno così disse, intimò la resa e volle gli elenchi di tutti i prigionieri. Alla Liberazione partimmo talmente in fretta – eravamo circa 4.000 persone – da sfondare la sbarra di legno del campo.

Il primo che incontrammo fu un maresciallo dei carabinieri, allora in dialetto dissi: “Putei, gh’è un carabiniere, semo liberi, semo in Italia!”

D: Sei rimasto tutto il periodo della tua deportazione nel lager di Bolzano?

R: No, sono stato a Gries per 15 giorni. Vicino a Castelnovale dove presi la febbre tifoide perché l’acqua, dove si defecava dentro, era inquinata. Gli ultimi 3-4 giorni con l’avanzata degli alleati ci riportarono al campo di concentramento di Bolzano, dove entrai cantando Va’ Pensiero.

D: Ti ricordi, quando eri fuori dal lager di Bolzano se vedevi un castello?

R: Si, era il castello di Castelnovale e lì vicino c’erano gallerie dove andavano per fare dei proiettili.

D: Quindi nella galleria era installata una officina?

R: Sì, nella galleria c’erano le officine per fare i proiettili.

D: Hai anche lavorato agli scavi per la posa di cavi con la tua squadra?

R: Direi che tutto il periodo l’ho passato zappando per le vie di Bolzano vecchia e Bolzano nuova.

A Bolzano nuova c’erano gli italiani. Andavamo anche a collocare le rotaie dei treni, dopo i bombardamenti, con quel tenaglione famoso con cui ognuno di noi doveva alzare 50 / 60 chili.

D:  Nel campo che hai descritto c’erano delle baracche?

R: Sì

D: E quanti eravate voi più o meno?

R: Lì ricordo un maresciallo molto umano; credo che fossimo circa 150 / 200 persone.

D: C’erano anche dei civili?

R: Sì, fuori dalle baracche c’erano le case dei civili.

D:  Lavoravate assieme a dei civili?

R: No, andavamo a lavorare nella galleria.

D: Cosa ricordi della Liberazione?

R: La Liberazione ci trovò nel campo di concentramento di Bolzano, dove fui liberato il primo maggio (1945). Ricordo che nessuno voleva prendere il documento di rilascio per la fretta, ma io, che ero un vecchio funzionario dello Stato, sapevo che ci volevano i documenti, e così mi fecero il documento di uscita dal campo di concentramento.

D: Venne distribuito a tutti?

R: A chi lo voleva; quel documento ci servì perché sulla strada trovammo delle SS in fuga e così esibendolo, non subii nessuna reazione da parte loro.

D: Hai accennato a Haage.

R: Ricordo che il maresciallo Haage era sempre elegante, anzi elegantissimo.

D: E i due ucraini li ricordi?

R: Ricordo che gli ucraini avevano sempre in mano il nerbo di bue ma non ho mai avuto nessun contatto. Mentre il tenente Titho, che era il comandante del campo, direi che l’ho visto un paio di volte.

D: E la donna che chiamavano “la Tigre”?

R: La ricordo: era una SS alta, con stivaloni e con pistola al fianco; aveva il cane che aizzava contro i prigionieri, era il terrore nostro.

D: Durante la tua deportazione nel Lager di Bolzano sei stato testimone di atti di violenza?

R: No. Però calci e parolacce erano all’ordine del giorno, intendiamoci: ci avevamo fatto il callo.

Invece devo dire che quando sono tornato a casa mia moglie non mi riconobbe perché ero calato a 48 / 50 chili. Mangiavamo i famosi “cingoli”, cioè verdura secca buttata in acqua bollente senza sale. Era una cosa nauseabonda, ci si chiudevano le narici per trangugiarla. Qualcuno nel mio blocco inspiegabilmente era riuscito ad avere alcuni dadi, e quindi nell’acqua buttavamo un pezzetto di dado salato, ma era una cosa rara.

D: Dal campo uscivano delle squadre per andare a lavorare?

R: Sì, le squadre di lavoratori. Io ero capo della squadra cavi, avevo un segno rosso al braccio sinistro.

D: E la tuta bianca?

R: La tuta bianca, il numero di matricola e, il comandante, un grado come soldato scelto italiano. Perché mi avevano scelto? Perché ero un ex ufficiale, quindi meritavo, ma dovevo dare l’esempio. C’erano le guardie altoatesine, più cattive direi dei tedeschi, tutte tranne un vecchio maresciallo. Mi ricordo un episodio: questo maresciallo mangiava un bel pezzo di speck, io ero lì che picconavo e guardavo questo speck; lui si girò per vedere se lo guardavo, mi tagliò un pezzetto di speck, lo buttò per terra, io lo presi e lo misi in bocca, in due secondi lo trangugiai. Era un maresciallo altoatesino piccoletto, vecchio.

D: A proposito di cibo: è vero che nel campo avevate dei soldi?

R: Sì ma non li ho mai presi, non si potevano neanche spendere, non c’era niente da comprare.

D: Quale fu l’attività del CLN all’interno del campo?

R: Non abbiamo fatto nessuna attività perché il CLN si costituì gli ultimi giorni in caso di sollevazione del campo. Ci conoscevamo noi cinque, nessuno sapeva niente, tenevamo il segreto.

Varini Franco

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Franco Varini, sono nato a Bologna il 5 agosto del 1926. Per la verità sono sempre vissuto a Bologna. Sono entrato nella resistenza direi quasi casualmente, ritengo di essere stato di uno tra coloro che per primi sono entrati quasi per gioco nelle file della resistenza. Prima eravamo un gruppo di ragazzi e abbiamo iniziato così, in sordina, poi dopo un certo periodo di tempo siamo stati inquadrati in una formazione partigiana, che è la quinta brigata Otello Bonvicini divisione Bologna, per il quale ho militato, militato fino a quando su delazione sono stato arrestato. Questo è avvenuto esattamente l’8 di luglio del 1944. Io ero stato preavvisato che stavano puntando i riflettori su di noi, su un gruppo di ragazzi del mio rione e pertanto questo avvertimento mi è stato fatto il 7 di luglio del 44, per cui un giorno prima del mio arresto. Ho avvertito i miei compagni i quali hanno provveduto a fuggire, io non potevo perché avevo una ragione particolare, avevo una grossa storia che mi ha quasi di fatto impedito di andar via con gli altri. Ho cercato un lavoro, concessione che mi è stata fatta da degli amici che gestivano un bar. Io sono andato in questo bar l’8 luglio del 44, fingendomi un loro lavoratore.

In effetti aiutavo, ma questo l’ho fatto solo per la mattina dell’8 di luglio, perché l’8 di luglio, un sabato del 44, mentre ero giù lì al lavoro in questa cantina, la sorella di uno dei proprietari di questo bar, amico mio, che mi aveva preso appunto in forze, tra virgolette, mi chiama e mi dice “scusa Franco puoi salire”, era una cantina interna al bar, allora erano cose un po’ diverse da quelle attuali. Io sono salito e come sono spuntato con la testa da questa sorta di scaletta che portava alla cantina, ho visto che tutti gli avventori del bar erano con le braccia alzate, all’interno c’erano dei militi della brigata nera, i quali mi hanno chiesto semplicemente come mi chiamavo, ho detto “Franco” “e poi?” quelli hanno detto Franco e basta? Sono uscito, per mia fortuna hanno dato al tutto un taglio spettacolare, dirò perché per mia fortuna, cioè mi hanno portato al centro della strada che era Viale Aldini di Bologna, un viale che ancora esiste e dove ancora esiste il bar nel quale sono stato arrestato, a braccia alzate questi quattro della brigata nera mi si sono messi di lato offrendo uno spettacolo di fatto a tutti coloro che assistevano. E dicevo perché è stata la mia fortuna? Perché mi hanno portato al loro comando, che era molto vicino, in via [san Mauro] parliamo sempre di Bologna, a circa 150 metri dal posto dove sono stato arrestato, mi hanno messo in una cella, sono rimasto circa un’ora, dopo di che mi hanno fatto salire su una macchina e mi hanno portato in via Santa Chiara, sempre una strada di Bologna nei pressi di Giardini Margherita, i grandi giardini di Bologna. Qui è vicino una palazzina, che poi in seguito ho saputo era stata requisita dalle SS, sono stato portato dentro. Mi hanno portato in questa palazzina, mi hanno portato nelle cantine che erano state trasformate di fatto in celle, mi hanno messo lì, dopo un certo periodo di tempo, parlo sempre dell’8, sabato 8 luglio 1944, mi hanno fatto salire e mi hanno portato in un ufficio. In questo ufficio c’era una sorta di gigante, un maresciallo delle SS, al tavolo sedeva un uomo dai capelli bianchi, che poi era l’interprete. Mi hanno fatto consegnare tutto quello che avevo, non avevo per la verità grandi cose: una chiave che era quella di casa, e le altre cose, documenti non so se poi l’avevo, adesso non ricordo esattamente, insomma tutto quello che avevo in tasca. E lì è cominciato l’interrogatorio. Interrogatorio fatto in uno strano modo, come probabilmente ne sono stati fatti un’infinità. Io non finivo nemmeno di dare la risposta alle domande che mi rivolgeva l’interprete che questo gigante, questo maresciallo delle SS ha cominciato a percuotermi. Era effettivamente un gigante, mi picchiava talmente forte che ogni tanto vacillavo. Mi appoggiavo al tavolo della scrivania per sorreggermi e l’interprete diceva di non farlo perché lui aveva un righello in mano, di quelli che si usavano in …, e mi colpiva ripetutamente sulle mani.

Io nella confusione per la verità debbo dire che anche a certe risposte alle quali avrei potuto benissimo dare immediata risposta direi, che non avrebbe danneggiato nessuno, rispondevo direi malamente, cioè anche alle domande se conoscevo, e mi facevano dei nomi ad esempio, personaggi che appartenevano al mio gruppo, Giorgi, Ferrucci, Magri, Tiziani ecc., io dicevo di no, era gente che abitava vicino a me, per cui dico veramente davo delle risposte molto sconclusionate. E per conseguenza percosse a non finire.

Prima ho detto che è stata la mia fortuna che il momento del mio arresto è avvenuto nel modo spettacolare che ho ricordato. Perché? Perché intanto io abitavo di fatto in un rione molto vicino al luogo dove ero andato a lavorare, il vecchio rione dei Mirasoli, qualcuno ha provveduto ad avvertire mio fratello che era renitente alla leva, nascosto in una casa, che non era la casa dove abitavo ormai da solo perché mia madre era morta e mio padre non c’era, vivevo praticamente da solo, questa casa era stata trasformata di fatto in un arsenale, era piena di armi, di queste cose.

Cosa han fatto? Finito questo interrogatorio che è stato, come tutti gli interrogati che hanno subito coloro che sono stati arrestati dalle SS, sono stato portato letteralmente da dei militari della PAI, Polizia Africa italiani che erano così, che erano in servizio, prese il comando delle SS, sono stato riportato in cantina. La mattina dopo, e questa è una cosa che io ho saputo in seguito naturalmente, perché ero giù, ero già agli arresti, verso le 4, quattro e mezza, le SS han circondato il rione nel quale abitavo e tutti gli uomini che abitavano in vicolo del Falcone, una strada che esiste ancora adesso a Bologna, sono stati arrestati. Naturalmente sono andati in casa mia, e per mia fortuna, cosa che ho sempre ripetuto e che ripeterò all’infinito, durante la notte mio fratello, assieme a due partigiani, che sono Magri, Tiziano, Giorgi e Ferruccio, hanno provveduto a vuotare completamente la casa, portando parte delle munizioni al comando della Gap di Bortolan, e le altre, perché ormai non ce la facevano, addirittura le hanno scaricate nei tombini, nelle chiaviche che c’erano nello stesso vicolo del Falcone. Di fatto quando sono andati in casa mia non c’era assolutamente niente, tutto quello che hanno portato via è stato una radio, che l’interprete poi, così direi con una di quelle che non si raccontano nemmeno, dice “questa radio” io lo guardavo “è la sua, ma le è stata sequestrata perché è stata trovata sintonizzata su Radio Londra”, immaginate un po’ se io ero talmente deficiente da sintonizzarmi. Questa è stata la prima esperienza. Io per 8, 9, 10, fino al giorno 10, tre giorni sono stato ripetutamente percosso, tant’è che mio fratello, quando il giorno dopo trovando addirittura, attraverso la resistenza, la possibilità di avere una divisa militare e dei documenti, è venuto alle SS, quando io l’ho chiamato mio fratello mi ha guardato e ha stentato a riconoscermi, talmente avevo il volto rovinato dalle percosse.

Morale della favola: il giorno 9 luglio tra gli arrestati c’era Giorgio Spada, un altro membro della resistenza, naturalmente io avevo sempre negato di conoscerlo, di appartenere ecc. ecc., perché tra l’altro le imputazioni che mi erano state rivolte erano gravissime, pluriomicidio e tutte le cose che solitamente vengono addebitate, che però non mi appartenevano i reati che mi venivano contestati, per cui mi sentivo abbastanza tranquillo. Quando il giorno dopo, il 9, durante un altro interrogatorio, io sono stato obbligato a mettermi in un angolo, su una sedia girato di spalle, mentre dicevano a questo mio compagno, che poi è venuto, mi ha seguito fino a Fossoli, Giorgio Spada, dicendogli “Franco Varini già praticamente ha confessato tutto”, e quando io ho cercato, lui mi implorava, diceva “ma che cosa hai confessato che effettivamente non abbiamo fatto niente?!” io ho cercato di voltarmi, mi ero stato ordinato di non farlo, e allora uno dei colpi che mi è stato sferrato e sono andato a finire addirittura in un angolo.

Voglio ricordare comunque che era presente all’interrogatorio molto direi coinvolto, sorridente, direi quasi felice, un ufficiale delle SS che era senza un braccio. Io non sapevo che si trattava, e questo l’ho scoperto in seguito, del maggiore Walter Reder, che è l’autore della famosa strage di Marzabotto. Comunque non gli interessava molto del mio caso.

La mia fortuna è stata comunque questa: 8, 9 e 10 percosse a non finire, fino a quando è arrivato, è stato portato davanti a me un sergente delle brigate nere che frequentava il nostro locale, il quale era colui che mi aveva fatto arrestare. Quando questo tipo si è trovato davanti a me, l’SS ha detto qualcosa all’interprete, il quale in italiano mi ha detto “riconosci in quest’uomo la persona che lo ha disarmato, che avrebbe?” lui ha avuto un attimo di incertezza, dice “era sera, non mi pare di riconoscerlo molto bene”, in quel caso probabilmente la Madonna di San Luca, protettrice dei bolognesi, ha messo una parola buona perché mentre l’interprete riferiva alle SS quello che era stato detto, l’SS alzando il tono di voce, probabilmente ha detto ancora all’interprete di ripetere la domanda, e questo forse intimorito delle conseguenze che poteva, ha tornato a ripetere, ho il mio volto devastato o che so io, ha tornato a ripetere “ma io veramente era di sera e non sono in grado con certezza”, e quello in quel momento è stata la mia fortuna, lui è stato quasi brutalmente portato fuori dalla camera, dall’ufficio dove si svolgevano questi interrogatori, io sono stato riaccompagnato nella cella, naturalmente ancora una volta privo di sensi, perché io non ero un eroe, ero un ragazzo che aveva 17 anni e mezzo e che voleva continuare a vivere. Riconosco che non era un Enrico Toti, non ero certamente uno dei grandi eroi della resistenza ma un ragazzo che aveva solo paura di morire e voglia di vivere.

Quando il giorno 11 sono stato riportato nell’ufficio degli interrogatori tremavo, ho avuto invece un attimo di, direi di sensazione particolare, perché ho visto, ho intravisto perché avevo anche un occhio semichiuso ecc., che il maresciallo dell’SS che mi aveva percosso sedeva sulla poltrona e l’interprete si rivolgeva nei miei confronti direi in un modo tutto particolare. Dicendomi al termine di tante parole che non ricordo: adesso lei firmerà questi documenti e le debbo comunicare che la sua condanna a morte, della quale io non sapevo certamente niente, è stata trasformata in lavori. Io pensavo, sul momento forse ho pensato alle donne tedesche, le patate ecc., poi probabilmente senza nemmeno ringraziare sono nuovamente crollato. E poi sono stato portato nuovamente in cella.

Il giorno 11 è stato l’ultimo giorno che io ho trascorso nelle celle delle SS di Via Santa Chiara. Dopo di che il 12 di mattina ero solo nella cella, perché il giorno prima due fratelli bolognesi, due eroi della resistenza bolognese e un giovane che era stato trovato con un’arma, un’arma scarica, erano stati giustiziati, cioè uccisi, mi spiego? questo l’ho saputo in seguito naturalmente. Ero solo in questa cella quando è stata aperta la cella verso le quattro e mezza, adesso non ricordo perché l’orario non sono in grado di darvelo, non c’era il campanile che abbiamo in questa nostra bella città che mi può dare l’ora. Sono stato portato fuori, c’era un camion vuoto con 4-5 delle SS. Non ho pensato nemmeno lontanamente che mi portassero alla fucilazione. Ho guardato in alto, c’era un cielo stellato, ho invocato mia madre perché non avevo tanti protettori in alto, allora dico se mi dava una mano.

Siamo andati con questo camion, siamo arrivati, cioè mi hanno portato davanti al carcere di San Giovanni in Monte, qui hanno caricato un’altra trentina di prigionieri, e via, siamo partiti. Quando siamo passati sulla Via Emilia, questo è un fatto che voglio ricordare perché particolare, ad un certo momento il camion era scoperto, le SS sedevano sui lati del camion, uno ha detto “l’abbiamo passato”, io sul momento non l’ho nemmeno capito, stavamo facendo la Via Emilia, voleva dire “abbiamo passato via Gucchi” che era la strada dove c’era il poligono di tiro, per cui dice qui non …

Siamo arrivati nel campo di concentramento di Fossoli, a Carpi di Modena, il 12 luglio del 44. Una data che va ricordata, perché il 12 luglio del 44, quella stessa mattina alcune ore prima erano stati portati fuori dal campo 70, anzi 69 perché uno di loro, Teresio Olivelli riuscì a nascondersi, e altri due riuscirono a fuggire, gli altri sono stati fucilati a… Questo è un po’, e arriviamo, qui siamo a Fossoli.

Nel campo di Fossoli mi sono direi, debbo dire la verità qualcuno ha raccontato cose forse diverse da quelle che io posso oggi ridere, non è che mi sia trovato malissimo, però alcuni giorni dopo, dopo esser stato rapato ecc. ecc., dormivo comunque su un letto da solo, e direi mi pareva che tutto il mondo ormai si fosse, le acque del mondo si fossero acquietate, ho chiesto un attimo ai miei compagni come andavano, perché avevo incontrato, oltre quello che avevano arrestato, altri miei amici, Felletti, insomma altri membri della resistenza, come andavano le cose “mi pare che qui vada tutto bene” dice “senti il giorno che siete entrati voi hanno fucilato quella gente”, e in giugno Leopoldo Gasparotto è stato giustiziato con un colpo alla testa. A me dissero che l’aveva ucciso il maresciallo Hans Haage che era il vice capo-campo, comandato da Tito ecc., dico e invece poi pare che sia arrivata una macchina, ma queste sono cose che non sono in grado di raccontare perché racconto solo quello che ho vissuto e che ho visto personalmente. A Fossoli sono rimasto fino al 5 agosto, una data che non posso certamente dimenticare, perché ricorreva il mio diciottesimo compleanno. Perché sono rimasto a Fossoli? E questo è un fatto che anche questo mi debbo assolutamente ricordare, perché debbo a Odoardo Focherini, che era nel campo, il quale poi tutte le sere, un uomo eccezionale, che mi incoraggiava continuamente, “coraggio topolino”, direi il nomignolo topolino me l’ha affibbiato lui, “stai tranquillo che ce la facciamo”. Quando verso il 20 di luglio, forse lo stesso giorno dell’attentato, hanno fatto un’adunata generale nel campo di Fossoli dicendo che chi voleva andare libero lavoratore in Germania si fosse reso disponibile. Però, l’adunata era stata fatta giorni prima, scusate, di quella data, chi era malata, chi era portatore di determinate malattie non doveva assolutamente dare la propria disponibilità. E qui Odoardo Focherini mi ha detto “tu non hai avuto nessuna malattia”, parlando del più e del meno io gli ho detto “ma, sai malattie, una serie di cicatrici dovute a dei disturbi di natura direi tubercolare” “tu dì questo”, e io ho raccontato che ero di fatto ammalato di tubercolosi ossea, per cui sono stato immediatamente scartato. Il buon Odoardo pensava in questo modo che chi rimaneva nel campo poi sarebbe stato liberato. Siamo rimasti in una trentina circa, questo dicevo fino a quando, dopo che erano partiti il 22, mi pare, di luglio, questi, il 22 di agosto scusate, questi che avevano dato la propria disponibilità, noi siamo rimasti in quel campo fino al …

No scusate ho fatto confusione, il 5 agosto ci hanno fatto il trasferimento nel campo di Bolzano, Gries, un campo di concentramento. Io voglio ricordare un fatto che non è purtroppo stato ricordato da nessuno ma che io sempre voglio ripetere: nel campo di Fossoli, faccio un passo indietro, Odoardo Focherini ci aveva consigliato che in caso di allarmi aerei ecc. ecc., noi ci dovevamo portare vicino ai reticolati perché probabilmente gli alleati avrebbero spezzonato, buttato, e noi abbiamo creduto a questa che è stata poi una leggenda, dovevano arrivare i partigiani che non sono arrivati, doveva intervenire la chiesa che non è intervenuta. Io comunque una sera corro in fondo a una baracca, quando giro l’angolo della baracca, perché c’era stato, era in corso un allarme aereo vedo un uomo, capelli neri, vestito di grigio, ricordo come fosse adesso, scarpe da tennis ai piedi, io mi fermo un attimo e dico “buonasera”, non l’avevo mai visto, quello doveva essere, o era un SS vestito con abiti civili o era uno che era dentro al campo, non sapevo che si trattava di Teresio Olivelli, colui che era stato nascosto nel campo. Lui disse “buonasera”, finisce tutto, lui sparisce, io rientro in baracca e corro subito da Odoardo Focherini, ormai eravamo rimasti in pochi, Odoardo Focherini era ormai il capo carismatico di questi, e gli dico “Odoardo sa che ho visto”, io davo del lei e lui, e Odoardo per la prima volta mi disse “che cosa hai visto? ci siamo solo noi, ma tu stai sognando!”. E io insisto, e per la prima volta, ripeto, Focherini è stata abbastanza duro, mi ha detto “tu non hai visto niente, nessuno, adesso la pianti”. Se poco mangiare ti fa addirittura, adesso la finisci e basta, non hai visto nessuno. Io a questo punto ho detto “va be’ non ho visto nessuno”, sono tornato tranquillo, e qui arriviamo al momento del 5 agosto.

D: Scusa, ti hanno immatricolato a Fossoli?

R: No io, mi hanno immatricolato ma non ricordo il numero di matricola. Arriviamo il 5 agosto, veniamo trasferiti con corriere, e questa è una delle poche volte che è stato detto, i Focherini ne hanno avuto conferma dalle lettere, dai biglietti che Odoardo mandava fuori. Ci hanno trasferito a Bolzano. A Bolzano il trattamento era abbastanza, era molto diverso, ormai eravamo già non dico in un lager ma eravamo già in un campo abbastanza pesante, delle docce che venivano fatte addirittura alla mattina con dei tubi di gomma.

Alcuni giorni dopo la mia permanenza a Bolzano, siamo tutti lì nel campo, fuori dalle baracche, quando improvvisamente i cancelli si aprono, uno stridore di freni ecc., entra una mercedes nera, io sono contro le Mercedes ma non perché sia un ferrarista, perché proprio la Mercedes mi è rimasto sul gozzo, escono da questa Mercedes 3 o 4 SS e tra questi vedo l’uomo, l’uomo, aveva 36-37 anni, a me sembrava, che ero un ragazzino, l’uomo che avevo visto era Teresio Olivelli, completamente col volto tumefatto, sanguinava ecc. ecc. Quando io sono corso a cercare Focherini, gli ho detto “guarda che l’uomo che è arrivato era quello che ho visto là”, Focherini ha cominciato a piangere, mi ha preso così e mi ha detto “sì era l’uomo che noi avevamo tenuto nascosto in una baracca”, e probabilmente Focherini era uno di coloro che eroicamente, nonostante che a casa avesse 7 figli, o 6 figli, adesso non ricordo bene, aveva provveduto a mantenere. Naturalmente nel momento in cui noi ce ne siamo venuti via secondo il mio punto di vista, io non ho certezza, non ho documentazione in proposito, Focherini ha affidato all’unica persona che rimaneva nel campo, che era uno stalliere claudicante, avrà affidato l’incarico dandogli un compenso, di proteggere Teresio Olivelli, senza dubbio di dar da mangiare a Tereso, probabilmente, io non ho mai visto arrivare lo stalliere su a Bolzano, e lo stalliere probabilmente in cambio della propria libertà ha consegnato Teresio Olivelli alle SS, perché questa è la cosa che io ho sempre pensato perché non ho certezze in proposito.

A Bolzano ci rimaniamo fino al 5 di settembre del 1944. Poi la mattina del 5 settembre veniamo portati in una stazione ferrovia, quella di Bolzano naturalmente, stipati dentro a dei vagoni che vengono piombati, ormai questa è una storia che tutti conoscono e che hanno visto, e via verso destinazione ignota. Naturalmente sul fatto del comportamento della popolazione tedesca io cito un piccolo episodio, che non vuole essere naturalmente, perché non tutti i tedeschi erano nazisti, questo va ricordato, pare che circa 700 mila tedeschi siano tra coloro che sono morti nei campi; e non va dimenticato che i primi 12 mila che sono andati a Dachau e che hanno iniziato, erano tedeschi, naturalmente oppositori del regime nazista.

Volevo dire siamo arrivati in una stazione, durante questo viaggio, ci alternavamo, c’era una finestrella nei vagoni ferroviari che c’è ancora, ma allora c’aveva un particolare: c’era del filo spinato. E allora ci alternavamo a questa finestrella, ci davano un po’ il cambio per respirare un po’ e vedere qualcosa fuori. E in questa stazione, che io ho detto era Monaco di Baviera, qualcuno può dire anche un’altra stazione, ma non è importante, era affacciato uno dei fratelli De Cassani, non so era … Arduino, erano due fratelli che erano con me. Ad un certo momento vedo che si ritrae, era assieme ad altri. Io dico “cosa succede?” perché vedo che c’è un gesto direi di un certo tipo, dice “ma fuori ci sono dei civili, che probabilmente stanno chiedendo chi sono coloro che sono nei carri” alla risposta che ricevono dalle SS sputavano contro le finestrelle. Ma dico probabilmente sarà qualcuno che era fanatico, ne abbiamo avuti tanti noi.

Il 7 settembre, e qui non facciamo confusione perché le date sono effettivamente quello che io ho fissato in modo indelebile nella mia mente, andiamo a Flossenbürg. Ci fermiamo, facciamo un tratto di strada, una salitella che ci porta all’ingresso del campo, e io ricordo il mio ingresso in questo campo: al centro avevamo Bortolotti, da una parte di Bortolotti c’era Franco Varini, il sottoscritto, dall’altra Giuseppe Marrani. Bortolotti veniva sorretto da Franco Varini e da Giuseppe Marrani perché ormai era cieco. Bortolotti che era stato arrestato, al quale avevo promesso che sarei andato poi a trovare la sua famiglia perché lui aveva certezza che io ce l’avrei fatta, cosa che io invece effettivamente, purtroppo, perché bisognerebbe tornare, cioè andare avanti nel tempo, sono tornato in condizioni disastrose, va be’, non voglio giustificarmi. Siamo entrati in questo campo, io sono rimasto subito sconvolto dall’immensità del campo, ci hanno fatto denudare completamente, io non avevo molto da perdere, non avevo neanche, ve lo debbo dire, un senso di pudore particolare, un ragazzo di 18 anni, nato e vissuto in un rione a quelle cose, ma vicino a me c’erano uomini che avevano 65-70, forse lo stesso generale Armellini ne aveva forse più di 90, perché so che è morto che aveva circa 100 anni, tutti siamo stati, e poi ci hanno messo dentro a delle grandi docce. Queste docce avevano delle finestrelle attorno, avevano un gradino per scendere direi nella zona chiamiamola così della doccia vera e propria. Tutti stipati sotto, le finestrelle erano chiuse, han cominciato ad aprire l’acqua, che era caldissima, non potevi uscire perché attorno c’avevi i kapò, i famosi capò che comandavano di fatto all’interno dei campi, con i loro Gummi, con i loro bastoni ecc. ecc. gomma fuori, gomma grossa fuori e fili di acciaio, di ferro, non so bene, all’interno, ti ributtavano dentro. Finito questo primo momento di tormento incredibile, ferma l’acqua calda, diciamo “è finita”, fanno aprire le finestrelle e comincia invece il getto d’aria fredda. Niente, finito questo calvario, siamo usciti semi-nudi, siamo andati vestiti così poi alla rinfusa, e da quel momento, e questo l’ho appreso dopo, l’ho appreso addirittura quasi 50 anni dopo che mi era stato assegnato il numero, che avevo dimenticato il nome e il cognome, era il 21.778, io ero a Flossenbürg ero il numero 21.778. So solo che è stata una cosa terribile, io credo che uno dei campi peggiori, si è detto al processo di Norimberga, nel famoso processo contro i gerarchi nazisti che Flossenbürg era considerata la fabbrica della morte, in effetti io credo che fosse la fabbrica della morte. La sera riusciamo finalmente a prendere possesso, sempre tra virgolette, passatemi il termine, della baracca, dove in castelli a tre piani venivamo collocati in tre in ogni piano. Io chiedo ad un certo momento a Teresio Olivelli, che poi è diventato il nostro interprete, ed è stato l’uomo che ha salvato un’infinità di persone, un eroe veramente, gli dico “scusa Tereso”, forse gli davo del lei, non ricordo, adesso posso dire così “io dovrei andare in latrina”. Disse “tu adesso esci, vai avanti verso la torretta, quando ad un certo momento finisce il fascio di luce, ti fermi, vieni inquadrato dalle SS e tu, in tedesco, me l’aveva già detto il nome, ripeti il tuo 21.778 dopo esserti tolto il …, il cappello. Quello borbotterà qualcosa, tu sulla destra hai le latrine“. Lo spettacolo al quale ho assistito, che non mi ha provocato l’infarto, io dico probabilmente avevo un cuore d’acciaio, quando ho aperto questa cosiddetta latrina, che è immensa, una baracca immensa, al centro di questa latrina c’era un’enorme apertura, dove probabilmente davano dei solventi, una panchina correva tutto attorno, e una specie di corrimano, se avevi un certo tipo di bisogni ti sedevi sulla panchina e facevi il tutto. Solo che la cosa che mi ha colpito è che attorno tutto attorno c’erano uomini morti, scheletri tutti attorno. Quella – in seguito l’ho saputo – era la latrina obitorio, quando durante il giorno non riuscivano a portare via tutti i detenuti, li fermavano lì, dopo avergli fatto, li lavavano, le bagnavano, gli scrivevano il numero di matricola e sotto … secondo la nazionalità, dopo di che li mettevano. Io ho aperto, ho guardato un attimo, ho chiuso la baracca, i miei bisogni fisiologici sono scomparsi, sono rientrato nella baracca mia, dopo aver ripetuto la famosa sceneggiata, ho avvicinato Olivelli gli ho spiegato la cosa, ho detto “io non andrò mai”, e lui ha detto “è questione di tempo Franco, topolino ce la farai”, ormai era il mio nome. E infatti il giorno dopo o due giorni dopo io ero lì così, guardando i poveri morti, i poveri compagni morti tutti attorno ecc., a soddisfare le mie esigenze. La vita in questo campo iniziava per noi deportati alle 4 e mezza di mattina, fuori di corsa “…”, fuori di corsa dalle baracche, sveglia, fuori, adesso lo dico in italiano perché non tutti sanno il tedesco, è una lingua abbastanza dolce, soprattutto pronunciata da questi capò, tu uscivi di corsa dalle baracche, mi spiego? tanto che loro molto direi sorridenti muovevano i loro Gummi per bastonarti, io debbo dire che ne ho prese poche, ma non perché fossi più abile degli altri, perché avevo 18 anni, perché ero un giovane, un giovane che … Fuori, stavamo tutto il giorno fuori, la mattina ti davano una sorta di gamella, di contenitore di ferro che non era neanche smaltata, era tutta arrugginita ecc. ecc., con qualcosa dentro che non ho mai saputo per l’esattezza che cosa fosse, tu bevevi sta roba. Mi ricordo che i primi tempi in questa baracca il nostro convoglio ho scritto un libro nel quale dico “eravamo in 450”, ho sbagliato, perché dagli archivi storici di Washington, cioè quelli requisiti dalla terza armata di Patton, che ci ha liberati, è risultato che eravamo invece solo 448, ho sbagliato di due unità, purtroppo non ho contato bene in quanti eravamo.

Che cosa è successo? E’ successo che i primi tempi per i 450 non c’erano a sufficienza i contenitori per mangiare, allora mangiavamo, passavamo agli altri. I primi tempi io non è che facessi direi il sofisticato, ma cercavo, poi dopo mi ricordo che il terzo, quarto giorno ho cominciato anch’io, scusate, a leccare la mia gamella, questo avveniva la mattina, a mezzogiorno ci davano delle cose che non so bene di che cosa si trattasse, e così alla sera. Stavi fuori tutto il giorno, e continuamente venivano ripetuti gli appelli, cioè 21.778, sempre in tedesco, veniva ripetuto un’infinità di volte, l’interprete, il grande Teresio Olivelli, ripeteva lui quando non eravamo pronti, dopo in seguito ce la facevamo, ma i primi giorni ti toglievi il cappello e dovevi dire “jawohl” e questo veniva ripetuto tutto il giorno. Questo era, la cosa più tragica è che purtroppo tanti che sono stati a Flossenbürg o hanno dimenticato o non vogliono ricordare, io li capisco, avviene la domenica, la prima domenica che passiamo nel campo, dopo una settimana, 3, 4, 5 giorni trascorsi nel modo che vi ho detto, la domenica non usciamo. Siamo in baracca. Cosa avviene? Nessuno di noi sa con certezza che cosa avverrà, ci fanno uscire, sempre urlando incolonnati, ci portano sotto un immenso tendone, in piedi, tutti in piedi, in fondo c’era una sorta di palco, escono dal fondo degli zebrati, degli internati zebrati, i quali ci propinano una musica che ricordo, perché in seguito ho lavorato nel teatro per tanti anni, wagneriana, infatti ho sempre odiato Wagner, mi perdoni, proprio perché dico vi immaginate, io ho pensato, pur non essendo una cima e non essendo molto addentro alle cose, all’essere umano, alla sua anima ecc., ho pianto.

Io ho cominciato a piangere, a freddo. Mi sono reso conto forse in quel momento non tante delle percosse ricevute, ma del sadismo, della bestialità di questa gente, la quale ti trattava in quel modo, sotto l’acqua, … e poi per un paio d’ore ti dovevi sorbire in piedi la musica wagneriana. Questa è stata l’esperienza che …

Fortunatamente dopo un certo periodo di tempo, noi eravamo utilizzati nella cava che c’era vicino, che era praticamente dentro lo stesso lager di Flossenbürg, fino a quando un bel giorno ci chiamano tutti e dicono: coloro che sono degli specialisti, coloro che sono in grado di svolgere un lavoro di meccanica e di alta precisione possono alzare la mano, i quali verranno sottoposti.

Attenzione – disse Olivelli – questi stanno dicendo che se voi dite di essere degli specialisti e non lo siete, è finita, è bene che diciate la verità. Io mi ricordo in quel momento di aver frequentato l’istituto tecnico a Bologna, per cui dico “io tento”, e alzo anch’io la mano e mi metto tra gli specialisti.

Ci portano tutti in fila coloro che avevano dato la propria disponibilità come specialisti. In fila passiamo davanti a un signore che ho appreso dopo che si trattava di un ingegnere italiano di Milano, un volto che io ricordo sempre, perché è stato un volto umano, veramente io non conoscevo quest’uomo, mi han detto dopo che era un ingegnere, forse era solo un geometra, ma non ha molta importanza. Sono arrivato davanti a lui aspettando che questi mi rivolgesse domande di un certo tipo, ha alzato un calibro e mi ha detto “sai che cos’è questo?” gli ho detto “sì è un calibro”, “benissimo”, e sono diventato specialista, adatto cioè ad andare nelle fabbriche che costruivano gli apparecchi, i famosi Messerschmitt dell’Ufflans. Allora va be’ sono diventato specialista. Dopo alcuni giorni le solite cose che sapevano fare molto bene le SS, “specialisti con me” poi ci portavano in cava fino a quando viene veramente il momento in cui dicono “specialisti con me”, ed è veramente il giorno in cui ci mettono, ci caricano su dei camion e ci portano ad Augsburg, dove esisteva una delle più grandi fabbriche di aerei delle Messerschmitt. A questo punto ci portano là, veniamo trasportati, addirittura mi ricordo, perché i ricordi poi riaffiorano nel tempo, che eravamo addirittura alloggiati presso una caserma militare dell’aviazione tedesca, ci portavano la mattina via con un trenino fino in questa fabbrica, lavoravamo tutto il giorno, dentro, ecc. ecc., tutti i giorni eravamo bombardati, pre-allarme fuori i civili, allarme quando già bombardavano fuori noi con le SS di fianco, e ci portavano dentro dei bunker.

Noi andavamo lì, più stavamo nei bunker e più eravamo felici, perché tanto dicevamo lì, qui siamo tranquilli, eravamo seduti là dentro, le SS sulle porte. Che cosa succede? Che verso l’8, il 9, adesso non ricordo bene, forse il 7, ma sono date che non sono molto importanti, noi in questo bunker ci stiamo addirittura una cinquantina d’ore, perché gli aerei alleati, e questa è storia, avanti e indietro dalle loro basi, hanno distrutto completamente tutto quello che era nei campi d’aviazione, gli hangar, le officine, tutto. Tant’è che quando usciti da lì ci hanno poi portato in un altro sottocampo, io ho appreso dopo che non ero più in forza al lager di Flossenbürg ma che Augsburg era sotto il campo di Dachau, e pertanto anche nell’altro campo nel quale mi hanno portato Kottern, che era vicino a Kempten, sono i due campi ecc., ero già in forza a Dachau con il numero 117.065, ero diventato già titolato, mentre prima avevo solo 5 cifre, lì mi avevano cresciuto di grado probabilmente, da 21.778 ero diventato il 117.065. A Kottern ha continuato a lavorare, io recentemente pensate, dopo tanti anni, grazie ad un’amica francese ho cercato di rintracciare due francesi, Andree Pittau, che adesso c’ha tutta una documentazione che mi è arrivata, e Jan Legauf, che grazie a loro io sono riuscito, parlo di Kottern, a sopravvivere, perché? Perché erano coloro ai quali avevo confessato, Andree Pittau era un italo-francese, che io non ero troppo bravo a fare certe cose. Allora cosa succedeva? Che stando molto attenti alle SS Pittau faceva il pezzo che era quasi simile al mio, poi Pittau mi passava il suo e io gli davo il mio che era una schifezza, voglio dire in modo buono, e ci pensava Andree. Io recentemente ho cercato, e la moglie di … Pittau mi ha scritto dal posto dove abita dicendo che purtroppo il marito, che è stato anche insignito della legion d’onore ecc. ecc. ecc. è morto, e pertanto non sono riuscito a riprendere contatto. Mentre sto ricercando ancora Jean Legauf, che mi han detto addirittura che è stato un esponente del governo di De Gaulle, ma a parte questo che non è molto importante io cercavo questi due amici perché assieme a loro io ho vissuto tutta l’esperienza di Kottern, dall’ottobre, così dicono i documenti che ci hanno mandati gli alleati, requisiti e richiesti e ottenuti da due giovani di Flossenbürg, che significa che i tedeschi sono molto bravi, i giovani tedeschi sono molto bravi, e bisogna dirlo con forza questo, loro hanno richiesto a Washington, i quali 50 anni dopo solo gli hanno mandato la documentazione. Per cui è risultato che a Kottern io sono stato fino al 27 di aprile.

D: Lì lavoravi dove?

R: Lavoravo in una fabbrica che anche lì si produceva sempre aerei, pezzi per aerei, io credo se han montato qualcosa di mio quell’aereo non si è alzato, oppure è precipitato, io me lo auguro, credo che grazie ad Andree abbiano potuto proseguire. E sono rimasto con questi due amici, ci tengo veramente a ricordare anche questi due cari personaggi, che sono Andree Pittau e Jean Legauf, perché? Perché con loro ho vissuto tutte le fasi della liberazione, fasi che sono state veramente da sole materia per non una storia, io direi proprio per un film. Pensate che ad un certo momento il 25 di aprile, io ricordo questa data, del 45, ormai sentivamo già i cannoni, gli alleati che erano vicini ecc., non ci portano in fabbrica ma ci fermano nelle baracche. A proposito di fabbriche io forse non ho detto che in questa fabbrica ho vissuto anche l’esperienza di mangiare dell’erba, consiglio a coloro che si trovano in difficoltà finanziarie o con scarsità di viveri. Perché lo ricordo? Perché quando ci portavano dalla fabbrica, anche lì allarmi aerei ecc., noi avevamo fatto, c’era un sentiero che io ho ribattezzato “il sentiero dell’erba” perché ci tenevamo, stando molto attenti alle SS, e non seguendo i consigli dei medici che erano con noi nei campi, raccoglievamo l’erba da terra che poi nascondevamo, la mettevamo sotto agli armadietti, in fatti una volta me l’hanno rubata e ho pianto, perché alla sera con l’erba, il brodo ecc., veniva una minestra di verdura che credo di non averne mai mangiate di uguali. Allora dicevo tornando a quella, il 25 di aprile del 45, quelli non ci mandano in fabbrica, ma rimaniamo dentro alle baracche. Di sera ci incolonnano, siamo circa duemila, anche questo è storia, non lo dico io ma lo dicono gli alleati che ci hanno liberati, ci portano fuori di notte, perdiamo tutto quello, una coperta ciascuno e la gamella, la famosa gamella nella quale si mangiava, da noi il cucchiaio l’avevamo, il cucchiaio insomma, non pensate che fosse argenteria o che fosse d’oro massiccio come ho mangiato in una ambasciata, una delle nostre ambasciate, ma erano cucchiai di fortuna e ci hanno portato fuori. Noi viaggiamo tutta la notte a piedi, quando viene alle prime luci del giorno fuori, ci portano fuori della strada in mezzo a dei boschi, in quella zona era pieno, … era pieno di boschi ecc., nascosti lì. Rimaniamo lì ancora tutto un giorno, il giorno dopo, il giorno dopo, dico noi pensiamo qui adesso cosa succede? cioè noi rimaniamo lì tutto il giorno, la sera fuori ancora, fino a quando il giorno dopo non aspettano niente, ci portano fuori dal bosco ormai probabilmente gli alleati erano a pochi chilometri, ci incolonnano in mezzo alla strada. Noi abbiamo ancora attorno coloro che ci badano, che non sono più i baldi giovani delle SS, ma sono dei vecchi soldati della Wehrmacht, gente che aveva all’incirca la mia età, con dei fucili che toccavano in terra, dei nanetti, insomma così. Ad un certo momento si ferma un camion fanno fermare la colonna, poi qualcuno del camion, un ufficiale, urla “postertrep” sentinelle … Questi, è giorno, è tardo pomeriggio ma è ancora giorno pieno, salgono su questo camion, io mi ricordo che alcuni di loro avevano la bicicletta, io sono molto preciso in queste cose, sono uno storico …, dico caricarono addirittura la bicicletta. Noi rimaniamo senza girare per un minuto e mezzo, due minuti al centro di questa strada, in duemila, non si muoveva nessuno. Poi improvvisamente questa colonna si rompe, qualcuno corre avanti verso un piccolo paese, noi seguendo Andree, che anche lui era esamine, sentivamo l’incitamento invece di coloro che capivano cioè i nostri ufficiali, ufficiali nell’esercito, non più ufficiali ma deportati con noi, quelli dicevano “andate nel bosco non andate verso la città”, infatti molti dei nostri, alcuni han detto molti, non so quanti, sono stati uccisi dai franchi tiratori che li aspettavano perché la nostra divisa da zebrati faceva paura. Noi siamo entrati in questo bosco, è incominciato a imbrunire, ci siamo avviati, abbiamo incontrato alcuni francesi che lavoravano già lì, i quali avevano il classico berrettino, così Jean, Andree, baci e abbracci, i quali dicono “attenzione un po’ più avanti ci sono quelle baracche di legno che servono a coloro che lavorano, forse non so a coloro che badano agli armenti o che so io, voi state lì, domani mattina vedete che ci pensiamo noi”.

Noi andiamo dentro questa baracca, siamo io, Andree Pittau e Jean Legauf, fino a quando ad un certo momento, mi ricordo dopo 10-15 minuti sentiamo qualcuno da fuori che bussa. Quelle baracche erano fatte praticamente con degli assiti che si guardava, era un altro deportato come noi, apriamo, era un giovane. Un giovane russo, per cui immaginate un po’. Il quale viene dentro, ci fermiamo lì, stiamo lì. Intanto viene mattina, perché è interminabile quella notte. E noi sentiamo lo sferragliare, allora bisogna decidersi di andare a vedere che cosa accade. Vai tu? – dice Jean – dico “no io non me la sento sinceramente, sono arrivato fin qua, aspetto” Jan dice “io ti faccio compagnia” Andree anche. E allora cosa succede? il giovane russo dice “io io” si offre lui, vai pure, ti aspettiamo qua. E infatti lui corre fuori. Dopo circa 10 minuti lo sentiamo urlare “…” ci sono i compagni, probabilmente aveva sbagliato, la stella che c’era sui carri armati non era quella dell’armata rossa ma era di Patton. Allora corriamo giù nella strada. Ricorderò sempre, ci fermiamo contro un muretto, io questo l’ho scritto anche, ho fornito materiale anche a dei giornali italiani a livello nazionale, io Andree e Jan seduti contro un muretto, non piangevo solo io, tutti e tre piangevamo, passava intanto questi giovani dell’armata di Patton, questo lo abbiamo appreso dopo. A me faceva impressione vedere i soldati con dei foulards di seta al collo, dopo poi ho visto che c’avevano anche la pistola, perché Patton era un po’ un fanatico della rivoltella, i quali ci rivolgevano gli onori militari, dalla torretta i soldati ci salutavano. E contemporaneamente ci buttavano giù tutto quello che avevano nei carri, io mi ricordo che se non stavi attento qualche scatoletta ti poteva colpire e finivi lì. Allora io mi ricordo che dicevo “tutta questa roba la porto a casa”.

Ho saputo dopo che erano gli uomini della terza armata corazzata del generale Patton. Allora lì passati loro, io la prima cosa che chiedo a loro quando si fermano, siccome gli italiani e i russi, allora erano sovietici, avevamo un segno particolare nella testa, oltre ad essere rapati a zero aveva la Strasse. Allora io quella Strasse mi dava un po’ fastidio, allora chiedo a qualcuno di questi, lo faccio dire da Andree che quasi tutti parlavano francese, io parlavo solo in bolognese e non ci intendevamo, allora dico: senti cerca di … Infatti vanno a trovare un barbiere, poveretto lo portano giù, chissà quello credeva che lo fucilassero. E quello mi ha rapato a zero, intanto mi sono messo subito a posto con la testa, anche se ero distrutto, comunque è stato il primo passo avanti, l’ho fatto.

Poi cosa succede? Ci dicono che dobbiamo rientrare, tornare indietro, stare attenti ai franchi tiratori, si fermavano continuamente delle pattuglie dell’armata di …, quei gruppi ecc. ecc., perché volevano essere fotografati con noi, pertanto fotografie, baci, abbracci. Io ricordo un particolare, tra l’altro ad un certo momento quando ho saputo da Andree una pattuglia, una delle tante pattuglie, io avevo chissà quante fotografie mie ci saranno di Andree, ci saranno di Jan saranno in America. Dice “è italiano”, c’è uno con noi, c’è un italiano. Si presenta un tipo, per noi un giocatore di pallacanestro, sarà stato 2, 2.5, mi guarda, io gli arrivavo circa all’altezza della cintura dei pantaloni, il quale mi dice “paesà”, aveva gli occhiali ricordo, magro, alto, mi abbraccia e comincia a piangere lui, io facevo “dai”, piange lui che dovrei piangere io. Non capisco bene, allora fa dire a Andree attraverso questi amici, dicono: questa sera non mangi niente perché io subito gli do. E lui mi porta il suo rancio, che era un rancio che i nostri generali mangiavano forse. Tra l’altro mi porta anche un’arancia californiana, io invito tutti i ragazzi a non mangiare le arance californiane che sono una schifezza. Allora niente, comunque è stata una cosa bellissima, questo ragazzo, che sapeva dire solo paesà, e loro han detto questo è figlio di, forse era nipote di italiani che erano stati in America, il quale era felicissimo di aver trovato. Sono rientrato a Kottern, sono rientrato a Kottern dove tre giorni dopo la liberazione ho corso il rischio di morire per una congestione perché mangiavo continuamente, anche perché mio padre, mio nonno già mi avevano lasciato in eredità una fame che appunto era atavica, e io mangiavo continuamente nonostante che i medici e anche gli stessi americani dicessero “stai calmo” io continuavo a mangiare fino a quando una sera sono svenuto e grazie agli americani, devo dirlo, perché è giusto dirlo, sono stato salvato.

Poi cosa avviene? Io tengo la mia divisa da zebrato, la tengo, ci portano in un campo di raccolta che si chiama Fissen, o Fussen, per me è Füssen che si dice, eravamo un’infinità. C’era un capitano italo-americano che non voleva più assolutamente vedermi così. Allora scendiamo ad un compromesso, lui mi dà un pastrano, io siccome non sono tanto alto, anzi direi che sono abbastanza basso, scendiamo ad un compromesso, io su quella divisa devo tenere un pastrano, il qualche aveva le maniche che mi arrivavano qua, praticamente era come un saio, arrivava ai piedi. Comunque sono rientrato in Italia in questo modo, il 25 o il 26 maggio, adesso non ricordo esattamente, forse il 27 di maggio, ci hanno caricato su dei camion, ci hanno portato in Italia, ci hanno fermato a Verona, lì ho fatto la mia rivoluzione personale, coinvolgendo tutti perché ci avevano messo dentro una caserma che era piena di cimici, allora nonostante che i carabinieri che erano alla porta ti invitassero a non uscire, noi siamo usciti, abbiamo dormito in terra comodamente. Il giorno dopo con dei mezzi di fortuna, c’erano anche dei militari italiani che ormai erano con gli alleati. Ci hanno portati fino a Modena, lì ero con un gruppo di modenesi, baci e abbracci, ci vediamo. Mai più visti. E finalmente rimango solo, finalmente no, comunque sono solo. Devo arrivare a Bologna, e io non so bene, ricordavo forse un film con Gable, la corda che si faceva così per fermare, e io mi metto in mezzo alla strada sulla via Emilia, comincio a far così senza alzare naturalmente il pastrano, fino a quando si ferma questo grosso camion. Lo guidava un negro gigantesco, il quale ad un certo momento si ferma, mi fa salire, io gli dico Bologna, lui mi fa capire che mi porta a Bologna però devo stare nascosto perché la polizia militare non voleva che caricasse nessuno. Io stavo lì con questo ragazzone, non avevo mai visto un negro così grande, veramente non ne avevo visto neanche di più piccoli, comunque arriviamo a Borgo Panigale, lui forse ha detto, gli è sfuggito Bologna o qualcosa del genere, io ho alzato la testa e immediatamente una paletta si vede che si è alzata, era la polizia militare, m’ha fatto scendere, ci siamo salutati, ho attraversato il Reno, il fiume Reno che chi è a Bologna sanno che è il fiume che passa vicino a Bologna, allora era in secca. Io l’ho attraversato a piedi, e lì c’era un sacco di persone che aspettavano i ragazzi che erano prigionieri, mostrando foto, ma come facevi? non riuscivi. Fino a quando un signore si è attardato più degli altri con me,e mi ha accompagnato fino all’unico, uno dei pochi tram che c’era ancora rimasto. Saliamo su questo tram, addirittura incontrai un bigliettai che voleva addirittura che io pagassi il biglietto, forse era l’unico bigliettaio che era rimasto, comunque il signore mi ha pagato e mi ha portato fino nei pressi del mio rione, che era il rione dei Mirasoli. Quando sono arrivato lì ho detto “senta io la ringrazio”, queste sono parole che dico in questo momento, non so cosa gli ho detto. A questo punto se lei mi permette qui ormai sono arrivato, vorrei giungere a casa solo. Ci siamo abbracciati. Io ho fatto via Solferino, una delle strade del mio rione, sono arrivato davanti al bar dove un anno prima avevo tutti i miei amici. Davanti al bar c’era Libero …, un amico d’infanzia, dico “ciao Libero”, questo mi guarda e disse “ciao” ma probabilmente non ha capito. Allora mi ricordo che c’era la formula magica, dico “Libero sono Franco, Franco Della Mina”, braci, abbracci, c’è Franco, tutti fuori dal bar, tutti attorno. Intanto qualcuno corre nel rione a urlare “è tornare Franco”, … avevano detto che ero stato fucilato. Quando dopo alcuni minuti, forse 6-7 minuti perché non ti salvavi più, volto l’angolo di via Miramonte, questa strada che io ricordo perché qui avviene il grande fatto che conclude la mia storia, c’era tutto il rione, si era in questa strada. Al centro di questa gente c’era mio fratello Renzo, aveva 22 anni, io ne avevo 18. A Renzo avevano già comunicato che ero stato fucilato, ci abbracciamo, per la prima volta, questo lo ripeto sempre, nella mia vita ho visto mio fratello piangere, e sono stato io che gli ho detto “dai Renzo basta, non piangere, è finita”. E ho capito che quel pianto liberatore, l’ho anche scritto, segnava di fatto la rinascita dell’uomo, avevamo vinto ancora una volta, perché quell’atto umanitario era il segno della nostra riconquistata dignità. Questa è un po’ la mia storia. Una storia che si conclude in questo modo.

De Walderstein Nerina

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono la Nerina De Walderstein, un’ex deportata dal campo di concentramento di Auschwitz.

Sono stata arrestata a Trieste il 23 marzo 1944 dalla “polizia Collotti” alle 11,35 di sera, lo stesso giorno in cui ero ritornata da Venezia con una valigia piena di materiale bellico e chirurgico. Sono entrati un casa mia sette poliziotti della questura di Trieste di via Bellosguardo, la Villa Triste di Trieste, con i mitra puntati verso la mia famiglia; eravamo in casa il papà la mamma ed io. Fortunatamente hanno preso soltanto me ma cercavano mio fratello; i genitori sono rimasti a casa. Così inizia la mia triste storia.

R: Diciotto anni e mezzo.

D: Perché cercavano tuo fratello?

R: Perché mio fratello, a Venezia alla scuola Foscari, con un gruppo di studenti del gruppo GAP di Venezia, cercava il materiale bellico e altro da mandare al gruppo dei partigiani della zona di Trieste. Io ero stata là per prendere questo materiale ed ero ritornata a casa con la valigia piena. Loro cercavano mio fratello e non me ma il mio arresto ha salvato tutto il gruppo degli studenti di Venezia che sono fuggiti, saputo del mio arresto, e sono andati col gruppo dei partigiani del Friuli Venezia Giulia.

D: Ti hanno portato in Via Bellosguardo, a Villa Triste?

R: Sì, direttamente a Villa Triste. All’arrivo ho preso due ceffoni fenomenali. Durante l’interrogatorio sono stata picchiata, mi hanno rotto tre costole, mi hanno appesa per le mani a un palo e là non so quanto sono rimasta perché sono svenuta. Mi sono svegliata dentro una cella, tutta bagnata. Là mi hanno lasciata tutta la notte; di sera venivo interrogata e sempre bastonata, sempre col dolore alle mani dalla prima sera, quando mi hanno appesa al palo con le mani dietro la schiena. Da allora le mie mani funzionano pochissimo, sono rovinate, non ho più forza nelle mani; è la conseguenza delle torture subite.

D: A Villa Triste fino a quando sei rimasta?

R: Otto giorni.

D: E poi cosa è successo?

R: Da Villa Triste mi hanno portato alle prigioni dei Gesuiti, che ora non esistono più. Là sono stata nuovamente interrogata, a suon di scappellotti. Io non ho parlato mai, mi sono assunta tutte le responsabilità.

Là sono rimasta due mesi poi mi hanno portato alle carceri del Coroneo di Trieste. Là, dopo un paio di giorni, sono stata nuovamente interrogata dai tedeschi. L’interrogatorio fu nel Bunker del Coroneo, una cosa tremenda; anche là altre botte, altro tormento. Intanto il mio papà e la mia mamma sono rimasti in casa chiusi per 42 giorni con la polizia che li controllava. Io non sapevo niente di loro perché non potevano uscire né parlare con me, perciò sono stata 42 giorni senza sapere niente di loro. Li ho visti soltanto il giorno in cui siamo partite dal Coroneo per il trasporto. La mia mamma non la riconoscevo più: l’ho cercata, era dietro a me, ma aveva fatto un cambiamento totale, invecchiata di vent’anni: per il mio arresto e perché di mio fratello non sapeva più niente.

Al Coroneo sono stata da sola nella cella 68 fino al giorno del trasporto. Fino al periodo in cui sono stata nelle carceri non sapevo che esistesse la Risiera a Trieste, sapevo che c’era una risiera ma… del tutto differente. Quando sono ritornata ho saputo che quelle che erano nella cella 68 sono morte tutte alla Risiera. Nell’ultimo interrogatorio fatto dai tedeschi due giorni prima che partissi mi hanno detto che non mi avrebbero finito là ma che la mia morte sarebbe stata altrove, in un posto in cui sarei morta lentamente.

D: Poi  ti hanno portato al Transport ?

R: Si, due giorni dopo sono partita per Auschwitz; ci avevano detto che ci avrebbero portato a lavorare. Noi convinte di andare a lavorare. La mamma mi ha portato quel giorno tutto quello che poteva per andare a lavorare, ma… non era così. Comunque, ti dico che la mamma che mi ha portato la roba alla stazione non era più la mia mamma.

D: Parlaci del Transport, eravate tante donne?

R: Sì, non potrei dire il numero preciso, credo oltre 50.

D: C’erano anche uomini?

R: C’erano gli uomini. Ci hanno chiamato la notte, credo verso le due, e mi sono trovata in un grande giardino nelle carceri del Coroneo e là ho visto tantissima gente e ho detto: non mi succederà qualcosa di tremendo, perché tutta questa gente è impossibile che la possano sterminare. Quando ho chiesto dove si andasse mi hanno detto: “Nessuno sa dove andiamo, non si sa”. Verso, credo, le 4 e mezza del mattino ci hanno messo in colonna davanti alle carceri e in colonna siamo partite verso la stazione di Trieste. Quando siamo arrivate alla stazione abbiamo trovato diversi familiari che erano stati avvisati in qualche maniera. Ci siamo salutati perché dovevamo andare a lavorare, tutti felici. Devo premettere che alla stazione dovevamo partire immediatamente ma gli operai delle ferrovie hanno sabotato il treno e hanno fatto sì che rimanessimo ancora due ore con i nostri familiari, poi siamo partite. Non ho pianto lasciando i miei genitori, ero dura impietrita. Però, quando sono arrivata all’altezza del quartiere di Bàrcola, quando ho visto la mia casa, mi sono sentita tanto male e sono svenuta. Non ho potuto piangere, mi ha colpito in maniera forte, non ho resistito al dolore e sono caduta, caduta! Da allora non ho più pianto, non so perché.

Poi siamo partite; siamo state accompagnate dai carabinieri di Trieste sino ad Auschwitz, nel frattempo nel trasporto io stavo veramente male. Uno dei carabinieri mi ha portato nel vagone con sé e là sono rimasta per due giorni fintanto che mi sono sentita meglio. Quattro, cinque volte nel giro di otto giorni sono svenuta, forse perché non avevo mangiato più dal giorno della partenza. Non sentivo più la voglia né di mangiare né di bere.

Quando ci si avvicinava ad Auschwitz  ci hanno raccontato un pochino che cosa era, ma non bene, non avevamo capito niente. Ci hanno detto: “Dentro ad Auschwitz arrivate con il treno, ci sarà una bellissima orchestrina che vi riceve”; noi tutte felici aspettavamo l’orchestrina. Veramente quando siamo arrivate ad Auschwitz l’orchestrina c’era, ma prima di entrare logicamente c’era il campo. Abbiamo visto certe persone, chine a terra e abbiamo chiesto: “Chi sono quelle persone? Sono come dei mussulmani …” “Sì, sono mussulmani” Ho detto: “Tutti mussulmani venuti qui a lavorare?” “Capirai, capirai, vedrai che tra un po’ di tempo sarai mussulmana pure tu”.  Io gli ho detto: “No, sono cattolica” “Va bene, va bene, capirai più in là”.

D: Nerina , quando dici Auschwitz intendi Auschwitz 1 o Birkenau?

R: Per Auschwitz intendo tutti e due, sia l’uno che l’altro.

D: Sei stata portata ad Auschwitz 1, prima?

R: Prima siamo state portate tutte ad Auschwitz 1 e poi nell’altro. Il primo impatto è stato tremendo, spaventoso perché ci hanno scacciate giù dalle tradotte, proprio gettate giù. Le cosa più brutte che ho subito nell’entrata ad Auschwitz erano di aver visto i mussulmani e poi il fatto che ci hanno denudate. Ci hanno fatto spogliare nude davanti a un blocco e siamo rimaste là per un giorno intero e la notte, una notte fredda, rigida, tremenda, sempre nude.

D: Ti ricordi che giorno era, più o meno?

R: No.

D: Il mese?

R: Sì, il 21 giugno siamo arrivate là. Era una cosa tremenda. Durante il giorno un caldo tremendo e la notte una tremenda umidità, eravamo tutte fredde e spogliate, ci si stringeva l’una con l’altra per poterci scaldare. Quello che mi ha fatto più male è che io ero giovane e con me c’erano tantissime giovani ma c’erano anche tante persone anziane. Vedere quelle povere nonne, per me erano nonne, lì nude, disperate; si nascondevano, cercavano di proteggere le parti che non dovevano essere viste. Dopo l’attesa fuori ci hanno portato nei blocchi, nelle baracche. Tutte nude ci hanno portate nella baracca detta “Sauna” dove ti tagliavano i capelli, ti rasavano e poi ti spedivano avanti. Avevo i capelli lunghi, biondi, i miei capelli erano belli, un po’ ondulati, ero giovane e il polacco che tagliava i capelli mi ha preso una ciocca di capelli, me l’ha tagliata poi mi ha dato una spinta e mi ha mandato avanti: là coi capelli ero l’unica. Avevo i capelli lunghi senza una ciocca e tutti mi chiamavano Ciocchina.

Di là ci hanno mandato in un’altra stanza dove ci hanno nuovamente messo in fila. Iniziano i tatuaggi. Sentivo che parlavano, ma non capivo cosa dicessero: il tedesco lo capivo poco, solo quello della scuola. Quando era quasi il mio turno di entrare sento che dice all’altra compagna: “Da ora in avanti tu non sei più la tal dei tali ma sei la prigioniera numero tale”. Ci tatuarono sul braccio la matricola. Io ho il numero 82.132 e con questo numero ho passato tutto il periodo sapendo di essere soltanto il numero 82.132; il nome l’ho dimenticato.

Poi nuovamente in fila per gli indumenti. Davanti a me c’era una compagna partita da Trieste che aveva avuto la sventura come me di essere stata presa per una spiata; aveva il numero 82.131. Lei era una bella figura ma aveva già i suoi anni, aveva 30 anni, io ero una bambina di fronte a lei: a me hanno dato un vestito lungo fino ai piedi e a lei uno corto corto che non le copriva neanche le ginocchia. Volevo scambiarlo con lei ma quando abbiamo fatto il gesto abbiamo ricevuto botte tutte e due, perciò ci siamo messe nuovamente in fila per poi essere portate nei blocchi. Quando siamo entrate nel blocco abbiamo detto: “Ma cos’è questo? Non è una camera, non è un campo di lavoro. Come mai queste baracche, che cosa ci succede?” Entrando abbiamo visto altre prigioniere fra le quali delle ragazze che avevamo conosciuto alle carceri del Coroneo. Quando ci siamo ritrovate abbiamo capito che qualche cosa non andava e, loro piangendo ci hanno raccontato cosa ci sarebbe successo. Più che essere tatuate non credevo ci potesse succedere altro. Invece è iniziata la via crucis dei deportati nei campi di concentramento.

D: L’abbigliamento che ti hanno dato in cosa consisteva?

R: Una veste e le scarpe, meravigliose! Io indossavo a sinistra una ghetta e a destra uno zoccolo olandese grande che perdevo man mano.

D: Biancheria intima niente?

R: Come no! Mutande, reggiseno tutto era in quella veste meravigliosa. Oltre ad essere immatricolate, si portava il numero di matricola anche sulla manica del vestito. Col triangolo rosso perché eravamo politiche. C’erano moltissimi triangoli. Avevamo dietro la schiena una bellissima croce doppia. Ci siamo messe a ridere quando ci siamo viste l’una con l’altra … si piangeva e si rideva perché eravamo talmente ridicole, poi tutte quelle zucche pelate! Non ci si riconosceva più, quando ci siamo viste ci si guardava: “Ma chi sei tu?” Ci chiedevamo e tutte mi dicevano: “Come mai a te non li hanno tagliati?” “Non lo so!” Quello era il minimo di fronte a tutto quello che ci aspettava. Nel blocco abbiamo visto i castelletti dove si dormiva sei per sei, come le sardine; noi giovani dormivamo a terra. Io ho dormito per quasi un mese sulla terra nuda. Eravamo tante dentro il blocco e non ci si poteva stare, non ci si poteva girare, quando ci si girava, stanche di essere su un fianco, si svegliava una di noi: “Ti prego, ci si gira dalla parte opposta”. Le ossa facevano male. Appena arrivata eri grassa, eri in carne, e dove ti mettevi? Era impossibile dormire là, non ti potevi sedere perché era talmente basso; per poterti sedere dovevi scendere e sedere in terra. E poi la notte, le cimici. Quando spegnevano la luce, in pochi secondi le sentivi camminare su di te, facevi una retata di cimici, spaventoso; era una puzza tremenda, impossibile potere addormentarsi. Poi ci si è abituati ma non del tutto. Ogni notte era la corsa alle cimici perché altrimenti ti mangiavano, avevamo tutte le braccia, tutto il corpo beccato dalle cimici. Erano grandi, non ho mai visto una cosa simile, la prima volta non sapevo cosa fossero le cimici, ma là ho imparato bene.

D: Nerina, ad Auschwitz 1 fino a quando sei rimasta?

R: Non potrei dirti il tempo perché il tempo noi non lo conoscevamo più. Sapevamo che ti alzavi la mattina verso le tre e mezza, logicamente attendevi la miska che ti davano, sempre in fila per cinque. Quella era la prima cosa che dovevi fare uscendo dal blocco: metterti in fila per cinque, guai se non eri diritta in fila per cinque, allora partivano le botte. Se un momentino ti distraevi quando eri in fila… altre botte; quando arrivava la kapo e ti contava, sempre sull’attenti; quante poverine sono rimaste là perché cadevano, non resistevano più, perdevano i sensi e poi finivano come non si sa. La tortura più grande era quella di tenerci all’aperto anche se pioveva, nevicava, faceva freddo. Loro erano incappucciate e vestite e noi sempre con lo stesso indumento; se era tutto zuppo di acqua dovevi tenertelo e rimanere là perché non c’era da cambiarsi. Chi aveva una buona costituzione e un fisico forte ha resistito, le altre poverine no. Quante volte in fila ci si voltava e una cadeva, era morta… in piedi.

D: Poi da Auschwitz 1 ti hanno mandato ad Auschwitz2 – Birkenau

R: A Birkenau. Ti prendevano all’appello per andare a lavorare; lavori nei campi a piantare le patate e pulire, e il lavoro all’interno del campo di concentramento: pulire i blocchi, pulire il gabinetto notturno. Non potevi uscire, dovevi venire davanti al blocco e uno ti controllava mentre facevi i tuoi bisogni, davanti a tutte, era tremendo. Noi per un periodo avevamo una carriola. E’ molto difficile poter andare … e poter farlo; una persona anziana si sbilanciava e cadeva: quante sono cadute dentro la carriola, tutte sporche e sudice dovevano alzarsi e pulirsi alla meglio, non si sa neanche come visto che non avevamo niente. Ci si doveva accontentare; quando si poteva andare al mattino due minuti a lavarsi nel Waschraum dove c’era uno zampillino d’acqua – non riuscivi neanche a lavarti gli occhi – cercavi al meglio possibile di lavarti con l’acqua ruggine. C’era la corsa per arrivare a pulirti, a lavarti un pochino, non riuscivi tante volte, eravamo tante e ci richiamavano. Eravamo tutte sporche, senza la possibilità di potersi un po’ lavare;  senza vergogna a quel riguardo andavi in quel gabinetto tremendo e se non ti abituavi erano botte, dovevi farlo. Io ho avuto la fortuna e la sfortuna di essere addetta alla pulizia dei gabinetti. C’era un carro dove vuotavi tutte le cose e poi quel carro lo portavi lungo il campo fino a che non arrivavi nei gabinetti, dove lo lasciavi. Penso che quello fosse uno dei peggio lavori nel campo, era veramente umiliante, ti chiamavano la Merdastrasse, scusate l’espressione, noi la chiamavamo così; purtroppo ognuna aveva il suo turno. Poi quando non facevi quello dovevi stare seduta davanti al tuo blocco, e poi ti chiamavano all’appello, ti mettevano sull’attenti fino all’ora del mangiare. O ti portavano in un altro blocco dove ti facevano portare delle pietre.

Quando non ne potevi più cadevi per terra esausta: o ti rialzavi o bastonate. Poi è successo il fatto delle due sorelle francesi. La tedesca ha ordinato alla nostra kapo di fare alzare quella che era caduta, ha preso una pala e l’ha colpita sulla testa. Lei è caduta a terra, logicamente ferita, e l’altra sorella le è corsa in aiuto. Noi sempre a camminare intorno, sempre portando pietre, non dovevamo guardare quello che succedeva. E’ stata uccisa la prima sorella, la seconda è corsa per aiutarla ma è stata colpita pure lei e là sono rimaste tutte e due.

Non ho mai saputo l’ora perché l’orologio non esisteva; che ora è, che giorno è, tutti i giorni erano uguali, si perdeva il tempo. Non eri più tu: eri veramente un numero, la tua testa non funzionava più, era un po’ come vuota. Ma forse era meglio perché non soffrivi più tanto, mi sembra che ci siamo abituate a quella vita, non saprei neanche dirti se era un’abitudine o veramente eravamo un morto che camminava. Tante volte ci si chiedeva: ma si cammina, siamo ferme? Qualche volta qualcuna mi pizzicava, mi diceva: “Ah, sei ancora viva”, io mi mettevo in un mutismo, eravamo tutte così. Oppure ti alzavi, cercavi di fare quattro passi sempre con la testa rivolta al cielo: non so se si cercava una via d’uscita o se si cercava di finire. Tante volte dicevi: “Quella è morta, ha finito di soffrire”, questa era la risposta.

Malgrado tutto si aveva sempre una speranza; io sempre dicevo di dover tornare  a casa. C’era come un ritornello nella mia testa, e mi seguiva. Quando ero nei momenti più pesanti cominciavo: “Devo ritornare a casa perché mio padre e mia madre mi aspettano, devo rivedere mio fratello”, poi lo dicevo alle altre allora si iniziava a portarci nei ricordi verso casa, ci aiutavano a vivere, quella era una via – come potrei dire – un aiuto per poter continuare a lottare per ritornare. E poi sai, le risate quando avevamo fame. Quando col gruppo davanti al blocco non ci permettevano di andare da nessuna parte si iniziava a parlare dei buoni pranzetti, del mangiare: “Cosa mangeresti tu? adesso che faresti?” Allora si facevano ricette a modo nostro oppure ci accontentavamo di pensare al famoso pane col quadratino di margarina, alla fine ci accontentavamo di quello. E quando era l’ora di mettersi in fila sempre sull’appello per prendere quel pezzetto di pane, che bello! Quello era l’ora più bella.

Così le giornate passavano, ci si raccontavano tante cose. C’erano tantissimi blocchi, io ne ho passato soltanto tre, però sapevo che ce n’erano tanti. Si sapeva ben poco di quello che succedeva nel campo. L’unica cosa che si sapeva era quando arrivavano i treni. Quella è una cosa che non poteva uscire dalla nostra memoria perché i treni fischiavano, fischiavano le sirene, poi c’era il rientro nei blocchi tutti chiusi perché non si doveva vedere quello che succedeva con chi usciva dai vagoni: il famoso Blocksperre cioè la chiusura di tutti i blocchi. Il fatto è che quando eri là da un po’ di tempo capivi tutto, da ogni fischiata sapevi cosa sarebbe successo. Le sirene squillavano, c’era sempre qualcuno che voleva scappare ma scappato non è nessuno.

Mentre ero là c’è stata l’impiccagione di una polacca che aveva tentato un’evasione dal campo. L’hanno torturata davanti a tutto il gruppo delle donne in campo, e quando le hanno rotto tutte le ossa l’hanno impiccata moribonda.

D: Parlavi prima dell’alimentazione: cosa vi davano ogni giorno?

R: Un pranzo meraviglioso. C’erano grandi zucche e dei bidoni con l’acqua bollente: le spaccavano sull’orlo del bidone, le buttavano dentro, le spezzettavano un pochino e galleggiavano i semi e l’interno della buccia, limoso. Poi quando era l’ora del pranzo chiamavano – si sapeva che era l’ora del pranzo perché c’era un fischio particolare – e andavi a prendertelo. Se eri forte di stomaco lo mangiavi se no rimandavi, poi cercavi di mandare giù qualche cosa per poter sopravvivere. Io ho molto sofferto perché il mio stomaco era debolissimo, veramente non so dirti come sono rimasta viva, comunque era il mio destino. Mangiavo pochissimo. Sai, c’erano le rape grattugiate secche, le gettavano dentro in questa Kübel di acqua bollente, se riuscivi a procurarti  un recipiente le mettevi dentro e se avevi fortuna ti procuravi anche un cucchiaio; col tempo ci siamo procurate tutto, ci siamo organizzate un pochino nel campo, e si aveva anche il cucchiaio per mangiarle. Si mangiava quello che si trovava, però i nostri maiali mangiavano meglio. La festa grande era la domenica: ti mettevi in fila e ti davano una patata con un pochino di margarina, un triangolino di margarina. Loro non guardavano se la patata era grande o piccolina, te ne davano una e basta, spesso succedeva che ricevessi la piccolina ma non la grande. Quando una riceveva la grande tutte le eravamo attorno: “Un pezzetto anche a me sai? Guarda che me lo avevi promesso”. Era un po’ d’allegria nella grande tristezza nella disperazione.

D: Nerina, ti è mai capitato di sognare?

R: Un’unica volta ho fatto un sogno lungo però ho pianto tutta la notte… Ho fatto un sogno e l’ho raccontato a una signora di Maribor, slovena. Sono andata fuori per fare i miei bisogni, l’ho trovata e le ho raccontato. Avevo visto mia nonna nel sogno, mi aveva toccata ed era fuggita.  La donna slovena mi guardò e mi disse: “Guarda le stelle, ti racconto cos’è la tua vita. La tua mamma e il tuo papà sono osti, vero?” Sì, avevamo una trattoria prima che ce la distruggessero”. “Passerai un periodo molto pesante, sarai anche malata ma tu resisterai perché la tua nonna ti accompagna”. Le avevo detto il giorno del mio compleanno e mi disse: “Mi hai detto che sei nata il 9 luglio, oggi è il tuo compleanno”.

D: Scusa Nerina, il problema delle mestruazioni?

R: Non ho mai capito, anche adesso che ho rivisto le mie compagne ci siamo chieste: ma cosa è successo? Appena siamo arrivate …. bloccato in pieno, nessuna sa cosa fosse. Forse era l’acqua nera che ci davano da bere la mattina, calda. Pagherei per sapere cosa ci davano.

D: A Birkenau fino a quando sei rimasta?

R: Poco, forse un mese.

D: E poi cos’è successo?

R: Mi hanno portato nel Lager B. Il Lager B era il Lager dove lavoravi proprio. Quando arrivavi là se vedevi dell’erbetta cercavi di mangiarla, e questo ho fatto anch’io nel ritorno, mi sono abbassata per prendere un ciuffetto però… sai le botte. Per strada mi hanno schiaffeggiato e la testa mi è girata da tutte le parti, ancora adesso sento schiaffi, poi quando siamo ritornate mi hanno messo in punizione davanti al blocco inginocchiata sulla ghiaia, con una mano sollevata e una pera cotta appoggiata sulla mano. Tante volte mi sembrava di cadere, cercavo di raddrizzarmi per farmi forza. Quando mi sono alzata le ginocchia erano tutte sanguinanti, perché prima di tutto carne non c’era, c’era la pelle; è passato del tempo prima che mi si rimarginassero le ginocchia, quante volte mi si aprivano perché dovevo inginocchiarmi per altre cose, ma finalmente sono guarita. C’erano polacche che erano peggio delle SS; se una cosa non sopporto sono le polacche, perdonami Polonia. Parla con chiunque sia stata là; tutte hanno subito angherie dalle blockowe e dalle stubowe. La notte loro mangiavano, si divertivano, bevevano: noi si sentiva il mangiare, il bere e noi piene di fame a languire. Loro erano pasciute, nessuna era magrolina, erano tutte tonde. Non puoi immaginare che nel blocco di un campo di concentramento ci fossero tipi così perversi, così cattivi. Se loro rubavano incolpavano le politiche.

D: Poi da lì sei stata ancora trasferita

R: Sì, mi hanno portata via da Auschwitz perché per loro ero ancora abile al lavoro. Mi hanno messo in fila per il trasporto, hanno detto che ci portavano nelle fabbriche, si sapeva soltanto quello.

Quando si era in fila pronte per partire ci consegnarono pane per il viaggio, una pagnotta di quel famoso pane acido, cattivo, duro: era come mangiare segatura.

C’erano vicino a me due bambine, io per loro ero una mamma, una di 12 e una di 13 anni, del Goriziano. Venne rubata una pagnotta – erano contate – le ebree e le polacche facevano le parti: una di loro accusò le due piccole, ma non era vero perché erano con me. Lo dissero al militare tedesco che ci accompagnava nel trasporto, allora lui infuriato inveì contro di loro e si misero a piangere perché erano bambine. Piangere non dovevi: se là ti vedevano piangere ti picchiavano. Era pronto a picchiarle duro col calcio del moschetto. Ho preso le loro difese e il colpo che dovevano subire loro l’ho preso io: sono caduta in svenimento, ho saputo più tardi che non ero in me. Sono partita in trasporto con le mie compagne che mi hanno sollevato e portata di peso, non mi hanno voluto lasciare là a terra; sul vagone mi sono ripresa, ma sulla testa avevo un segno che anche ora si vede. Il colpo col tempo ha fatto suppurazione perché dentro si è formata un’infezione;  i medici mi hanno detto che il mio osso stava andando in cancrena.

Ci hanno portato a Flossenbürg, io non lo ricordo; mi sono ripresa in treno ma per me è un vuoto colmo. Io ricordo di essere stata in fila, di essere saltata in mezzo alle due bambine e di avere preso le loro difese ma poi è una parentesi chiusa: sono passata per il campo di Flossenbürg ma non so di esserci stata.

Mi sono ritrovata il 14 dicembre nella fabbrica di lampadine Osram a Plauen. Non so come sono arrivata, mi sono guardata intorno e ho detto: dove siamo? Non ho visto più il campo di Auschwitz, mi sembrava una cosa strana, ho chiesto alle ragazze.

Nessuna si era accorta che io non sapevo niente. 

D: Ti hanno portato in fabbrica?

R: Sì, mi sono trovata in fabbrica. Ho avuto la fortuna di avere un direttore di fabbrica meraviglioso con tutto il nostro gruppo, eravamo circa un’ottantina. Ci ha trattato come fossimo lavoratrici; era sempre gentile con noi, se si aveva bisogno di qualche cosa si chiedeva, se qualcuna era malata la curò.

Noi si abitava nel soffitto della fabbrica, là avevamo anche l’acqua per lavarci ogni giorno, non per fare la doccia, ma il rubinetto. Ognuna aveva il suo letto, ognuna dormiva sul suo castelletto, io ero il terzo piano perché ero una fra le più giovani, ero su in alto. La mattina ci davano il solito tè e si andava al lavoro alle 6; ognuna aveva un lavoro; gli operai ci insegnavano i lavori della fabbrica delle lampadine. Si iniziava dal vetro e poi facevamo le lampadine grandi enormi, molto complicate. Io ho fatto soltanto un mese quel lavoro poi sono andata nel magazzino. Quando ero là mi sentivo sempre tanto male; la prima volta sarà stato verso il 20  dicembre. Così tre volte di seguito; la terza volta c’era dentro il direttore e mi ha visto, mi ha preso in braccio ed ha chiamato il soccorso che era nella fabbrica. Mi ha portato nella clinica a cui avevano diritto gli operai della fabbrica, però c’era con me anche la tedesca con il cane. Quando il medico mi ha visitata ho mostrato l’orecchio che spurgava. Mi hanno medicato e mi hanno rimandato nuovamente in fabbrica. Un paio di giorni dopo accadde nuovamente. Al 14 gennaio (1945) mi hanno portata ancora là, ogni tanto mi mettevano sotto il naso la melissa per tenermi sveglia. Un altro medico mi ha visitata e ha premuto la parte che faceva male, ho dato un urlo spaventoso. Immediatamente mi hanno portato in sala operatoria e mi hanno fatto tantissime fotografie e radiografie; io ridendo ho detto: “Per andare al cinema?”

Nella fabbrica avevamo un medico interno che era un colonnello dell’aviazione russa, una prigioniera; nella fabbrica c’era una stanza chiamata Revier e là lei curava le ammalate. Il direttore della fabbrica volle che la dottoressa mi seguisse, aveva molta fiducia in lei; venne anche la tedesca. E’ stata un’operazione di quattro ore alla testa: mi hanno salvata. Non potevano darmi nessun medicinale, era proibito dalla tedesca. Avevo la testa fasciata, avevo soltanto un pezzettino aperto all’occhio, ero come una mummia. Il medico allora mi nascose nella garza tanti tubetti di vitamine; diede ordine alla dottoressa di darmene un po’ al giorno. La dottoressa mi seguì con l’ordine del direttore della fabbrica che nessuno mi toccasse: sarei rimasta nella fabbrica sin tanto che le cure non fossero finite, lui avrebbe pagato per me la quota giornaliera di lavoratore.

Non mi reggevano le gambe: ho fatto due mesi un po’ distesa un po’ seduta, quando ho potuto camminare sono andata giù in fabbrica per fare soltanto cose leggere. La notte non la facevo, facevo sempre i turni di giorno. Ho lavorato fino all’ultimo quello che ho potuto, lavori leggeri, e questo fino alla Liberazione.

D:Nerina, è in quella fabbrica che tu hai cercato di tenere un diario?

R: Sì. La notte di Natale una polacca ha avuto la fortuna di incontrare un polacco che lavorava nella fabbrica, lui l’ha aiutata a scappare. Lei quindi non ha risposto all’appello, è stata cercata per tutta la fabbrica, non c’era: ci hanno messo in castigo una giornata intera perché volevano sapere da noi ma nessuna sapeva niente. Senza mangiare abbiamo fatto il Natale. Alle 6 di sera ci hanno dato il permesso e hanno portato quel tè nero e sino al giorno dopo a mezzogiorno, niente. Il giorno dopo all’appello – era il giorno di Santo Stefano – le tedesche ubriache dentro hanno fatto festa e noi sempre fuori all’appello. Il giorno dopo abbiamo ripreso il lavoro in fabbrica. La dottoressa aveva prigioniera una sorella, Tania. Non ho saputo il motivo, ma le avevano gettato i cani contro al suo rientro, noi abbiamo dovuto assistere alla scena. L’hanno quasi resa a brandelli, l’hanno lasciata a terra e sono andati via. La dottoressa pian piano l’ha curata poi è rimasta a sua volta in fabbrica. E’ stato uno dei tanti tremendi giorni in cui dovevamo assistere all’annientamento. Fortunatamente è rimasta viva e la sorella l’ha curata. Nel mio diario scrivevo lettere alla mia mamma; le cose che mi venivano in mente e che scrivevo mi rilassavano un pochino, parlavo con la mamma. Ne avevo due ma purtroppo il più grande me lo hanno rubato al mio ritorno a Bolzano.

D: La Liberazione come te la ricordi?

R:Triste perché le tedesche ci hanno chiuse nella fabbrica che era diroccata da una parte; noi eravamo proprio nella parte diroccata, rimasta ancora in piedi. Ci hanno rinchiuse e loro sono fuggite. C’erano i russi, gli americani e gli inglesi che andavano verso Berlino, hanno quasi distrutto Plauen. Forse per due giorni siamo state al buio tale era il fumo delle bombe.  Alla finestra avevamo un’inferriata con la rete; quelle che avevano ancora un po’ di forza hanno disfatto il letto delle tedesche, era in ferro, e con quell’asta hanno picchiato sui vetri fino a fare un buco. Hanno messo sull’asta un lenzuolo con una croce rossa, fatta col nostro sangue: c’erano bottiglie e bicchieri, li abbiamo rotti e con il sangue abbiamo fatto la croce. Si gridava alla disperata, e un paio sono impazzite, specialmente le russe: poverine, avevano il numero 42.000, erano là fra le prime, erano quasi impazzite. Eravamo senza mangiare da tanti giorni, prima si mangiava poco e poi niente, era tremendo.

Finalmente si resero conto che c’eravamo, vennero su gli americani e ci liberarono. Io ero a letto: ero talmente sfinita che non mi alzavo più, gli americani che sono venuti su hanno portato in braccio diversa gente. Quando uno mi ha sollevato mi ha detto: “Ma sei una bambina, quanti anni hai, 11  o 12?” Il militare parlava in inglese e io in sloveno; lui mi ha chiesto, in uno sloveno un po’ stentato, se ero slovena: Disse: “Anche la mia mamma è slovena. Come mai sei qua?” Lui non sapeva niente, gliel’ho raccontato, mi ha preso in braccio, mi ha stretta al petto e ha detto: “Dio mio, Dio mio ma come si può ridurre una creatura così?” Di lì i russi mi hanno portato all’ospedale da campo. Mi hanno rifocillata, credo per quindici giorni, mi hanno tirata su prima con il tè  poco zuccherato, dopo pian piano col brodo sgrassato. Quando ci siamo riprese ci hanno portato in un campo di smistamento. Là sono rimasta fino a che non mi hanno portato a casa.

D:Fino a quando sei rimasta lì?

R:Pochissimo perché ci siamo trovati in diversi triestini. Ero ancora un po’ giù di corda, sempre con la testa fasciata: la testa l’ho portata a casa fasciata e mi ha curato il professor Danilo, pure lui ex deportato di Auschwitz. Nel campo di smistamento ho trovato una di Gorizia più anziana di me; io andavo verso i 20 e lei aveva 35 anni, per me era una mamma; si è presa cura di me. Arrivarono altri tre triestini, erano militari prigionieri nei campi militari, non deportati. Quando ero là uno dei triestini mi ha portato una gonna grande; la mia compagna di Gorizia me l’ha adattata; hanno trovato una blusettina di organdis e me l’hanno messa, lei me l’ha ristretta; mi hanno vestito a festa. Un compagno milanese, poiché portavo ancora gli zoccoli, mi ha fatto un magnifico paio di sandali estivi … bellissimi, tutti mi chiedevano dove avessi trovato il mio numero.

I ragazzi triestini hanno ideato la fuga dal campo di smistamento perché non si poteva uscire. Hanno girato tutto il campo e hanno cercato il posto migliore per poter scappare, hanno fatto un buco. Da quel buco partivano durante il giorno e cercavano di combinare un carretto per me perché io non potevo camminare. Si sono prodigati tanto; hanno trovato una carrozzina con le due ruote grandi, poi si sono procurati un po’ di legno, mi hanno fatto un bellissimo carretto con il sedile. A un dato momento mi dissero: “Preparati, questa sera la fuga”. Eravamo in dieci, c’era uno della Calabria, uno del Trentino, uno milanese, due goriziani, quattro di Trieste e noi due donne. L’accordo è fatto, il carretto è pronto: non rimaneva che aspettare che la ronda cambiasse giro. Quando tutti dormivano ci siamo messi in carica! Io, pacifica come una patrona seduta, e loro poverini che mi spingevano. Mi hanno riportato a casa, abbiamo fatto una bella gita, liberi.

Durante il giorno si camminava e si chiedeva dove andare; puntavamo su Vienna, lungo i paesi ci si fermava e ci si organizzava per mangiare. Si andava a rubare qualche gallina, qualche uovo, si andava dai contadini a chiedere qualche cosa, poi c’era qualche negozio aperto: si chiedeva, mostravo i miei numeri di campo, capivano subito che eravamo prigionieri, ci davano da mangiare quello che potevano, anche i contadini ci hanno aiutato veramente.

Una notte ci ha preso la pioggia ma eravamo talmente stanchi e giovani che abbiamo dormito; la pioggia ci ha bagnato molto bene, ci correva lungo la schiena perché eravamo distesi per terra sul prato, era giugno, caldo. Quando ci siamo svegliati alla mattina eravamo quasi già asciutti perché il sole ci aveva asciugato, ma io avevo dei brividi. Il giorno dopo la mia temperatura è salita, farneticavo, un signore ci ha prestato una bicicletta e uno di noi è andato dal medico: broncopolmonite. Dopo otto giorni il medico è ritornato, ci ha permesso di ripartire. In un paese mi hanno vestito con una tuta olimpionica e con scarponi da montagna perché era freddo e non potevo andare coi sandali; così vestita e imbacuccata, tutta piena di stracci, abbiamo proseguito. Ci hanno detto che un treno portava a Vienna, lo prendemmo – era un treno che portava carbone – ma alla mattina sentimmo parlare polacco. Eravamo entrati nuovamente in Polonia!

Cosa fare? Disse uno in stazione che nel pomeriggio un treno sarebbe andato verso la Germania. Tornammo in Germania, non ricordo la stazione. Alla fine con dei camion che portavano viveri in Germania ci siamo arrivati.

Un treno portava prigionieri francesi a casa; abbiamo aspettato, a noi si sono avvicinati altri prigionieri che sono rimpatriati; abbiamo detto che noi italiani non avevamo nessun collegamento con nessuno e cercavamo di  rimpatriare meglio possibile. Loro andavano verso la Svizzera, era pur sempre vicino all’Italia. Ci portarono. Sul treno non c’era più posto perché eravamo tanti, allora misero delle travi di traverso sul vagone bestiame: lì sopra siamo saliti noi e così siamo arrivati nelle vicinanze della Svizzera.

Sul treno si sono accorti che tanti avevano il tifo: la Svizzera non ci fece entrare, dovevamo passare per il Brennero. Dal Brennero siamo arrivati in treno a Bolzano; ci hanno scaricati, gli altri hanno proseguito: noi siamo rimasti là perché a Bolzano c’era lo smistamento di tutti i deportati e rimpatriati dai campi. In Svizzera ci avevano dato, prima di mandarci indietro, qualche cosa per coprirci e cibo in uno zainetto, ognuno aveva il suo zainetto. Purtroppo allo smistamento ci derubarono degli zaini. Ho perso le fotografie che mi avevano fatto i militari americani appena liberata, è la cosa che mi dispiaceva più di tutto, mi hanno portato via il vestito del campo che era per me la continuazione della mia vita. Avevo dentro dei libri, un bel diario. Tutto mi hanno portato via, una desolazione. Sono ritornata a casa con le mie tute, gonfia grassa, avevo due tute l’una sopra l’altra, una sciarpetta che mi copriva la testa: mi vergognavo con tutto quel bianco.

Quando siamo fuggiti dal campo di smistamento di Udine era un problema arrivare a casa perché era tutto bombardato, il treno da Udine non camminava.

D: Scusa, Nerina il percorso da Bolzano a Udine?

R:Da Bolzano partì un pullman su cui hanno preso tutti quelli che erano dei dintorni di Udine di Trieste.

A Udine c’era lo smistamento per le altre località, però bisognava attendere di fare la quarantena, ma chi faceva la quarantena! Sognavamo di trovare un mezzo di trasporto per poter scappare da Udine; è da lì che abbiamo progettato la fuga del gabinetto. Un’altra fuga. Mi sembra che fosse un edificio militare o comunale, forse una scuola o un ricreatorio; in basso, nei gabinetti, ti prendevano i dati e tutto. I ragazzi hanno ispezionato e hanno visto un gabinetto. Siamo entrati, abbiamo fatto quello che dovevamo fare e ci siamo messi in una stanzetta al pianoterra. Il gabinetto aveva un finestrino da spingere; per primo è andato Luciano di Trieste che era il più giovane. Poi è andato il più grasso, poi mi hanno sollevato e mi hanno fatta passare.

Ci  trovammo la notte a Udine, andammo alla stazione sperando in qualche treno in partenza. Si partì ma solo per un pezzetto, fino a Santa Maria la Longa. Ci incamminammo. Da una stradina di paese stava venendo un uomo coi cavalli e col carro. Ci siamo messe in mezzo alla strada e lo abbiamo pregato di fermarsi. Ci ha presi sul carro e portati a Monfalcone. Da Monfalcone i treni c’erano ma dovevamo avere i biglietti. I biglietti!!! Ma che ti sogni! A Monfalcone ci hanno ristorato con quello che potevano, un panino e una mela. Hanno voluto sapere se sapevamo di qualche morto di lì, poi ci hanno rifocillati nuovamente perché non si sapeva a che ora tornasse il treno. Il treno partì, era un treno lumaca. Su quel treno c’era gente che andava a fare la borsa nera.

Cerano due persone che abitavano nella mia stessa casa, al piano di sotto; io avevo sempre la testa fasciata. La signora mi fissò, io la vidi e la fissai anch’io: non sarà mica Silvia? Lei mi guardò e fece un urlo: “Dio, è la Cisa che ritorna, la Cisa non è morta!”. Qualcuno aveva portato la notizia che io e un signore di Trieste eravamo morti, perciò a casa mia sapevano che ero morta.

Ci ha preso una tale smania di tornare a casa, una voglia di correre. Sai cosa ho chiesto per prima cosa? Mio fratello è tornato vivo? Si, ti aspettano tutti anche la mamma e il papà.

Quando siamo entrati nella zona nostra e ho visto Miramare mi sentivo fare bububum bububum, dicevo: “Oddio, mi si ferma il cuore!” Sentivo il fuoco alla testa.

Finalmente entrammo in stazione, io camminavo su e giù per il treno e non appena hanno aperto le porte sono caduta indietro e sono svenuta. Nessuno era alla stazione ad attendere i rimpatriati in Trieste! C’erano gli americani e nessuno si è interessato di niente.

Arriviamo a casa, ero tutta infagottata, a metà strada c’è la casa di mia zia, mia cugina era alla finestra. Io ero là tutta imbacuccata, e lei disse: “Ma guarda quella, perfino in testa si è messa qualcosa da nascondere”. Mi guardò, la guardai, tutto a un tratto la vidi impallidire, urlò e disse: “E’ ritornata mia cugina!” Quella fu la prima volta che piansi. Quando ci siamo viste non potevo né parlare né niente. La mamma non era a casa, era uscita con un’altra signora. Quando tornò e mi vide disse: “No, questa non è mia figlia, avete sbagliato, non è lei, questa non la conosco”. Si capisce: ero tutta fasciata. Ero talmente piccola quando sono partita e piccolissima quando sono rientrata. E poi sai cosa mi ha chiesto la mamma appena mi ha visto? “Amore, ti fo’ il caffè?”. Dico: “No mamma, il caffè l’ho bevuto; ti prego i fagioli, fammi dei fagioli”. E la mamma ha fatto presto, non so come ha fatto. Ho chiesto al papà del vino e ne ho bevuta mezza bottiglia. Poi sono arrivati tutti i miei zii. E abbiamo fatto la notte tutti in piedi.

Rossetti Sergio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io  mi chiamo Rossetti Sergio, sono nato a La Spezia il 23.12.1927.

D:  Sergio, quando ti hanno arrestato?

R: Io abitavo in un paese vicino a La Spezia, a Buonviaggio, un paese bello, anche il nome lo dice, e tutte le mattine partivo per andavo a lavorare in Arsenale, nello stabilimento militare. Si andava a piedi da Buonviaggio a Migliarina dove si pigliava il tramvai.

In un posto distante da casa mia due chilometri ad un bivio c’era un posto di blocco della Guardia Nazionale Repubblicana. Vidi alcuni miei conoscenti fermi sul ponte della Dorgia, ma non ci feci caso.

Al tempo avevo appena 17 anni, ero ancora ingenuo, non avevo l’esperienza dei ragazzi di oggi.

Difatti mi fermarono e mi misero insieme agli altri amici che conoscevo – Boni Alfredo, Chella Rino, Morelli Vittorio, Baroncelli Antonio e Monteverdi Giuseppe, di un paese vicino. Restammo fermi una mezz’oretta; quando videro che il gruppo si era formato, ci incolonnarono tutti lungo la statale cosiddetta della Cima, e dal ponte andammo in uno stabilimento militare distante 500 metri.

Era un deposito di mine e siluri della Marina, ci portarono là, era chiamato la Flage.

Cominciarono i primi interrogatori, ci chiamavano uno alla volta; venne il mio turno, andai dentro, c’era una scrivania, due borghesi e due militari ai lati. Vollero sapere come mi chiamavo, dove abitavo, quanti eravamo in famiglia, di che religione, la politica. Dissi che lavoravo in Arsenale, avevo anche il documento per poter entrare; quando mi chiesero gli anni dissi: “Faccio 17 anni a dicembre”.  Mi arrivò uno scappellotto sul collo e un calcio nel sedere e mi disse: “Tu sei troppo giovane, mettiti faccia al muro”. Quando anche gli altri finirono l’interrogatorio, ci caricarono su dei mezzi coperti con teloni, e ci portarono alla caserma del 21° Reggimento Fanteria.

D:  Quando ti fecero l’interrogatorio e chi lo ha conduceva?

R:  Il 21 novembre 1944, il giorno del grande rastrellamento di Migliarina.

Lo stesso giorno in cui mi fermarono subii questo primo interrogatorio alla Flage.

D: Da parte di chi?

R: Non lo so. Erano due borghesi e due militari della Guardia Nazionale Repubblicana, non so chi fossero. Di politica non mi sono mai interessato. Andavo a lavorare, però avevo ancora il carrettino con le ruote per divertirmi, lungo la strada. E pensare che in tempo di guerra mio padre era stato richiamato, si era fatto la guerra di Grecia e d’Albania, dopo aveva fatto domanda di rimpatrio per famiglia numerosa – eravamo quattro sorelle e due fratelli in casa, un fratello nacque nel 1944. Voglio dire che non si era fascisti ma si viveva la nostra vita normale. Ci portarono sugli automezzi, non so se cinque o sei, al 21° Fanteria. Ci misero nelle celle, ricordo che ero solo in cella; dopo mi misero insieme a Baroncelli, che era con me la mattina del posto di blocco.

La sera ci chiamarono ad un altro interrogatorio, che era normale. Botte non ne presi, anzi, mi levarono sciarpa, stringhe e fazzoletto: dicevano di aver paura che ci si potesse strozzare. Stetti due giorni in caserma, si aspettava che facessero il loro lavoro, però nella notte si sentivano urla, schiamazzi, passi di scarponi: si vede che qualcuno voleva sapere i nomi di partigiani, si sentiva urlare, sbattere le porte e tutto. Finito al 21° Fanteria, il giorno 22 o 23 novembre, ci caricarono su automezzi coperti e ci portarono al ponte Pirelli, un ponte militare; lì caricavano e scaricavano munizioni, vicino c’era il binario che andava alla polveriera Vallegrande. Tutti in fila; una motozattera ci aspettava. Insieme a noi c’erano un certo Vigilante Giuseppe, commissario di pubblica sicurezza, e un certo Carrè, che era un becchino dell’ospedale; l’avevano accusato di nascondere armi sotto le tombe, invece non era vero. A loro non interessava niente, volevano che dicesse dei nomi per andarli a prendere e far loro confessare certe cose. Ricordo il povero Vigilante, che era un uomo sulla sessantina, entrare nella motozattera su una scaletta; io avevo 17 anni e cercavo di evitare le botte che davano mentre si passava sulla scaletta, ma il poveretto rimase con la gamba tra la scaletta e la parete. Si rovinò la gamba, alla bell’e meglio lo sdraiammo nella motozattera. Partimmo di sera, verso le cinque, ed arrivammo via mare al porto di Genova. A Genova ci caricarono sugli automezzi e ci portarono alle carceri di Marassi. Ci portarono subito nelle celle, ricordo che ero sempre con Baroncelli, un vicino di casa, eravamo cresciuti insieme. A Marassi stemmo dal 23 / 24 novembre fino al 12 / 13 gennaio (1945). Una mia sorella mi portò il corredo, un baule di roba con cappotto, giacche, scarpe, magliette, tutto l’occorrente, perché si diceva di andare a lavorare in Germania. Nelle carceri di Marassi davano una sbroda e il pane, si tirava avanti. Dopo arrivò il momento dell’interrogatorio; siccome andavano in ordine alfabetico, vidi portare su due o tre che per le botte prese tornavano gonfi. Tanti non volevano confessare, ma loro imponevano: “Tu hai fatto questo, hai fatto quest’altro”. Come potevo confessare cose che non avevo fatto? Ti picchiavano per poter cavar qualcosa. Dopo capitò il mio turno: andai dentro, c’erano Battisti e Morelli, due della polizia giudiziaria che picchiavano davvero; poi c’era un tedesco che scriveva a macchina e un altro militare, non so di che rango né se fosse italiano o tedesco. Ero in piedi e ai lati c’erano questi due con due nervi in mano, mi ricordo.

Vollero sapere nome e cognome, dove lavoravo, la famiglia, la religione, il solito interrogatorio che avevo fatto la prima volta, era già tutto predisposto e programmato. Dietro me c’erano gli accusatori: poveracci, anche loro erano stati picchiati, facevano il doppiogioco. Quando ti fanno delle torture dire di no costa ancora di più, è così che ti accusavano. Mi accusarono di questo: il prete di Migliarina mi avrebbe dato un fucile, avrei lanciato dei manifestini,  sabotato i magazzini di Ceparana ed ucciso uno della Guardia Nazionale dietro una batteria dove vivevo. Insomma mi diedero sette condanne. Quando dissi: “Ma io sono un ragazzo, vado a lavorare in Arsenale, cerco di fare il mio dovere”, mi arrivò un calcio negli stinchi. Dico la verità, non dico che mi hanno bastonato, mi è arrivato un calcio negli stinchi e basta. Dovetti firmare il foglio, la mia condanna a morte, come fecero tutti. 99 su 100 firmarono: sotto tortura, chi non firma? Così finì l’interrogatorio e ci riportarono in cella. Certi giorni si stava in due in cella, dopo ci cambiarono cella e si stava in quattro, dopo in otto. Arrivarono il giorno di Natale, il primo dell’anno, l’Epifania e il momento della partenza. Tornando indietro, devo dire che Marassi era una riserva: quando ammazzavano qualcuno lo pigliavano da lì, come dalla Casa dello Studente; a noi andò bene.

Arrivò l’ora della partenza; una mattina ci misero in colonna tutti quanti, riempirono due corriere, ammanettati sinistro con destro come tanti briganti, legati con la catena. Tutti avevano le valigie, chi ne aveva due chi una, ma più o meno avevano tutti due valigie. Povere donne: le mogli, le sorelle, le fidanzate, che avevano fatto a piedi La Spezia – Genova sotto la galleria, col treno, perché sulla strada non potevano passare, cercando di portare la roba ai familiari.

Sulla corriera noi si era accompagnati da tedeschi in licenza, sempre con il fucile puntato alla schiena; lungo il percorso, al Passo dei Giovi, il camion si fermò perché ce n’era un altro che impicciava; allora due dei nostri scapparono: un certo Moscatelli di Migliarina e un certo Taddei e non li ripresero.

Ripartimmo ed arrivammo a Trento. A Trento ci fermammo per fare i nostri bisogni, legati insieme. E’ vero che si era tutti uomini, però un po’ di pudore ci vuole anche tra uomini.

Un certo Tosetti del Filettino e un altro tentarono la fuga ma li presero e diedero loro tante di quelle botte!

Quando arrivammo a Bolzano li misero nelle celle di rigore; li picchiarono forte davvero! Dopo li portarono con noi a Bolzano.

Arrivati a Bolzano, fummo scaricati. Avevo il numero, mi sembra 8.800 e tanti, non mi ricordo di preciso, e il triangolo rosso. Per prima cosa ci fecero i capelli da zucca pelata. A Bolzano si viveva, non c’era pericolo, ci passavano poco mangiare e stavamo lì, aspettando la manna dal cielo. Anche lì arrivò il giorno della partenza. Ricordo che era il 31 gennaio 1945, tutti in fila eravamo mi pare 640 o 650, con le valigie in mano, guardati sempre dai tedeschi e dai cani al guinzaglio; il cane per loro era familiare, era la base principale. A Bolzano sembrava di costeggiare la ferrovia, distante abbiamo visto un treno merci; ricordo che sopra il tetto di una grande fabbrica ho visto la scritta Lama Bolzano. Mi ricordo che era il 31 gennaio 1945, era tutto bianco di neve.

D:  Quando eri nel campo di Bolzano ricordi di aver visto delle donne?

R:  Sì, c’era un muro divisorio di mattoni e di là c’erano le donne.

D:  Hai visto se c’erano dei religiosi, nel campo?

R: Tornando indietro a Genova, c’erano 8 preti, tra cui padre Pio di Mazzetta, don Mori de La Scorza, don Scarpato di Fossa Mastra, don Casabianca di Ceparana e don Bertoni, non so di che parrocchia. Al povero padre Pio, che era un frate di quelli bianchi, un omone così, mettevano i morsetti ai polsi per farlo confessare, e cercavano di stringergli le braccia per farlo parlare. Non so se parlò perché i religiosi erano divisi da noi.

D: A Bolzano invece non ricordi di averne visti?

R: A Bolzano quelli che ho nominato non sono venuti, forse sono venuti dopo nell’ultimo trasporto, però con noi non c’erano. A Bolzano per dire la verità li avrò visti, però non mi ricordo.

D:  Quindi ti hanno portato dove c’erano i vagoni?

R: Per farci salire sul vagone fecero uno scalone di legno, però ai lati c’erano sempre gli aguzzini che cercavano di picchiare coi calci, con il moschetto, con le mani, con tutto. Io avevo 17 anni e cercavo di … però c’era gente anziana, malata, zoppa, che purtroppo subì quello che subì. Dentro il vagone trovammo tanta paglia; penso che fossimo una settantina, e nel nostro vagone c’era Vigilante, poverino, con la gamba menomata e l’altro, Carrè il becchino, che è morto durante il percorso ed era già moribondo alla partenza. Ci caricarono e via. Vedevi neve, neve, tutto neve. Facemmo quattro giorni e quattro notti senza mangiare e senza bere; si mangiava la neve attaccata al treno; in quei quattro giorni e quattro notti io non mangiai niente. Dentro il vagone, in un angolo, c’era un mastello per i nostri bisogni. La nostra destinazione era ignota, andavamo a lavorare ma dove precisamente non si sapeva. A forza di camminare il treno arrivò alla stazione. Ricordo che prima che il treno si fermasse, si iniziavano già a sentire urla di cattiveria, fare presto, sbrigarsi, insomma si vedeva dai movimenti, si vedevano tedeschi e cani al guinzaglio. Arrivammo in questa stazione, uscimmo tutti. Alla stazione si vide la scritta Mauthausen, pensavo di andare in riviera come qua a Manarola, a Rio Maggiore, a Vernazza. Non si sapeva mica che Mauthausen era rinomata per quel campo. Ci misero tutti insieme, cinque con le nostre care valigie in mano; invece di fare la strada principale di Mauthausen ci fecero fare una secondaria, piena di neve, sterrata. Ai lati della strada c’erano donne, uomini, bambini, vecchi. Quello che non ci arrivò addosso … palle di neve, pezzi di sassi, sputi, Badogliani, traditori, insomma tutto quello che potevano vomitare vomitarono. Andammo su piano piano, dalla stazione al campo ci saranno 5 / 6 chilometri, tutto era coperto di neve, non si vedeva niente, alberi e basta. Lungo il percorso si vedevano uomini vestiti zebrati, però non pensavo che fossero prigionieri; man mano che si andava avanti si vedeva anche di più: spalavano, pulivano la strada, li vedevo magri, con gli occhi infossati, la zucca pelata, guardati dai tedeschi. Man mano che si avvicinavano vedevamo grandi camini fumare, un grande muraglione.

Dopo si arrivò alla porta d’ingresso del campo. Prima entrammo dai depositi dell’attrezzatura tedesca.

Una parte di noi era rimasta in quel perimetro grande, e una parte su una scaletta a destra entrò proprio nel campo di concentramento. Si entrò dalla porta, girando a destra; dopo andammo verso il muro del pianto.

Entrando nel campo girai la testa e vidi attaccato alla catena dell’ingresso un uomo ma non vidi se era legato; pensai che fosse fermo lì, invece poi vidi che era legato con una catena. Lo avevano messo come esempio: se uno non fosse stato agli ordini del campo sarebbe andato a finire lì per punizione! Arrivati nel piazzale c’erano 30 / 40 centimetri di neve, un manto bianco; penso che saremmo stati in 300, una parte rimase sotto ad aspettare il turno.  Venne il tedesco a parlare con l’interprete e ci fece depositare tutte le valigie.

Pensa quanta roba rubarono! Ognuno aveva una valigia o due, il vestiario, la biancheria, può darsi anche soldi, roba da mangiare, tanti la tenevano. Vedevano che c’era gente che non mangiava però – fa parte dell’egoismo – se la tenevano, ma quando arrivammo al campo ci portarono via tutto.

Depositammo le valigie, seguì un altro ordine: spogliarsi tutti nudi, levarsi gli indumenti, tutti. Uomini, grandi, piccoli, vidi scene un po’ commoventi. Recentemente, quando il Papa è andato in Israele ha visitato il Muro del Pianto: ma era quello di Mauthausen il vero muro del pianto!

Ho visto uomini anziani depositare catenine, anelli, portafogli, volevano tenersi una fotografia della moglie o del figlio, niente, lasciare lì. Guai se trovavano qualcosa addosso, erano punizioni tremende, infatti lasciarono tutto. Fatto questo andammo tutti in fila giù per una scaletta senza sapere dove, sempre destinazione ignota; ai lati della scaletta c’erano non militari ma borghesi, prigionieri come noi, e cominciammo ad assaggiare le botte del campo. Infatti entrammo, c’erano i barbieri con le macchinette, testa pelata, a me fecero la Strasse in mezzo, tutti i peli sulle braccia rasati; dopo le docce, acqua calda e acqua fredda. Si divertivano anche; finché era calda, bene ma quando era fredda, era pur sempre il 4 febbraio.

Finito questo programma pensai: “Ora ci daranno un asciugamano”, ma niente. A 50 metri c’erano due con dei pennelli, facevano un segno e dicevano che fosse disinfettante. Poi tornammo fuori dove ci avevano spogliati. Mi ricordo che presi un paio di pantaloni e una camicia, mutande niente, un paio di zoccoli con la striscia. Dopo mi capitarono un paio di zoccoli un po’ più robusti e li presi. Finimmo di vestirci alla bell’e meglio e ci portarono al blocco di quarantena. Io ero nella prima baracca, forse la 22; dopo c’era il muro perimetrale che divideva la quarantena. In baracca ci misero a dormire; i pagliericci avevano 3 centimetri di spessore. Alla mattina presto cominciai a sentire urlare, con i nervi in mano; prima di uscire e andare fuori all’aperto passammo sotto i lavandini tondi tipo militare con tanti rubinetti: a  petto nudo a bagnarsi testa, torace, schiena. Non c’erano gli asciugamani che si usano in casa, solo con la camicia e fuori all’aperto.

Dopo un po’ ci diedero il primo caffè, chiamiamolo caffè ma era acqua calda; lo bevemmo perché l’acqua calda faceva bene. Dopo fecero cominciare l’appello, tutti in fila, la mia prima volta che subii l’appello nel campo di Mauthausen, prima l’avevo subito a Bolzano. Tutti in fila, prima fecero le prove con il cappello, Mütze ab, Mütze auf dovevano sentire un colpo; un paio di volte lo ripetemmo, e dopo alla bell’e meglio lo facemmo.

D: Quando ti hanno immatricolato?

R: Finito l’appello, verso mezzogiorno, diedero la zuppa, tutti in fila; si cercava sul fondo dove era più densa, però a volte di capitava e a volte no. C’erano tanti prigionieri ma una gamella a testa non c’era; erano gamelle smaltate, tutte rugginose, brutte, io in tre mesi a Mauthausen il cucchiaio non l’ho mai visto, si mangiava con le mani: bisognava far presto a mangiare perché gli altri aspettavano che finissi per passargli la gamella, si doveva pulire bene perché c’era solamente quella.

Finito il mangiare di mezzogiorno arrivava la sera. Alla sera davano il pane, si mettevano fuori vicino al tavolo, tagliavano questo pane a fette, non so se era di 1 o 2 centimetri, davano un pezzetto di margarina, un po’ di marmellata o qualche pezzetto di salame, il pranzo era questo. Quando avevano finito di tagliare il pane sulla coperta la sbattevano e tutti le saltavano addosso per mangiare le briciole.

Quando racconto questi episodi nelle scuole mi guardano un po’ strano e dicono: “Ma questo cosa racconta?” A tante cose è difficile credere, magari a scuola non le hanno insegnate, però sono cose che ho visto e vissuto.

Finito di mangiare il pane si andava in branda in baracca, ma prima di entrare ci dovevamo spogliare, fare il nostro cuscino, andare dentro tutti in fila, e non mettersi con la pancia per aria, comodi sui pagliericci, ma a lisca di pesce, testa e piedi, testa e piedi, testa e piedi… Non eravamo solamente tutti italiani, c’erano anche francesi, tedeschi, polacchi, russi, non ci capivamo, non si poteva dire: “Spostati un attimo”. Se urlavi era un parapiglia; lasciavamo un corridoio per chi di notte andasse a fare i bisogni. C’erano i gabinetti, con i lavandini ed anche i water, però non ci sono mai andato. Dietro c’erano i bidoni o una fossa con una tavola di traverso; i nostri bisogni li facevamo lì.

Nel blocco rimasi dal 4 febbraio fino al 5 maggio, sempre così. Fu la mia fortuna, io avrò lavorato in tutto quindici giorni, mi chiamarono a fare delle fosse con picco e pala, non so se erano delle fosse comuni o fosse che interessavano a loro.

D: La tua immatricolazione?

R: L’immatricolazione non ricordo come sia andata; era una striscia bianca col numero, io avevo il 126.404 con il triangolo rosso e la sigla IT; davano una piastrina di ferro legata col filo che mi rimase per ricordo, ce l’ho nella borsa se dopo la volete vedere. Nel periodo della quarantena una volta ci portarono sotto un grande tendone in fondo al campo; c’era una porticina di legno, sulla destra ora c’è il museo.

Una volta vennero i tedeschi coi cani dietro a questa porticina del tendone grande come i tendoni da circo. Non so per quale motivo, ma stemmo due giorni lì dentro, e dopo ci riportarono nel blocco.

A volte mi dicono: “Ma tu sei ritornato a casa!” Ragazzi, che ci posso fare? Ci sono diverse cose da raccontare. Nel blocco di quarantena un giorno mancavano due deportati all’appello. Erano due come noi e stemmo quasi tre o quattro ore fermi all’appello; girarono dappertutto e li trovarono. Li portarono dentro: la porta dove adesso c’è un cancello una volta era chiusa e di legno, vedevi solamente baracche e cielo, baracche e cielo.  Li presero per il petto, li buttarono contro il muro perimetrale del campo, rimasero un giorno e mezzo lì, morti così.

Quando vado là porto i ragazzi e racconto loro questo particolare che mi è rimasto impresso, e tutte le volte metto un paio di fiori nel campo, perché erano deportati come noi.

D: Dicevi di essere uscito alcune volte per andare a fare dei lavori; uscivi dal campo?

R: Sì, però non sapevo dove andassi, andavamo a circa 100 / 200 metri, sempre guardati dai tedeschi in divisa, non sapevamo dove ma eravamo proprio fuori dal campo.

D: Il momento della Liberazione dove ti trovavi?

R: Voglio raccontare un altro particolare. Quando ero nel blocco di quarantena, ogni tanto venivano i tedeschi a cavallo coi cani, ci facevano girare intorno al perimetro della baracca, lo facevano apposta per eliminare noi deportati. Nella mia baracca c’erano diversi italiani tra cui diversi spezzini che man mano andavano a lavorare fuori o cambiavano baracca o morivano. Rimasi l’unico spezzino con un certo Bonati Fabio di vicino Migliarina, che aveva 24 anni ed era ben messo. Ciononostante cominciò ad ammalarsi, lo vedevo tutti giorni deperire; quando facevamo l’appello cercavo di stargli vicino e di aiutarlo per quello che potevo fare. Vedevo però che non ce la faceva, vedevo che ormai era sfinito; ad un certo punto cascò vicino a me e mi disse: “Vai via che io non ce la faccio più”:  lo lasciai e non lo rividi più.

Sono due cose che mi sono rimaste impresse.

D: La Liberazione te la ricordi?

R: La ricordo perché un paio di giorni prima qualcosa era migliorato, non si vedevano più le solite angherie. Vedevo che i morti aumentavano, e ogni tanto alla mattina cinque o sei erano morti, si portavano su e poi arrivava il carretto che li portava via. Non si sapeva dove li portassero, perché noi il crematoio l’abbiamo visto quando ci hanno liberato: si vedeva il camino fumare ma non si pensava ai cadaveri, era tutto misterioso. Prima della Liberazione erano cambiate anche le sentinelle, non si vedevano più le SS bensì le cosiddette guardie territoriali; non c’era più la cattiveria di prima.

La Liberazione fu il 5 maggio (1945), lo sapemmo dopo che era il 5 maggio; lì si perdeva anche il nome dei mesi e non si sapevano i giorni della settimana. Sentivamo le grandi urla della folla, tutti i deportati andavano nella piazza principale del campo. Vedemmo una camionetta militare con sei soldati a bordo con l’elmetto, non con le divise marziali dei tedeschi. Avevano lanciato roba da mangiare, sigarette, scatolette, caramelle.

Io qualcosa arraffai ma c’erano migliaia di persone, come facevi?

Al giorno della Liberazione tutti i deportati si radunarono: incontrai Vasoli, Tartarini e Carassale, questi tre. Uscimmo dal campo ed andammo nelle cascine dei contadini: c’era una cascina che si vede ora dal museo, mi feci anche una foto, la vedi se ti arrampichi sul muretto. Parlavano tedesco ma i gesti … 

Iniziai a mangiare, portarono pane, uova, una zuppiera di carne di maiale. La notte dormimmo nel fienile ed alla mattina andammo in un’altra cascina. Mentre facevamo questo percorso si sentivano gli altoparlanti in diverse lingue: “Tutti i prigionieri sono pregati di ritornare nel campo perché presto ci sarà il rimpatrio”.

Tornammo. Avevo un fagottino con della roba, non ricordo se pane o uova: all’entrata del campo c’era un Militar Police con casco e fucile: mi portò da due o tre militari che mi buttarono in cella di rigore. Ci stetti  un quarto d’ora e poi mi lasciarono andare. Tornammo al nostro blocco, sempre con questi tre amici di Migliarina. Ci diedero pacchi americani con tanta roba, minestra in scatola, noccioline, cioccolate, sigarette, latte in scatola ma l’istinto della fame! Tutti i deportati che erano usciti, dopo che il campo era stato liberato, entravano con le mucche alla corda, con pecore, conigli, galline, tutto. Però non potevano entrare nel campo, i militari li fermavano, dopo chiamavano i contadini che venissero a prendersi la roba. Diedero due o tre giorni di carta bianca, vidi scene terribili.

D: Sergio, quando e come sei rientrato in Italia?

R: Siamo partiti il 2 giugno 1945, quanti ne abbiamo oggi? 55 anni fa ero per strada che stavo ritornando. Un po’ sui camions militari americani con la pedana a destra e a sinistra, un po’ in treno, un po’ a piedi. Ricordo che arrivammo in un posto di ristoro, era un campo francese, dissi a Vasoli: “Ma guarda un po’, dopo sei mesi si dorme in un lenzuolo bianco”. Ci trattarono bene, si mangiava, ci stemmo un giorno e dopo ripartimmo. Ci fermavamo nei posti di ristoro; a Innsbruck ci misero in un campo pieno di pulci e pidocchi, ma non c’era altro posto.  Venivano gli americani con le pompe a disinfettare. Dopo ripartimmo per l’Italia, su questi camion militari. Si vedevano la bandiera italiana e la bandiera austriaca e l’autista disse: “Siamo arrivati in Italia”. Allora scendemmo tutti a baciare la bandiera italiana.

A raccontarle sono cose molto tristi. Arrivammo a Bolzano, ricordo che dove ci eravamo fermati col camion c’era un ciliegio, strappammo i frutti e li mangiammo. Prima di ripartire ci portarono in ospedale, ci visitarono. Mi avrebbero dovuto trattenere perché ero molto deperito ma dissi di voler andare a casa a trovare i miei. A camminare facevo fatica perché ero debole, però volevo andare a casa mia.

Da Bolzano partimmo in treno, che ad un certo punto si fermò perché non poteva più andare avanti. Allora siamo andati con le corriere fino alla stazione centrale di  Milano. A Milano andammo in un punto di ristoro, ci fecero mangiare e bere; poi arrivammo a Genova alla Curia vescovile: io, Vasoli, Tartarini e Carassale, girammo per la città e arrivammo a Prè. Vedendo il nostro aspetto tutti dicevano: “Ma da dove venite così mal ridotti?” “Veniamo dalla prigionia, veniamo dal campo di Mauthausen”. Fecero una colletta che ci siamo divisa un po’ per uno. Da Genova a La Spezia abbiamo preso un camion che andava verso Livorno. Siamo arrivati a La Spezia nella Piazza del mercato, davanti al bar chiamato “Bar Spezia”. Siamo scesi lì verso mezzanotte, abbiamo diviso il nostro gruzzoletto di soldi e ci siamo salutati dirigendoci verso le nostre case.

Salmoni Gilberto

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Gilberto Salmoni, sono nato a Genova il 15 giugno 1928 e abito a Genova.

Sono stato arrestato dalla milizia della Repubblica di Salò alla frontiera svizzera, il 17 aprile 1944, in alta montagna. Eravamo partiti da Bormio, tutta la famiglia: papà, mamma, mio fratello, mia sorella e mio cognato, cioè suo marito.

Con due guide di Bormio, Pedrazzini e Fumagalli, abbiamo camminato tutta la notte; è piovuto in bassa quota ed ha nevicato in alta quota. Eravamo arrivati al passo, che mi hanno detto dopo chiamarsi Passo della Forcola, sui 2.770 metri di altitudine. A quel punto le guide ci hanno detto che potevamo riposarci qualche  minuto, c’era una capanna; invece siamo stati sorpresi dalla milizia. Eravamo ormai alla fine della salita, non avevamo che da scendere.

Siamo stati portati alla caserma della milizia confinaria di Cancano poi al carcere di Bormio. Alla caserma di Cancano siamo stati interrogati, ci hanno sequestrato gli orologi e i soldi, che poi abbiamo trovato, ci hanno fatto firmare, una cosa del tutto regolare. Siamo stati anche interrogati nel senso che uno aveva una specie di pugnale, ma insomma non è stata una cosa tremenda, si vedeva che voleva darsi delle arie. Poi ci hanno portato al carcere di Bormio. Il carcere di Bormio è un carcere di paese; c’era un ladro con le catene ai piedi e la palla, quella delle vignette. Dopo due giorni ci hanno portato a Tirano e lì siamo stati consegnati alla gendarmeria tedesca. Il giorno dopo, accompagnati dai carabinieri, sul treno e ammanettati siamo andati a Como, e lì consegnati alle SS.

A Como siamo stati 5 giorni, grossomodo; poi siamo stati portati a Milano al carcere di San Vittore.

Non so come si chiamassero le carceri di Como, so che ci siamo arrivati il 21 aprile, Natale di Roma. Dicevano che era l’unica giornata in cui davano la pastasciutta invece della minestra, ma noi l’abbiamo saltata, abbiamo avuto la sbobba.

D: Poi a Milano, San Vittore.

R:Poi San Vittore. A San Vittore c’era un’organizzazione clandestina molto forte, che portava del cibo in più rispetto a quello che veniva distribuito dai carcerieri.

Io non ho detto fino a questo momento che eravamo stati arrestati come ebrei, anche se a rigore la mia famiglia era mista. In realtà c’era soltanto una nonna cattolica, però poi con dei documenti saltavano fuori due non cattolici. Noi eravamo battezzati, però al momento non abbiamo tirato fuori questa cosa. A San Vittore abbiam passato un bel po’ di tempo, una decina di giorni almeno.

Tra l’altro ci han portato a scavare bombe inesplose a Lambrate, alla Innocenti: eravamo stati caricati su un camion, tutti incatenati, una ventina di persone, e portati là con questa consegna: “Il buchetto che vedete bisogna allargarlo fino a trovare la bomba, mi raccomando non picchiateci sopra.” Ci abbiamo picchiato sopra ma non è esplosa, perché ci davano un piccone.

Di lì siamo andati a Fossoli. A Fossoli ha giocato la documentazione che avevamo, difatti gli altri ebrei son partiti per Auschwitz, noi invece siamo rimasti a Fossoli per un periodo abbastanza lungo, cioè fino allo sgombero del campo. In realtà quelli giudicati misti erano trattenuti.

D: Con voi c’erano delle donne della tua famiglia?

R: Certo.

D: Vi hanno separati?

R:Separati, però ci si vedeva, mentre a San Vittore si era insieme, non facevano separazione. Noi eravamo all’ultimo piano del raggio, adesso non ricordo se il raggio era il 5 o il 6. Le celle erano aperte, quindi si poteva circolare nel corridoio.

A Fossoli in realtà si lavorava poco, era un campo di transito, non era organizzato per seviziare. Era organizzato per trasferire quelli che poi venivano trasferiti. Comunque nel periodo in cui siamo stati lì c’è stata la chiamata per un trasporto mi pare di 70 persone, che poi in realtà sono state fucilate al poligono di Carpi. Prima di loro sono stati chiamati quelli che hanno scavato la fossa. La cosa è risultata subito evidente perché i bagagli dei 70 erano partiti e son tornati indietro. Si capiva anche perché quelli che avevano scavato la fossa ci han detto: “Non chiedeteci niente, non possiamo parlare.”

Ho dimenticato di dire che a San Vittore abbiamo avuto un interrogatorio abbastanza duro ma non tremendo, duro per mio fratello e mio cognato: mio fratello aveva 15 anni più di me, mio cognato, che è cattolico e avrebbe dovuto presentarsi militare alla Repubblica di Salò, ebbe due denti rotti perché gli tirarono una pistola in bocca. Mio fratello si è preso degli schiaffoni; io ero lì fuori a vedere, a me non hanno fatto un granché. Il nostro timore era che ci chiedessero chi ci aveva ospitato fino a quel giorno, però non abbiamo avuto torture particolari, minacce ed urla sì, ma insomma …

Fossoli è un campo in cui c’era anche uno spaccio che completava l’alimentazione che passava l’SS; era un campo relativamente tranquillo, relativamente perché vi dico c’è stata la fucilazione. Un prigioniero politico che era riuscito a scappare è stato poi ritrovato e massacrato dalle botte, in faccia a tutti sulla piazza dell’appello, apposta, chiaramente. E poi ci è stato detto che eravamo stati abbastanza in villeggiatura e che avremmo dovuto andare in un campo ben organizzato.

D: A Fossoli sei stato immatricolato?

R: No. 

D: Ricordi se a Fossoli c’erano dei religiosi?

R:No, non lo ricordo, so che forse don Gaggero c’era. La parte ebraica era separata dalla parte politica, anche se per esempio mio fratello era medico ma andava nell’infermeria dove c’era Ottorino Balduzzi. E’ risultato dopo che Balduzzi era il comandante dell’organizzazione Otto che teneva i contatti radio con gli alleati. Con mio fratello si conoscevano già, Balduzzi era più anziano, era una persona già professionalmente affermata. Ad ogni modo noi circolavamo nella parte ebraica del campo. C’erano invece dei prigionieri olandesi ed inglesi che avevano un trattamento migliore sicuramente e non erano chiamati a lavorare. Io invece lavoravo.

D: A Fossoli lavoravi?

R: A Fossoli lavoravo, non sistematicamente, però; facevo la cernita della spazzatura, quella che adesso chiamiamo la spazzatura differenziata: noi andavamo sul mucchio della spazzatura a separare la parte metallica dalla parte non metallica. Cioè le scatolette dal resto.

D: All’interno del campo?

R:All’interno del campo. Nei primi giorni mi avevano mandato a lucidare le scarpe delle SS, non ero molto bravo; poi una volta c’è stata una visita di Buffarini Guidi, che era il ministro degli interni italiano, e ci hanno organizzato un trasporto pietre, cioè c’era un mucchio di sassi e ci facevano fare la catena, tanto per far vedere che facevamo qualcosa: una buffonata, insomma.

D: Poi hanno organizzato il vostro trasporto per l’altro campo.

R:Siamo stati portati a Verona. Allora si passava il Po sulle barche, perché i ponti erano interrotti, quindi una corriera arrivava fino ad una riva e un’altra corriera sull’altra riva ci portava a Verona.

D: Durante il tuo periodo di Fossoli hai potuto comunicare con l’esterno del campo, scrivere o ricevere?

R:Io avevo un amico di Modena, o lì vicino, non so come gli ho scritto che ero lì, se poteva mandarci qualche genere alimentare e ci ha mandato un pacco con pane e uova, adesso non ricordo esattamente. Erano i conti Pignatti Morano, di Custoza mi sembra, bravissime persone che abitavano a Genova, e poi erano arrivati a Bogliasco dove eravamo sfollati per i bombardamenti, quindi li conoscevo bene. Eravamo molto amici con uno che aveva un anno o due più di me. Ho scritto e molto gentilmente loro l’hanno mandato. A differenza della Germania dove noi potevamo scrivere al massimo tra un campo e l’altro, ma nessuno sapeva dove fossimo.

D: Quindi vi hanno trasportato a Verona …

R:A Verona ci hanno fatto salire su un treno a Porta Vescovo, su dei vagoni, separandoci.

La separazione era già stata stabilita a Fossoli, con determinati criteri loro che poi ho cercato di ricostruire. Quindi mia madre, mio padre e mia sorella erano in un vagone, io e mio fratello in un altro. Le due guide invece erano già state mandate a Mauthausen, però una scappò durante il viaggio e andò coi partigiani della zona di Bormio. Io e mio fratello siamo stati fatti scendere a Innsbruck con l’incarico di portare il caffè ai prigionieri e in quel momento abbiamo visto che sul vagone dove c’erano i miei c’era scritto “Auschwitz”.

Già si sapeva che non c’era da aspettarsi niente di buono. Invece sul nostro abbiamo visto scritto “Buchenwald”, che per noi era un nome sconosciuto.

D:Dici di aver visto le scritte all’esterno o nel vagone?

R:Dove mettevano le spedizioni, credo che fosse quello. Era scritto molto chiaramente “Auschwitz”, e già sapevamo bene. E’ un’informazione che non so come e quando ci sia arrivata, però io so che quando siamo arrivati a Buchenwald e ci hanno portato alle docce, dicevamo: “Vediamo se esce il gas”, quindi … erano già informazioni acquisite.

D: Da Innsbruck poi il convoglio procede.

R:Da Innsbruck i vagoni sono stati separati; noi abbiamo continuato per circa 4 / 500 chilometri più a nord, non li ho misurati. Si passa da Monaco, da Norimberga, da Weimar, e sei subito vicino a Buchenwald. Siamo arrivati in piena notte a Buchenwald, ci han fatto scendere dal vagone con il nostro vicecapocampo Haage, che risulta ancora  vivo ed ha circa 90 anni – su di lui c’è una pratica pendente, mi hanno chiamato in agosto i carabinieri a fare una deposizione 3 anni fa poi non se ne è più saputo niente. Ci han svegliato, probabilmente era primo mattino, ci hanno rinchiuso in una baracca buia, già pieno di gente e non si respirava, non avevamo il coraggio di aprire porte, era una situazione già di dramma. Alla mattina invece siamo stati immessi nel ciclo di inserimento nel campo. Quindi: spoliazione, doccia, depilazione, venivano buttati a caso i generi di abbigliamento che consistevano – allora era agosto – in una camicia, una giacca, un paio di calzoni, si infilava un paio di zoccoli, poi veniva dato il numero, che in qualche modo abbiamo cucito, e si veniva mandati al blocco di quarantena.

D: Ricordi il tuo numero?

R:44.573. Quello di mio fratello era 44.529. Erano numeri sparsi, e quindi per noi era un mistero fino a quando dopo la liberazione siamo andati a vedere i nostri documenti e abbiamo visto che quel numero era la quarta volta che veniva riciclato. Quindi si tappavano dei buchi, in un certo senso, contabili.

Erano accurati, ci chiedevano quante lingue sapevamo, qual era la nostra professione, qualcuno diceva che faceva il cuoco sperando di essere mandato in cucina, ma sono assolutamente certo che l’unica ripartizione che potevano fare era per operaio specializzato.

Pochi giorni dopo che eravamo nel blocco di quarantena c’è stato un bombardamento molto forte di 5 squadriglie da 12 fortezze volanti. Avevamo una paura da matti perché sembrava che le bombe arrivassero sempre più vicine, si vedeva legname e cose varie che volavano per aria.

In quel momento mio fratello, che appunto era medico, dice: “Usciamo a vedere cosa è successo, tanto c’è  confusione, io dico che sono medico e che tu sei infermiere e vediamo se ci assegnano qualche compito per soccorrere i feriti, che certamente ci saranno.” Infatti i feriti c’erano perché le baracche in cui si dormiva erano rimaste intatte, ma i deportati durante il giorno, abbiam visto dopo quando siamo entrati, erano tutti  a lavorare fuori del campo, all’interno di un secondo recinto dove c’erano fabbriche, caserme, garages di camion, macchine, motociclette, un territorio molto vasto. C’erano feriti dappertutto, feriti che si lamentavano, però non abbiamo trovato nessun responsabile identificato cui dire questa qualifica ipotetica, per mio fratello no per me sì. Allora non si poteva stare troppo fuori, rischiavamo troppo ad essere usciti dalla baracca, a rigore avremmo dovuto stare all’interno della baracca, quindi siamo rientrati.

Finita la quarantena prima del tempo, ci hanno assegnato a una baracca dove poi ci hanno chiamato a lavorare. Come primo lavoro c’era lo sgombero delle macerie, e come secondo lavoro la ricostruzione.

D: Quando siete arrivati, il treno dove vi ha portato rispetto al campo di  Buchenwald?

R: Ci ha portato ad un binario morto, e avremo fatto circa 200 metri a piedi per entrare dalla porta principale, che era il comando. C’era una specie di vignetta, un quadretto con un prigioniero col vestito a righe, altri con altri vestiti, io allora ho letto “Caracoveg”, che poi era Karachoweg, perché in russo Karacho vuol dire “”grazie” e quindi era una sfottitura per i deportati che arrivavano.

D: Quando ti hanno completato la vestizione?

R:La vestizione è stata completata, si fa per dire, d’inverno. Con l’avvicinarsi dell’inverno ci hanno dato un cappotto e degli zoccoli che si chiudevano. Poi non so come siamo riusciti a recuperare qualche cosa del nostro bagaglio. Mio fratello ad un certo momento ha iniziato a far parte dell’organizzazione clandestina del campo di Buchenwald, che evidentemente aveva del potere; le SS se ne fregavano, purché avessero gli uomini in numero giusto per ogni tipo di lavoro. Quindi qualcuno poteva essere spostato, poteva avere accesso a certi posti e qualcun altro no; può essere che mio fratello, entrando a far parte del comitato, abbia avuto qualche privilegio.

D:Il tuo numero del blocco dopo la quarantena te lo ricordi?

R:Mi pare che siamo stati al blocco 43 o 48 o forse in tutti e due; erano dei blocchi a 2 piani, di mattoni o di cemento armato non lo so. Lì abbiamo passato la maggior parte del tempo e siam passati poi al blocco 14, con un certo vantaggio: nell’altro blocco c’erano in polacchi, cecoslovacchi e jugoslavi, i polacchi non so come mai risultavano antipatici a molte persone. La generalizzazione è sempre una cosa sbagliata però capita di farla, ed effettivamente con alcuni che abbiamo incontrato non ci si stava bene.

Non c’era una lingua, si parlava in tedesco, credo che una volta uno abbia provato a parlarmi in latino. Invece il blocco 14 era il blocco di francesi e belgi. Allora io il francese lo sapevo bene e mio fratello anche, perché eravamo stati tutti e due alla scuola svizzera di Genova; quando non ho potuto andare nelle scuole statali sono andato alla scuola svizzera e lì la lingua ufficiale era il francese, ho dovuto impararlo per forza. Coi francesi ci si trovava molto bene: c’era una solidarietà fortissima, loro ricevevano pacchi dalla Croce Rossa, e molto di rado, il proprietario del pacco prendeva il sapone e le sigarette e divideva in 6 parti ogni genere di alimentazione. Questa era una cosa che mi aveva veramente molto sorpreso. A me è capitato per pochi giorni di far parte di una squadra che doveva pulire le lenticchie per le SS e di solito lavoravo all’aperto. Quella volta mi hanno chiamato a levare le pietruzze dalle lenticchie, e ho diviso, mi è sembrato giusto dividere: le ho rubate a rischio. Immaginatevi che quando siamo arrivati c’erano credo 4 impiccati sulla piazza dell’appello per furto di patate, però siccome eravamo convinti di essere morti, cioè di non sopravvivere, non ci si faceva proprio caso, era una cosa a cui non si pensava nemmeno.

D: Quale è statoil tuo primo lavoro?

R:Il mio primo lavoro  è stato sgombrare le macerie, trasferire le travi di legno che ci dicevano di ammucchiare da una parte, i mattoni da un’altra parte, poi recuperarli, cioè levare la calce che era dei mattoni, batterli. Quello è stato il periodo invernale. Salvo che una volta un deportato ha preso il numero a uno dei due, a me o a mio fratello, e l’altro ha detto: “Prendi anche il mio”. Il giorno dopo siamo stati chiamati a lavorare alla stazione di Weimar a levare i binari e a sostituirli; era un lavoro tremendo.

La regola per noi, e l’avevamo capito, era cercare di lavorare il meno possibile. Siccome le SS erano abbastanza poche, limitatamente al territorio che dovevano coprire, noi si cercava di fermarci e poi si veniva avvertiti in qualche modo quando  arrivavano e ci si metteva subito a trafficare; non andava mai bene lo stesso ma insomma facevamo qualcosa. Invece lavorare nella stazione di Weimar significava essere guardati a vista da un cordone di SS sempre lì con i cani lupi, non ci mollavano un attimo. Se non smetteva questo lavoro, non so se abbiamo finito di sostituire i binari che erano usurati, o ci hanno spostato di lavoro, sarebbe stata una fine rapida, per quel poco mangiare che ci davano.

D: Con cosa andavate dal campo?

R: In treno, sul vagone, ma son pochi minuti.

D:Ricordi se a Buchenwald hai visto baracche per donne?

R:A Buchenwald c’era il postribolo, questo si sapeva, era una cosa che mi poneva tanti interrogativi; chi era in condizioni di andare al postribolo? Posso immaginare che gli anziani del campo che avevano oramai preso posti di comando potessero usufruirne, comunque donne non ne ho mai visto circolare, ho visto forse qualche moglie di SS.

D: Bambini o ragazzi?

R:Bambini no, il più bambino ero io, grossomodo il meno adulto. C’è stato quel caso che ho letto, non so se avete visto il film di Benigni: un ebreo americano è uscito dal silenzio, ha detto che era riuscito a portare in campo suo figlio. Insomma alle volte proprio ci si sorprende perché non è che si possa capire tutta la realtà del campo, ma la nostra era la prassi: doccia, lasci tutti gli indumenti ecc. ecc.;. Evidentemente è arrivato da una marcia della morte, di quelle degli ultimi tempi, quando cominciava ad esserci un po’ di calo nell’organizzazione.

D:E il lavoro alla stazione?

R:Adesso non ricordo bene se sono rientrato come aiuto muratore; abbiamo fatto un periodo in cui mio fratello e io ci passavamo i mattoni, io poi andavo a prendere con la carriola la calce, facevamo la malta per i muratori veri e propri, che erano persone che sapevano mettere i mattoni; costruivano le fabbriche che erano state bombardate. 

D: Che tipo di fabbriche erano, te le ricordi?

R:Erano fabbriche di armi, questo si è saputo, non è che si vedessero le armi. Io poi ci sono stato perché un capannone era ancora in piedi e c’erano delle macchine che lavoravano; non so come ma sono andato a vederle. Si è saputo che erano fabbriche di armi perché i deportati durante il bombardamento sono riusciti a portare armi all’interno del campo. Quindi c’è stata una storia che è venuta fuori soltanto all’ultimo e che io ignoravo. Ci sono stati appunto degli interrogativi, anch’io con mio fratello non è che si parlasse volentieri di queste cose, in famiglia ci dicevano di stare zitti e di lasciar perdere.

Io non ho mai chiesto per esempio a mio fratello come mai lui dal lavoro esterno fosse rientrato prima di me; mio fratello è andato in sartoria. Sartoria cosa voleva dire? mettere le pezze. Infatti una minoranza di noi aveva il vestito a righe, standard; per lo più si trattava di vestiti nostri che venivano tagliati, fatta una finestrella sui calzoni e sulla giacca e sulla finestrella cucita dell’altra stoffa; poi venivano  fatte due righe di vernice rossa pesante.

Lo stesso tipo di precauzione c’era per la capigliatura, inesistente, cioè con delle rotaie oppure con la cresta: soltanto la prima volta eri pelato, poi, come ti crescevano, ti lasciavano la crestina o ti facevano la rotaia la volta dopo. Questo immagino per evitare fughe che tra l’altro credo non si pensavano possibili: era possibile fuggire ma non era possibile resistere, ti facevano la spiata subito.

Successivamente sono andato al lavoro interno, ma questa è un’altra storia perché tutte le sere succedeva che chiamassero dei numeri per il trasporto nei campi satellite. Io sono stato chiamato a un trasporto, mio fratello era già in sartoria. Sartoria cosa voleva dire? essere all’interno del campo, non dover uscire con la squadra e quindi un po’ più di libertà di azione. Io dovevo presentarmi alla visita prima di partire per il trasporto, mio fratello è venuto con me e con le poche parole in tedesco che sapeva si è rivolto al medico dicendo: “Sono un medico di Genova, vorrei partire assieme a mio fratello, vogliamo restare assieme”. Invece di dargli una scarica di botte, questo ha  preso nota del mio numero e del suo, e io sono stato trasferito in cucina. Quindi la cosa ha funzionato, era una di quelle cose per cui o ti ammazzano o funzionano, è stata una botta di fortuna.

Tra l’altro questo medico conosceva un professore di Genova con cui mio fratello aveva operato. Sai quelle combinazioni, uno dice: “Conosci mica il professor Caterina?” “Sì, ho operato a Villa Albertani – che era una clinica privata – ho aiutato, davo i ferri”.

In cucina effettivamente sei al coperto, però era un lavoro massacrante, avrei dovuto pelare 20 cassette di patate in un giorno. Al secondo giorno avevo un polso così, e quindi mi hanno trasferito nel reparto scarico merce. Era un’altra cosa: uno poteva anche prendere qualche patata e mettersela in bocca, con la buccia e tutto. Ho dimenticato di dire che io ho avuto lo scorbuto, incominciavano a sanguinare le gengive, mio fratello mi ha detto: “Questo qui è scorbuto, non c’è dubbio, bisogna che tu trovi della vitamina C”.  Lui conosceva un medico cecoslovacco, e nonostante gradualmente le cose andassero peggio dal punto di vista della posta, i cecoslovacchi ricevevano dei pacchi; questo medico aveva della vitamina C, me l’ha data, per fortuna; io sono stato due settimane grossomodo in una situazione quasi impossibile, mangiare qualche cosa voleva dire soffrire le pene dell’inferno. Cercavo di fare dei mucchi, ma con la roba brodosa era difficile fare dei mucchi, metterla sulla lingua e buttarla in fondo per riuscire ad ingurgitare qualche cosa. Con la vitamina C è andato tutto a posto, non ho più sofferto; ecco quanto giocò mio fratello che aveva 15 anni più di me, aveva fatto l’alpino, e continuava a dire che il motto degli alpini è “arrangiarsi”, quindi si è arrangiato.

Questa è stata un po’ la nostra storia, che ha avuto i momenti più acuti negli ultimi giorni, quando vedevamo arrivare colonne di persone dai campi satelliti o da Auschwitz. Qualcuno era arrivato da Auschwitz, e ci dicevano che erano marce tremende, che chi cadeva per terra veniva finito; noi pigliavamo atto di questa cosa. La convinzione circolante era che il campo fosse minato, che ci avrebbero fatto saltare per aria, però c’era anche l’ipotesi che ci avrebbero chiamato per portarci in qualche altro campo, perché noi eravamo al centro della Germania, non avevamo idea di dove fosse il fronte. Ad un certo momento abbiamo sentito  le cannonate, abbiamo visto gli aerei che volavano più basso, quindi si è capito che dovevano essere abbastanza vicini. Pochi giorni prima era stata bombardata Weimar, e per quello che abbiamo capito il comandante del campo ha fatto un appello ai prigionieri perché aiutassimo la popolazione colpita dai bombardamenti offrendo non so bene che cosa: nella pazzia non c’è limite!

Poco dopo il comitato  di liberazione internazionale che si era formato uscì allo scoperto, pur non dicendolo chiaramente; c’erano però degli incaricati che davano indirizzi del tipo: “Andate al magazzino delle scarpe e cercate di prendere le scarpe”, perché negli ultimi giorni il controllo era molto sballato. Credo che 4 o 5 giorni prima della liberazione non si uscisse più a lavorare, non funzionava più il crematorio, per cui ammazzavano i deportati e facevano le cataste di cadaveri. Le scarpe servivano in caso di marce, bisognava essere in condizione di camminare non con gli zoccoli ma con una calzatura. E poi il comitato chiamava una baracca a fare resistenza passiva, e quindi a non presentarsi in piazza d’appello.

Questa è stato la parola d’ordine, e in questo modo circa la metà del campo è stata sgombrata; hanno portato via circa 20 mila persone e circa 20 mila persone sono rimaste dentro il campo, ritardando la partenza, opponendosi non violentemente ma non presentandosi.

Allora sì si sentivano delle scariche; lo dico nel senso che noi eravamo abituati all’idea che ci facessero fuori, per prima cosa; per seconda cosa, effettivamente c’erano stati dei punti di cedimento delle SS: io avevo visto una SS che ad un prigioniero russo ha offerto sigarette, e il prigioniero russo con molta dignità gli ha risposto di non capire. Era una cosa che ti faceva svenire, dicevi: “Ma cosa sta succedendo? incomincia ad avere paura questa gente?”  E allora che cosa è successo? E’ successo che ad un certo momento abbiamo visto dei deportati, i Lagerschützer, cioè la polizia del campo costituita da deportati, con i fucili. Allora abbiam pensato di essere liberi, veramente. In effetti SS non se ne vedevano più, e questo è capitato non potrei dire quante ore prima che vedessi la prima jeep e il primo soldato americano che mi ha colpito perché aveva la piega nei calzoni. E quindi questa è stata la liberazione del campo, in 2 fasi, ogni zona del campo era una zona a sé.

Torno indietro, perché mi avevi chiesto se avevo visto donne nel campo. Qualche deportato aveva visto Mafalda di Savoia prima del bombardamento, era in una specie di villetta esterna al recinto dove vivevamo noi dopo il lavoro, interna invece al secondo recinto dove si andava a lavorare. D’altra parte quasi interne al secondo recinto c’erano anche le villette degli ufficiali SS e le caserme.

La liberazione è stata in due fasi, in due momenti, certo è stato un momento di gioia, quasi a toccarci se eravamo vivi.

Tra l’altro 2 o 3 giorni dopo che erano arrivati gli americani, c’è stata una, non la posso chiamare incursione aerea perché non c’è stato niente, però le mitragliere americane hanno sparato per un bel po’ di tempo. Quindi non c’era neanche da stare proprio tranquilli.

D: Le date di queste liberazioni?

R: Io ho la data dell’11 aprile mentalmente, poi può essere l’11 o il 12. Gli americani erano molto ben organizzati, ci hanno dato molto rapidamente un documento di identità con l’impronta digitale, però non volevano che si uscisse dal campo, perché c’erano molte malattie. Pochi giorni dopo hanno obbligato la popolazione di Weimar a venire a visitare il campo. Poi si sono scoperte cose che neppure noi sapevamo, e cioè che sotto il crematorio c’era la cantina della tortura, un lungo corridoio con un mucchio, ricordo, un mucchio di ganci, con le pareti scrostate dai calci di chi veniva impiccato in quel modo. Poi le cose per picchiare, per torturare.

Io mi ero chiesto, come mai in un Lager ci fosse anche la prigione, di fianco c’era la prigione.  Una volta sono stato chiamato da una SS che non so che cosa volesse farmi trasportare, mi sono presentato, non mi sono levato il berretto – ecco l’indumento che mi son dimenticato di nominare – allora mi ha tirato uno schiaffone e mi ha segnato il numero. Io sono stato per un paio di giorni a vedere. E invece non ha fatto niente, o l’ha perso. Quindi questi episodi c’erano, si sapeva che qualcuno ad un certo momento spariva.

Tra l’altro abbiamo avuto nella baracca la simpatica compagnia di due fratelli inglesi, che erano dei servizi segreti, e che sono stati dei mesi prima di rivelarsi e di apostrofarci in perfetto italiano: il marchese di Roccapelosa e l’altro non lo ricordo. Ci hanno raccontato che avevano perso le mogli in un bombardamento aereo in Inghilterra, avevano deciso di arruolarsi, erano stati paracadutati in Francia, e ci raccontavano qualcosa dell’addestramento: sapevano le parole francesi in dialetto, i giochi a carte che si facevano nei posti in cui li avrebbero paracadutati, e quando hanno saputo che eravamo di Genova ci han detto “belin”. Un paio di notti prima della liberazione sono spariti, e a ragion veduta, perché anche un aviatore americano che era stato paracadutato fu impiccato un paio di giorni prima della Liberazione; anch’egli era dei servizi segreti.

Poi abbiam saputo che era stato ucciso anche il capo del partito comunista tedesco: era stato ammazzato pochi giorni prima della Liberazione. E penso altri come lui.

Dopo la Liberazione abbiamo visto una realtà del campo di cui avevamo sospetto perché il piccolo campo era un posto temuto, però non pensavamo che fosse un ammasso tale di cadaveri con gente praticamente viva, non erano ammucchiati ma stavano nello stesso letto, non si alzavano più e cercavano di prendere ancora la razione del morto. Non si muovevano più, non capivano più niente, noi eravamo ancora relativamente in forze, li abbiamo aiutati a portarli fuori, il comando americano li aveva destinati a un ospedale, ma non credo che ne siano sopravvissuti tanti.

D: Gilberto, quando tu e tuo fratello eravate a Buchenwald avete potuto scrivere qualche biglietto, qualche lettera?

R:No, noi abbiamo scritto a un altro campo, sperando che mia madre e  mia sorella fossero andate a Ravensbrück. Correvano delle voci: magari da Auschwitz le hanno trasportate a Ravensbrück. Allora abbiamo  provato a  scrivere in tedesco, non si poteva scrivere in un’altra lingua.

D:Buchenwald è stato uno dei pochissimi esempi in cui l’esercito liberatore ha portato la popolazione nel campo; tu eri presente?

R: Sì, abbiamo visto venire la colonna della popolazione.

D:  Allo stesso tempo dicevi che hai scoperto molte realtà del campo.

R:Certo. Ho scoperto in particolare il piccolo campo. Poi era venuta fuori una cosa che io lì per lì ho detto: “E’ una storia esagerata, ne han combinate abbastanza, inutile aggiungerne”, mi riferisco alle lampade con la pelle tatuata. Poi invece si è rivelata vera, come poi è venuta fuori la documentazione dell’esecuzione dei prigionieri russi.

D:Il ritorno quando è avvenuto?

R: Purtroppo la nostra nazione ha dimostrato di essere la leader della disorganizzazione; gli inglesi non se ne parla neanche, 2 giorni dopo la Liberazione son venuti a prendersi i loro connazionali. Anche i francesi, i cecoslovacchi. Da noi è arrivata ad un certo momento una macchina del Vaticano che ha preso il dottor Pecorari, che poi è stato vicepresidente della Costituente, democristiano, e arrivederci e grazie, noi neanche ci han guardati in faccia!

La cosa è andata così: mio fratello aveva un amico deportato tedesco, socialdemocratico. Era di Monaco di Baviera, e in qualche modo era riuscito a mettere insieme una Mercedes e a farsi dare dagli americani dei buoni benzina. Aveva 4 posti, quindi ci ha chiesto se volevamo andare  a Monaco. Noi, figurati! contenti e felici di andarcene, e con l’elenco di tutti i prigionieri italiani di Buchenwald sopravvissuti battuto a macchina, un foglio che ho ancora, e che poi abbiamo consegnato agli americani. E’ stato un viaggio tormentato perché chi guidava era molto giovane ed era evidente che non sapeva guidare. Mio fratello che sapeva guidare era veramente terrorizzato, ogni tanto provava a chiedere di sostituirlo, ma questo diceva: “No, il documento è intestato a me, devo guidare io”. Comunque bene o male a Monaco ci siamo arrivati, anche se siamo scesi per l’attraversamento del Danubio, che abbiamo preferito fare a piedi sul ponte di barche. Arrivati a Monaco abbiamo cercato di consegnare questo elenco al comando americano, ma c’era un tedesco che non voleva farci entrare. Noi abbiamo fatto il giro del palazzo e siamo entrati da un finestra nel retro, siamo andati al comando, abbiam dato il nostro elenco, e pochi giorni dopo mi è arrivata la lettera della Croce Rossa che annunciava che stavo rientrando in Italia.

A Monaco purtroppo abbiamo saputo subito dalla interprete che c’era a Fossoli che i miei erano stati mandati alla camera a gas con la prima selezione, subito appena arrivati. Poi ci siamo arrangiati a cercare di rientrare in Italia, siamo andati alla stazione, abbiamo preso un treno fino a Rosenheim; era il primo treno che partiva e faceva quei pochi chilometri verso l’Austria; abbiamo avuto delle difficoltà con un americano, che ha sgridato un contadino tedesco perché non voleva caricarci sul carro e farci fare un po’ di strada verso il confine.

Finalmente siamo arrivati a Bolzano dove c’era un campo di accoglienza abbastanza organizzato.

A Genova sono arrivato pochi giorni prima del mio compleanno; io compio gli anni il 15 giugno, siamo arrivati forse il 10, 12 giugno (1945). Quindi 2 mesi dopo la Liberazione.

A quelli che sono rimasti là gli americani han detto di trovarsi un camion, perché quella sarebbe diventata zona russa e gli americani l’avrebbero abbandonata. Allora qualcuno è andato a Erfurt, è riuscito a fare una trattativa per avere un prestito di più camion per rientrare.

D: Una volta rientrati a Genova avete ritrovato la vostra casa?

R: Sì, la casa l’abbiamo ritrovata perché non era stata bombardata. La casa era abitata da due donne che sembra ricevessero dei militari tedeschi, e sono sparite abbastanza rapidamente. Avevano comunque lasciato subito una stanza, era una casa piuttosto grande perché eravamo una famiglia numerosa, e abbiamo dormito in camera nostra.