Cussigh Ferdinando

L’intervista è stata resa in dialetto. La trascrizione è stata tradotta in italiano.

Sono stato arrestato a Udine.

D: Aspetta, ti chiami, scusa?

R: Cussigh Ferdinando.

D: Sei nato?

R: Nato il 14 settembre 1925.

D: Dove?

R: A Savigliano del Torre, Comune di Povoletto.

D: Sei stato arrestato quando, Nando?

R: Arrestato il 4 settembre 1944.

D: Dove e da chi?

R: A Udine dalla SS.

D: Perché ti hanno arrestato?

R: Perché mi hanno arrestato? Perché ero un po’ con lo zoppo.

D: Cioè eri un partigiano?

R: Sì, assieme a me c’era tanta gente, tanti amici. Di cinque sono rimasto solo io. Siamo stati in prigione a Villaco, a Villaco in prigione ci hanno portati.

D: Da Udine? Ti hanno arrestato a Udine?

R: Sì e portato a Villaco, nelle prigioni di Villaco. Dopo, un trasporto a Dachau.

D: Ma ti hanno interrogato?

R: Interrogato niente. Non sono mai stato interrogato, neanche a Dachau.

D: Il libro lo puoi lasciare stare adesso. Stai tranquillo. Allora, da Villaco?

R: Da Villaco a Dachau, trasporto su un treno.

D: Era un treno come?

R: Era un treno pieno di ebrei, parte di Zaga, Jugoslavia, pieno di ebrei era. Zeppo, insieme a noi.

D: Ma era un carro merci?

R: No, era chiuso. Un treno passeggeri no, sempre un carro merci. Eravamo slegati, era pieno di pacchi perché li avevano portati da mangiare gli ebrei, erano pieni di tutto loro. Dopo, invece, a Dachau ci hanno spogliati di tutto, anche dei vestiti. Via tutto.

D: Quanto è durato questo viaggio?

R: Questo poco, Villaco e Dachau erano a pochi chilometri.

D: Quando sei entrato a Dachau cos’è successo?

R: Entrati a Dachau ci hanno dato un numero, dopo il bagno, ci hanno levato tutti i vestiti. Dopo ci hanno dato dei vestiti alla rinfusa, che avevano loro, andavano bene, non andavano bene è uguale. Ci hanno fatto la doccia, ci hanno rasato la testa, hanno rasato anche il resto. Dopo ci hanno mandati fuori, ci hanno dato il numero.

D: Il tuo numero te lo ricordi?

R: No, quello di Buchenwald sì, 100.328, hunderttausend-dreihundertachtundzwanzig. L’altro invece in tedesco non lo so, neanche in italiano.

D: Quello di Dachau non te lo ricordi?

R: Aspetti che vediamo qua, c’è qua il numero. Guardo.

D: Allora, Ferdinando, sei arrivato a Dachau, lì ti hanno spogliato ecc., poi ti hanno mandato in blocco di quarantena?

R: In quarantena, sì.

D: Ti ricordi quale blocco?

R: Il blocco non me lo ricordo, ero in quarantena, proprio al margine, contro Monaco, si sentivano bene le sirene suonare per l’allarme. Sono stato circa trenta, quaranta giorni, proprio non lo so, bisogna vedere.

D: Dentro nel blocco?

R: No, no, in quarantena.

D: Non lavoravate lì?

R: No, no. Fermi. Dopo abbiamo fatto un altro trasporto. Erano tremendi i trasporti, perché si era chiusi, bombardamenti sempre. Ci hanno portati a Buchenwald. Altro controllo, altro bagno, cambiato il numero, cambiati i vestiti. Anche lì sono stato non in un blocco, in una grande tenda in fondo al campo, una tenda proprio grandissima. C’era fango, c’era freddo. Ho conosciuto i fratelli Villa, padre e figlio. Il padre dopo è morto a Mauthausen, invece il figlio è vivo ancora. Dopo un altro trasporto ancora, fino ad Alberstadt.

D: Ma lì a Buchenwald quanto tempo sei rimasto più o meno?

R: Poco in quei campi, Dachau e Buchenwald, poco tempo. Dopo sono stato più ad Alberstadt, che allora era una fabbrica di apparecchi. Ci hanno messi ad aiutare i Meister, si fabbricavano ali degli Junker.

D: Lì c’era un campo?

R: Sì, era un campo chiuso, vicino alla fabbrica. Era il migliore, si è potuto stare bene proprio, abbastanza. Si mangiava abbastanza, non era male lì. Dopo, invece, ci hanno trasferito di notte.

D: Ma in questo campo dove costruivi gli apparecchi c’erano anche dei civili con te?

R: Civili? Un civile e un deportato, faceva l’aiuto lui come me.

D: Ti ricordi se la fabbrica aveva un nome?

R: Sì, Junker, la Junker.

D: Lì sei rimasto quanto tempo?

R: Lì sono rimasto sicuramente tre mesi, ma lì si stava, si poteva… Dopo ci hanno trasferiti a Langestein, lì invece era dura. Non tanto dura per me, perché io ero dentro nelle gallerie a montare il macchinario, perché doveva servire per fare pezzi di ricambio per Dora. Invece quelli esterni come il dottor Burelli, Berti erano a lavorare, a spingere vagoni, vagonetti per estrarre materiale. Quelli stavano molto peggio.

D: Il campo lì a Langenstein era fuori dalle gallerie, ma vicino alle gallerie?

R: No, no. Il campo era nel bosco. Per andare nelle gallerie c’erano sicuramente due chilometri. Alle sei alla mattina, senza vestiti, senza niente e camminare. Andata e ritorno. Alle sei si partiva, si ritornava alle… Dodici ore ci toccava fare dentro lì.

D: Le gallerie lì erano grandi?

R: Erano dietro a costruirle, sì, adesso non lo sono più, adesso la DDR le ha fatte più grandi. Le ha viste Lei?

D: No.

R: Adesso è lusso, ma quella volta erano piccole ancora, dove lavoravamo noi erano abbastanza grandi per mettere i macchinari, per montare i macchinari, ma era ancora da finire tutto.

D: Lì sei rimasto quanto tempo a Langenstein?

R: Fino a quando è avvenuta la marcia della morte.

D: Che è avvenuta quando, te lo ricordi?

R: E’ avvenuto… Anche quello è scritto. Nel mese di maggio, il 2 maggio mi pare. E’ finito abbastanza male.

D: Parlaci un po’ di Langestein, com’era organizzato questo campo?

R: Il campo di Langestein era organizzato, quello nel bosco era tutto dei deportati che facevano le gallerie, noi eravamo sull’orlo della strada chiusi, separati dagli altri.

D: Ma eravate anche voi deportati?

R: Uguale a loro. Solo che c’era un lavoro più leggero. C’era … di Trieste assieme a me, dopo c’era Primas Mario, anche quello era di Capo d’Istria, dopo c’erano molti russi, Ebrei mai visti, non li ho mai visti. Dopo c’erano tedeschi anche, c’erano i Kapò che erano tremendi. Entrando nelle gallerie, sempre botte. Dopo il pane lo rimpicciolivano ogni giorni di più. Trovando allora la colonna che entrava e che usciva si chiedeva: “A quanti pezzi danno il pane?”. “….” rispondevano i russi, avevo imparato anche il russo un poco io.

D: Quindi la pagnotta di pane veniva divisa?

R: Sempre, dopo ultimamente non era niente quasi, davano pezzettini così.

D: Ascolta, il campo dei deportati che lavorava nelle gallerie era nel bosco?

R: A parte, sì.

D: Erano nel bosco? Mentre voi eravate di fronte alle gallerie?

R: Di fronte, ma sempre nel bosco quasi, perché non passava mai nessuno lì.

D: Ma sempre con le SS attorno?

R: Sempre con le SS, sempre…

D: E anche voi nelle baracche?

R: Baracche nuove noi avevamo, perché eravamo appena arrivati.

D: Sempre attrezzate con i letti a castello le baracche?

R: Sì, tre o quattro posti. Uno sopra l’altro.

D: Voi facevate i turni?

R: Turni niente, di giorno facevamo noi, non so dopo durante la notte se facevano. Mi pare di no, mi sembra i turni solo quelli che erano nel campo grande, quelli sì facevano il turno.

D: Quelli adibiti allo scavo?

R: Non ci si incontrava mai con quelli, solo per la strada oppure si chiedeva il pane, dopo non sapevo se lavoravano come meccanici o a scavare le gallerie. Non si poteva vedere, guardare dove si voleva. Lì mi è morto il mio amico, Primas Mario, nel mese di febbraio. Era di Cassaco, vicino al mio paese.

D: Come mai è morto?

R: No Primas Mario, Conbelli Luca, ho sbagliato. Si può ritornare indietro?

D: Non preoccuparti.

R: Conbelli Luca era di Cassaco, è morto perché allora aveva messo un po’ di carta perché aveva freddo, l’hanno trovato, l’hanno pestato, l’hanno picchiato. Dopo gli sono venuti i buchi nello stomaco e le gambe così grosse, dopo è morto. Le gambe così, non ho mai visto una gamba uguale. Si spingeva dentro il dito e rimaneva il buco, una roba da non credere. Dopo abbiamo portato dei morti per una settimana intera su, fuori dal campo, dove adesso abbiamo il monumento. Anche quello abbiamo fatto. Dopo siamo partiti per la marcia della morte.

D: Com’è che vi hanno detto, dovevate evacuare il campo?

R: Sì. Tanti sono rimasti dentro, come Berti, come Burelli. Io non lo so, noi invece…

D: Ascolta, la marcia della morte quando è iniziata, la tua marcia della morte?

R: La mia marcia della morte… Anche quello sarà scritto qua, mi pare il 2 aprile.

D: Eravate in tanti, Nando?

R: Tremila. Sono rimasti quattrocento o cinquecento di loro.

D: Ma cosa vi hanno detto? “Sveglia”?

R: “Sveglia, incolonnati e fare per partire”. Non si sapeva neanche cosa facevamo, dove andavamo. Il bello è che si andava contro i russi, perché sono stato liberato dai russi io.

D: Raccontaci un po’ di questa marcia della morte. E’ stata lunga quanto?

R: Allora, dal 2 fino al 29, un mese. 300 chilometri, dico pure.

D: Camminavate di giorno?

R: Camminavamo di giorno, forse di notte. Camminavamo svelto, perché loro potevano ucciderci se non si andava avanti. Se cadevano erano morti, toccava mandarli via, era un disastro. Dietro si sentivano gli spari che li uccidevano quelli che cadevano. …., quello triestino, abbiamo parlato un giorno. Prima, “Quando vengo a casa ti porterò tanto pesce”. Il giorno dopo l’hanno fatto fuori. In quella lettera chiedono se è vero che … era con noi, se è morto, se è vivo. L’ha letta quella lettera? Sono venuti… mi ha rubato la…a vedere com’era la storia e avvertono anche la mia famiglia, che se non è rientrato vuol dire che è morto anche lui. Io ho detto che purtroppo l’ho visto uccidere.

D: Era assieme a te durante la marcia della morte?

R: Sì, sì. Era lui. Dopo era Primas Mario di Capo d’Istria, vicino là. Quello l’ha fatto fino in fondo, dopo l’hanno portato in ospedale anche. Dopo durante la marcia della morte, è scritto lì ancora, uno delle SS ci ha fatto andare fuori, scappare fuori dalla fila. Noi siamo scappati, io, Primas e tre belga, appena fuori poco dopo capitano tre ragazzini piccoli così col fucile, quattro colpi e li hanno fatti fuori tutti e tre. Noi per fortuna, perché il bosco là era così, loro sono scappati per di qua, noi per di là, ci siamo salvati. Non so come, non ci hanno visti, siamo qui ancora. Anche il Primas Mario è vivo ancora. Uccisi tutti e tre. Dopo sono tornato a vedere io, dopo liberato. Allora uno era appeso ad un albero, era più vecchio di tutti. Poteva morire se appeso con la cinghia. Gli altri due erano proprio morti con le pallottole. Un fucile, non pistola, un fucile avevano. Il campo era vicino proprio lì, allora loro hanno fatto quel lavoro lì apposta per farsi uccidere. Era un capo della Hitler-Jugend quello lì. Ieri sera ho cercato carte, ma io quando parlo di questa roba qua mi…

D: Ti ricordi il posto dov’era però? Così a memoria ti ricordi? Ti ricordi dov’era questo campo qui?

R: Sono tornato dopo anni a cercarlo, ho voluto trovarlo.

D: E dov’è quel posto?

R: Sono andato con Berti, con una signora che anche il suo marito non credevano, c’era mia moglie, c’ero io, il cognato di Berti, Nicoletto, non so se lo conosce. Avevo pressappoco in mente i binari, perché abbiamo camminato tanto sui binari che non si riusciva a passare, alzare le gambe per passare di là, non si riusciva a passare. Allora mi sono ricordato dei binari, dopo mi sono ricordato che era Wittenberg Uttestadt. Allora siamo arrivati a Wittenberg Uttestadt, abbiamo chiesto nelle chiese, no, no, no, no. Ma io volevo trovare i binari e li abbiamo trovati, ma non erano quelli. Ci siamo fermati in un posto, io guardavo sempre a destra, mai a sinistra. C’era una casa qua, andiamo a chiedere là. Prima abbiamo chiesto in paese, nessuno sapeva niente, andiamo a chiedere là. Allora siamo andati a chiedere là, era una professoressa. Berti sapeva il tedesco, chiedeva. Ha preso la macchina, comincia a girare, a chiedere per le case, nessuno sapeva niente. A un certo punto la signora e Berti: “Andiamo alla forestale”. C’era ancora un forestale, sono andati, io intanto aspettavo. “Adesso lo troviamo” ha detto Berti. Allora la signora, lei avanti, noi dietro e abbiamo trovato il paesino.

D: Che si chiama?

R: Si chiama…non so, il paesino Quaka, ma non credo che sia quel nome lì.

D: Tu non te lo ricordi adesso?

R: Sì che me lo ricordo adesso, ma il nome non so.

D: Stai lì tranquillo, stai lì, appoggiati dietro. Così. Perché altrimenti c’è un problema di microfono. Quindi avete trovato questo posto?

R: Abbiamo trovato quel posto lì, gli ho insegnato dove eravamo io e il Primas, gli ho detto che era un grande uomo, padrone di una fattoria. I russi gli hanno pulito fuori tutto. Dopo Primas Mario si era ammalato, ci ha dato il carretto quel signore e l’ho portato otto chilometri, ho portato Primas Mario fino in ospedale a Wittenberg Uttenstadt. Guarda che forze che avevo ancora.

D: Appoggiati dietro… Così.

R: Io non sono fatto per queste robe qua.

D: No, vai benissimo.

R: Eh, sì.

D: Nando, va benissimo. Ascolta un attimo, ma quando questo tedesco vi ha detto di scappare, lì avevate camminato quanto già?

R: 200 metri neanche, il campo era vicinissimo, quello della Hitler-Jugend. Ci hanno fatto andare apposta per farci uccidere. Non so com’è successo, siamo stati fermi in un acquitrino io e il Primas, abbiamo visto una casa, di notte quando era scuro siamo saliti sul fienile. Non ho dormito, dopo io sono sceso perché ho visto le galline, sono andato giù a prendere il mangime delle galline, ho portato su il mangime. Dopo qua che non si mangiava. L’ho portato su anche a lui, il mangime. L’indomani mattina lui sapeva lo slavo, somiglia al russo, allora abbiamo sentito parlare e ha detto: “Sono arrivati i russi”. Erano arrivati i russi quella notte lì. Tre giorni prima, due giorni prima hanno ucciso quei ragazzini lì.

D: Ma Nando, lì ormai la marcia della morte era già finita?

R: Sì, era già finita. Noi non sappiamo dopo, perché io sono rimasto lì con Primas, tre sono morti, siamo rimasti nascosti. Dicono che la marcia della morte è finita subito dopo, ma non so.

D: In tutto avete camminato quanti giorni?

R: Venti giorni, anche più.

D: Per fare 300 chilometri?

R: Sì, mica si andava per le strade, per i campi, per tutte le deviazioni. Abbiamo incontrato molte colonne che venivano, che andavano.

D: E mangiare?

R: Il topo, ho mangiato il topo. Dopo ho trovato una patata per terra, mi sono abbassato a prenderla e mi ha dato un pugno, qualcosa, qua ho il segno, uno delle SS, non mi usciva neanche sangue più. Pesavo trenta chili, neanche.

D: Tu sei andato a prendere una patata?

R: Hanno seminato le patate, si passava per i campi. Mi ero solo abbassato per prenderla, perché era appena seminato, le tagliano e le mettono giù. Ho cercato di prenderla, mi è arrivato un pugno proprio qua, mi ricordo bene. Menomale che non mi ha ammazzato, non mi ha ucciso.

D: E la storia del topo cos’è?

R: La storia del topo, la notte ci si accampava o qua o là per terra. Per fortuna io ho trovato un topo che era vicino a me, l’ho mangiato. Cosa avrebbe fatto Lei? Mangiare alberi, foglie, quelle robe lì. Non si mangiava niente più.

D: Non vi davano niente?

R: Niente, no, no.

D: E sul trenino in quanti siete arrivati?

R: Dicono quattrocento vivi. E’ scritto tutto lì.

D: Quando avete incontrato i russi cos’è successo?

R: Incontrato i russi, per prima roba ci hanno presi, ci hanno cambiati i vestiti. Io ero tutto marcio di scabbia, tutto marcio, fradicio, proprio fradicio. Pieno di pidocchi. Anche lui, uguale. Ci hanno dato una famiglia, ci hanno portato i vestiti, ce li ho ancora di ricordo a casa. Dopo ho trovato una valigia con una pelliccia dentro, l’ho portata a casa anche quella. E’ appesa anche quella là. I russi ci hanno trattato bene.

D: E’ lì che hai preso il tuo amico e l’hai messo sul carro?

R: Da lì l’ho portato sul carretto, non carro, l’ho trainato a mano all’ospedale di Wittenberg Uttestadt, al …

D: Per 8 chilometri?

R: 8 chilometri, sì. Dopo ho saputo che sono 8 chilometri, il giorno che ho trovato il paesino, quando siamo andati via ho visto che sono 8 chilometri per arrivare in città.

D: Hai lasciato il tuo amico in ospedale?

R: Il mio amico in ospedale insieme, è partito prima di me. Ormai mi portavano nella vasca da bagno, mi buttavano dentro perché era per chi è ammalato, perché ero tutto marcio. Ero peggio di lui dopo, peggio di Primas. Dopo, un bel giorno si dava la minestra in ospedale. Sono arrivato dopo e ho trovato che mangiava la minestra, anche la mia minestra quello là. Sarà anche così, ma in ogni modo… Tutto quello fatto, perché sarebbe morto anche lui. Primas, era lui che mi mangiava la minestra anche dopo. Perché se io lo lasciavo là… Dopo sono andato a trovarlo io a Capo d’Istria, mica lui. Perché lui credeva che fossi morto, perché stavo malissimo. Invece è rimasto di sasso quando mi ha visto.

D: Lì in ospedale quanto tempo sei rimasto?

R: E’ qua tutto.

D: Quanto tempo sei rimasto in ospedale?

R: Il 10.5.1945 sono entrato, uscito il 30.06.1945.

D: Quest’ospedale era gestito da chi, dai russi?

R: Era gestito dai russi, ma erano medici tedeschi, c’era anche un medico che si chiamava Rossi, italiano e lavorava anche lui per noi. Abbiamo trovato anche signore, signorine, ex deportate di Auschwitz. Lì ho conosciuto Pitar Maria, era di Gorizia. Dopo c’era un’altra di Gorizia, purtroppo è morta lì, era una bambina ancora, è morta proprio nell’ospedale. Io sono andato a guardarla, …. , addio, viene freddo. Morta proprio nell’ospedale in un modo proprio… E Pitar Maria è morta subito dopo a casa.

D: Quando ti hanno lasciato andare dall’ospedale cosa hai fatto?

R: Cosa ho fatto? Sono stato ancora fino al giorno di Sant’Anna al mese di giugno, sono stato a Dresda a piedi, tutto a piedi. Dopo ci hanno caricati a un campo di smistamento, ci hanno portati in Italia. Allora sul confine siamo passati sotto gli americani. Sotto gli americani un po’ col treno, un po’ con i camion sono ritornato a casa. Ero uno degli ultimi io.

D: Che percorso hai fatto per rientrare in Italia?

R: Brennero, dopo dal Brennero siamo venuti per Udine.

D: Vi hanno fermato a Bolzano?

R: Sì, hanno fatto una disinfestazione … Non so che nome si chiamava quello là. In zona austriaca ancora. Ci hanno fatto pulire.

D: In zona austriaca vi hanno fermato?

R: Sì.

D: E in Italia dove vi hanno fermato?

R: Nessun posto. C’erano i preti che parlavano male dei russi, già quella volta parlavano male dei russi.

D: Sono venuti su i preti a prenderti?

R: Erano lì dove si passava il confine dell’Austria, erano lì, parlavano.

D: Questo viaggio l’hai fatto in treno?

R: Fino al confine in Austria, dopo in camion mi pare. Non sono proprio tanto… Dopo il treno abbiamo preso, e uno, un ex deportato, forse non ex deportato dai campi, era fermo lì, arriva il treno e lo uccide, era un carnico. Roba da non credere. Anche quello.

D: Tu sei arrivato a casa a Udine?

R: Il giorno di Sant’Anna a Udine e volevano che pagassi il biglietto del tram. Sono arrivato a Tricesimo e c’era tutta la gente a guardare come se fosse arrivato chissà cosa, perché ero il figlio unico, giocavo a calcio, ero un po’…

D: Quand’è il giorno di Sant’Anna?

R: Il mese di luglio, quel giorno sono arrivato io. Ero tra gli ultimi, tutti erano rientrati ormai, come quelli di Mauthausen, subito dopo erano a casa, invece io…

D: Durante la tua deportazione, quindi a Dachau, a Buchenwald, a Langenstein, negli altri campi, sei mai stato punito tu?

R: Punito? No, non sono mai stato punito.

D: Hai visto azioni violente?

R: Conbelli Luca, purtroppo. Si era bastonati sempre, entrando nei tunnel delle gallerie c’era un bastardo…

Appia Anna

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come vi chiamate?

R: Appia Anna.

D: E siete nata, quando?

R: Il 18 gennaio 1921.

D: Dove, Anna?

R: A San Giovanni al Natisone.

D: Provincia?

R: Di Udine.

D: Anna, quando vi hanno arrestato?

R: Il 31 luglio del 1944.

D: Chi vi ha arrestato?

R: Le SS tedesche.

D: Perché?

R: Eh perché, per attività partigiana, per quelle cose lì.

D: Vi hanno arrestato dove, in casa?

R: In casa alle 4.00 del mattino sono venuti, hanno circondato tutto e hanno fatto il rastrellamento, ci hanno portati via tutti, tutta la famiglia, e ci hanno portato via tutto quello che avevamo: biancheria, coperte, tutto, ci hanno pulito la casa e mi hanno portato a Gorizia, prima a Cormons, poi a Gorizia, nelle carceri di Gorizia.

D: Tutta la vostra famiglia?

R: La mia famiglia dopo un po’ l’hanno mandata casa e la mia mamma l’hanno portata con me; per quaranta giorni è rimasta fino a che lei l’hanno mandata a casa e noi siamo partite.

D: Vi hanno fatto qualche interrogatorio?

R: Sì, come no, tutti gli interrogatori. Io avevo il fidanzato, è stato quello il motivo più grande: lui era venuto a casa l’8 settembre da militare e non sapeva con chi stare, doveva pur lavorare. Lui lavorava però era attivo con gli altri, non con i tedeschi, come devo dire? Con i partigiani. Ma lavorava però, era in attività con loro. E allora è stato tutto lì.

Loro volevano sapere da me qualcosa, ma io non ho mai detto niente perché non sapevo neanche niente, noi ci vedevamo poco: c’era il coprifuoco di notte, di giorno si lavorava e non si poteva incontrarsi mai. Come posso sapere io che cosa fa un uomo? Non ero mica sposata per sapere cosa faceva l’uomo. Allora io ho detto proprio quelle parole lì. Io le cose di un uomo non posso saperle. Volevano sapere di quello, dell’altro, di tutti, della gente. Che ne so? Io non ho mai detto niente perché uno non sapevo e anche se avessi saputo non sarei andata a dirlo a loro.

D: E dopo cosa è successo?

R: L’8 settembre ci hanno messo in trasporto. Siamo partite con la tradotta, con il treno merci. In quaranta di noi dentro in un vagone, senza bere, senza mangiare per sei, sette giorni, fino a che siamo arrivate a destinazione, senza sapere dove si andava, senza potere fare i bisogni corporali, perché era quello che era. Per sei, sette giorni siamo state ammucchiate in quaranta di noi sdraiate a terra in un vagone. E non si sapeva dove si andava. Siamo arrivate ad Auschwitz.

D:Siete entrate col treno?

R: Siamo entrate sulla ferrovia, col treno e poi siamo scese, ci hanno fatto camminare, portare tutta la roba che avevamo. Cammina, cammina, cammina, non si sapeva niente; era di sera, poi ci hanno fatto stare in piedi tutto il tempo e siamo arrivate in un capannone. Lì ci hanno preso tutto, ci hanno spogliate del tutto, proprio spogliate, nude e poi ci hanno fatto il numero sul braccio.

D: E il vostro numero, Anna, qual è?

R: 88.651. E poi ci hanno tagliato i capelli, tutte quelle cose lì. Dopo ci hanno fatto la doccia, ci hanno messe sotto la doccia fredda senza niente, senza asciugarci perché non avevamo più niente. Poi ci hanno dato uno straccio di vestito bagnato e l’abbiamo messo su. Mi ricordo queste cose che non dimentico mai. Siamo state tutta la notte in piedi, quella notte. Tutta la notte in piedi perché si vede che non avevano posto dove metterci: tutta la notte, senza mangiare, senza bere, dopo sei giorni. Poi ci hanno accompagnate nella baracca, avevamo un metro di posto per dormire in sette di noi. Un metro, non era di più, in sette, otto di noi. La mattina ci alzavamo che era notte, verso le 4.00 di mattina al buio e ci facevano stare in piedi fino a che veniva giorno. Cinque, sei ore in piedi nel freddo e col freddo che era; era paludoso il terreno. Era tutta argilla, fango, e stare in piedi tutte quelle ore fino a che passavano a fare l’appello… Dopo si andava a lavarsi la faccia, non c’era neanche l’acqua, tutto il giorno così. La sera uguale.

Siamo state lì dall’8 settembre, siamo arrivate verso il 12, 13 settembre, e siamo rimaste fino alla fine di ottobre.

D: Lì non lavoravate?

R: No, solo tutti i giorni ci spogliavano, ci visitavano, ci facevano fare i bagni con le docce per lavarci i vestiti, per disinfettarli, e poi ogni altro giorno ci facevano visite per vedere chi fosse sana, buona, brava, bella, tutte le belle presenze, eravamo giovani. Fino che ci hanno mandato in trasporto.

D: Ti ricordi il numero della tua baracca.?

R: Era il numero 13. Mi ricordo sì, come no.

D: Di Auschwitz?

R: Era tutto attaccato lì.

D: Quello grande, grande.

R: Sì. Poi quello che si vedeva, tutti i camini che fumavano. Quell’odore acre di grasso bruciato. Era terribile, non si può descrivere quello che abbiamo visto lì noi perché uno che non ha provato, non ha visto, non può capire neanche lontanamente: solo noi, chi ha visto e provato, sa. E’ come raccontare una storia.

D: E da mangiare cosa vi davano?

R: Un po’ di brodo di carote, di rape e una fetta di pane e basta.

D: Dopo è venuto il trasporto. Come vi hanno scelto, ti hanno chiamata?

R: Sì, ci sceglievano. Quelle che erano belle, sane e giovani le mandavano a lavorare e ci hanno scelte. Mi hanno scelta e siamo partite un’altra volta con la tradotta; anche lì siamo state due o tre giorni senza mangiare prima di arrivare a destinazione perché siamo venute in Germania poi a lavorare in Bassa Sassonia. Siamo arrivate in una città che si chiamava….e lì abbiamo lavorato tutto l’inverno in una fabbrica di armi. Ci facevano lavorare dodici ore al giorno, o di giorno o di notte, perché c’era turno continuo, la macchina non si fermava mai, dodici ore di giorno e dodici di notte, una settimana per sorte. Siamo state lì fino a che sono venuti i bombardamenti che hanno distrutto tutto. Una notte hanno distrutto la fabbrica; era una grande cosa perché quella notte lì mancava la luce, c’era stato il bombardamento di mattina e noi eravamo lì a dormire. La sera mancava la luce. Siamo andate a lavorare ma non ci hanno fatto lavorare, ci hanno fatto tornare indietro perché non c’era la luce. Quella notte lì è andata giù la fabbrica perché hanno bombardato, hanno bombardato tutta la notte. É andata già tutta la città quella notte.

Dove dormivamo noi siamo rimaste tutte salve e dopo era tutto rotto, non c’era acqua, non c’era da mangiare, non potevano fare, ci mandavano a pulire le macerie nelle case, nelle fabbriche dove c’era bisogno. Siamo state lì a fare quel lavoro fino al 13 aprile.

D: Anna, quando eravate in questo campo ti hanno dato un nuovo numero?

R: Numero di che cosa?

D: Numero di immatricolazione; o avevi sempre quello?

R: Sempre quello. Eravamo sempre sotto la protezione di Auschwitz noi, era sempre quel comando anche se eravamo nella fabbrica.

D: Il campo era vicino alla fabbrica o era fuori dalla fabbrica?

R: Era fuori; non era un campo, era una grande fabbrica anche quella dove eravamo a dormire. Sotto era fabbrica e sopra dormivamo noi. La fabbrica dove lavoravamo io e lei era fuori nella città. Allora ci trasportavano a piedi, andavamo in fila, ci portavano e ci tornavano a portare qua perché erano le donne militari che facevano…

D: Quindi vedevate i civili?

R: No, perché si andava via che era notte, si tornava che era notte e poi come si faceva a vedere i civili, anche se li si vedeva? Avevamo le guardie, non si poteva mica. Andavamo in fila noi.

D: Eravate solo donne?

R: Sì.

D: Non c’erano uomini?

R: Dove, a lavorare? C’erano i maestri solo, i capi.

D: Erano militari i capi?

R: No, erano vecchi, si vede che erano della fabbrica, i capifabbrica e noi si lavorava, loro ci insegnavano. Sa come fanno i capi.

D: Lì cosa costruivate?

R: Armi. Ognuno aveva il suo lavoro. Io ero su una macchina in piedi alta così, ero abbastanza grande, stavo in piedi tutto il giorno.

D: E cosa facevi Anna?

R: Avevo un ferro che era un otturatore di moschetti, facevo i buchi coi trapani, sulla macchina lavoravo.

D: E lì sei rimasta fino a quando?

R: Fino a che hanno bombardato la fabbrica: era il 5 marzo e poi ci hanno fatto lavorare ancora, perché ci mandavano a pulire macerie. Si vede che non sapevano dove mandarci. Dopo il 13 aprile ci hanno trasferite a piedi. Siamo andate in un campo che si chiamava Leitmeritz e siamo state una settimana. Lì non abbiamo né lavorato né niente.

Poi ancora a piedi siamo arrivate in Cecoslovacchia; c’era una polveriera, non so come si chiamasse quel posto, non saprei dire; abbiamo lavorato quindici giorni fino alla fine, si facevano le bombe per i carri armati col tritolo. Riempivamo i cosi di tritolo e poi si metteva il detonatore.

D: E la fabbrica era sempre vicino al campo o era più distante?

R: Era tutto vicino lì. Lì siamo stati fino alla fine.

D: E anche lì non vi hanno cambiato il numero.

R: No. Perché il numero lo hanno fatto solo ad Auschwitz.

D: E basta?

R: Ci chiamavano sempre con quel numero perché eravamo un numero, non un nome.

D: E ti ricordi il tuo numero in tedesco?

R: No, me lo ricordo in polacco ma non in tedesco.

D: E in polacco com’era?

R: Perché erano le polacche che al blocco comandavano!

D: E a chi non capiva cosa succedeva?

R: Ormai si capiva, si doveva capire, sennò era meglio tacere.

D: Hai mai ricevuto punizioni tu?

R: Qualche schiaffo ogni tanto ma non grandi cose, perché ho sempre lavorato.

D: Al Revier sei mai andata?

R: Cos’era?

D: L’infermeria.

R: Sì, perché avevo male ad un orecchio. Avevo un ascesso, mi era venuto come un grande raffreddore, mi era venuto l’ascesso all’orecchio; c’era una dottoressa polacca e mi ha curato. Mi ha pulito, avevo paura ad andare. Non avevo voglia di andare. C’era una slovena che mi ha detto: “Andiamo, andiamo che io so parlare, vieni che non ti fanno niente.” Ma sai com’è. Allora sono andata, mi ha curata. Quello sì.

D: La Liberazione come te la ricordi?

R: La Liberazione? Fino all’8 maggio abbiamo lavorato. Una sera abbiamo caricato un grande camion di quelle bombe poi siamo andate a dormire e abbiamo visto la luce fuori nel campo, era illuminato. Abbiamo detto: chissà che cos’è? Perché non era mai accesa la luce e si vede che loro intanto erano scappati e noi la mattina ci siamo trovate sole: era il momento in cui arrivavano i russi. E’ venuta una polacca e ha detto: “Finita la guerra!”.

Allora noi eravamo contente, felici. Senza mangiare, non importava. Siamo state tutte riunite insieme e abbiamo detto: “Cosa dobbiamo fare?” Aspettare i russi non si poteva perché non si sapeva quando arrivavano e poi eravamo solo ragazze. Allora abbiamo detto: “Mettiamoci a camminare, andiamo avanti e troveremo qualcosa”. Non si sapeva dove andare, non si sapeva parlare e ci siamo riunite tutte le italiane e ci siamo messe a camminare sotto il fronte, perché i tedeschi si ritiravano e i russi stavano arrivando.

Gli aeroplani mitragliavano le truppe che si ritiravano e noi si camminava sull’orlo della strada, sul margine della strada, l’una dietro l’altra, in fila.

Pensare che mitragliavano e noi si andava nel fosso per ripararsi! Però nessuna si è ferita. Potevano ucciderci tutte per strada i tedeschi che erano tutti armati coi fucili, invece nessuno ci ha fatto niente. Abbiamo camminato tutto il giorno, era il 9 maggio, il giorno che è finita la guerra. Loro si ritiravano tutto il giorno e noi sempre a camminare. Via, avanti fino a che è venuta sera, senza bere e senza mangiare. Però eravamo libere almeno di camminare. Quando è venuta sera siamo arrivate in un paese e lì sono arrivati i russi, i primi carri armati russi e noi tutte sulla strada che si alzava le braccia. Si vede che loro hanno visto chi eravamo perché avevamo lo Straf dietro la schiena: hanno cominciato a buttarci giù pane, roba da mangiare. Lei non può capire quel momento lì cos’era. Nessuno lo può capire. Uno piangeva, uno pregava, uno cantava. Non si sapeva cosa fare. Vedere roba da mangiare, affamate! ci siamo inginocchiate e non sapevamo cosa dire.

Abbiamo messo giù una coperta, abbiamo raccolto tutta la roba e abbiamo cominciato a mangiare e via, e così è finita la giornata.

D: Poi cosa avete fatto?

R: Poi si andava a dormire dove si poteva: in una stalla, in una stanza, in una casa, dove si poteva. Siamo state lì due giorni e dopo abbiamo trovato uomini italiani che tornavano come noi, soldati militari. Abbiamo cominciato a parlare e loro hanno detto: “Se volete ci facciamo compagnia, andiamo avanti da qualche parte”. Non si sapeva, eravamo in Cecoslovacchia. Allora hanno detto i ragazzi: “Andiamo avanti perché è meglio che andiamo avanti per non stare coi russi”, perché avevamo paura che ci trattenessero anche loro. Non si sapeva come comportarsi. Allora noi abbiamo detto: “Sì, almeno ci sono anche uomini che ci guidano”. Eravamo sole, senza guida e senza niente.

Siamo andati avanti camminando e siamo arrivati a Praga e siamo stati a dormire nella Casa d’Italia, in una grande sala tutti insieme là. Dopo abbiamo cominciato un’altra volta a camminare, ad andare avanti, fino che siamo arrivati in Austria, fino a Linz. Abbiamo camminato per quindici giorni così. Di sera si trovava qualche fienile oppure anche nei prati si dormiva, senza niente. Fino che siamo arrivati a Linz e a Linz c’erano gli americani. Poi ci hanno radunati tutti in un altro campo che era libero e ci hanno tenuti lì un mese in attesa di rimpatrio.

In giugno siamo partiti e siamo arrivati a Bolzano. Da Bolzano sono venuti da Udine a prenderci con una corriera che veniva ogni giorno a prendere i prigionieri. Allora ci hanno portati giù a Udine e dopo sono venuta a casa, il 25 giugno sono arrivata a casa.

D: Come oggi.

R: Come oggi, di mattina.

D: 55 anni fa.

R: 55 anni fa, sì, sono tanti, no?

D: Come hai trovato la tua casa?

R: Ho trovato la casa tutta rotta, senza niente perché c’era stata la guerra anche lì. C’era un ponte vicino a casa mia, avevano buttato giù il ponte, bombardato, era rotto. E poi ci avevano portato via tutto. Abbiamo dovuto cominciare a lavorare e tornare ad aiutarci come si poteva, ma nessuno mi ha aiutato però. E’ la prima volta che qualcuno si interessa a me dopo cinquantacinque anni. Mai nessuno si è interessato a me, mai.

D: Anna, a Bolzano ti ricordi dove ti hanno portato?

R: Era un bel posto, eravamo in tanti lì, non so cosa fosse, qualche scuola, qualche posto. Siamo stati un giorno.

D: Cos’era un ospedale, una caserma?

R: Deve essere stata una cosa di quelle perché c’era tanta gente.

D: Ti hanno rilasciato un certificato a Bolzano?

R: No.

D: Vi hanno dato da mangiare?

R: Sì, da mangiare sì. Arrivavano lì, si vede che era un posto apposta per ricevere la gente.

D: Anna, ritorniamo ad Auschwitz un attimo. Nel periodo in cui sei rimasta ad Auschwitz non hai mai lavorato nel campo?

R: No, non abbiamo lavorato là.

D: Potevi scrivere?

R: No.

D: C’era qualcuno che riceveva dei pacchi?

R: Che abbia visto io no. Da dove? Chi sapeva dov’eravamo? Neanche parlarne. Pacchi? No. Può chiedere quello che vuole, io Le dico.

D: Non hai mai visto neanche persone della Croce Rossa?

R: No.

D: Nemmeno negli altri campi?

R: No, io no.

D: Quando eri ad Auschwitz o negli altri campi hai visto per caso se c’erano anche delle ragazzine?

R: C’erano anche bambini ad Auschwitz, ho visto bambini che giocavano e anche bambine piccole, ragazzine, di tutte le qualità, sì. Abbiamo visto anche scendere dal treno quei poveri vecchi di ebrei, tanta gente che scendeva dai treni.

D: Nel campo della polveriera, come si chiamava?

R: Era un altro posto che non saprei cosa fosse, non abbiamo saputo che cos’era.

D: C’erano anche degli uomini?

R: C’era qualche uomo, devono essere stati militari mi pare, ma che abbia conosciuto io, no, io non ho avuto a che fare.

D: E quanto tempo sei rimasta in quella polveriera?

R: Gli ultimi quindici giorni.

D: Anna, tu non sei più ritornata a ….?

R: No, non voglio neanche andarci. E’ abbastanza una volta, poi guai, non potrei tornare a vedere quei posti. Non mi sento.

D: Ti ricordi altri episodi di quando eri ad Auschwitz o in altri campi che ci siamo dimenticati adesso?

R: Cosa vuole, episodi!!

D: Per esempio, quando parlavi degli abiti che ti hanno dato, vi hanno dato della biancheria?

R: No, che biancheria? Un abito, uno straccio di abito e basta, con gli zoccoli di legno. Io avevo i piedi piccoli, erano così, li trascinavo. Con quel fango non si poteva camminare. Che vuole?

D: Delle tue compagne che sono partite con te in trasporto quante sono ritornate?

R: Siamo tornate tutte quelle che conoscevo. Però una è morta a casa. Noi siamo tornate.

D: Ti ricordi qualche nome?

R: I nomi. Una si chiamava Bruna, povera che è morta. Ines che è viva è a Cividale, Elvia e io. Poi ce n’era un’altra che si chiamava Antonietta, è morta anche quella e poi ce n’erano di Gorizia, di Trieste, ce n’erano tante, siamo tornate in tante di quelle che conoscevo io. Quelle che eravamo a lavorare siamo tornate. Però non so perché si sono anche ammalate per la strada. Quelle non so se sono tornate o no. Come ad Elvia, le è venuto male quando eravamo a Praga e hanno dovuto portarla all’ospedale, lei è tornata dopo, in settembre. E’ guarita ed è tornata dopo di me, a settembre ottobre.

Bianco Natalina

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Bianco Natalina detta Pasqualina. Sono nata a Susa il 18 Gennaio 1928. Sono stata presa dai fascisti alla Trattoria Balma”. Ero con mia sorella, ed erano venute delle persone a dirci che ci aspettavano in montagna nascosti dietro i sassi i nostri fratelli con altri partigiani. Aspettavano che portassimo loro qualche cosa da mangiare, e mia sorella, mi sembra fossimo in cinque, aveva fatto cinque sandwich con quei grandi pani di campagna e con un po’ di vino. Si vede che quando sono venuti ad avvisarmi c’erano già le spie: mi hanno presa proprio sul cancello con lo zaino in spalla. Avevo gli scarponi per andare in montagna. A quei tempi si usava il nastrino rosso ed è già tanto che non me l’abbiano fatto mangiare, perché era rosso. Di lì ci hanno portati giù in paese.

D: In quale paese, Natalina?

R: San Giorgio di Susa, perché la Balma è sotto San Giorgio di Susa. C’era pure mia sorella. Ci hanno portati alle scuole di Sant’Antonino. Ci facevano pure l’appello, c’erano dei partigiani e ci facevano stare attenti, nella piazza della scuola. Dicevo: “Qui siamo a posto, ci fucilano anche qui”. Siamo stati tre giorni nella scuola a dormire per terra sulla paglia. Dopo hanno trovato un partigiano nascosto sul sottotetto; il fatto è che avevamo della paglia, dei conigli e hanno fatto rumore, allora loro hanno voluto salire su con le baionette nella paglia, hanno trovato il partigiano nascosto e l’hanno portato con noi assieme alle scuole; poi l’hanno portato al cimitero. C’era una serie di partigiani che sono stati fucilati e noi presenti, sull’attenti, a vedere la fucilazione. Poi di lì ci hanno poi portate alle Nuove a Torino; avevamo la camera vicino ad Anna e di tanto in tanto toc toc.

D: Quando ti hanno portato a Torino? Ti ricordi?

R: Alla fine di maggio, perché era giugno quando eravamo a Torino.

D: Ti hanno mai interrogata, Natalina?

R: Sì, sì ma non alle Nuove; lì ormai eravamo già predisposte per la Germania. Lì avevamo con noi in cella Ondina, così si chiamava, mi sembra fosse biellese e poi non è rientrata più, l’hanno fatta morire nel campo di Ravensbrück; l’hanno subito fatta fuori perché mi sembra che avesse qualche disturbo, era malata. Allora quelli che erano malati venivano fatti fuori subito, eliminati. Volevano gente sana e robusta che doveva lavorare sodo.

D: Dopo le celle delle Nuove di Torino cosa è successo?

R: Siamo andate a finire a Porta Nuova sul vagone in quattordici. Per poter far capire ai miei che partivo per la Germania abbiamo fatto dei bigliettini, li abbiamo buttati fuori dal finestrino, sperando che qualcuno facesse sapere, c’era un po’ di gente, che facesse arrivare alla famiglia la notizia che noi non eravamo più alle Nuove, così che mia mamma non dovesse venire più a portare i pacchi o qualcosa alle Nuove, perché noi non c’eravamo più.

D: Tu e tua sorella.

R: Sì, siamo sempre state assieme. Eravamo in tre in cella, con Ondina. Poi è partita la tradotta. Abbiamo fatto tutto il percorso detto da Anna, attraverso l’Austria e via, con la paura di essere fermati dai partigiani. La nostra tradotta viaggiava sotto sorveglianza dei tedeschi perché lo sapevano che era piena di deportati che andavano in Germania. Allora pensavamo anche noi di subire un attentato, essere liberate, e non so se qualcuno è fuggito via e ce l’ha fatta, perché delle sparatorie ci sono state. Comunque siamo rimasti in Austria a Innsbruck per un po’ di tempo, un po’ di giorni. Poi siamo partite direttamente per la Germania.

D: Come ti ricordi il tuo ingresso a Ravensbrück ?

R: Terribile! La Carletti ha fatto tutto questo traffico per la strada, faceva la matta, si sedeva per terra, sulle valigie: ma lei era una diva, non era una poveretta come noi! Comunque a Ravensbrück come siamo entrate la prima cosa che ho visto furono le carriole piene di pietre e i prigionieri a portare queste pietre, io non lo so dove le portavano queste pietre. Dicevo: “Mamma mia, se noi dobbiamo fare dei lavori così, siamo a posto”. La prima cosa che ho visto è stato tutto quel filo spinato e poi mi ricordo che siamo entrate in quello che sembrava un bagno. Io me lo ricordo che abbiamo passato notte e giorno nudi; tutta questa roba che abbiamo tolto e tutta questa roba che abbiamo portato per cambiarci, la biancheria, io me lo ricordo che l’abbiamo messa tutta nel sacco già, tutta nel sacco, i gioielli, l’orologio, tutta nel sacco. “Verrà restituito quando andate via”, “Ce l’ha restituito?” Dovevamo lavarci, pulirci, non si poteva bere l’acqua perché c’era pericolo di tifo. Era l’acqua del lago. Senza bere, oltre che senza mangiare anche senza bere. Dopo siamo andate nelle baracche. Non so più se avevano solo due letti a castello, erano basse queste baracche. Io mi ricordo che quel cibo non potevo mangiarlo. Mia sorella mi dava il suo pezzo di pane per non vedermi morire. Comunque si mangiava quella porcheria, per me era immondizia cotta.

D: E tu avevi allora quanti anni?

R: Sedici.

D: Ti ricordi il tuo numero di matricola di Ravensbrück ?

R: 44.151, non so più se mia sorella aveva 152 e io 151.

D: Cosa ti hanno dato per vestirti dopo?

R: Ci hanno dato subito quel tipo di camicia, sembrava grigia; era d’estate, era leggera, altro che freddo. Noi eravamo dalle quattro all’appello fino alle sette, sull’attenti. Quando passavano le …noi per non farsene accorgere ci aiutiamo l’una con l’altra con la schiena così per scaldarci un po’, perché eravamo anche nude, oltre che alle quattro del mattino. É una zona fredda. Ci davano quella ciotola lì senza cucchiaio, senza niente, dovevamo noi magari cercarci qualcosa, scagliare dai letti qualche cosa per non prendere il cibo così con le mani. Mi sembra che avessimo la vasca con l’acqua, i rubinetti; nell’ingresso c’erano le baracche coi lettini. La prima cosa: guai a non essere pulite. C’erano pure le botte se non ci tenevamo pulite. A me sembrava di essere in quarantena. Non so se siamo state quaranta giorni.

D: Avete subìto delle visite?

R: Sì, eravamo sempre in coda e sempre nudi. Per visitarci, anche gli occhi o la bocca, dovevamo essere nudi, era fatta così. C’era gente anziana, purtroppo per la gente anziana è un’umiliazione forte. Di lì ci hanno destinati a Schönefeld a lavorare nel campo.

D: Lì ti hanno dato un altro numero?

R: Io non me lo ricordo questo numero della fabbrica, non me lo ricordo.

D: Tu cosa facevi in quella fabbrica?

R: Eravamo tutti allineati con i martelli pneumatici a mettere i chiodi agli apparecchi da caccia. Tutto il giorno così, facevamo dodici ore, una settimana di giorno e una settimana di notte. Comunque quando siamo arrivati lì ci hanno dato un po’ di mangiare normale, abbiamo toccato il cielo con le dita, ma era solo per il primo giorno. Ci hanno dato una caramella da succhiare, era come una caramella da succhiare, ci hanno trattato coi fiocchi il primo giorno e poi invece c’erano i bombardamenti. Mi ricordo sempre: tante volte venivamo all’appello, non c’era da mangiare per tutti perché non arrivava, noi aspettavamo il turno degli altri e poi andavamo a lavorare senza mangiare. Anche lì avevamo i letti a castello; ero al terzo piano, guai, dovevamo avere sempre il letto in ordine. Il pagliericcio che vada giù qualcosa! É successo anche che mi abbiano rubato tutti i trucioli e ho reclamato. Ho preso pure le botte. Dato che mia sorella distribuiva il mangiare là dentro ha cercato di recuperare qualcosa per aiutarmi, altrimenti io dormivo sempre sulle assi perché dovevo stare attenta a cosa mi succedesse. Purtroppo eravamo di tutte le razze. C’erano zingari, c’erano russi, c’erano slavi.

D: Natalina, anche tu ti ricordi a Ravensbrück di aver visto dei bambini?

R: Sì, erano alti così, andavano anche in fila a fare le visite. Io penso che fossero ebrei, delle famiglie ebraiche.

D: Che tu ricordi a Ravensbrück uomini non ce n’erano.

R: No, noi vedevamo in centro un tipo di torre che girava, sorvegliava, con sopra un tedesco; pensavamo che dall’altra parte ci fosse un altro campo come il nostro. Di là c’erano gli uomini e di qua c’erano le donne.

D: Natalina, come te la ricordi l’interruzione del ciclo mestruale?

R: Noi abbiamo capito subito che avevano messo qualcosa, delle polverine nella minestra, perché era tutto uguale. Io già avevo dei problemi, mia sorella che aveva quindici anni più di me aveva detto alla mamma: “Fai visitare la bambina, falle fare delle iniezioni perché non è normale che a quindici anni non abbia ancora il ciclo”. Appena fatte le iniezioni per farmi venire il ciclo me le hanno fatte per farlo andar via. Questo influisce molto sulla salute, penso. Poi c’era quella ragazza, Bice, con noi, a lei invece venivano come emorragia. Ha capito com’è? Lei doveva stare molto attenta perché a lei venivano come emorragia e allora è peggio ancora. Ad ogni modo io lì a Schönefeld avevo Bice vicina a dormire, invece mia sorella non dormiva con me. Forse Anna era in un altro padiglione dove c’era mia sorella. Anna era piuttosto robusta e ben piazzata, per quello la mandavano a prendere il rancio, diciamo rancio, magari fosse stato rancio, per me non era rancio, era schifezza.

D: Natalina, tu non ti sei mai ammalata?

R: Ringraziando il cielo, ho pregato tanto, piangevo e pregavo. Sono sempre stata piuttosto debole da quel lato. Purtroppo mi sono vista la vita distrutta, poi pensavo alla mamma da sola, e i fratelli via. Poi chissà come va a finire! Comunque è stata fortuna anche che magari, essendo giovane, uno resiste di più. Difatti mia sorella non ce la faceva, cercavo di aiutarla, l’accompagnavo fuori quando andavamo coi badili e la zappa a fare le trincee. Trascinavo lei, portavo il badile e la zappa sua per poter riuscire a fare qualcosa. Lei non ce la faceva proprio più a stare in piedi e l’hanno portata all’ospedale.

Quando è rientrata io lavoravo già alla FIAT. Pensi un po’. Noi siamo state, questo me lo ricordo, liberate anche il 25 aprile, e mia sorella è entrata a ottobre e io lavoravo già alla FIAT. A quei tempi, avendo la casa incendiata con tutto quello che è successo, avevo solo da dire “beh” e subito sono stata presa.

Proprio mi rifiuto, non voglio sentirne parlare più dei Lager. Andare a vederli per me è la morte. Mi sembra di morire. L’ho vissuta come una tragedia. Quando siamo rientrati ci hanno fatto fare una grande manifestazione in divisa al cimitero generale, con il rullo di tamburi. Io ho sempre pianto e mi ci è voluta più di una settimana per mettermi a posto. Sono già di carattere più fragile, non lo so.

D: Descrivici una giornata di quelle che hai trascorso a Ravensbrück.

R: Tutte tragedie. Per me era tutta una tragedia. Mia sorella nelle sue condizioni mi sgridava, mi faceva forza e coraggio. Lei non aveva la forza di trascinarsi e io ero fragile. Mi vedevo… io non so se sarò stata lì da dieci giorni, mangiavo il pezzo di pane che mia sorella mi faceva passare perché quella sbobba non mi andava proprio giù, mi veniva da rimettere. Come si può mangiare una cosa che è contro lo stomaco?

D: Il ricordo più negativo che hai sono le violenze, le percosse oppure la fame, il freddo?

R: La fame, anche il freddo e quell’appello da stare tre ore dalle 4.00 alle 7.00 del mattino sempre tre ore lì sull’attenti. Non è facile da mandare giù, perché dovevamo farlo, perché dovevamo farlo? Non so se avevo 44 di numero eravamo in 44 penso. 44.000? Non lo so.

D: C’erano altre ragazze della tua età?

R: Sì, ce n’erano, degli altri paesi, dell’Italia eravamo solo noi quattordici. Poi non so perché ci sono stati altri gruppi, magari altri periodi, quando siamo andati via noi sono venuti degli altri o che erano venuti prima. Non so.

D: E in fabbrica hai lavorato fino a quando?

R: Fino a che hanno capito che si sentivano già i colpi dei cannoni; quello ci dava un po’ di forza, un po’ di coraggio. “Forse ce la facciamo, forse ce la facciamo”. A noi i Meister non potevano dare tanta confidenza, quando avevamo tutti i chiodi così, facevamo il mucchio, dicevamo tra di noi: “Sta venendo avanti il fronte. “Alles kaputt”: capivano che arrivava la fine per loro, tant’è che poi abbiamo trovato anche i bagni caldi, le case ancora riscaldate, ancora a posto quando noi siamo entrate e ci siamo trovate libere.

D: Ma prima della Liberazione vi hanno riportato a Ravensbrück ancora?

R: Io questo non me lo ricordo. Mi ricordo solo che ci hanno fatte preparare per andare via, abbiamo fatto un percorso in camion, poi a piedi. Mi ricordo che viaggiavamo sembrava in una foresta. Una cosa che mi ricordo è che ho visto un bel vischio sopra un pino. Ho detto: “Questo forse è il portafortuna”. Difatti io me ne sono accorta e poi ci siamo trovate noi libere. Poi ci siamo trovate chiuse in un locale che mi sembrava una stalla. A me sembrava una cosa così.

D: E tua sorella era con te?

R: No, mia sorella era all’ospedale, mia sorella non ce l’ha fatta a venire via, era all’ospedale e non si sapeva niente. Poi è arrivata e io lavoravo già alla FIAT.

D: Avete trovato i russi in quella stalla?

R: Erano fuori, erano fuori. Lì avevamo delle russe, loro hanno capito che oramai eravamo sole. Dovevamo stare molto attente perché c’erano gli apparecchi di continuo che mitragliavano, una cosa o l’altra. Dovevamo stare molto attente a non essere prese, a scamparla. Arrivare alla liberazione e lasciarci la pelle!! Stavamo molto nascoste, il più possibile, perché gli apparecchi caccia si abbassavano a mitragliare.

D: E da quel posto lì….

R: E da quel posto lì abbiamo fatto armi e bagagli e il necessario per vestirci, cambiarci, sul carretto abbiamo fatto 300 chilometri a piedi, fino all’Elba. Tutta la parte russa l’abbiamo fatta tutta a piedi: al fiume Elba dall’altra parte avevamo gli americani e allora era tutta un’altra cosa. Ci hanno fatto attraversare di là. Ad ogni modo eravamo con Anna, in tutto quel percorso siamo state molto unite con Anna. Eravamo vestite da maschietti per mascherare che non eravamo mica ragazze. La violenza lì non mancava e dovevamo stare nascoste per la violenza, violenza sessuale.

I russi, l’abbiamo subìta dai russi la violenza sessuale. Noi ci siamo trovate in ville con bei lettini, ci siamo sistemate lì a dormire, eravamo due nella camera mia, due o tre nell’altra camera. Per quello poi siamo state molto unite e vestite da maschio: sono venuti i militari russi ubriachi, col mitra, sul tavolino da notte e dover subire. Ce l’ho fatta a sgattaiolare e scappare. C’era una pozza di sangue. Andarmi a nascondere, poi sempre stare nascosta. Da allora con Anna restavamo nascoste, andavano i ragazzi, gli amici, fuori a fare la spesa; noi facevamo da mangiare, nascoste. É guerra. Noi tutta questa violenza di cui stanno parlando adesso l’abbiamo subita, purtroppo.

D: E dopo vi hanno preso gli americani?

R: Quando poi abbiamo attraversato e ci hanno preso gli americani ci davano da mangiare la mensa buona, ci davano la cioccolata, le caramelle. Ci davano quello di cui avevamo piacere; ce l’avevano e ci rispettavano. Abbiamo dovuto passare tutto un percorso per arrivare a destinazione e raggiungere l’Italia che era molto lontana.

D: Però l’avete raggiunta l’Italia.

R: Ce l’abbiamo fatta.

D: Come avete fatto Natalina?

R: Non so dire, non so dire perché sulla tradotta non c’era posto per tutti; c’era gente sopra i treni e quando passavano sotto i ponti e sotto le gallerie ci lasciavano pure la pelle. Tutti volevano prendere il treno, tutti volevano prendere il treno, tutti volevano venire in Italia. Tutti cercavano dei mezzi il più veloci possibile per arrivare in Italia. A Milano non ho trovato un gran che di accoglienza.

D: Quando sei arrivata in Italia?

R: Ero con Anna, siamo state liberate il 25 aprile, poi abbiamo fatto tutto questo percorso: siamo arrivate a luglio, siamo arrivate a luglio.

D: Passando per Bolzano, per il Brennero?

R: Sì, ecco dal Brennero. Quanta gente ha attraversato dal Brennero e ci ha lasciato la pelle, perché tutti volevano prendere il treno. Tutti volevano venire, ma più di tanti non ci si stava, neanche accavallati.

D: Vi siete fermati a Bolzano?

R: Non mi ricordo più. Anna diceva che ci hanno dato quella roba, era appena dopo la guerra, tutti avevano dei problemi per i fatti loro, non è che abbiamo avuto un’accoglienza del tipo “Arrivano i deportati”, no, no.

Da Milano ce l’abbiamo fatta. Abbiamo fatto anche un tratto col pullman, forse da Bolzano alla stazione di Milano.

D: Tu non ti sei fermata a Pescantina?

R: No, non me lo ricordo neanche quel nome. Forse non davo tanto peso, non ci facevo tanto caso. Anna è più brava di me.

D: Poi sei arrivata a Torino.

R: Sì.

D: Tu accennavi prima alla tua casa incendiata. Lo sapevi che la tua casa era stata bruciata?

R: No.

D: Questo è avvenuto dopo.

R: Dopo; quando sono arrivata a Bussolengo ho incontrato un amico di mio fratello. E’ stato lui ad accompagnarmi, ad andare ad avvisare mia mamma che stavo arrivando per non farle venire un infarto. Essendo tutta la casa disastrata lei ha avuto anche i suoi problemi e poi non era più tanto giovane.

D: Quando vi hanno incendiato la casa e chi?

R: I fascisti.

D: E quando?

R: Quando siamo state portate via. Non so se l’hanno fatto subito. Io ho anche un fratello deportato, Bianco Romano: è stato a Trieste, alla Risiera di San Sabba.

D: E poi?

R: É stato preso più tardi in una chiesa fuori da Chivasso, mi sembra.

D: Ma è ritornato da San Sabba?

R: Sì, è ritornato anche lui. Lui ha fatto un po’ più tardi, ha fatto meno prigionia, penso.

Buttol don Raffaele

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono don Raffaele Buttol, nato il 9 maggio 1918 ad Agordo, ordinato sacerdote nel 1943, mandato cappellano a Vodo di Cadore in novembre. Ho avuto una pleurite proprio in quell’anno e ci sono rimasto un anno; durante l’estate del 1944 sono cominciati i movimenti partigiani da quelle parti.

La scintilla è scoppiata con la morte di Bill, avvenuta in un rastrellamento da parte della Gestapo al rifugio Venezia.

I partigiani erano accampati sul Monte Rite, dove ora stanno trasformando il forte in museo di montagna.

Alcuni partigiani sono scesi, sapendo che c’era questo rastrellamento, incontro ai tedeschi.

Due sono scesi sul ponte sul Boite, dove il passaggio dei tedeschi era obbligatorio e con imprudenza si sono nascosti là per combattere.

Sennonché due tedeschi li hanno visti, hanno buttato una bomba, Bill è morto, Penna ferito ad una spalla è stato preso prigioniero, portato alle carceri di Belluno e si pensa che sia stato fucilato in quelle carceri.

Ho avuto un incontro con i tedeschi che portavano via Penna, i quali mi hanno detto che c’era un partigiano che aveva fatto kaputt.

Il giorno seguente, insieme ad un certo Pietro Talamini, fratello di Riccardo Talamini, chiamato Orso, nome di battaglia, si trovava sul Rite, abbiamo perlustrato il bosco alla ricerca della salma di Bill.

D: Raffaele, quando è avvenuto questo? Ti ricordi la data?

R: All’inizio di agosto del ’44. Siamo saliti fino al Monte Rite cercando la salma, ma non l’abbiamo trovata, siamo scesi.

La salma è stata ritrovata poi da un cacciatore, perché sentiva l’odore di corruzione. Da allora ho avuto continui contatti con i partigiani, dato che li abbiamo incontrati sul Rite. Ho avuto contatti anche con Gallo, il nome di battaglia era… mi scappa il nome.

D: Dopo lo recuperiamo.

R: Era comandante della Brigata Calvi. L’ho incontrato la prima volta in bicicletta e si è fermato a chiacchierare con me e mi ha chiesto se potevo conservare dei viveri per loro in canonica e li ho conservati. Questo perché un battaglione della Calvi si era trasferito proprio nella nostra zona, il battaglione Bepi Stris.

Il motivo perché si era trasferito lì era questo: il trenino di Cortina faceva servizio di trasporto d’armi; le armi arrivavano via Linz a Dobbiaco, da Dobbiaco caricavano sul trenino di Cortina – Calalzo. A Calalzo le trasportavano su quello di Padova e così le armi arrivavano al fronte.

Questo a causa di bombardamenti del Brennero, per cui c’era molta difficoltà a portare armi attraverso il Brennero.

Una missione di alleati aveva avvisato i partigiani che gli alleati avevano intenzione di bombardare la Valle del Boite per impedire che il trenino funzionasse.

Allora la Calvi promise che avrebbe trasferito nella Valle del Boite un battaglione per sabotaggi e così è stato.

E’ stato affidato questo compito al battaglione Bepi Stris ed allora ci sono stati diversi scontri.

Di notte i partigiani facevano saltare ponti, venivano minati e saltavano, finché i tedeschi stanchi di questo continuo sabotaggio avevano rastrellato truppe per l’Austria e portate fuori, hanno fatto un grande rastrellamento sui boschi dell’Antelào, da sopra San Vito, verso Vodo.

Sono stato avvisato del rastrellamento da un certo Signor Ragni, che era interprete della gendarmeria di San Vito, la quale gendarmeria si era collocata all’Alberto Malgora, dove questo signore era direttore. Avendo visto come mi trovavo, la mia situazione, quel signore mi ha avvisato del rastrellamento, pregandomi di dire ai partigiani di scappare e di non combattere, di nascondersi perché anche per un solo tedesco che fosse morto, avrebbero, per rappresaglia, bruciato Vinigo.

Non potevo muovermi perché era domenica ed ho mandato su sempre il fratello di Orso, Piero Talamini, il quale avvisava i partigiani; i partigiani sono scappati, si sono nascosti e non è successo nulla, è andato tutto liscio.

Qualcuno si è accorto del mio colloquio con un ragazzo che è arrivato in bicicletta e che mi ha avvisato della cosa e hanno denunciato me e sono stato arrestato ai primi di novembre del 1944.

D: Prima, ad ottobre, qualcuno aveva denunciato i tuoi rapporti con i partigiani?

R: Penso di sì, perché i tedeschi nell’interrogatorio mi hanno chiesto anche altre cose.

D: Ti hanno arrestato dove?

R: Mi hanno arrestato a Vodo. Sapendo di dover essere arrestato, perché avvisato, andai a Belluno e poi venni a casa mia; andavo a salutare i miei e ritornando a Calalzo ho incontrato una signorina che mi avvisava che i tedeschi mi cercavano, erano stati a Vodo per arrestarmi e non trovando me avevano portato via il parroco e la domestica.

Il parroco mi hanno detto che era sul trenino che ritornava a casa, rilasciato dopo un interrogatorio, e la domestica era ancora agli arresti. Sono salito sul trenino, sono arrivato a Peaio, una frazione prima di Vodo.

La mia intenzione era di tenermi nascosto, scappare per le montagne e ritornare ad Agordo.

Invece mi sono rifugiato la mattina presto in asilo, è arrivato il parroco per dire la messa in asilo, ci siamo incontrati, poi è ritornato in canonica, ha trovato i gendarmi che volevamo arrestarmi e lui ci è cascato: ingenuamente ha detto che ero in asilo ed ho dovuto presentarmi, di conseguenza; così è andata la cosa.

Mi hanno arrestato, mi hanno portato a Tai, là sono stato interrogato per tre ore, insistevano perché firmassi un verbale e mi sono rifiutato di firmarlo. Ad un certo momento ho buttato la penna sul tavolo, dicendo che mai mi sarei condannato da me firmando delle cose false e presi la porta per uscire: mi hanno lasciato andare.

D: A Tai dove ti hanno portato?

R: Nelle caserme, c’è una caserma, a Tai.

D: Da chi era gestita questa caserma?

R: Dalle SS penso in quel momento.

Avevano rastrellato anche tutto il Cadore, c’erano stati anche degli impiccati in Cadore in quel periodo ed addirittura avevano incominciato ad impiccare con il gancio anziché con il laccio, una cosa tremenda e pensavo che avrei fatto quella fine anch’io.

Quando sono uscito dall’interrogatorio, lungo il corridoio c’erano uomini armati da una parte e dall’altra con la baionetta in canna. Quando arrivai davanti alla mia cella volevo entrare, invece un soldato mi ha detto: “No, reverendo, venga con me”.

Mi ha accompagnato giù per le scale ed allora ho pensato che mi portassero sulla piazza d’armi per impiccarmi o per fucilarmi ormai, invece mi hanno portato, guarda che sorpresa, al cancello perché una donna mandata dal parroco di Pieve di Cadore ci portava da mangiare.

Dopo alcuni giorni ci hanno portato via, eravamo in diversi prigionieri, ognuno di noi aveva un angelo custode tedesco, con il trenino fino a Dobbiaco, e a Dobbiaco siamo scesi.

Nel frattempo è venuto un allarme aereo, sarebbe stata l’occasione buona per scappare, ma avevo sempre il mio angelo custode attaccato e quindi sono dovuto salire sul treno assieme agli altri e siamo arrivati a Bolzano.

Di notte ci hanno accompagnato al Corpo d’Armata e di lì immediatamente, senza neanche entrare, al campo di concentramento di Bolzano: lì sono rimasto per alcuni mesi.

D: Raffaele, quando sei entrato a Bolzano vi hanno spogliato e vi hanno immatricolati?

R: Subito in campo di concentramento. Abbiamo lasciato i nostri vestiti, ci hanno dato una tuta di canapa, color canapa mi sembra, con la croce di Sant’Andrea sulle spalle, il numero, il mio 6.447.

D: Assieme al numero vi hanno dato qualche altra cosa?

R: Il triangolo rosso, il segno della causa per cui eravamo dentro, politici.

D: In quanti eravate voi, nel tuo gruppo?

R: Partendo da Tai? Saremo stati una ventina penso, non ricordo il numero, ma una ventina sì.

D: Ti ricordi il nome di qualcuno?

R: No, non ricordo proprio, non ricordo più, mi dispiace.

D: C’erano anche delle donne in questo gruppo?

R: No, solo uomini.

D: Quando sei entrato a Bolzano in che blocco ti hanno messo, te lo ricordi?

R: Confinavo con il blocco delle donne, il D mi sembra. So che parlavamo anche con le donne attraverso i reticolati in alto, la parete che divideva.

D: Gli altri sapevano che tu eri un sacerdote?

R: In campo sì, mi sono subito manifestato come sacerdote e venivano anche a confessarsi, venivano anche a consolarsi, io cercavo di aiutare quanto più potevo.

Il lavoro però era faticoso, portare travi, era un lavoro veramente faticoso, si facevano le piaghe sulle spalle.

C’era un deposito di travi fuori del campo di concentramento, dovevano allargarlo, abbiamo portato via tutte quelle travi, dopo abbiamo preparato i plinti in cemento armato alti meno di un metro, per porci sopra altre baracche ed allargare il campo.

Una curiosità: un giorno, mentre lavoravo a fare i plinti fuori del campo di concentramento, vedo una donna fuori dai reticolati: era mia sorella.

Allora ho detto ai miei compagni: “Là c’è mia sorella, fuori!” “Prenditi un piccone, vai su vicino”, mi hanno detto.

Ho preso un piccone, ho cominciato un buco, ma mia sorella come mi ha visto mi ha riconosciuto e si è messa a gridare il mio nome ed una guardia sulla garitta ha cominciato a gridare, urlare e puntare il fucile, per cui io sono scappato e mia sorella ha dovuto allontanarsi.

Ero stanco per le fatiche; i lavori di fatica erano affidati sempre a chi aveva un titolo di studio, a chi non aveva un mestiere pratico: medici, maestri, laureati ed anche preti.

Un giorno mi lamentavo del lavoro, della fatica che facevo con un tizio incontrato prima della conta sul campo aperto: mi ha chiesto chi ero ed ho detto: “Sono un prete della diocesi di Belluno e faccio veramente fatica a fare certi lavori”.

Allora lui, veramente buono, era un emiliano, mi ha detto: “Guardi, sono responsabile dei falegnami in campo, chiederò un altro falegname perché ne ho veramente bisogno. Quando il comandante chiede se c’è un falegname tra voi, tu alza immediatamente la mano, senza esitare.” Così ho fatto ed il giorno seguente o la sera seguente, non so, mi hanno chiamato fuori e sono andato a lavorare in falegnameria.

D: Dov’era la falegnameria?

R: Dentro nel campo.

D: Quindi non uscivate dal campo.

R: No, preparavamo le baracche per l’allargamento del campo.

Mi hanno dato una tavola da piallare, la pialla si piantava come una zappa nel campo e non andava avanti, allora si sono messi tutti a ridere. Erano tutti emiliani in quell’ambiente. Allora mi hanno detto: “Tu non sei mica falegname!” “No” dico “Qual è il tuo mestiere?” “Indovina!” Hanno cominciato a chiedermi i mestieri, poi i titoli, lauree niente.

“Insomma che cosa sei tu?” “Prete” ho detto. Da quel giorno mi hanno dato sempre del Lei, gli emiliani.

D: Raffaele, mentre trasportavate i pali lo facevi assieme ad altri deportati?

R: Sì, c’erano questi due di Lentate sul Seveso, sono poi venuti a trovarmi qui ad Agordo. I Parisio, due fratelli.

D: Nel campo c’erano altri sacerdoti?

R: C’era un certo don Andrea Gaggero, che era chiuso nelle celle perché aveva fatto il damerino della mensa degli ufficiali. Una volta entrando gli avevano affidato denari, non so chi, da portar dentro per i deportati genovesi, glieli hanno trovati addosso e quindi lo hanno chiuso in cella e castigato per diverso tempo.

A quello, sapendo che c’era, ho passato una Divina Commedia, un Dantino piccolo, formato tascabile, perché si passasse il tempo, anzi mi hanno permesso di entrare a vederlo, una guardia. La guardia delle celle era un altoatesino, era un buon individuo, portava dentro anche sigarette se gliele davano.

In cella, fra l’altro, c’era anche il segretario comunale di Vodo di Cadore, Filippi Antonio, incarcerato perché non aveva testimoniato contro di me.

Quel Dantino è rimasto in cella, lo so perché dopoguerra ho letto un giornalino femminile ed una deportata raccontava del campo di concentramento di Bolzano e di aver avuto tra le mani, nelle celle, perfino un Dantino, con grande meraviglia sua: come aveva fatto ad entrare quella Divina Commedia? Era il mio io penso, senz’altro.

D: Raffaele, ti ricordi di un medico all’interno del campo?

R: Lo ricordo sì. Sono andato da lui perché ero pieno di macchie rosse attorno alla cintura; siccome c’era la scabbia in campo pensavo di avere anch’io la scabbia.

Sono andato da lui, mi ha guardato e mi ha dato uno schiaffo sulla pancia, dicendo: questi sono pidocchi, non scabbia.

D: E’ stato quel medico che è stato colpito, che ha subìto dei maltrattamenti?

R: Non ricordo, mi sfugge.

D: Anche un falegname…

R: Un falegname sì, l’ho visto. Un falegname aveva lavorato nel blocco delle donne; finito il lavoro percorreva il corridoio di reti con la scala sulle spalle e un martello nel taschino. Ad un certo momento si è fermato perché il corridoio era chiuso da dei sottufficiali che ascoltavano il maresciallo, lui parlava.

Si era fermato a distanza, uno di questi sottufficiali ha fatto un passo avanti per lasciarlo passare, lui, credendo che fosse l’invito a passare si è mosso, sennonché il maresciallo pensando che avesse scomodato quegli ufficiali, è andato lì, ha levato il martello dal taschino e gli ha dato un colpo in testa.

Dopodiché io non lo incontrai più quel falegname, non lo vidi più.

C’erano delle avventure in campo di concentramento.

D: Non ti ricordi il nome di questo?

R: No, non lo sapevo, non l’ho mai saputo neanche.

D: Adesso ti dico un nome che ti ricorderai. In campo c’era anche un maestro, il maestro Palmeri.

R: Quello lo ricordo, faceva il facchino del carro, e un giorno mi ha avvisato: “Guarda don Raffaele che domani ho un incontro con mia moglie in un magazzino, incontro progettato da un magazziniere, se hai bisogno di qualcosa”. Allora ho preparato una lettera per il mio vescovo, gliel’ho data, se l’è messa nelle scarpe, nel magazzino ha finto di doversi allacciare la scarpa, l’ha levata e l’ha consegnata alla moglie e quella lettera è arrivata al mio vescovo.

In quella lettera io dicevo al vescovo che ero stato processato, ma non avevano testimonianze contro di me, anzi, mi ero rifiutato anche di firmare il verbale. Per cui il vescovo ha avuto la lettera ed è intervenuto. Si è incontrato con il Dott. Sailer, presidente del Tribunale Speciale di Bolzano ed hanno progettato di levarmi dal campo di concentramento e trasferirmi ancora alle carceri giudiziarie di Bolzano per rivedere il processo.

Al vescovo, me lo ha detto il vescovo quando uscii, ha detto che avrebbero rivisto la causa, ma se mi trovavano colpevole avrei avuto la fucilazione come minimo, fucilazione al petto anziché alla schiena.

Ma la cosa è andata liscia, nessuno più testimoniava perché la guerra andava male per i tedeschi. Tutti avevano paura a parlare e così riaperta l’istruttoria in Cadore non sono venuti a capo di niente, anzi il Tribunale Speciale aveva preparato il foglio di scarcerazione, era venuto Sailer, assieme a Hölzl, in carcere a dirmi che avevano preparato il foglio, ma le SS lo avevano cestinato.

Nel frattempo hanno detto che avrebbero pensato a qualcos’altro per farmi andare a casa, ma nel frattempo mi avrebbero mandato nelle carceri giudiziarie, nelle carceri mandamentali di Silandro.

Difatti una sera è venuto un gendarme che mi ha preso perché doveva trasferirmi a Silandro ed ho fatto il viaggio con lui.

D: Hai parlato più volte del vescovo, del tuo vescovo, ma chi era?

R: Monsignor Maffeo Ducoli, un eroe. Mi commuovo quando parlo di lui. Un eroe anche della Resistenza, davvero, sotto tutti gli aspetti, ha sempre difeso le popolazioni, ha parlato forte contro gli occupanti e ha difeso quanta più gente poteva. E’ stato anche lui sequestrato per lavoro lungo una strada tra Belluno e Feltre.

E’ stato sequestrato anche a Feltre e portato dentro nel piazzale della fabbrica dell’alluminio e poi è stato rilasciato, ma sulla strada ha dovuto lavorare anche lui una volta, assieme agli altri fermati.

Poi è merito suo una cosa che resta in memoria di tutti i bellunesi: a Belluno hanno impiccato quattro partigiani che erano in carcere, è stata una rappresaglia e lui, saputo questo, si è presentato in piazza, sfidando anche l’ira dei gendarmi e di chi era lì.

Si è fatta portare una scala ed è salito, ha dato l’olio santo a tutti quanti quei quattro.

D: Scusa Raffaele, come si chiamava il vescovo?

R: Maffeo Ducoli.

D: Non c’entra con Bortignon?

R: Scusi, sbagliavo io! E’ Bortignon. Bortignon, era amministratore apostolico della diocesi di Belluno, poi è stato trasferito con grande nostro dispiacere a Padova ed è morto a Padova. Come si fa a correggere ora?

D: Non c’è problema, è corretto. Quindi il tuo vescovo era Bortignon, ed è venuto anche nel campo.

R: Io ero già fuori dal campo, forse ero in carcere, so che è andato in campo ed ha detto anche una messa in campo di concentramento.

D: Aveva portato anche dei generi alimentari.

R: Sì, certo. Ha sfidato le ire dei tedeschi; ha scritto una lettera a Franz Hofer, ferrata, chiusa, forte, in difesa delle sue popolazioni.

D: Nelle carceri di Silandro quando ti hanno portato? Ti ricordi?

R: Ai primi di marzo, ma sono rimasto pochi giorni a Silandro, 17 giorni. Là ho incontrato gente che avevo conosciuto nelle cantine delle carceri di Bolzano, dove si scendeva durante gli allarmi per i bombardamenti aerei. Cioè Gino Lubich e Giorgio Tosi. Gino Lubich l’ho rivisto. Arrivati a Silandro mi hanno assegnato una cella, mi hanno dato il necessario per fare il letto, mi hanno chiuso dentro. Fatto il letto, avevo tracciato una croce sulla parete di calce e mentre ero inginocchiato che pregavo, aprono la cella ed entrano Gino Lubich e Giorgio Tosi: sono rimasto quanto mai contento e soddisfatto di incontrarli.

Ora Gino Lubich l’ho incontrato ancora a Roma, è fratello di Chiara Lubich, la fondatrice dei Focolarini. L’ho incontrato alla redazione di Città Nuova e Giorgio Tosi ha comprato una casa qui nella nostra valle di San Lucano e viene in villeggiatura in Valle di San Lucano.

Una casa vicino alla chiesa di San Lucano, vedesse che posto.

D: Raffaele, tu eri nel campo di Bolzano, ti hanno prelevato dal campo di Bolzano e portato in carcere a Bolzano e lì hai avuto un incontro….

R: Con questi due nelle cantine, durante i bombardamenti.

D: Anche un incontro con SS? Non hai avuto un incontro, un interrogatorio?

R: Sì, con il Dott. Hölzl. All’inizio si mostrava molto severo, mi ha chiesto: “Tu sei il tal dei tali? Sei nato in questo luogo? Tu hai avuto relazioni con i partigiani, sì e quali?” “Amministravo dei sacramenti, sepolto morti” “Ma ti sei interessato anche per altro?” “No”, ho detto io. Allora come una vipera mi ha sgridato ed ha detto che ritornassi in carcere, che ci ripensassi, se non volevo rimanere in carcere a vita. Allora dentro di me mi sono detto: “Se tu mi tieni in carcere a vita sono ben contento, se parlavi di impiccarmi avevo paura .. ma così…”

In seguito ha cambiato tono, forse si era incontrato con il Dott. Sailer ed ha cambiato anche tono, più remissivo, più buono direi.

D: Lì c’è stato l’interessamento anche del Comitato di Liberazione?

R: Penso di sì, perché la moglie del Segretario di Vodo, Antonio Filippi, è andata al Tribunale Speciale a chiedere informazioni di suo marito ed è stata trattata male, male e male, probabilmente era andato da Dott. Hölzl. Uscita, si è appoggiata ad un ippocastano del viale a piangere. E’ passato di lì un signore che vedendola piangere l’ha interrogata, ha detto il motivo e le ha detto: “Stia tranquilla, signora, pensiamo noi a quel tizio, vedrà che cambierà tono”. E così è stato.

D: Dalle carceri di Bolzano…

R: Dalle carceri di Bolzano sono andato a Silandro e lui, invece, qualche giorno prima è stato lasciato libero, per fortuna sua, perché è ritornato a casa con il tifo addosso ed è stato ricoverato a Belluno e per fortuna in tempo, sennò guai.

D: A Silandro c’erano altri religiosi?

R: Quattro preti, altoatesini tutti e quattro. Non ricordo i nomi, ma buoni, buoni religiosi, celebravo con loro la messa alla mattina, mangiavo con loro perché i frati del convento portavano dentro loro il vitto per noi. Il primo giorno che ho mangiato con loro non mi saziavo più. Hanno portato dentro delle palle grosse così, i canederli, mi sentivo pieno fin qua ed ancora ne avrei mangiate se avessi potuto; si era risvegliata la fame, perché ad un certo momento a Bolzano non si sentiva neppure più la fame. Si perde anche quella.

D: Oltre a questi quattro sacerdoti, a Silandro c’erano altri prigionieri?

R: Sì, delinquenti comuni ma di passaggio più che altro, ho conosciuto un tizio che mi ha parlato di un certo Stradelli, che era stato incarcerato con lui.

D: Erano sacerdoti tedeschi?

R: Sì, uno poi aveva 97 anni. E’ stato condannato a morte prima, per una stupidaggine direi.

Dopo Natale aveva disfatto il presepio nella sua chiesa, però l’hanno chiamato nel frattempo non so dove ed ha lasciato lì il bue e l’asinello, era di sabato. La domenica seguente entra in chiesa un signore e gli chiede come mai sono rimasti soltanto il bue e l’asinello sul presepio e dice: “Vogliono rimanere loro due soli al mondo, lasciali”. “Ma chi?” “Hitler e Mussolini!”, ha detto lui.

Per questo motivo è stato arrestato e condannato a morte per lesa maestà e lui si è messo a ridere, dicendo: “Ormai tanto non mi rubate, ho 97 anni!”

Ma poi è scoppiato a ridere quando ha sentito che la sua condanna veniva commutata in diciotto anni di carcere. Si è messo a ridere dicendo: “Voi volete regalarmi vita, ma dovete fare i conti con il Padre Eterno!”

D: Le guardie a Silandro chi erano?

R: C’era un custode, un certo Giuseppe Semola, mi sembra si chiamasse, o Segala, con la famiglia che custodiva il carcere, non c’erano altri.

C’erano i gendarmi sulla caserma, tanto è vero che si poteva uscire nel giardino della prefettura e un giorno sono salito su per il colle a spidocchiarmi un po’, per pulirmi. Parlavo sempre con Gino Lubich più che con Giorgio Tosi dell’esistenza di Dio, perché si diceva ateo, ma non era ateo, era alla ricerca io penso e con Giorgio Tosi abbiamo discusso dell’autenticità del Pentateuco. Aveva ragione lui, aveva studiato un testo di un certo cardinale Beha, il quale insisteva che l’autore del Pentateuco era Mosè e che le differenze di stile erano dovute a periodi diversi e luoghi diversi dove aveva scritto.

In realtà oggi gli esegeti dicono che è di autori diversi, però la fonte sì è Mosè, poi gli altri hanno redatto i testi. Aveva ragione lui quindi, questo è Giorgio Tosi.

D: A Silandro sei stato interrogato?

R: No, in santa pace, anzi…

D: Fino alla Liberazione.

R: Sì, è arrivata subito su una sera mia sorella e dice: “Sono venuta a vedere se sei ancora qui. Devi scendere a Bolzano per firmare un contratto di scambio di prigionieri”, è venuta mia sorella a dirmelo, quella che mi portava i viveri a Bolzano, ma io dico: “Mi sembra impossibile la storia!” Invece è arrivato un gendarme la sera mi ha preso e mi ha portato a Bolzano. Siamo arrivati alla sera al Tribunale Speciale e ci siamo incontrati con altri quattro, un certo Armando Osta di Comelico, che era già condannato a morte, l’avevo conosciuto nelle celle dei condannati, perché andavo con il cappellano, don Giovanni, mi sfugge il nome, cappellano delle carceri di Bolzano, portava la comunione tutte le mattine e l’accompagnavo in quella cella a portare la comunione ai condannati a morte.

C’era lui dunque liberato, una signora di Seren del Grappa e due ragazzi di Fonzaso; ricordo il cognome di uno, Balestra, ma dell’altro non ricordo niente, e siamo usciti tutti assieme.

Io ho firmato. Don Mario Martinelli che era dell’ufficio prepositurale ci ha offerto la cena; quella sera abbiamo fatto festa e poi il giorno dopo siamo partiti per tornare a casa. Un mese prima che finisse la guerra.

D: Tu cosa hai firmato?

R: Il contratto di scambio. Io purtroppo ho dato i miei documenti a chi ha stampato questo libretto e me li hanno persi. Eccolo qua, il contratto è qui. E’ un contratto di scambio: per sei gendarmi il Tribunale liberava cinque politici.

Mi sembra che tra questi sei gendarmi ci fosse un alto ufficiale, è per quello che hanno accettato lo scambio. Per la prima volta, io penso: forse è il primo contratto di scambio che combinano con i partigiani di Belluno. Il contratto dice: Scambio di prigionieri tra il Tribunale Speciale e il Corpo Volontari della Libertà della provincia di Belluno. Forse è la prima volta che danno un riconoscimento ufficiale ed anche l’ultima penso, perché ormai la guerra finiva.

D: La tua lettera al vescovo è stata conservata?

R: Sarà stata conservata dal vescovo penso, io non ho copia.

D: Il maestro Palmeri dove si incontrava con sua moglie?

R: In un magazzino.

D: Di scarpe forse?

R: Non lo so, è entrato, non credo di scarpe, perché andava fuori per i generi alimentari del campo di concentramento, faceva il facchino di quel carro. Dunque il magazziniere ha dato l’appuntamento alla moglie; lui, entrando nel magazzino ha finto di doversi allacciare le scarpe ed intanto parlava, la signora era vestita da commessa e così potevano scambiare qualche parola, così è stato.

Bravo quel Palmeri, non so come mai non è rimasto a Feltre, è ritornato in Italia meridionale.

D: Ti ricordi come nel campo di Bolzano facevate l’appello?

R: Sì, eravamo tutti in squadra, a graticola, mi sembra dieci per dieci, se mancava uno si vedeva subito il suo posto, perché tutti avevamo il nostro posto fisso: il compagno di fianco, quello davanti, quello dietro, tutto fisso, quindi era facile notare se uno mancava: lo si vedeva subito.

D: Quante volte al giorno veniva fatto l’appello?

R: Al mattino ed alla sera. Alla mattina prima che partissero quelli che lavoravano nella galleria della Lancia ed alla sera. Era triste quando c’erano le partenze, quando facevano l’appello di chi doveva partire per la Germania al mattino: partivano alle volte le mogli con i bambini ed il marito era alla Lancia a lavorare, alla sera, quando ritornava non trovava più la moglie, una desolazione era.

Poi erano tremendi anche contro le donne, i tedeschi. Era di partenza una spedizione per la Germania e non essendo partiti immediatamente per colpa dei bombardamenti hanno dovuti trattenerli in un blocco vicino alle donne, già scaricati dal campo di concentramento. Le donne avevano passato i viveri per il viaggio, consumati tutti i viveri, non avevano più niente da mangiare le donne, una sera hanno passato i loro viveri e per questo motivo sono state castigate, una giornata intera in piedi all’aria, fuori. Cadevano e dovevano rimanere a terra così come cadevano, fino a sera.

D: Hai parlato di donne ed hai accennato a dei bambini. Ti ricordi dei bambini nel campo?

R: Sì, erano sempre con le donne e li ricordo, poverini, ma loro avevano la mamma ed erano abbastanza tranquilli, ma le mamme! Per loro erano spine.

D: Gli appelli per la partenza per la Germania erano diversi dall’appello del mattino o della sera del campo?

R: Mattina e sera ci contavano solo, non facevano l’appello, ci contavano quanti eravamo nella graticola per così dire, in squadra, invece per la partenza in Germania chiamavano i numeri. Erano momenti di tremore quelli, avevamo tutti paura.

D: Tu hai visto tuoi amici partire?

R: No, amici si diventava lì in campo. Il 31 dicembre del ’44 abbiamo fatto un po’ di festa fino a mezzanotte, gridato, urlato, anch’io ho recitato preghiere con gli altri, tre rosari in gruppi diversi, poi a mezzanotte si sono quietati tutti quanti, sennonché un ragazzo era usciti in piedi su una cassetta, la cassetta della legna e stando lì in piedi raccontava barzellette ai suoi amici attorno. Io fingevo di non sentire, dormivo là vicino, ma ad un certo momento ho cominciato a ribollire, perché erano tutte barzellette sudicie e sono sceso dal mio castello al quarto piano, ed ho detto: “Per favore raccontate barzellette belle che possa ascoltare anch’io invece di queste cose sporche”.

E’ saltato un capocellula dell’Emilia, tutto ansimante e mi ha detto: “Reverendo, lasci che si divertano, cosa interessa a lei?” “Io non volevo mica disturbali, volevo soltanto che cambiassero barzellette per sentirle anch’io” e cercavo di ragionare con questo tale.

Un avvocato di Biella che dormiva vicino a me ha detto questa frase: “Reverendo, nolite abicere margaritas ante porcos, vuol dire non butti pietre preziose ai porci”, è una frase del Vangelo. Allora questo capoccia è andato a discutere con lui, ma lui non ha risposto, ha adagiato la testa, ha lasciato che l’altro gridasse e non ha risposto per niente ed anch’io ho potuto adagiarmi.

Alcuni giorno dopo quei ragazzi, incominciando da quello che raccontava barzellette, hanno chiesto di confessarsi da me, li ho confessati tutti ed il giorno dopo, alla conta, li hanno chiamati fuori in partenza per la Germania. Guardi la provvidenza come lavora.

D: Tornando un passo indietro: in questa zona ci sono state delle azioni repressive, paesi bruciati?

R: Caviola e Voltago. Due paesi bruciati. Voltago dista quattro chilometri da Agordo e Caviola quindici.

D: Perché sono stati bruciati?

R: A Caviola è arrivato un battaglione tedesco, non so quanti ed i partigiani hanno cercato di resistere in fondo alla valle di Canale d’Agordo e poi hanno distrutto quel paese, dimentico i nomi. Poi hanno combattuto la sera i partigiani. Questi tedeschi sono scesi dalla valle, hanno fatto il Passo San Pellegrino mi sembra, sono scesi a Canale d’Agordo, hanno bruciato il primo paese, il paesino, poi sono usciti per la vallata e poi, arrivati verso Falcade hanno trovato la resistenza da parte di partigiani, c’è stato un combattimento forte ed i tedeschi hanno bruciato Caviola, proprio per rappresaglia.

D: Gli abitanti di questo paese li hanno fatti evacuare?

R: No, erano tutti là. Hanno assistito all’incendio. Hanno dovuto ricostruire tutto nel dopoguerra. E’ una cosa triste.

A Voltago è successo pressappoco la stessa cosa: sono arrivati i tedeschi in rappresaglia, avevano preso prigioniero un partigiano, non so come, hanno voluto che questo partigiano indicasse le case dei partigiani, l’hanno portato avanti, non so se abbia indicato le case dei partigiani, fatto sta che hanno bruciato tante case ed un ragazzo di Voltago, uno studente, scendeva ad un villaggio per prendere il latte per la sua famiglia, ha visto i tedeschi che arrivavano con questo partigiano, è corso in paese a gridare “I tedeschi, i tedeschi!”.

In paese c’erano già tedeschi che l’hanno preso, Loris Scussel si chiamava il ragazzo, il nome del partigiano invece non lo ricordo; sono stati uccisi ambedue, il partigiano impiccato e questo ragazzo fucilato, sedici anni il ragazzo, ed hanno bruciato molte case del paese.

In campo di concentramento ho incontrato un sacerdote, don Vittorio Tiscornia, di Chiavari, il quale celebrava la messa la domenica, quando permettevano che fosse celebrata. Come facesse ad avere vino e particole io non lo so, ma certamente la domenica quando diceva messa distribuiva anche la comunione e conservava alcune particole per la settimana e quando volevo fare la comunione andavo da lui al mattino presto, prima della conta e mi dava la comunione.

Questo sacerdote era stato deportato perché quando ha avuto la primizia dell’olio, anziché conferire l’olio all’ammasso, l’ha distribuito ai poveri della sua parrocchia.

D: Bellissima questa cosa: è rimasto nel campo?

R: E’ rimasto nel campo fino alla fine.

D: Ti ricordi in che blocco era? Nel tuo blocco?

R: Mi sembra che fosse il blocco B.

D: Il numero non te lo ricordi?

R: No.

D: La messa dove la facevate?

R: Sul campo, all’aperto. Potevano venire da qualsiasi blocco, non potevano entrare naturalmente quelli delle celle, chiusi in cella, quelli no, per forza, ma gli altri potevano venire tutti.

D: Quindi all’aperto.

R: Sì, all’aperto. Non tutte le domeniche era permesso, se succedeva qualcosa in campo contro la disciplina o altro allora non permettevano più la messa, altrimenti sì.

D: Questo da quando è iniziato, te lo ricordi?

R: Quando sono entrato in campo io. Mi ricordo che a Natale un gruppo di deportati altoatesini hanno cantato Stille Nacht e tutti i loro canti tradizionali dell’Alto Adige; hanno commosso la gente, davvero.

D: Quindi c’era anche il coro?

R: C’era il coro, tutti altoatesini.

Bellumat Vittore

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Vittore Bellumat, sono nato a Feltre il 12 ottobre 1926.

Come ha detto l’intervistato di prima, sono stato preso il 3 ottobre da una pattuglia tedesca, 3 ottobre 1944, qui in Feltre, in occasione di quel famoso rastrellamento cui è stato accennato prima. Portato prima nella Caserma Zanitelli di Feltre e poi al Cinema Italia, dove abbiamo pernottato quella notte; il giorno dopo siamo stati trasportati a Bolzano, con tappa a Grigno, Grigno di Valsugana.

Siamo arrivati a Bolzano tre giorni dopo, perché durante i bombardamenti il treno veniva messo sul binario a fianco, per dare modo agli altri treni di snellire.

Siamo arrivati a Bolzano alla sera, verso alle otto.

Una cosa che mi ricordo sempre è che, penso neanche in trenta secondi, eravamo in centoquattordici, noi di Feltre, e ci hanno allineati con i cani: ci sembrava gente veramente agguerrita militaresca, tanto era il terrore che ci incutevano.

Poi ci hanno portato nel campo di Bolzano e lì è stato un impatto terribile, perché abbiamo visto gli altri già prigionieri da prima, e nella penombra sembravano ancora più brutti.

Il giorno dopo ci hanno dato il numero, il mio numero era 5.014, ci hanno rapato i capelli a zero, consegnato una tuta con il triangolo ed abbiamo cominciato la nostra vita nel campo di concentramento di Bolzano.

Consisteva nella chiamata mattutina, l’appello, il famoso appello, si divertivano a prenderci in giro, cappelli su, cappelli giù, allineati.

Non ci chiamavano più per nome, eravamo solo un numero e guai a chi non rispondeva, magari per un momento di disattenzione, magari si aspettava che chiamassero il nome, invece era il numero e lì erano botte.

Ci portavano poi tutti i giorni a lavorare, uno da una parte, uno dall’altra. Sono stato alla Galleria del Virgolo, sono stato alla Caserma di Gries a lavorare.

Durante i bombardamenti loro si mettevano nei rifugi e noi nella piazza della caserma a lavorare con i bombardamenti sopra.

Ho lavorato, ho scaricato treni, ho lavorato in galleria, tanti lavori pesanti, e dopo i bombardamenti a sgombrare dalle macerie.

Alla sera, quando si rientrava, con quel poco da mangiare, fortuna che fuori qualcuno ci aiutava, si dormiva, non importa se il pagliericcio era misero, un paio di centimetri di trucioli e si dormiva, non c’era bisogno di calmanti, né niente.

D: Vittore, eravate sempre sorvegliati anche quando eravate sul luogo di lavoro?

R: Sì, mi ricordo per esempio al Virgolo: noi lavoravamo solamente all’interno, si caricavano i carrelli e quando si arrivava all’imboccatura c’erano i civili che portavano via il materiale o quello che noi si portava con i carrelli, ce li riconsegnavano e noi si lavorava all’interno.

Alle bocche del Virgolo c’erano le mitragliere e noi eravamo propri assoggettati a loro e basta.

D: Tu nel campo di Bolzano fino a quando sei rimasto?

R: Io sono rimasto… la data precisa non mi ricordo, ma senz’altro fino a febbraio, dopodiché mi hanno trasferito a Vipiteno. Ci hanno trasferiti, perché il campo brulicava ormai. Si sentiva dire che l’ultima spedizione per la Germania fosse stata nel febbraio, non ricordo la data.

Dopodiché hanno cominciato a sfoltire il campo nei campi satelliti, i vari campi satelliti.

So che quando ero ancora a Bolzano sono stato in Val Sarentino a lavorare; si pensava di andare là mentre ci avrebbero preparato il campo. Erano le voci, noi si diceva, di radio bugliolo, le notizie che venivano da fuori, era la famosa radio bugliolo. Abbiamo lavorato in Val Sarentino e poi mi hanno portato, invece, a Vipiteno, che era al confine.

D: Scusa Vittore, prima accennavi di essere stato a lavorare in una caserma a Bolzano.

R: Quella di Gries, mi pare Gries.

D: Cosa facevi in quella caserma?

R: Tutto quello che occorreva, pulizie delle sale, servizi alle stanze degli ufficiali, tutto quello che c’era da fare. Generalmente, però, erano lavori pesanti, come scaricare camion: Partivamo con i camion di munizioni che si portavano al castello vicino a Bolzano, quel famoso castello dei conti Firmian, Castelfirmiano; lì c’era vicino un deposito d’armi e si portavano dentro queste cassette di munizioni.

Ricordo che il passaggio era sconnesso, con queste cassette da oltre cinquanta chili, era tremendo, perché in quattro si doveva scaricare un camion, uno dei lavori che mi ricordo d’aver fatto.

D: E su a Vipiteno?

R: Anche, uguale, eravamo alloggiati in una caserma, che era una caserma ex finanza. A Vipiteno noi eravamo esclusivamente sotto la SS, perché c’era una caserma con oltre, mi dicevano, mille SS a Vipiteno. Perciò potrei dire che quasi quasi stavo peggio lassù che a Bolzano, anche perché lassù nessuno ci aiutava: a Bolzano qualche pagnotta o frutta ecc… si poteva recuperare, a Vipiteno no.

Se si lavorava magari vicino a qualche casa normale si chiedeva a qualcuno: “Per cortesia può andarmi a prendere in farmacia qualcosa?”, io avevo la bronchite. Non capivano ed allora, era gioventù magari, dicevo una parolaccia e si vedeva che avevano capito.

Ho sentito tuttora a Vipiteno, pur essendo zona turistica, che accolgono bene ecc…; ci sono stato l’altro anno, dopo tanti anni ed ho trovato un autista, era una gita. Invece che andare a vedere le miniere, il museo delle miniere e quello che c’era in programma, in due ore di sosta, sono andato via per i paraggi dov’ero ed ho trovato un taxista. Ho visto la macchina: “E’ in servizio?”, “No, dice, era un tedesco dall’accento, ma parlava l’italiano, serve?” “Sì, vorrei andare qua”. Ero vicino alla stazione e mi ha portato là, ho visto la caserma e dico: “Fermo che guardo, chi c’è qui adesso?” “Ci sono i Kosovari” e parlavamo. “Lei conosce i posti”, mi dice, “Sì, ci sono stato parecchi mesi prigioniero!” “Mi ha detto mio padre, con la sua pronuncia, che qui c’erano i banditi”. “Ma che banditi, ho detto io, voi siete gente cattiva!” Ero giovane, ho compiuto diciotto anni nel campo di concentramento ed ho patito, perché quando sono tornato ho fatto otto mesi in ospedale, ho avuto il periodo dello sviluppo proprio nel campo, senza mangiare né niente, avevo una pleurite trascurata e altro, parecchie magagne; ho fatto otto mesi all’ospedale.

D: Ascolta Vittore, ma quando tu eri a Vipiteno, cosa facevi di lavoro?

R: Di lavoro eravamo in una caserma. Per esempio andavamo nelle caserme del luogo a lavorare, nei boschi. Vicino alla nostra caserma stavano facendo un rifugio antiaereo, una galleria, perciò lì avevo lavorato tanto e ci mandavano dentro quasi subito dopo scoppiate le mine di avanzamento. Non ricordo se erano intossicate, io ho sempre tossito, in quel periodo avevo la bronchite cronica e mi è rimasta anche adesso, a dire la verità.

Lavori pesanti veramente, scaricare camion, treni, anche per esempio vicino a Fortezza: ci portavano giù, c’era una caserma, un castello, una polveriera, scaricare munizioni anche lì, tutti lavori che servivano a loro.

D: C’erano anche delle donne in questo campo a Vipiteno?

R: No, nel nostro gruppo no; c’erano le donne, direi le amanti dei comandanti, quelli che ci trattavano veramente male e ci guardavano con disprezzo perché loro erano dall’altra parte.

D: Fino a quando sei rimasto lì?

R: Fino alla fine della guerra. Al 3 maggio, nel pomeriggio, sono arrivati i tedeschi, che erano in ritirata, via via, in mezzora abbiamo dovuto prendere i nostri stracci, so che ho dormito in un vagone in stazione a Vipiteno, perché ci hanno buttato fuori nel pomeriggio, nel tardo pomeriggio.

D: E poi cos’è successo?

R: Poi, non ho avuto la fortuna di Gianni di avere un camioncino, ero giovane, mi hanno preso che ero appena venuto fuori dal collegio, perciò non avevo né esperienza né niente ed ho cominciato a tappe a venire a Feltre. Ci sono voluti cinque giorni e sono arrivato veramente al limite delle forze.

D: Non sei passato dal campo di Bolzano?

R: No, lì c’erano i tedeschi, hanno messo una fascia di servizio ed hanno avuto due o tre tragitti con il treno, da una stazione, da un ponte rotto all’altro ponte rotto. Avevano fatto saltare tutti i ponti ed ho avuto la fortuna di montar su, sono centocessanta mi pare i chilometri da Bolzano a Feltre, ne avrò fatti centoventi a piedi.

D: Scusa, dicevi che vi hanno messo una fascia?

R: No, i tedeschi si erano messi una fascia e facevano un ottimo servizio di smistamento, chi doveva andare in su e chi in giù e tenevano l’ordine. Da quel lato li ho ammirati, pur odiandoli ancora al giorno d’oggi, in quel lato dicevo: “Hanno tenuto loro per liberare la zona”.

D: Ascolta, quando vi hanno detto che eravate liberi, in quanti eravate?

R: Noi qui da Feltre eravamo, nel nostro gruppo, quattordici, poi lassù ce n’erano tanti, passati per il campo di Bolzano provenienti da Sanremo, un gruppo da Sanremo, mi ricordo. Tanti che avevano anche fatto una ricerca per trovare un certo Annibale, non ricordo il nome, che piangeva sempre, quello era più giovane di me, ma piangeva sempre. Mi ricordo d’aver fatto amicizia.

D: Ascolta, Vittore, durante il tuo periodo di deportazione hai potuto scrivere a casa?

R: I primi tempi ci avevano dato il permesso di scrivere a casa ed ho scritto in collegio, perché mia mamma era a Milano, era a balia; mio papà era morto in un incidente di lavoro. La mamma non era a Milano ma vicino a Domodossola, con la famiglia del notaio per cui lei lavorava, dove avevano la casa di montagna; andava al mare, poi in montagna.

Perciò avevano fatto la Repubblica della Val D’Ossola e lei è venuta a saperlo tre mesi dopo che ero prigioniero ed è venuta su con una neve!, quell’anno ne ha fatta tanta di neve, a trovarmi a Vipiteno.

D: Tua mamma è venuta a Vipiteno?

R: Quando ha saputo, con l’autostop ecc…, è capitata su, lei ed un’altra signora di Feltre.

D: E tu sei riuscito a vederla?

R: Ce n’era qualcuno più umano, la caserma era recintata, aveva un ampio recinto. Ci mandavano fuori, eravamo senz’acqua, a prendere l’acqua in paese ed allora l’ho vista: “Mamma, stai lontana!”, poche parole e via.

E’ stata su due o tre giorni e quando è tornata a casa io ho respirato, anche perché non volevo farmi vedere che ero ammalato ed avevo questa bronchite continua e lei soffriva.

D: Quindi sei riuscito a parlarle?

R: Sì.

D: Tu potevi ricevere posta, pacchi?

R: No, a Bolzano ne ho ricevuto qualcuno, lassù mia mamma ha portato un pacco.

Poi c’era una di Feltre che penso andasse d’accordo con uno della SS, un tenente; mi ha portato un paio di pacchi, era una che io conoscevo già, aveva un paio d’anni più di me e mi ha portato i pacchi, so che veniva lì accompagnata con questo tenente della SS e diceva: “Vittorino ti ho portato un pacco, me l’ha dato tua mamma”. Lassù eravamo in mezzo a gente, oltre che la SS, avevamo contro anche la popolazione. Veramente non ho un bel ricordo di Vipiteno.

D: Come chiedevo a Gianni prima, tu ti ricordi di qualche religioso, di qualche sacerdote?

R: Sì a Bolzano, a Vipiteno no.

D: Ricordi quando celebravano?

R: Celebrava la messa, mi ricordo che una volta ha detto anche: “Fate pure la comunione, non occorre la confessione! quando tornerete a casa vi metterete a posto, qui siete tutti liberi con la coscienza di poter fare la comunione” e l’abbiamo fatta, mi ricordo con tanta devozione, un paio di volte.

D: Questo nella piazza del campo?

R: Sì, nella piazza del campo, che era grande.

D: E potevano assistere tutti a queste funzioni?

R: Sì tutti, quelli che non erano nelle celle, perché a Bolzano c’erano anche le celle. C’era un feltrino anche…

D: Ricordi il sacerdote com’era, se era un tipo particolare, giovane, anziano, alto, magro…

R: Statura media quello che diceva la messa, non ricordo bene, perché eravamo una folla, eravamo dall’altare magari anche un po’ lontani, poi la comunione… Ma una persona molto umana, molto simpatica, era prigioniero anche lui.

D: Era un deportato?

R: Sì, io ho letto anche il nome sul libro fatto nella ricorrenza dei trent’anni del Lager di Bolzano; c’è il nome di quel sacerdote.

D: Tu non lo ricordi adesso il nome?

R: No, il nome no.

D: Il tuo triangolo di che colore era?

R: Rosa all’inizio, all’inizio mi avevano dato… l’errore che diceva Gianni prima, all’inizio mi avevano dato il numero 5.514 ed il giorno dopo mi hanno richiamato e mi hanno dato il 5.014, avevano saltato di cinquecento numeri.

Sul libro figuro 5.514, ma ero 5.014.

Poi a Vipiteno dovevamo tenere sempre il triangolo e la tuta ed il freddo, come diceva Gianni per Colle Isarco, il freddo di Vipiteno era tremendo; aveva fatto tanta neve, c’era parecchia aria e non ci si poteva vestire più di tanto ma gli abiti civili non li tolleravano.

Vasari Bruno

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Bruno Vasari, sono nato a Trieste il 9 dicembre 1911, quindi una Trieste asburgica.

L’imperatore Francesco Giuseppe, salito al trono nel 1848, ha regnato fino al 1916 e come voi sapete Trieste è stata ricongiunta all’Italia soltanto nel ’18.

D: Bruno, quanto tu sei stato arrestato?

R: Sono stato arrestato il 6 novembre del ’44, a Milano. Sono stato arrestato dalle SS e rinchiuso nel carcere di Milano.

Perché sono stato arrestato? Sono stato arrestato perché probabilmente qualcuno ha fatto la spia.

Io avevo l’incarico di tenere il collegamento tra il comando di Milano e le formazioni GL dell’Oltrepò Pavese.

E’ stato fissato un appuntamento, ci siamo ritrovati e siamo stati subito circondati dalle SS e tradotti a San Vittore in un comico approccio con il carcere, perché la macchina si è fermata dinnanzi al portone, hanno lanciato un segnale, è uscita la guardia che si è schierata ai due lati della macchina e del portone, mi hanno fatto scendere, poi mi hanno dato un calcio ben assestato e così sono entrato correndo nella prigione di San Vittore.

D: Bruno, tu facevi parte di un gruppo partigiano resistenziale?

R: Sì, dipendevo dal Comando GL di Milano.

I miei capi, uno l’avete già intervistato, era Manlio Magini ed un altro era Alberto Cosattini, che era un diretto collaboratore di Parri.

Il carcere forse, non sembri un paradosso, è stato forse il periodo peggiore, perché c’era l’ossessione, la paura di fare involontariamente qualche denuncia, di fare qualche nome, di compromettere qualcuno, di danneggiare terribilmente la mia famiglia. Quindi ero lì in un’ansia permanente, in isolamento naturalmente.

Per fortuna non è accaduto niente di tutto questo, le mie deposizioni, concordate con Magini, non contenevano nessuna rilevazione di nessun genere, che potesse nuocere a qualcuno e, quindi, quando da San Vittore sono stato trasferito prima a Bolzano, poi a Mauthausen, mi sono sentito in un certo senso liberato.

Io sono stato in sostanza liberato due volte, una volta quando sono uscito da San Vittore a Milano ed un’altra volta quando sono stato effettivamente liberato dagli americani a Mauthausen.

E’ interessante il momento in cui ci hanno radunato tutti in una specie di atrio, di corridoio di San Vittore, per inquadrarci e portarci via.

Nel carcere c’era un avvocato, camuffato da farmacista e con lui ci siamo detti “Viva l’Italia Libera”, a bassa voce naturalmente, per non provocare un trambusto.

Mentre eravamo lì schierati è arrivato un gruppo di torinesi e lì in mezzo c’era una ragazza ammanettata.

Siamo ancora amici, voi la conoscete benissimo, perché parla sempre di Bolzano.

Ho fatto il viaggio in un pullman dell’Azienda Municipale di Milano, fino a Bolzano.

Era di notte, c’era un tempo splendido, stellato e questa mia compagna di viaggio diceva: “Vedi Bruno, non sarà possibile che questo spettacolo magnifico della natura ce lo tolgano”.

Ed io le risposi: “Cara Marisa, era Marisa Scala, come voi sapete, vedrai che ci tratteranno in maniera tale che saremo sempre con il capo rivolto in terra, come gli animali e non potremo ammirare le bellezze del cielo”, e siamo arrivati a Mauthausen.

Prima, però, ci sono degli episodi su questo pullman, che meritano di essere rilevati.

La Marisa Scala , coraggiosissima, alla camicia nera che faceva da guardia disse: “Ma tu non ti vergogni di portare questa divisa?”

Per fortuna non è capitato niente, quello ha fatto assolutamente finta di non sentire.

Questa è la terribile e straordinaria Marisa, di cui ricordo anche il comportamento a Bolzano, il fatto che lei mangiava poco e quello che avanzava del suo pasto lo passava a me, attraverso la griglia che separava le donne dagli uomini.

Bolzano preso isolatamente certamente non era una residenza felice, voi lo sapete benissimo.

Confrontata con quello che viene dopo è una villeggiatura. Tuttavia c’erano dei terribili ucraini, che voi sapete, c’era, però, la bionda dottoressa, voi sapete chi era, lì ho visto delle cose che mi hanno impressionato.

Ho visto, per esempio, come trattarono un morto, assolutamente come se fosse stato un collo di cose da buttar via, senza il minimo rispetto per un essere umano.

Si stava lì, si parlava, parlava, parlava naturalmente.

C’è stato un tentativo di fuga, che è stato represso; il tentativo consisteva nello scavare una galleria sotto il muro e non è stato possibile perché qualcuno ha denunciato al comando del campo questo tentativo.

C’erano alcuni che andavano a lavorare fuori. Io non ero ammesso tra quelli che andavano a lavorare fuori, si vede che ero ritenuto un elemento pericoloso, non mi sembrava che fosse molto adatto alla mia persona.

L’arrivo a Mauthausen è ai primi di dicembre del ’44 ed è inutile che qui lo descriva, è comune a tutti vero? Questo tremendo impatto.

Segue all’arrivo così fatto di dolorose sorprese di ogni tipo.

Segue il periodo di … adesso non mi viene la parola, ma voi sapete, il periodo di quarantena, con anche lì cose molto fastidiose, terribilmente fastidiose, ma niente di veramente drammatico durante quel periodo.

D: Scusa, Bruno, due cose: a Bolzano sei stato immatricolato?

R: Probabilmente sì, ma non lo so, non mi ricordo.

D: Mentre a Mauthausen te lo ricordi?

R: Sì, il mio numero è 114.119, devo ricorrere al tedesco per essere preciso.

D: Dopo la quarantena a Mauthausen che non è durata quaranta giorni…

R: No, non è durata quaranta giorni e quanti giorni è durata non lo so, ma dopo sono stato spedito a Gunskirchen. Devo aprire una parentesi: io ero preoccupato del lavoro che mi sarebbe capitato e pensavo ad un lavoro protetto, che si potesse fare in un luogo chiuso e non andare a posare le rotaie o a scavare delle trincee o qualcosa del genere e mi sono consultato con un personaggio veramente notevole.

Era un ingegnere di Milano, esattamente di Sesto San Giovanni, che era stato deportato con tutta la Commissione Interna di Sesto San Giovanni, in occasione dei famosi scioperi del ’44.

Voglio aprire una parentesi, gli scioperi del ’44 sono per me uno degli episodi più importanti, più ricchi di significato della resistenza italiana.

Se voi pensate al coraggio di questi operai di ribellarsi in un momento in cui era facile vedere i morti per le strade, gli impiccati ed i fucilati. Tanti esempi ce n’erano anche a Torino, vero? A Milano erano stati fucilati gli ostaggi prelevati da San Vittore, vero?

Hanno avuto questo straordinario coraggio e questo ingegnere è stato deportato con i suoi operai, che non ha voluto in nessun modo abbandonare.

Mi sono consultato con lui. Lui mi ha detto: “Digli che fai il falegname”, ed io detto: “Ma non so tenere in mano un pialla, non so tenere in mano una sega, come faccio?” “Digli che tu eri addetto ad una speciale macchina che taglia gli angoli alle tavolette che inserisci in questa macchina e che poi si possono accorpare e fare cassetti o altre cose”.

Allora io così ho detto quando mi hanno chiesto il mestiere e mi hanno portato a Gunskirchen e cos’era da fare? C’era da disboscare un bosco, cosa molto diversa.

Il piccone non ero capace di affondarlo nella terra, tanto la terra era gelata, facevo una fatica terribile, ma senza nessun risultato.

E’ vero che circolava la voce …. e quindi ogni tanto uno poteva prendersi un po’ di riposo.

Però ho fatto delle cose molto più faticose ancora e più pericolose, il trasporto dei tronchi. Il trasporto dei tronchi è terribile, perché intanto non si ha idea di quanto pesino, pesano maledettamente e poi io ero il più alto di tutti e quindi portavo sempre. Gli altri quando c’era un avvallamento del terreno, magari i più piccoli non portavano niente ed io portavo sempre.

Il risultato è che mi sono ammalato tanto e sono stato mandato a Mauthausen.

E’ stato molto curioso il giudizio se ero ammalato o non ero ammalato.

Intanto bisognava avere più di 38 di febbre, altrimenti no. Poi c’erano accoccolati per terra il capo del campo, altri membri della gerarchia del campo e dovevano giudicare come una specie di tribunale se io ero malato o non ero malato.

Però i tempi di Gunskirchen hanno avuto anche dei momenti molto felici. Avevo la fortuna di essere vicino a Magini, il quale teneva dei discorsi così pieni di sapienza, di bellezza, di arte, che mi sembrava di essere sollevato in un mondo, recitava Valéry, mi sembrava di essere sollevato in un mondo… direi che momenti così belli è difficile dire di averli passati in altri luoghi, in altri tempi.

Sono stato portato al Revier, e poi cacciato in un letto dove c’era già un austriaco, un tedesco, il quale mi disse: “Io sono un ladro”. Ma sarà stato un ladro davvero? Può darsi. Può darsi anche che fosse la sua maschera, che fosse un politico, comunque era una persona estremamente gentile e quindi l’impatto con il Revier non è stato così terribile.

D: A Gunskirchen c’era anche Ricci con te? Ricci Raimondo.

R: No, c’era, ma non l’ho visto, non l’ho mai incontrato, l’ho conosciuto solo a Genova nella sua funzione di presidente dell’Istituto Storico.

D: Mentre nel Revier di Mauthausen hai trovato Calore?

R: Certo. Veniamo a questo Revier di Mauthausen terribile, in ogni momento il Lauskontrolle, ogni momento qualcosa del genere e poi ci hanno tenuto per diversi giorni, per esempio, senza pane, perché non arrivava il pane, poi per diversi giorni nudi perché non arrivava la biancheria di ricambio. Insomma era veramente terribile.

Uno dei fattori che mi ha salvato, per cui sono stato liberato poi dal campo, è che io avevo capito che lì non si doveva rimanere, si doveva uscire.

Viceversa, parlando con molti compagni, si diceva: “Qui intanto siamo al caldo, qui non lavoriamo”, ma io avevo capito che quello era il piano inclinato della morte. Bisognava uscire di là.

Allora tutte le volte che veniva qualcuno che chiedeva chi era disposto a fare un lavoro, io mi presentavo sempre, ma c’era sempre qualcuno che mi soffiava il posto, sempre e sempre.

Finalmente sono venuti a chiedere per un posto al quale nessuno ambiva, il guardiano della fogna.

Ed io mi sono offerto di fare il guardiano della fogna.

Non era un bel mestiere, perché io dovevo stare lì con un bastone e rimestare nei tini che portavano dai vari blocchi per riversarli nella fogna, rimestare perché non ci fossero degli oggetti che potevano in qualche maniera otturare la griglia.

Però d’altra parte ero in una posizione in cui mi passavano tutti davanti ed allora potevo intrattenermi con qualcuno che avevo conosciuto e sentire le opinioni, sentire qualcosa.

Naturalmente nel Revier avevo fatto una grande amicizia con Calore, Beppe Calore, amicizia che dura ancora oggi ed è sempre molto calorosa ed affettuosa, sebbene io non lo veda da tanto tempo e purtroppo mi dicono anche che è molto sofferente.

Abbiamo fatto assieme quel libro, “Il Revier di Mauthausen”, che credo che sia una delle cose migliori che possiamo aver fatto perché veramente dà un’idea, veramente dà un’idea.

Tante cose ho visto io nel Revier.

Posso descrivervele tutte? Non credo, perché tra l’altro in questo momento il pensiero ricorre al gelo della mia mano nel toccare un cadavere per trasportarlo.

Il mio ricordo va allo Scheißebett, voi sapete che cos’è lo Scheißebett, era una tela cerata per terra dove si mettevano quelli che avevano una diarrea invincibile e li annaffiavano ogni tanto con una pompa e poi via, naturalmente morivano presto.

Prima che la Scheiße diventasse così grave, molto spesso dei prigionieri, poveretti, lasciavano delle tracce sul percorso dal loro letto, chiamiamolo letto, non è giusto, dal loro castello.

Poi vi dicevo questa scia di sporcizia e noi si era a piedi nudi, quindi potete immaginare.

In ogni posto dei castelli si stava in due, tre, quattro o cinque, io ho avuto un periodo in cui eravamo in cinque e come ci mettevamo? Testa piedi, testa piedi ecc., come le sardine, con dei grandi urli e proteste se uno doveva girarsi.

Quindi immaginate voi che cosa orribile era questo Revier, naturalmente con una mortalità fortissima, con qualche tentativo di assistenza e di cura, con qualche termometro e con qualche paletta per abbassare la lingua e guardare in gola, ma in generale prevaleva l’aspetto negativo, terribilmente negativo.

Sono uscito ed ho cominciato a fare questo lavoro e vicino a me c’era l’accumulo dei morti, che poi venivano caricati su un carro e portati al crematorio.

Come si faceva a caricarli su questo carro? Si prendevano dalle varie carrette che venivano dai vari blocchi, si prendevano in due, si faceva oscillare il cadavere e poi lo lanciavano su questo carro.

Vi ho detto dei momenti felici a Gunskirchen, perché non si può dire che Gunskirchen fosse una bella villeggiatura, ma anche a Mauthausen ho trovato dei momenti così, ho trovato delle persone.

L’ingegnere di Milano si chiamava Villani, voi l’avrete già sentito nominare.

Poi ho trovato delle persone degnissime per il loro coraggio, per la loro abnegazione, per esercitare la resistenza interna, un potere debole finché si vuole, ma esistente.

Io non posso nominare altro che i nomi di Pajetta, non posso nominare che, adesso mi sfugge, ma mi tornerà, un altro bellissimo nome, uno di questi era anche Alberto Todros, che voi andrete ad intervistare.

Questo è stupendo, pensare che nel Lager ci fosse la resistenza vero?

C’era naturalmente in questi, che organizzavano la resistenza, la soddisfazione morale di fare qualcosa ed anche la terribile insoddisfazione di non poter fare tutto e che se si aiutava uno, non si poteva aiutare l’altro, i loro poteri erano estremamente… Bardini si chiamava quello che stava con me ed era l’uomo cavallo, l’uomo che andava dal Revier, sopra in collina, al comando con altri, trascinando la carretta, con una grande fascia sulla spalla.

Ci sono stati dei momenti molto contraddittori anche, a Mauthausen, mentre arrivavano i camion della Croce Rossa a portare pacchi di viveri ecc., che davano a tutte le nazionalità, meno che agli italiani, i quali italiani ogni tanto ricevevano qualcosa dagli altri deportati, che un po’ si impietosivano di vedere questi che non ricevevano niente.

Ma c’era anche il momento in cui venivano i pullman della Croce Rossa a portare via i francesi, per esempio.

Succedeva anche che per un certo periodo gli ebrei ebbero un trattamento speciale, più favorevole.

Mentre questo succedeva la camera a gas funzionava a pieno regime.

Ho ritenuto doveroso testimoniare, assieme a due altri compagni, la selezione per la camera a gas, perché io sono stato chiamato davanti ad una Commissione, naturalmente mi hanno guardato le natiche, perché lo stato delle natiche era assolutamente necessario per una qualunque diagnosi, se c’era ancora un po’ di carne voleva dire sopravvivenza, se invece, si presentavano come delle borse di tabacco, con la pelle cascante, voleva dire morte immediata e lì stranamente gasavano non quelli destinati ad una morte immediata, perché pensavano che la natura avrebbe fatto il suo corso, ma quelli a metà, a metà strada.

Invece quelli che ancora stavano relativamente, dico molto relativamente bene, servivano per i lavori nel campo; io servivo per la fogna.

Sono stato in un certo senso fortunato di non aver avuto un lavoro di guerra, per la guerra, un lavoro che in sostanza, se così si può dire, era per i compagni ed ho trovato un compagno famoso, l’architetto Pagano Pogaschnig, che ho trovato quasi moribondo, abbiamo scambiato pochissime parole, Calore mi aveva ammonito di non stancarlo.

Calore ha fatto molto anche per aiutare, per curare, ha fatto tutto quello che ha potuto.

C’era anche un giovane studente di medicina, che si è laureato dopo, Massignan di Vicenza, che ha scritto adesso un libro, me l’ha mandato in questi giorni.

Cosa posso raccontarvi ancora? Il momento della Liberazione.

Il momento della Liberazione è stato un pianto a dirotto, era un pianto di gioia, era un pianto di dolore, non lo so, ma è stato veramente un pianto a dirotto.

La mortalità era altissima ed ha continuato ad essere altissima, anche dopo la Liberazione, nonostante gli americani abbiano fatto tutto il possibile per curarci, per curarci bene.

Non so se voi vi ricordate quel film, lasciamo da parte questa storia, il cantante pazzo, che era tutto tinto di carbone per sembrare un negro, io ero tutto tinto di carbone, perché mi davano da inghiottire il carbone per rimediare al funzionamento del mio intestino.

Lì ho fatto anche un altro mestiere che non avevo fatto prima, quello che sbuccia le patate, l’ho fatto per poco, ma ho fatto anche quello.

C’erano momenti molto alti. Cosa ha voluto fare Bardini? Bardini ha voluto fare un corso di storia in Italia. Naturalmente evidenziando i movimenti operai, socialisti ecc. e non vi pare una cosa grandiosa in quelle condizioni, nel Lager fare questo? E poi lì ho conosciuto Piero Caleffi, che non conoscevo prima, ho conosciuto tanti altri personaggi.

E’ incominciata poi un’altra odissea, quella del ritorno in patria.

Ci hanno portato prima con i camion della Croce Rossa alla frontiera svizzera, pensando che di là si sarebbe potuti arrivare in Italia.

Invece no, marcia indietro, però voglio parlare un attimo di questa frontiera.

Lì abbiamo trovato delle infermiere francesi che ci hanno soffiato dentro il DDT da tutte le parti, da tutti i buchi dei pantaloni, delle giacche ecc.. Poi io sono andato a dormire da delle suore e non ho dormito tutta la notte, era impossibile, perché era troppo tenero il materasso, non si poteva assolutamente dormire per l’eccesso di comodità.

Siamo tornati indietro e siamo arrivati ad un campo di smistamento che era un orrore, perché era pieno di cimici, pieno di sporcizia, senza mangiare, abbiamo viaggiato in parte in pullman, in parte in treno ed in treno c’erano dei soldati che tornavano in Italia, liberati dai loro campi, con delle grandissime scritte: “Viva Badoglio”, le bandiere con gli stemmi dei Savoia, perché, poveretti, non erano al corrente, non sapevano niente, sebbene ci fosse anche lì una certa e robusta resistenza e c’erano quelli che sapevano, ma c’erano anche quelli che non sapevano.

Quindi sono arrivato, però in pullman a Bolzano e lì ho visto che c’era una grande agitazione di pullman con cartelli, c’erano molti sacerdoti.

Io ho provato una certa emozione al Brennero, ho detto: “Qui sono in Italia”.

Arrivato a Bolzano ero talmente sfinito che mi hanno ricoverato una notte in ospedale, qui eravamo già al 5 di giugno, il campo è stato liberato il 5 di maggio, un mese dopo.

Sono stato ricoverato in ospedale. Il giorno dopo in una autoambulanza eravamo in quattro in questa autoambulanza, seduti, non distesi, siamo stati riportati in Italia e chi c’era su questa? E’ difficile ricordare, non ricordo bene, devo averlo scritto da qualche parte.

Ad ogni modo a Brescia facciamo una breve sosta e scendiamo dall’autoambulanza.

Siamo subito circondati da delle ragazze, le quali guardandoci dicono: “Non è vero che fosse tutta propaganda quello che abbiamo visto al cinema, non era propaganda degli americani, sono proprio così i prigionieri”.

Eravamo vestiti in un modo strano, perché non avevamo gli stracci del Lager, le famose zebre, ma io avevo, per esempio, un paio di scarpe gialle, un paio di pantaloni grigi, una giacca nera di seta e poi una camicia militare, senza colletto. Vestiti in una maniera buffissima.

Arriviamo a Milano, a Milano ci portano alla stazione, lì c’era un ufficio, lì c’era Pajetta Giancarlo, quello del campo era Giuliano Pajetta, che mi ha accompagnato a casa con una macchina, mi è corsa incontro mia moglie ed io le ho detto: “Un attimo che mi butti per terra!” Veramente non stavo quasi in piedi.

L’assistenza premurosissima e la sorveglianza di mia moglie che non mangiassi troppo, che non mangiassi questo, che non mangiassi quest’altro e così mi sono ristabilito in un mese circa, in cui ho potuto dettare quel piccolo libricino che voi conoscete, che è stato preceduto, però, alcuni giorni prima da un articolo comparso su Giustizia e Libertà. E’ lo stesso contenuto, soltanto molto concentrato.

A quel libro non avevo dato quel titolo così pomposo, avevo semplicemente scritto “Milano Mauthausen e ritorno”.

Pensarono gli amici a pubblicarlo, diffonderlo ecc..

Avevo ritenuto assolutamente doveroso raccontare, spiegare perché si sapesse, perché tutti sapessero, perché i capi della resistenza sapessero e difatti in ordine di tempo di stampa è uscito per primo.

Non so se vi ho raccontato tutto abbastanza ordinatamente, non lo so, comunque voi potete farmi delle domande.

D: Bruno, dopo Bolzano, a Mauthausen e a Gunskirchen, hai visto se deportate c’erano anche delle donne?

R: Sì, a Mauthausen ad un certo momento hanno portato le donne di Ravensbrück.

Voi vedete nel librino che riceverete adesso, prima di Natale probabilmente, che io racconto uno di questi episodi.

Ad un certo momento ho ricevuto l’ordine di caricare su una carriola il badile e la scopa e di andare a fare pulizia nel campo delle donne e lì ho visto un episodio che poi leggerete.

Ancora non vi ho detto, a proposito di evacuazione dei campi; voi sapete che ad un certo momento i tedeschi hanno evacuato Auschwitz, hanno fatto le famose marce della morte, terribili descrizioni. Uno dei libri proprio usciti in questi giorni, quello di Teo Ducci, un deportato ad Auschwitz, che partecipa alla marcia della morte ed arriva a Mauthausen.

A Mauthausen abbiamo visto questi sventuratissimi nostri compagni in condizioni terribili, una mortalità spaventosa.

C’è stata poi una breve parentesi, vi ho detto, in cui hanno avuto un trattamento migliore, perché probabilmente le autorità naziste speculavano sulla possibilità di essere indenni, di non dover pagare il conto delle infamie che avevano fatto.

Questa marcia della morte.

Allora è assolutamente assurdo il fatto che hanno preso il 27 gennaio la data in cui si affacciano le avanguardie russe al campo di Auschwitz, come data di Liberazione della fine di tutto quanto.

Questi semplicemente non si sono informati, non hanno letto ed entusiasticamente si sono buttati in questo errore. Temo che non lo riconosceranno mai, ma è un errore grave ed io ho scritto su questo argomento che è un errore grave, perché io so cosa sono state le marce della morte, poi ci sono numerosissime testimonianze, numerosissime, anche quella di Giuliana Tedeschi.

Vi posso dire ancora qualcosa, fatemi delle domande.

D: Tu hai visto delle donne a Mauthausen. Hai visto anche dei religiosi?

R: Sì, ma non mandati a Mauthausen come tali, perché lo dice anche Primo Levi: nel sistema più ordinato ci sono sempre dei terribili buchi. Ho visto il famoso don Gaggero, ho visto un gesuita polacco e so che c’erano anche degli altri.

Con questo gesuita polacco abbiamo avuto anche uno scambio, era stato arrestato a Torino perché avevano scoperto dove officiava lui una radio sotto l’altare, ma non ho poi più avuto informazioni, non so in che chiesa, come si chiamasse, proprio perso.

Di don Gaggero conosco tutta la storia, anche il libro su don Gaggero, fatto da quella che fu la sua compagna, ne ho parlato su “Triangolo rosso”.

Lui ha celebrato la prima cerimonia religiosa nel campo di Mauthausen per benedire i morti, dopo ha avuto con la Curia di Genova e poi con il Vaticano tutti questi scontri, la scomunica ecc. ed ha avuto lì … Stalin.

Però lanciò un manifesto, una comunicazione che è un inno di gioia a Gorbaciov e poco dopo morì.

Grande personalità questo don Gaggero.

D: Ti ricordi, Bruno, se hai visto anche dei ragazzini, dei bambini a Mauthausen?

R: Sì, ho visto una baracca di bambini, questa baracca di bambini ho chiesto a tanti miei compagni di Mauthausen, nessuno l’ha vista, nessuno ha saputo niente.

Invece lì c’erano dei Pfleger, voi sapete certo chi sono i Pfleger, degli infermieri cecoslovacchi che erano fierissimi di fare tutto il possibile per trattar bene questi bambini, perché io ogni tanto con la prerogativa di essere il guardiano della fogna, munito del mio bastone per rimestare ecc., facevo qualche uscita, andavo a visitare qualche blocco e sono rimasto impressionato, però nessuno ne ha parlato, nessuno ha memoria, nessuna memoria c’è.