Trezzi Pierino

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come ti chiami?

R: Pierino Trezzi. Sono nato a Gaggiano, provincia di Milano, il 17.8.1924. La mia storia: il 30 agosto del 1943 sono chiamato a militare. Governo Badoglio, questa è storia. Dopo otto giorni, 8 settembre, tutti a casa. Ce l’ho fatta ad arrivare a casa.

D: Dov’eri?

R: Ero a Cividale del Friuli. Ce l’ho fatta, ci ho messo sei giorni ad arrivare a casa, a piedi, rischiando col treno. Insomma, ce l’ho fatta. Siamo a casa. Dopo due mesi che sono a casa il richiamo alle armi. Io non ci vado, anzi vado. Che cosa succede? E’ una decisione che bisogna prendere con le dovute… Perché rischi forte, non puoi dormire più in casa, devi dormire nelle cascine, d’estate nei fossi e d’inverno di sopra nel solaio, perché ogni tanto venivano i carabinieri a controllare, a cercarmi. Perché loro sanno che non ho… Allora saltiamo un pezzettino adesso. Per tutti i quindici giorni ero ricercato dai carabinieri, in casa non c’ero perché ero via. Ci stufiamo di fare questa vita, cerchiamo di andare in montagna. Andiamo a Lecco. Arrivati a Lecco, arrestati subito.

D: Quando questo?

R: Questo circa nel ’44 in aprile.

D: E perché Lecco, Pierino?

R: Lecco perché per andare in montagna era la via più… Non so perché.

D: Non avevate un compagno?

R: Sì, eravamo accompagnati da uno che hanno fucilato quando l’hanno preso. Lì arrestati, dieci giorni di carcere.

D: Ma chi è che ti ha arrestato a Lecco?

R: I repubblichini. Portati in carcere dieci giorni, poi mi hanno portato a Milano e mi hanno fatto firmare un mucchio di documenti per il volontariato. Da Milano mi hanno portato a Novara. Da Novara sono scappato a casa.

D: Ma a Novara in carcere?

R: No, era una caserma, era un carcere ma era una caserma.

D: Solamente te o gli altri tuoi compagni che hanno portato a Lecco?

R: Eravamo in tre, sì.

D: Sempre di Gaggiano erano?

R: No, sono nato a Gaggiano, ma abitavo qui ad Abbiategrasso.

D: Abitavi già ad Abbiategrasso?

R: Sì, sì.

D: Voi tre che vi hanno arrestato a Lecco…

R: Mi hanno portato a Milano.

D: Poi a Novara.

R: Poi a Novara. Da Novara siamo scappati subito. Naturalmente lì siamo ricercati sempre, una vita da cani. Allora decidiamo di andare in montagna, ci troviamo in un bosco. Spia, circondati, sparatoria, tutti a casa. Ce l’abbiamo fatta ad arrivare tutti a casa. In quel periodo hanno arrestato uno, dopo un mese ha cantato. Lì mi hanno fatto il giochetto con la polizia politica, è venuto qua, ci troviamo al bar e così, ci mettiamo d’accordo quando partiamo in montagna. Quelli là erano della polizia segreta della Repubblica di Salò.

D: L’UPI, l’Ufficio della Polizia Politica.

R: L’Ufficio della Polizia Politica. Anzi, io ho dei documenti che comprovano la motivazione del mio arresto. Li ho qui. Ad ogni modo arrestati e portati, circondati.

D: Arrestati dove, Pierino?

R: Al bar, il bar della Lea, di fronte al bar della Lea. Eravamo in dieci compreso il padrone.

D: Qui ad Abbiategrasso?

R: Qui ad Abbiategrasso, qui, qui. Arriviamo là, ci portano a Legnano, al carcere di Legnano.

D: Scusami, Pierino, quando ti hanno arrestato?

R: Il 12 d’Agosto 1944. Poi portati a Legnano, a Legnano carcere. Dopo quindici giorni ci portano a San Vittore in raggio tedesco, perché eravamo dei politici. La destinazione era già scritta: Dachau. Raccontare le avventure, gli episodi di Legnano è un obbrobrio. Ho visto delle torture, addirittura impazzire. Hanno torturato i capi, poi li hanno uccisi sulla strada.

D: Ma quelli che torturavano lì a Legnano erano italiani o germanici?

R: Erano italiani. Allora faceva parte dell’Italia ancora, capito? Il raggio politico era un paradiso, il raggio politico e i tedeschi rispettosi, ci davano un mucchio da mangiare, una cosa che non davano gli italiani. Qui a San Vittore al quinto o sesto raggio, non ricordo. Siamo stati lì un quindici, venti giorni, poi col pullman ci hanno portati a Bolzano. A Bolzano ci hanno fatto lavorare, gli episodi non raccontiamoli.

D: Lavorare dove a Bolzano?

R: Spostare delle cose.

D: Ma dentro nel campo o fuori?

R: Ci portavano anche fuori a lavorare, a spostare. Poi c’è un episodio addirittura scioccante, ho cercato di salvare un ebreo e ho preso tante di quelle botte.

D: Dentro nel campo?

R: Nel campo, perché era un vecchietto e non ce la faceva a lavorare, allora ho cercato di aiutarlo. Botte. C’era un tedesco, sarà stato di sedici, diciassette anni, l’ha ucciso a legnate. Sanguinava dappertutto, ha ucciso quell’ebreo là. Io ho preso la mia razione, però ero talmente giovane io che…

D: Ma, Pierino, quell’ebreo, quell’anziano ebreo che dici te è quello che era partito con te da San Vittore?

R: Mi pare, adesso non so di preciso. Sul pullman eravamo ebrei e politici, capito? C’era un po’ di casino.

D: Ma lì a Bolzano ti hanno immatricolato?

R: No, no. Mi hanno dato la tuta blu con una croce rossa dietro.

D: Ti ricordi il tuo blocco qual era a Bolzano?

R: No, non ricordo.

D: Il triangolo ce l’avevi?

R: No, lì no. C’era la croce sulla tuta blu.

D: Il periodo in cui tu arrivi a Bolzano qual è? Te lo ricordi?

R: Posso grosso modo dire verso la fine di settembre, a metà settembre, principi d’ottobre. Mi ricordo un particolare, io ho fatto l’attraversamento della frontiera del Brennero la seconda domenica d’ottobre, che era la festa di Vigevano allora. Tutto lì.

D: Allora, sei stato a Bolzano, uscivate, collaboravate nel campo a spostare…

R: Sì, a spostare delle cose.

D: Cose di questo genere. Lì c’è quest’episodio di quest’anziano ebreo. Come fai a dire che era ebreo? Te l’aveva detto?

R: Ebreo perché eravamo insieme, si lavorava insieme purtroppo, gente che aveva dei possedimenti non indifferenti. Lei sa benissimo che l’ebreo si salvava per le possibilità economiche.

D: I tuoi compagni di Abbiategrasso, quelli arrestati con te…

R: Sì.

D: Hanno fatto il tuo stesso percorso?

R: Sì, fino a Dachau sì.

D: Fino a Bolzano siete assieme?

R: Sì, poi fino a Dachau sì.

D: Poi lì a Bolzano rimani quanto tempo più o meno?

R: Venti giorni, venticinque, non so bene. Grosso modo.

D: Poi un bel giorno vi chiamano?

R: Chiamano. Vagone, vagonetto, ci hanno caricati, vanno. Tanto per tagliare, tre giorni e tre notti ci abbiamo messo. Ci hanno scaricati a Dachau.

D: Ascolta, ti ricordi più o meno, Pierino, da dove siete partiti da Bolzano?

R: Dalla stazione.

D: Dalla stazione?

R: Dalla stazione.

D: Sul tuo Transport, sul tuo vagone in quanti eravate più o meno?

R: Sessanta, cinquanta o sessanta a vagonetto.

D: Eravate in tanti?

R: Tantissimi, tantissimi.

D: Solamente uomini o anche donne?

R: Donne e uomini, tutti insieme.

D: La stazione, cos’è che ti fa ricordare la stazione?

R: Tanti binari.

D: Poteva essere anche uno scalo ferroviario?

R: No, per me era la stazione. Naturalmente non proprio al centro della stazione dei passeggeri, spostato su un binario morto c’era quella fila di…

D: Dal campo alla stazione?

R: A piedi, ci hanno caricati a legnate. Lì c’era tutto, il bagno, doccia su quel vagone.

D: Ti ricordo se c’erano anche dei religiosi? Dei sacerdoti?

R: Ho trovato a Dachau un religioso, a Dachau sì.

D: Dopo tre giorni e tre notti di viaggio arrivate in un posto che voi non sapete…

R: No.

D: Non lo sapevate, no? Però è Dachau.

R: Dachau, grandioso. Forse centomila persone c’erano state dentro lì. Io avevo il numero, 113.577, di Dachau. Lì siamo stati…

D: Quindi lì vi hanno spogliato?

R: Spogliato, la doccia, ci hanno disinfettato, rasati tutti e hanno dato la divisa.

D: La zebrata?

R: Zebrata. L’immatricolazione.

D: Assieme al numero ti hanno dato anche il triangolo?

R: Sì, un triangolo di panno rosso con sopra il numero.

D: E poi in baracca?

R: In baracca.

D: Ti ricordi qual era la tua baracca?

R: 17.

D: Lì a Dachau cosa facevate?

R: A un dato momento ci portavano a migliaia fino alla stazione di Monaco a costruire le ferrovie che erano state bombardate. Si partiva alle tre di mattina e si arrivava alla una di notte. Ho fatto per quindici giorni quella vita lì.

D: Da Dachau a Monaco…

R: C’erano trenta chilometri, venticinque.

D: Come vi portavano?

R: Treno.

D: Nella stazione i civili vi vedevano?

R: Sì, strada facendo ci giravano le spalle, non potevano guardarci, giravano le spalle. I bambini tiravano i sassi, i ragazzini. Ci giravano le spalle, quando si passava giravano, capito?

D: E l’incontro con quel religioso a Dachau?

R: A Dachau è stata una cosa così, non ho avuto una motivazione religiosa, no, no. Niente, si aspettava la fine, la fine della guerra, non di morire. Sono stato lì circa un mese. Ho detto: “Dove mi hanno portato tre giorni e tre notti?”. Mi hanno diviso dai compagni, io sono stato insieme con uno di Abbiategrasso, gli altri sono andati a lavorare nella zona di Dachau. Io sono andato a lavorare invece a Bad Gandershein .

D: Questo tuo compagno di Abbiategrasso te lo ricordi chi era?

R: Malles Carlo. Morto, fucilato, il primo gruppo della fucilazione. Il 6 Aprile del ’45.

D: Poi un certo giorno vi chiamano lì a Dachau, vi dividono dagli altri e vi portano su un treno?

R: Un treno, tre giorni e tre notti. Arriviamo a Bad Gandershein L’avevo saputo dopo che era Bad Gandersheinnaturalmente. Lì non ci sono baracche, c’è una chiesa sconsacrata, si dormiva sulla paglia. Ad ogni modo si doveva costruire baracche. Io ho scritto che facevo il falegname. Tutto l’inverno del nord l’ho preso io fuori. Invece a quelli che lavoravano in fabbrica è andata bene, erano coperti almeno. Io l’ho presa tutta. Allora l’episodio della vita dei campi per me è caduto nell’oblio, è passato. Non mi dimentico, non posso dimenticare la marcia.

D: Ma lì arriviamo dopo. Allora, siete in questa chiesa sconsacrata…

R: Sì, dormire sulla paglia, un po’ di paglia, una coperta in due.

D: In quanti eravate più o meno?

R: Penso mille, mille e cento.

D: I germanici erano con voi? I tedeschi?

R: Quelli che lavoravano in fabbrica sì.

D: Loro dove dormivano?

R: Loro erano a casa loro, finito il lavoro alla fabbrica, la fabbrica era una fabbrica di assemblaggio di carlinghe, loro finito il lavoro andavano a casa. Noi dove andiamo? Là alla chiesa sconsacrata.

D: Voi eravate addetti a costruire le baracche?

R: Costruire le baracche.

D: E il campo.

R: E il campo.

D: E il materiale dov’è che andavate a prenderlo?

R: Il materiale era là pronto, perché si sapeva, era predisposto già. Quando arriviamo facciamo questo lavoro. Per costruire le nostre baracche, le baracche per noi, capito?

D: Di legno?

R: Sì, di legno.

D: Quindi avete costruito le baracche e poi andavate in fabbrica a lavorare?

R: No, io ho dormito dieci giorni in baracca, perché quando hanno costruito le baracche è arrivata la famosa marcia. Capito?

D: Ti ricordi quante baracche erano che avete costruito?

R: Erano divisi, italiani russi, metà italiani e metà russi. La maggioranza erano francesi, polacchi, greci, spagnoli.

D: Di italiani chi ti ricordi?

R: Ricordo il mio amico con cui sono partito da Abbiategrasso, ha fatto una brutta fine, fucilato perché non ce la faceva più a camminare. Parliamo della marcia. La vita lì nel campo si sa.

D: Quanto tempo siete rimasti in quel campo?

R: In quel campo lì ottobre, novembre, dicembre, gennaio, febbraio, marzo e aprile.

D: Lì non ti hanno rinumerato?

R: Sì. Lì mi hanno dato il numero di Buchenwald 94.565, detto dal tedesco poi era una cosa…

D: Te lo ricordi?

R: Madonna, no, …….

D: Quindi sette mesi.

R: Sette mesi.

D: Avete costruito quante baracche, dicevi?

R: Una baracca per i francesi perché erano in maggioranza, poi a divisione, russi, italiani e tutto.

D: Il campo era recintato?

R: Recintato, torrette, fili spinati. Di notte si andava al bagno, bello questo. Si andava in bagno fuori e le sentinelle si divertivano a sparare. Bel divertimento. Tutto lì, ecco.

D: Dopo sette mesi?

R: Succede…

D: Arriva l’ordine di evacuazione.

R: L’ordine di evacuazione, cosa dice l’interprete? Chi non è capace di camminare lo portiamo in camion. Una cinquantina, sessantina sono usciti. Quell’interprete ha visto me, ha schiacciato l’occhio e ha detto: “No, eh”. Di fatto mi ha avvisato, li hanno fucilati tutti.

D: Anche il tuo amico?

R: No.

D: Non lì?

R: No, non lì. Cominciamo la marcia.

D: Cosa vi hanno dato per la marcia?

R: Cosa avevano dato…

D: Avevate una coperta?

R: Niente.

D: Avevate da mangiare?

R: Niente.

D: Avevate da bere?

R: Niente, la neve che si trovava facendo le colline. Ad ogni modo comincia la marcia, chi si ferma è morto. Di fatti quelli che crollavano, gli davano un colpo in testa e li lasciavano là. Quelli che tentavano la fuga subito via. Arriviamo al 6, comincia la fucilazione in gruppi.

D: 6 di aprile, no?

R: 6 di aprile. E’ stato quando hanno ucciso… li portavamo io e il mio amico. Quando hanno chiamato li hanno portati fuori, hanno buttato indietro, li hanno messi sul ciglio della strada, venticinque, trenta, li hanno fucilati tutti. Così pomeriggio e sera. Quante volte sono uscito io, non mi volevano morto. Fino al 12 aprile. Il 12 aprile tentiamo la fuga in quattro, io, uno di Corbetta. Sono morti tutti. Naturalmente scappiamo, quelli là sparano, il milanese è stato colpito. Basta. Le pallottole attraversavano i vestiti, in mezzo alle gambe. C’era la campagna, era come se fosse un gioco di bocce, liscia. Tutte le pallottole che passavano per le gambe, stracciavano i vestiti, niente. Appena viste due piante, ci siamo messi dietro alle piante. Arriva un tedesco, mi spara a cinquanta centimetri. Siamo in piedi ancora. In totale mi hanno arrestato ancora sei volte, però avevano paura a tenerci, avevano paura anche a ucciderci. Allora cercavano di liberarsene, si andava avanti, dopo cinquecento metri altro arresto, fino a quando arriviamo al punto che passata una colonna di mongoli prigionieri di guerra ci hanno incolonnati e portati in una baracca. Lì sono arrivati gli americani.

D: Questo posto dov’era, te lo ricordi più o meno? Vicino a quale città grossa?

R: Vicino a Halle, mi pare.

D: Ascolta, prima di queste fucilazioni, prima del 6 aprile del ’45, quando voi eravate in marcia della morte camminavate di giorno?

R: Di giorno, di sera. Di notte ci si fermava in un pagliaio. Prima di partire dal pagliaio si mettevano là dieci tedeschi, perché sapevano che si nascondevano nella paglia.

D: E sparavano?

R: Sparavano.

D: E mangiare?

R: Niente, l’erba.

D: Bere?

R: Bere la neve che s’incontrava, c’era ancora la neve là, in Austria c’è una temperatura differente.

D: Eravate solo uomini lì?

R: Sì, solo uomini.

D: Donne non ce n’erano?

R: No, no.

D: Avete attraversato durante la marcia della morte dei paesi abitati?

R: No, non mi ricordo questo, no. Una volta abbiamo dormito in una chiesa. Il giorno prima della prima fucilazione in massa. Quella volta mi ricordo che abbiamo dormito al riparo.

D: Sempre durante la marcia della morte sono arrivati degli aerei?

R: No. Gli aerei li abbiamo trovati… Quando siamo scappati dalla marcia, dove si va? Si va dove i tedeschi scappano.

D: Voi incrociavate i tedeschi?

R: Sì, sì. Ci siamo salvati… L’emozione della Liberazione non si può descriverla.

D: Questo quando eri dentro con i mongoli?

R: Sì, sì.

D: Lì con i mongoli dove siete andati? In un campo?

R: C’era una specie di villetta con il capannone dove si dormiva, perché lì lavoravano. C’era una cava. Lì è arrivata una camionetta.

D: Di russi?

R: No, era zona russa, però hanno liberato gli americani.

D: Ah, sono arrivati gli americani?

R: Sì, era ad est di Lipsia, capito? Sono gli americani che hanno liberato.

D: Voi non sapevate niente, arriva questa camionetta…

R: Sì, c’era una sparatoria vicino. I tedeschi sono scappati.

D: E lì cos’è successo?

R: Lì è successo che i mongoli … e noi eravamo scheletriti, proprio una cosa… Hanno cominciato a fare razzia, razzia nelle cascine vicino perché la fame era questa. Noi mangia, mangia, mangia, sono stato quindici giorni col mal di cuore. Sono scoppiato, capito?

D: Ma avevate ancora la vostra zebrata?

R: Sì, dopo loro mi hanno visto così e i mongoli mi hanno dato un paio di pantaloni e una camicia.

D: Poi gli americani?

R: Gli americani quando mi hanno liberato sono rimasti scioccati, perché là erano omoni, noi invece eravamo tre scheletri. Continuavano a domandarci: “Ma da dove venite? Cosa hai fatto per essere così?”. Tra l’altro poi c’era disprezzo tra noi e i russi, la croce. Cannibali eravamo, sporchi. Come diceva Gianni, scabbia, orticaria, tutte le malattie della pelle addosso.

D: Ascolta, solamente voi tre siete stati messi con questi mongoli? Altri deportati?

R: Non li ho visti.

D: Ti ricordi più o meno in quanti siete partiti all’inizio della marcia della morte?

R: Della marcia mille e qualche cosa.

D: E ti ricordi più o meno quanti sono arrivati a destinazione?

R: No perché sono scappato prima io.

D: Però ti ricordi delle molte fucilazioni di massa.

R: Quelle sì, perché sul ciglio della strada era una sparatoria continua, mattino e pomeriggio.

D: Quindi il tuo periodo di deportazione, oltre a lavorare, a fare certi lavori, recupero e spostamento macerie a Bolzano o a Dachau che andavi alla ferrovia a ripristinare le stazioni dopo i bombardamenti di Monaco, è stata la costruzione di quel sottocampo di Buchenwald?

R: Sì, sì. Là a Bad Gandershein.

D: Esatto. In fabbrica non sei andato tu?

R: No, non ho fatto tempo ad andare.

D: Poi hai fatto però la marcia della morte?

R: La marcia sì, siamo partiti e quelli che sono arrivati, pochi….

D: Piccola parentesi, lasciamo perdere adesso un attimo il discorso della deportazione tua, ci racconti quei due episodi di Abbiategrasso?

R: E’ scioccante ritornare indietro nel tempo, non so. Via De Amicis, ragazzini, si cantavano le canzoni, “Ven chi, Ninetta, sotta l’umbrelin”. Si avvicina una vecchietta: “Non cantate questa canzone”. Noi siamo andati via. Perché? Poi un episodio che mi ha colpito è stato: uno viene fuori di galera, l’ho saputo dopo, Via Noli, arriva il Colombini, era prigioniero politico. Tutta la gente si spostava quando arrivava lui, uno solo ha avuto il coraggio di abbracciarlo, un certo Franco. Uno solo. Noi avevamo una mentalità, una cultura della prigione un po’ particolare. La prigione come delinquenza, non si capiva la motivazione politica. Pochi anni, capito?

D: Ma il fatto della fabbrica lì?

R: No perché era stato portato via prima di noi.

D: E’ stato arrestato prima?

R: Quelli sono stati arrestati prima per uno sciopero. Per uno sciopero, la Sato. Sato, adesso è una sigla che non so… Una fabbrica di chiodi che ho detto prima.

D: Sono stati arrestati?

R: Non è venuto a casa nessuno di quelli lì.

D: Ma li hanno portati via?

R: A San Vittore, poi hanno fatto la nostra fine.

D: Qui invece ad Abbiategrasso è stato fucilato anche qualcuno?

R: Due. Dicevano che uno aveva ucciso il tabaccaio di San Vito di Gaggiano per una rapina, era tutta una propaganda. E uno invece l’hanno ucciso qui, dove l’hanno preso? L’hanno preso alla fossa, stava fuggendo.

D: Ma chi è che fucilava lì?

R: Fucilava là, io non potevo assistere, dico la verità. Sentivo. Io so che il capo della sezione qui di Abbiategrasso dava il colpo di grazia. Poi non so chi.

D: Il capo della sezione di?

R: Dei repubblichini.

D: Quindi italiani?

R: Italiani. Quello lì dava il colpo di grazia.

D: Quando è avvenuta questa fucilazione? Ti ricordi?

R: Guarda, ti dirò. Forse nel mese di aprile, maggio, giugno. I due fucilati.

D: Di che anno?

R: Sempre del ’44.

D: Poi altri episodi che sono avvenuti, tipo quello di Robecco? Di Cassinetta?

R: Sì, sì. Allora ogni tedesco ucciso, dieci condannati a morte. Lì a San Vittore l’episodio più eclatante, lì uccisero qualche tedesco, l’hanno portato fuori in venti, l’hanno messo davanti al muraglione con dietro il plotone d’esecuzione. Eravamo là ad aspettare che sparavano. A un certo momento contro ordine. La reazione si fa dopo però, in quel momento non ci si crede, non ci credi. Possibile? E’ una cosa impossibile questa. Non abbiamo fatto niente.

D: Ascolta, Pierino, quando tu eri a Legnano, nelle carceri di Legnano, o a San Vittore sei riuscito a parlare con i tuoi o a scrivere ai tuoi familiari?

R: No, mi hanno preso il 12 agosto del ’44, sono tornato il 30 agosto del ’45, niente scrivere.

D: Cioè i tuoi non sapevano più niente?

R: Niente, niente.

D: Come hai fatto a tornare?

R: Tornare…

D: Dal campo.

R: Siamo stati là qualche mese da soli noi tre, perché a un dato momento è stato così. Io non so le faccende politiche. A un dato momento arrivano gli americani col camion, a botte hanno caricato tutti i mongoli sul camion. Noi siamo rimasti là così tutti e tre. Adesso cosa facciamo? Siamo andati a … qualche mese, poi se stiamo qui non andiamo più a casa. Ci siamo avvicinati a un paese e abbiamo trovato lì degli italiani. Gli italiani poi mi hanno portato col camion a Lipsia, una frazione che adesso sarà proprio Lipsia, Tauka. E’ un paese che era un campo di concentramento. Siamo stati là fino a quando siamo partiti. A metà giugno, luglio ho fatto cinquantaquattro giorni sul treno. Siamo andati da Lipsia, penso che sia a 800 chilometri dalla frontiera italiana, siamo andati fino a Odessa. Di qui il libro di Primo Levi “La tregua”. Ad un certo momento ci hanno fatti tornare indietro, la trafila era naturalmente Ucraina, Ungheria, Austria, Italia.

D: Dall’Italia sei rientrato da dove? Dal Tarvisio o da Bolzano?

R: Da Bolzano. Perché ci siamo fermati ad Innsbruck, ci hanno disinfettato, come ha spiegato Gianni.

D: Anche voi?

R: Sì, disinfettato tutto, il DDT. Ci hanno riempito di DDT. Poi siamo arrivati a Bolzano, c’era la Croce Rossea, come ha spiegato. Ma io sono arrivato a Milano in treno, lui in camion. Io da Bolzano in treno sono arrivato a Milano. Lui è arrivato in camion, capito?

D: Ascolta, Pierino, in questi cinquantaquattro giorni in treno come hai mangiato? Chi vi dava da mangiare?

R: Diciamo la verità, avremo mangiato forse, hanno dato il pane per quattro o cinque giorni. Altri si fermavano ai paesi, si vendeva una camicia, si dava il pezzo di pane. Tutti così. Però c’era un fatto, che noi su settanta vagoni eravamo quindici deportati politici, non quindici vagoni, quindici persone salvate in quella zona. Dove la gente, quando ci vedeva, ci dava ogni ben di Dio. Noi non abbiamo patito la fame, ma quegli altri sì. Quegli altri erano prigionieri di guerra.

D: Ascolta, gli americani quando ti hanno liberato…

R: Il 13.

D: Il 13?

R: Aprile.

D: Ti hanno rilasciato un certificato, un documento, un qualcosa?

R: No, niente.

D: Neanche quando sei rientrato in Italia a Bolzano ti hanno dato un certificato?

R: Niente, niente.

D: Sempre, scusami, gli americani quando vi hanno liberato hanno preso i vostri nomi?

R: No.

D: Hanno dato comunicazione via radio?

R: No, no. Niente.

D: Neanche a Bolzano?

R: Niente neanche a Bolzano.

D: A Bolzano nessuno ti ha chiesto…?

R: No, no. Niente.

D: Come ti chiami, da dove vieni?

R: No, no, niente.

D: E quando sei arrivato a Milano?

R: A Milano avevo un paio di stivali, un paio di pantaloni e nudo. Sono arrivato a casa così. Sono arrivato lì, allora a Porta Ticinese c’era il tram. Lì mi hanno riconosciuto.

D: E anche lì a Milano non è che hanno preso le tue generalità?

R: No, ti dirò di più. Io vado a scuola e ci vogliono i documenti per passare di ruolo. Allora vado al distretto, a botte mi hanno buttato fuori perché sulla scheda io ero fascista. Quelle carte che ho firmato precedentemente sono rimaste là. Io ero un militare della Repubblica di Salò. A pedate eh. Ma cosa ho fatto io? Poi ho cominciato a racimolare documenti comprovanti. Quando hanno scoperto che io veramente non ero così sono rimasti male.

D: Sono rimasti solo male?

R: Hanno chiamato i capitani, i graduati del distretto. Hanno voluto sapere, sempre la solita storia. Come ti sei salvato? Tutto lì è stato. Dopo hanno cominciato a trattarmi molto bene, avevo i documenti di cui avevo bisogno. Infatti quando abbiamo fatto la domanda per la pensione se non c’erano quei documenti…

D: Una domanda così, Pierino. Campo di Bolzano, cioè Lager di Bolzano, Lager di Dachau, Lager di Bad Gandershein, che è un nome difficilissimo per me da pronunciare, marcia della morte, come ti sei salvato? A cosa pensi?

R : Una fortuna sfacciata. Ti dirò di più, io sono stato odiato dai parenti dei miei amici perché mi sono salvato. Che cosa ha fatto quello lì per salvarsi? Io ancora adesso non ho mai avuto autostima in me stesso, un umile proprio. Cosa si poteva diventare nei campi di concentramento? La firma per andare dalle SS non si poteva, fare il Kapò erano i delinquenti comuni, triangolo verde chi faceva il Kapò e picchiavano. Adesso sono compreso, hanno capito che io non ero… Se ero così intraprendente nella vita avrei fatto… Invece sono stato…

D: Dopo che sei tornato e dopo la brutta esperienza, per esempio quando sei andato a chiedere i documenti e risultava che tu eri uno della RSI e non che venivi dai campi di concentramento, hai iniziato a raccontare la tua storia?

R: Un po’ all’ITIS.

D: In che anni?

R: Io ho fatto dal ’63 fino all’87. In principio sì, ma c’erano i fascistelli. Io non avevo niente da nascondere, la realtà era così.

D: Quindi hai raccontato un po’ ai ragazzi così?

R: Sì.

D: E agli altri a casa, ai tuoi amici?

R: Ho lì delle poesie fatte dai ragazzi che sono toccanti, guardi.

D: Ma raccontare la tua esperienza agli adulti, ai tuoi amici di una volta…

R: Più che raccontare la mia vita, racconto magari qualche episodio, ma non la mia vita. Ho detto che non la sa neanche casa mia la mia vita. Potrei cercare di liberarmi perché io urlo ancora di notte adesso. Basta?

D: No. Un attimo di pausa. Tu sei ritornato però a Dachau?

R: Sì, sono andato. No, a Dachau no.

D: A Buchenwald?

R: A Mauthausen.

D: A Mauthausen? A Buchenwald non sei andato?

R: No, no.

D: A Dachau non sei ritornato?

R: No, mi spiegavano gli amici sapendo che ero stato là, mi raccontavano, ma non sono mai andato. Sono andato a Mauthausen, Linz, quelle zone lì, Salisburgo.

D: Cos’è che ti frena a ritornare a Dachau?

R: I ricordi, non riesco a sopportare. Sono andato due volte poi, è un fattore masochistico andare là a soffrire da matti, piangere disperatamente quando si vedono quei campi lì. Capito?

D: Il contatto con i tuoi ex compagni di deportazione l’hai mantenuto però quando sei tornato?

R: No, ci siamo persi. Il Manzoni Ferruccio di quella zona lì, di Corbetta è morto l’anno scorso. Quando l’ho saputo, che l’ho letto sul giornale, ho telefonato, ma non rispondeva più nessuno, quindi…

D: E prima non vi siete più…?

R: Sì, qualche volta c’erano dei problemi e allora ci sentivamo, qualche volta, uno solo però. L’altro è morto quasi subito però.

D: Volevo chiederti, dicevi delle carceri di Legnano, erano proprio delle carceri o erano edifici…?

R: Carceri, carceri monumentali. Faceva parte sempre di San Vittore, ho qui dei documenti io.

D: Però gestite da italiani?

R: Gestite da italiani, sì. Gestito dai tedeschi è stato San Vittore al secondo raggio, che è un raggio comune. Dopo due giorni ci hanno portati al quinto, sesto raggio, non ricordo. Sezione politici. Poi al secondo raggio eravamo sempre in cella, invece là alle otto fuori dalla cella, tutti in corridoio, quindi è un paradiso il raggio tedesco, ci tenevano buoni.

D: Qui però a Legnano ti hanno interrogato?

R: Sì. Abbiamo cercato di salvare il padrone dell’osteria allora dicendo che le nostre riunioni si facevano a Castelletto. Capito? Invece le riunioni non si facevano. Di fatti l’hanno liberato, meno male. Come si chiamava? Non mi ricordo più adesso.

D: Perché non ci vuoi raccontare un po’ del campo? Di Dachau? O di Bad Gandershein?

R: Ti dirò…

D: Sette mesi in quel campo lì cosa hanno significato per te? Sette mesi sono tanti.

R: Sette mesi… Il calorifero umano, era freddo. Per riscaldarsi ci si sbatteva tutti contro la parete, tutti, una massa di cento persone si dondolava per scaldarsi. Si cambiava, quelli sotto venivano sopra.

D: Facevate la stufa umana?

R: Stufa umana.

D: Eravate tutti politici lì nel campo?

R: Sì. Tutti politici.

D: Di diverse nazionalità?

R: Lì a Dachau sia a Bad Gandershein, tutto una terra… Il linguaggio è universale, quando si parlava una parola tedesca, una polacca, una russa, una greca.

D: Ti ricordi episodi di solidarietà?

R: No. Non ce ne sono. L’unica speranza era sentire gli americani vicino, la solidarietà no. Non c’è. Erano bestie, la lotta per la sopravvivenza è una cosa che rende bestiale la gente. Anche ho notato una cosa in particolare, davanti a certe disgrazie uno invoca Dio? No, uno invoca la mamma, non Dio.

D: Neanche l’ideologia, la fede politica?

R: No, no. Parlare neanche di politica, di speranza… No, si vegetava. Per quello che io nel campo sette mesi là a Bad Gandershein ho un po’ d’oblio, la vita era monotona, stancante. Uno stava morendo. Un episodio, c’era a terra una creta, quando pioveva diventava… Uno cadeva. Io ho provato a stare male, uno stava là tutto il giorno, metà dentro e nessuno che ti aiutava. Sei solo. Sai che cos’era? Avevo vent’anni e allora lo spirito di conservazione prendeva il sopravvento.

D: Cioè tu sei rimasto un giorno con metà…?

R: Metà dentro nella creta e metà fuori, nessuno ti aiuta. Sei solo. Brutto questo.

D: Devi contare solo su te stesso, sulle tue forze.

R: Nel ’44 io avevo 19 anni, 20 anni. Sono stato liberato, li compio in agosto, in aprile del ’45 avevo 20 anni ancora. La voglia di vivere c’è sempre. Guai levarsi i pantaloni, perché se vedevi la magrezza uno andava giù di morale. Allora i pantaloni non li levavo più. L’ho fatta lunga.

D: Quindi se ho ben capito a Bad Gandershein avete costruito più o meno cinque o sei baracche?

R: Sì.

D: Più o meno. Avete costruito anche la baracca del capo campo?

R: No, era una zona legata sempre, però isolata per loro, per il Kapò. Naturalmente l’episodio, quello che colpiva nel campo di concentramento era… Noi eravamo dei luridi, i Kapò erano tutti gay. C’era una margherita in mezzo al nero, quello lì era l’amante del Kapò. Si distingueva, era una cosa addirittura… Colpiva, una persona pulita in mezzo ad una fila di straccioni proprio. Colpiva molto.

D: Durante la tua deportazione a Bad Gandershein ti sei ammalato o non ti sei ammalato?

R: Quella volta che mi sono sentito male… Noi eravamo forgiati di quella che è la miseria anche a casa nostra, quindi eravamo preparati, capito? Casa mia, mio padre più che lavorare non poteva fare, però era una vita di stenti. Allora ho guadagnato, ho avuto il vantaggio di soffrire meno di quelli che stavano bene. Se andasse là uno adesso col tenore di vita che facciamo, là due giorni ed è morto quello là. Capito?

D: Vuoi aggiungere qualcosa? Ti è venuto in mente qualche episodio?

R: Non so. Bisogna spingere un camion, là centinaia addosso al camion, cinquanta che spingono, dietro il tedesco con la frusta. Per aiutare ad aizzare la forza, che la forza non c’era. La fame… Ho provato ad andare a rubare dalla pattumiera della mensa dei tedeschi. Sono episodi che… Preso, botte, fuggito e tutto il resto. Era un problema generale più che particolare. Particolare fa male.

Pinosio Ester

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono nata il 12 Luglio del 1917.

D: E ti chiami?

R: Mi chiamo Pinosio Ester Ines, sono nata nel Comune di Molmacco.

D: Provincia?

R: Provincia di Udine. Sono cresciuta in una famiglia povera ma onesta. Poi a 17 anni ho avuto un figlio e dopo mi sono sposata. Ho sposato un marito che era molto antifascista. Lui dopo l’8 settembre aveva paura ed è andato in montagna come gli altri. Io sono rimasta sola. Tre o quattro giorni dopo mi manda a chiamare, insieme ad altre donne siamo andate in montagna, nei paesi nostri su a Masarolis, da quelle parti là. Abbiamo portato quello che abbiamo potuto. Poi mi ha richiamata un’altra volta. Mi sono fermata tre giorni con lui, poi io non l’ho visto più. Lui al 6 ottobre è caduto tramite un rastrellamento di tedeschi. Per tre mesi non ho saputo niente. Io andavo in cerca di lui, di qua, di là, chiedevo informazioni. “Avete visto questa persona?” Tutti mi dicevano di no fin quando ho trovato una persona, andando a Cividale a fare la spesa e ho chiesto: “E’ venuto tuo cognato?” “Sì”, mi dice. Dopo mi fa: “Tu sola sei stata disgraziata”. “Perché?”, gli ho chiesto. “Ma come, non sai che tuo marito è morto?” Io in quel momento pensavo che il mondo mi crollasse.

Sono venuta a casa, avevo due figli, uno aveva otto anni e l’altro ne aveva sei e ho tirato avanti come ho potuto. Il giorno che ho saputo che lui era morto mi hanno fatto la carità di cento lire. Ho tirato avanti con quelli, poi ho lavorato, ho fatto quello che ho potuto. Non ho fatto male a nessuno, però c’era un fascista in camicia nera che abitava vicino a me.

Io nel mio piccolo ho aiutato un po’ i partigiani a portare qualche cosa, qualche manifesto, insomma quello che si poteva in quei periodi lì. Eravamo sempre sul principio del ’44. Ho tirato avanti fino al mese di luglio del ’44. La sera del 23 è venuta una persona e mi ha detto: “Guarda che arrivo dal comando e ho visto il tuo nome”. Io ho detto: “Io non ho fatto male a nessuno, non credo che gli altri mi facciano del male”. Comunque ha detto: “Se puoi, scappa”. “Non ho niente per scappare, ho due figli, uno di sei e uno di otto, dove vado? Non ho una lira in tasca”. Il 26 ero a casa con mia sorella e una mia amica. Sento un movimento fuori dalla porta. Guardo per una fessura e mi vedo circondata la casa. Io come minimo penso che erano venticinque tedeschi. Bussano alla porta, apro, avevo il cuore in gola, dico la verità. Allora entrano col fucile spianato e lo puntano. “Tira fuori una carta” e mi fa: “Cerchiamo questa persona”. “Chi cerca? Mi dica il nome”. Era una di Bolzano, parlava abbastanza bene l’italiano. Mi dice: “Cerco una Calderini Ines”. Io ero vedova Calderini. In quel momento non sono andata a pensare che potevo dire magari: “Mi chiamo Pinosio”. Ho detto: “Sono io”. “Bene, prenda lo spazzolino, quello che le occorre e venga con me”. Questa mia amica che era vicino che mi faceva compagnia l’hanno presa anche lei, l’hanno portata via anche lei. Si chiama Angeli Lina questa.

Ci hanno prese. Passando davanti alla postazione perché avevamo la postazione a 100 metri di distanza, era questa famosa fascista e dice: “Chi va là?” Coi tedeschi e noi in mezzo. E gli ho risposto: “Tu lo sai chi è”. Ci hanno portati nelle carceri della caserma degli alpini a Cividale che è fuori Cividale. Lì siamo state cinque giorni, poi ci hanno fatto segno nell’orologio che alla una venivano a prenderci. Ci hanno caricate sul camion, ci hanno portate a Udine, ci hanno fatto fare tutto il giro di Udine e poi siamo andati al giardino, al liceo e lì ci hanno fatte entrare, ci guardavano in faccia e buonanotte, ci lasciavano uscire. Poi ci hanno portate direttamente alle carceri in Via Spalato. Lì siamo state quaranta giorni. La mia amica è partita otto giorni prima di me. Ha avuto la fortuna che non è andata in un brutto campo, si è fermata a … lei non sapeva di me, io non sapevo di lei. Otto giorni dopo … posso continuare? Prima abbiamo avuto l’interrogatorio. Io penso che il mio cuore quel giorno non andava a 90, andava a 190, andavo giù e faceva il cuore così. Mi ha interrogata e mi ha detto che io sono una spia dei partigiani e mi ha chiesto perché mi vestivo in nero. Le ho detto: “Mi è morto un bambino”. E lui mi ha detto: “Suo marito dov’è?” Io gli ho detto: “Mio marito era a militare e io non so dov’è. Non è venuto a casa”. “Ma sa, signora, che nel suo paese nessuno le vuol bene?” “Ma questo non ha importanza per me, io non ho fatto male a nessuno”, gli ho detto. “Vedrà signora che la metteremo in un posto dove nessuno le farà male”. Ho pensato: “Mi metteranno a lavorare”. “Faccia portare da casa più roba che è possibile”. Bene, sono andata su col cuore in gola. Non Le posso raccontare tutti i particolari perché non vale la pena, penso che lei abbia idea che cos’è un interrogatorio con un maresciallo della SS. Siamo andati su, dopo un po’ di sere arriva la suora alle nove alla sera. Prima chiama tutti gli altri e poi in ultimo mi fa: “Ester, ci sei anche tu”. Io credevo di morire quella sera, perché nessuno sapeva. Va bene, io avevo dentro amiche che tuttora sono a Roma e abbiamo parlato e pianto tutta la notte. Alla mattina alle sette sono venuti a prenderci, siamo andate alla stazione. Alla stazione, hanno bombardato quel giorno a Udine. Erano le sei che eravamo ancora lì che si aspettava la tradotta che venisse da Trieste

D: Ti ricordi che giorno e che mese erano?

R: Era l’8 settembre del 1944. Mi ricordo anche l’ora. Alle sei alla sera è arrivato il convoglio, tra parentesi veniva da Gorizia e Trieste e noi eravamo con quelle che hanno preso a Udine nelle carceri. Eravamo sette o otto in questa vettura chiuse dentro. Abbiamo fatto cinque notti e quattro giorni.

D: In quanti eravate, più o meno?

R: Più o meno in questa vettura eravamo in sette, tutte friulane.

D: Ma complessivamente quante donne?

R: Io non l’ho visto il treno quant’era lungo, so che dopo quando siamo arrivati erano una infinità di gente.

D: Da Udine eravate in sette.

R: Da Udine siamo partite noi sette in una vettura sola, in un vagone e le altre venivano dietro, ma noi non siamo né scese e né niente.

D: Scusa Ester, era un vagone o un carro bestiame?

R: Un carro bestiame, non mi veniva la parola, era un carro bestiame.

D: In questo carro eravate solamente voi sette?

R: Noi sette, sì.

D: E basta?

R: Sì, e dietro c’era tutto il convoglio pieno che veniva dalle altri parti.

D: Vi hanno chiuse dentro?

R: Altro che. Una volta ci hanno aperto a Klagenfurt, alla mattina dopo, una volta in Cecoslovacchia e basta. Dopo siamo arrivate. Dopo tutto questo famoso viaggio di cinque notti e quattro giorni arriviamo. Però Le voglio dire un’altra cosa. Il tedesco che ci accompagnava, che era sul predellino del treno quando eravamo in Austria, lui è sceso con noi fino ad Auschwitz, è venuto uno con la camicia nera. Sa cosa ci ha detto quando siamo arrivate? “Vi lascio, adesso mangiate la pommarola in coppa, la pastasciutta con la pommarola in coppa”. “Ti pigliasse un accidente”, gli ho detto, “Non potessi tornare a casa più”. Scendiamo da questo treno.

D: Il treno è andato dentro nel campo?

R: É entrato dentro proprio nel campo.

D: Ed era il campo di?

R: Il campo di Auschwitz.

D: Auschwitz …

R: Io adesso non posso dire come mi sono trovata ad essere in quel momento perché scendere da questo carro bestiame, vedere quei morti che camminavano con le coperte, coi vestiti a righe, mi è crollato il mondo addosso. Ho detto: “Ma io non sono io più. Non può essere che una persona che ha vissuto fino adesso nel suo essere con figli, con marito, trovarmi di fronte a queste cose”. Pensavo che in quel momento Dio non esistesse, perché era una cosa più che bestiale vedere queste donne che sono salite, portato via quella borsa, quel poco che si aveva per la strada.

D: Ester, siete arrivate di giorno o di sera?

R: Siamo arrivate alle cinque di sera.

D: Chi c’era con te, te lo ricordi?

R: C’era la Anna, la Elvia Bergamasco, la Danzulk che è morta disgraziata, è morta dopo a casa. Dopo c’era Felicita e Emma, la mamma di Luisa che adesso io non so come si chiamano di nome, non mi ricordo. Poi c’era un’altra di Cividale come me e una donnina della Carnia.

Lì ci hanno incolonnate e ci hanno portato camminando in una stanza. Eravamo in fila una dietro l’atra, con tutti quei tedeschi, le polacche, tutte vestite a righe. Prima ci hanno preso tutto quello avevamo, oro, argento, orecchini, tutto quello. Poi ci hanno spogliate completamente nude come la mamma ci aveva fatto. Poi ci hanno rasate non solo lì e via discorrendo. Dopo ci hanno fatto il numero per ordine che si passava, ci facevano il numero.

D: E il tuo numero qual è?

R: Io ho il numero 88.602.

D: Ti ricordi come facevano a farvi il numero?

R: Mi hanno preso il braccio così. Una che era esperta perché espertissima, tic, tic, tic, in un attimo mi ha fatto il numero.

D: Eravate sedute?

R: No, in piedi e nude. Poi dopo di lì…

D: Quando vi facevano il numero avevano un elenco dei nomi?

R: Io ero sempre su Calderini, ma dopo di lì il mio nome è morto, finito. Io ero un numero, nessuno chiamava Ester, o Ines, no, 88.602, adesso non mi ricordo come si diceva in tedesco. Di lì mi hanno dato un vestito d’estate a fiori, era il mese di settembre in Polonia, era già freddo, un paio di zoccoli di legno, un paio di mutandine e mi pare che avevo anche una sottoveste. Il resto, ci hanno portati in questa stanza immensa, ma eravamo quasi, non dico di preciso il numero, ma eravamo abbastanza.

D: C’erano anche delle ragazzine o delle donne anziane?

R: Erano ragazzine, madri e figlie, sorelle. Mi ricordo che c’era una ragazza che aveva i capelli lunghi e quando l’hanno rasata piangeva, gridava come una disperata. Ma era inutile piangere, non c’era niente da fare.

D: Vi hanno fatto le docce?

R: Adesso arrivo. Quando dopo ci hanno denudate tutte, ci hanno portate in queste docce. Un momento veniva l’acqua bollente e un momento veniva l’acqua fredda. Si era all’oscuro di quello che stava succedendo durante la doccia, comunque a noi non è successo niente. Abbiamo fatto la doccia e dopo siamo andate in questa famosa stanza. Era senza vetri, senza niente, ci siamo sedute per terra e li ho tirato su il vestito e mi sono coperta un po’ le braccia perché avevo freddo. Siamo state tutta la notte lì. Alla mattina alle cinque ci hanno prese, ci hanno portate in un’altra stanza oltre, abbiamo camminato abbastanza. Lì un’altra volta ci hanno spogliate nude e fatte sedere su una scala che veniva giù. Io disgraziatamente sono piccola, mi tocca sempre il primo posto, in basso. Quando era l’appello io ero sempre la prima davanti. Lì siamo state fino alle quattro dopo pranzo, sempre sedute nude su quella scala. Io non posso dire cosa si aveva dentro, cosa ci si sentiva. Io pensavo di essere già morta. Priva di sentimenti, priva di pensieri, priva di tutto ero. Comunque dopo gira, rigira, sono passati due giorni, che si era ancora in giro un po’ nude, un po’ vestite, un po’ così, un po’ colà. Dopo il terzo giorno ci hanno portate nel cortile e ci hanno dato il primo pasto. Mi ricordo che era una scodellaccia così e dentro non so se era avena, orzo, io non so cos’era. So che non ho mangiato, non mi andava. Dopo di lì ci hanno lasciato fino alle quattro, quattro e mezzo, non so l’ora precisa. Alle cinque è venuto il primo appello, cinque per cinque, eravamo lì che si aspettava, ma non avevamo ancora dove andare a dormire, non avevamo ancora il posto. Passa un camion a rimorchio, passa, un’ora dopo ritorna. Era pieno zeppo di cadaveri, non so se Anna le ha detto questo. Al primo momento venivano a tutte giù le lacrime, sembra una cosa indescrivibile con queste pance ritirate, con queste costole. Tutti questi cadaveri che traballavano sui camion a rimorchio, “Mamma mia”, abbiamo detto, “chissà che fine faremo”.

All’indomani sera siamo all’appello un’altra volta; tutto il tiriteri di prima, passa il camion un’altra volta. Ormai eravamo già abituate. Oggi a te, domani a me, ci siamo messe persino a ridere in quel momento a vedere questo. Finalmente siamo andate al blocco che era il numero 22, la baracca numero 22 e lì ci hanno messe a dormire. Io mi ricordo che ci hanno messo a dormire in queste … tre per tre. Il posto non era più largo di questa tavola. Io dormivo con la testa da una parte e le altre avevano i piedi sulla mia testa e io avevo i piedi sulla testa delle altre. Eravamo tre e tre erano dall’altra parte. Eravamo in sei divise, una coperta in tutte e tre. Dopo alla mattina alle quattro sveglia, c’era l’appello nel cortile e lì si stava fino alle nove a secondo che arrivava il comandante. Prima era la polacca o la … tutte quelle cose, poi in ultimo passava il comandante e allora dopo ci faceva andare un’altra volta dentro in blocco. Poi dopo magari un giorno sì e un giorno no veniva lo spidocchimento, dicevano. Allora giù nude un’altra volta in mezzo al cortile con un pennello, giuro che io non dico cretinate, né bugie, né niente, con un pennello con dell’acquaragia, non so cos’era, ci davano una pennellata sempre con quei vestiti,. Siamo state da quando siamo arrivate il 12, fino al mese di novembre.

D: Scusa Ester, torno un attimo indietro. Come siete arrivate? Tu dicevi che vi hanno tolto tutto.

R: Tutto sì.

D: Hanno fatto delle ispezioni corporali a qualcuna che aveva nascosto magari qualcosa da qualche parte?

R: Sì, ma superficialmente però, almeno quello che ho visto. Per dire la verità non è stata una violenza, perché talmente ci disprezzavano che nemmeno ci… no, mi sentivo umiliata io, come tutte perché si era abbastanza giovani, di fronte a tutti questi uomini. Lasciamo passare quelle cose lì. Comunque lì, dopo abbiamo visto diverse cose. Mi ricordo che di fronte alla baracca 22 c’era la baracca dei bambini. Saranno stati, non dico tanti, ma quattrocento bambini dentro in quella baracca, di tutte le età. Una sera li abbiamo visti che giocavano, parecchie sere; una mattina non esisteva più un bambino. Spariti completamente. Però io sono uscita diverse volte di notte perché disgraziatamente mi tocca uscire e ho visto il camino che andava, il camino, le fiamme, quell’odore, ma la prima volta che ho visto ho detto: “Cosa sarà, cosa non sarà?” Ma dopo radio Auschwitz passava la voce e allora è venuto fuori quello del gas che bruciavano e via discorrendo. Così anche i bambini sono spariti, perché se arrivava un convoglio di ebrei oppure di ariani, se erano abbastanza in forza, allora li mettevano da una parte, ma se per esempio erano vecchi o zoppicanti o malati, li mettevano a sinistra, quelli di sinistra andavano e quelli di destra erano buoni per lavorare. Questo ci è toccato a noi, mentre a destra …

D: Ascolta Ester, lì nel tuo Block eravate tutte donne, eravate in tante?

R: Sì, eravamo polacche, russe, francesi, greche, albanesi, zingari, era tutte le qualità di gente.

D: Tutte con il triangolo rosso?

R: No, il triangolo rosso erano le deportate politiche, poi era il giallo, era … ognuno aveva il suo distintivo, adesso non mi ricordo tutti i colori che c’erano, comunque noi l’avevamo giallo, con sopra il numero e scritto: Italia.

D: Voi l’avevate rosso, non giallo.

R: Rosso eravamo ariane, cristiane e tutto.

D: Ascolta Ester, c’erano per caso in baracca delle donne incinte con voi?

R: Io non ne ho viste, con noi, una di San Pietro era incinta, però l’abbiamo saputo dopo, quando siamo state trasportate via. Lei si vede che ha nascosto oppure, con quel mangiare non poteva, comunque quella lì era incinta. Altro io non ho visto di donne incinte.

D: Visto che eravate tutte donne, il problema delle mestruazioni?

R: Scomparso completamente, anzi volevo dirle questo. Quando sono partita dalle carceri io avevo il ciclo, quando eravamo sotto la doccia andava, ma dopo finito completamente. Io in undici mesi non ho visto il ciclo una volta. Quando sono venuta a casa, come ieri, dopo due o tre giorni sono andata da un dottore, tanto per raccontare cos’era il ciclo e mi ha visitata. Mi aveva detto che io non avevo l’utero più alto di così.

Insomma, dopo un giorno una mia amica che è morta anche questa, è morta dopo a casa, mi dice: “Ines, vieni che andiamo, era una domenica, a fare un giro per il campo, vediamo se troviamo qualcosa, una … un radicchio selvatico, quelle cose lì”, ma a Auschwitz non cresceva l’erba. Ho il libro a casa, “Ad Auschwitz non cresceva l’erba”. Abbiamo fatto questa camminata, perché lei era un tipo che non aveva paura e poi aveva anche del fegato e mi dice: “Guarda dentro in quel buco”. Era un capannone grande. Lì c’erano i cadaveri ammucchiati fin sotto il tetto. Era quel camion che andava a caricare la sera i morti, perché li portavano col carretto, li mettevano lì e alla sera li prelevavano. Dopo nessuno sapeva perché dov’è il crematorio? Si sanno sempre dopo queste cose. Era invalicabile perché chi oltrepassava il muro oltre qua e andava di là, non usciva più, perché già vedeva tante cose, perché io ho letto anche il libro del dottore polacco che ha studiato in Germania e ha fatto il diario e il libro spiega tutto, tutto e lì chi entrava non usciva vivo più. Questo è successo ad Auschwitz. Fame non occorre dire, freddo non occorre dire, sonno non occorre dire, che era di tutto.

D: Visto che parli di medici, lì a … dov’eri te, è arrivato anche Mengele?

R: Era lui il capo forno. Era lui che dava gli ordini. Adesso io, leggendo il libro, ho capito quelle cose. Perché la via era tutto silenzio, nessuno sapeva.

D: Ma tu non l’hai mai visto?

R: Per l’amor di Dio. Nessuno l’ha visto quell’uomo perché lui era talmente solo dentro, Lei non so se ha letto il libro di Melange, il dottore di Auschwitz. Sono cose indescrivibili. E gli credo adesso perché sono stata al corrente, ho visto e sentito tante cose. Comunque…

D: Scusa ancora Ester, in questo periodo, voi siete arrivate a settembre e poi l’altro Transport l’hai avuto a novembre, avete lavorato voi nel campo?

R: No, si andava due o tre volte, siamo uscite da questo letto perché si era sempre chiuse dentro che era la quarantena. Ci hanno portato per il campo magari a portare sassi di qua, a portare di là, portarli via. Comunque fino a lì era grande fame, grande paura, grande disagio e non stiamo a parlare di altro perché, per l’amor di Dio. Finalmente un giorno arriva la capa, era una polacca.

D: Voi friulane eravate tute assieme nel blocco?

R: Io ero con Elvia, Anna dopo, io ero qua e loro erano in un’altra … di là. Io ero con queste di Udine, queste due signore che dopo è morta di là, l’altra … dopo ci siamo perse perché io ho avuto la fortuna di essere trasportata perché è venuto il mercante di schiave, perché avevano bisogno di manodopera nelle fabbriche. E allora abbiamo avuto la fortuna io, Anna Appia e la Bergamasco Elvia e tutte le altre che erano arrivate con quel convoglio. Però sempre radio Auschwitz ha detto che era abbastanza un buon trasporto. Allora qua era un mucchio di vestiti, là era un mucchio di scarpe e via discorrendo. “Schnell, schnell”, prendo un vestito che era lungo fino ai piedi, prendo una scarpa rossa e una scarpa nera. Ho fatto tutto il tempo con queste due scarpe, una rossa e una nera, non ha importanza. Dopo alla sera ci hanno preparato, ci hanno dato una pagnotta di pane così e un pezzo di margarina. Ci hanno chiuse dentro, come ha detto Lei che si chiama il carro bestiame. Nel carro bestiame eravamo in ottanta dentro dopo. Non c’era posto né di sedersi, né di stare in piedi, in ottanta lì quando quaranta persone era sufficiente. Anche lì abbiamo viaggiato abbastanza, quattro o cinque giorni, sempre, sempre. Non sto a spiegare tutto quello. Finalmente siamo arrivate a … era una grande città. Ci hanno portato nel Block, perché loro dicevano Block. Era il quarto o quinto piano e sotto erano tutte fabbriche. Siamo rimaste lì un giorno e una notte. Poi all’indomani ci hanno fatto sedere tutte nei tavoli e ci hanno fatto come un esame. Chi era capace di lavorare in una maniera, chi un’altra, chi faceva questo, chi faceva l’altro perché si doveva andare a lavorare. Erano due fabbriche lì e una era fuori; io, Anna, Appia e Elvia siamo andate fuori. Si partiva alla mattina, ci si alzava alle quattro, c’era l’appello da fare poi andare a prendere quel poco di tè che dicevano loro, che non era altro che girasole, non so cosa c’era dentro, acqua nera e poi alle sei si doveva già essere in fabbrica, con due tedeschi, uno avanti e uno indietro con un cane ciascuno, due tedesche e poi c’era un’infermiera polacca con noi. E lì si partiva, si arrivava giusto a dire un rosario che si arrivava sul lavoro. Era d’aver paura, si pregava volentieri quella volta. Si arrivava sul lavoro, si dava il cambio a quelle che avevano fatto la notte, sempre con un po’ di quella brodaglia nera. A mezzogiorno ci davano una scodella di rape, un po’ di carote dentro e acqua. Alle 12,30 si riprendeva il lavoro fino alle sei la sera. Alle sei si rientrava in blocco, sempre accompagnate con cani, militari e via discorrendo e lì ci aspettavano sulla porta, ci contavano e poi ci davano una volta erano tre patatine, un’altra volta ci davano un pane per cinque. Noi avevamo fatto una misura che si prendeva una misura, guai un grammo di più o un grammo di meno, e si tagliava e si mangiava quel pane con un pezzettino di margarina così e basta. All’indomani o alla sera replica. Lì abbiamo fatto sei mesi, quello era il lavoro, perché si facevano armi in quella fabbrica, c’erano solo armi. Era un lavoro a catena. Partiva e arrivava. Lì abbiamo fatto sei mesi.

D: Che tipo di armi facevate?

R: Io penso che erano interruttori per mitraglie. Perché era un affare lungo così. Era una catena di montaggio, ecco cos’era. Si partiva da un ferro e si arrivava al punto giusto che era già in casetta.

D: Ti ricordi se questa fabbrica aveva un nome?

R: Mi pare che stata … come si chiamava quel grande industriale, come si chiama?

D: Krupp.

R: Ecco era di lui la fabbrica. E lì, specialmente di notte io non potevo mai dormire di giorno perché sono un tipo nervoso, pare di no, ma dentro mi rosica. Quando si doveva andare in bagno, si doveva dire: “Signora padrona, mi lascia andare in bagno, per cortesia?” Mi accompagnava fino alla porta e mi aspettava fuori. Non solo a me, a tutte.

D: C’erano anche dei civili in fabbrica?

R: Sì erano due vecchi. Uno era una bestia di uomo, cattivo proprio, SS quello era. Invece l’altro era abbastanza.., perché si poteva anche… magari era rotta la macchina, si andava a chiamarlo, si diceva la “Machine Kaput”, allora veniva vicino, cambiava il pezzo. Non diceva niente, ma l’altro guardava come fossimo bestie. Lì siamo state fino a che abbiamo cominciato a sentire i cannoni dalla parte russa. O bene o male l’abbiamo passata fino alla metà di aprile, no, ai primi di aprile mi pare che eravamo. Ci hanno trasportate. Prima è venuto un grande bombardamento, mi dimenticavo questa cosa. A mezzogiorno è venuto un grande bombardamento, ha rotto la corrente elettrica, l’acqua, tutto. Le fabbriche erano demolite. Alla sera sono tornati, hanno fatto così, così e così. Hanno distrutto tutta la città, fabbriche, case, tutto. Allora ci hanno mandate a portare via le macerie. Però si andava sulle scale, ma noi quando avevamo due minuti di riposo, si cantava: “Bandiera rossa la trionferà”. Ci davamo coraggio. Poi c’era una tedesca con noi, che quando aveva due minuti di riposo, ci diceva in tedesco: “Io non ho mai arrivato a capire. Mi cantate la canzone Mamma?” Intanto si riposava dieci minuti e noi le cantavamo la canzone Mamma e dopo si metteva un’altra volta a portare questo. Finalmente dopo è venuto il trasporto un’altra volta.

Siamo andati un pezzo in treno, poi abbiamo camminato tutta la giornata. Siamo arrivati in Cecoslovacchia, prima siamo andati a …, era un sottocampo, sempre in compagnia di quelle due là. Dopo di lì avanzava ancora il fronte da una parte e dall’altra. Siamo andati a … lì era una polveriera, era ancora in azione che lavoravano. Un po’ sono andate a lavorare, parlo di cinquecento donne perché il trasporto è stato immenso quella volta, quando siamo andati a… il trasporto era di tutte le razze. A… c’era questa polveriera. Anna e Elvia sono andate in polveriera, io ho avuto la fortuna che sono andata in ferrovia a lavorare. Allora si scaricava e si caricavano bombe. Si metteva da una vettura all’altra, all’altra lì, si faceva questo lavoro, non c’era altro da fare. Un giorno, penso che sia stato un capitano dell’esercito non della SS, è venuto vicino e mi ha chiesto di dove eravamp. Gli abbiamo detto che eravamo italiane. Allora lui ha detto: “In Italia la guerra finita. Mussolini …” ha fatto. Ci siamo date coraggio, abbiamo finito di lavorare, all’indomani un’altra volta e sempre l’appello alla mattina presto. Io che ero piccola, sempre davanti. Alla mattina, l’8 maggio l’ultimo giorno di guerra, l’8 maggio sono le sette, niente sveglia. Sette e mezza, niente sveglia, perché aprivano la porta … la prima cosa. Niente, urca boia vedrai che sarà qualche.. oggi. Andiamo fuori, neanche un tedesco. Almeno avessimo trovato uno per dargli in carico di botte, niente. Spariti come la neve al sole. Neanche uno.

Dico a Anna e a Elvia, poi eravamo cinque o sei o forse più italiane: “Cosa facciamo? Andiamo a casa, è finita, non c’è nessuno. Dove andiamo? Andiamo a casa. Usciamo da questo cortile, da questo sottocampo”, perché era un sottocampo. “Dove andiamo adesso? Andiamo di qua o andiamo di là?” Eravamo in Cecoslovacchia. “Andiamo da quella parte, forse di là sarà l’Italia, di qua no perché penso che sia un’altra direzione”. Ci siamo incamminate, io sempre con quelle scarpe una per sorta, solo quella … che ci avevano dato, piene di fame che non occorre parlare. Abbiamo camminato tutta la giornata sotto le bombe, sotto le mitraglie, gli apparecchi che bombardavano. Scappa in un fosso, i tedeschi che scappavano, gli inglesi che gli correvano dietro, i russi dall’altra parte. Mamma mia. Allora quel giorno abbiamo fatto un voto, io, Anna e Elvia, abbiamo detto: “Se Cristo ci dà la…”. Eravamo venute sul serio molto credenti quella volta. Io non sono mai stata credente, sono cattolica, sono cristiana, vado a messa quando posso, ma non bigotta. Abbiamo fatto questa promessa che se Dio ci dà la grazia di andare a vedere i miei figli, io volevo andare a vedere i miei figli e mia mamma, il marito sapevo che era morto, andiamo a Castel Monte, andiamo a piedi perché abbiamo la Madonna di Castel Monte, non so se avete sentito. … Abbiamo fatto questa promessa con la Madonna di Castel Monte. Grazie a Dio quando erano le sette alla sera sentiamo: bum, bum, bum. Mamma mia, un’altra volta gli apparecchi. Mi giro e vedo un carro armato con una stella rossa così. Mamma mia, adesso è finita proprio. Cosa faccio? Mi butto in un fosso. C’erano gli alberi di qua e di là, sempre in Cecoslovacchia. Mi butto in fosso, Elvia, Anna, quelle lì non so dov’erano. Passa il primo carro armato e ci dice: “Andate in parte”. Passa il secondo, comincia a buttare pane, burro, liquori, sigarette. Io mi prendo una pagnotta così e un pezzettino di burro, mi sono seduta in questo fosso e ho mangiato tutta la pagnotta. Sono stata bene tutta la sera. Dopo era il problema, c’erano le truppe che venivano di qua. Di qua erano i tedeschi che scappavano, noi che si passava per la strada a piedi, disgraziate come pecore che non si sapeva dove andare. É venuta notte, siamo entrate in un casolare, abbiamo visto questo casolare dove mettono il fieno, la paglia. Andiamo a nasconderci là, perché trovarsi di fronte ad una disfatta del genere, non saper parlare, non sapere la lingua, essere pieni di paura e pieni di fame, non si sapeva cosa fare. Andiamo a nasconderci lì. Quando era verso le 11 sentiamo entrare, sono entrati i cosacchi, i russi, tutta quella gentaglia. Io avevo i pantaloni perché ci avevano dato i pantaloni quando eravamo a … per lavorare. Erano come bestie. Chi è arrivato a scappare è scappato, si è nascosto e chi non è arrivato è stato anche violentato. Lo dico sinceramente, mi deve credere. Io mi sono salvata solamente perché avevo i pantaloni.

E dopo, piano, piano all’indomani abbiamo detto: qui è inutile stare, siamo peggio che nel fuoco, peggio che a Auschwitz perché lì almeno hai il nemico di fronte. Abbiamo proseguito per la strada e siamo arrivati in un paese. In un paese troviamo come una villetta ma in mezzo al paese, una villetta abbandonata, aperta. Andiamo a dormire lì stasera. Eravamo sempre noi e poi c’era Gabriella, una slovena che parlava abbastanza bene. Siamo andate, abbiamo trovato questo bel letto, tutto bene lì, ma niente da mangiare. Non importa ormai avevo mangiato quella pagnotta, io non avevo più fame. Verso mezzanotte, l’una durante la notte avevo sentito bum, bum. Ah mamma mia, qua … un’altra volta. Invece le ha chiesto “Chi è?”. Lei ha risposto. Lui dice: “Sono un ufficiale russo”. Lei ci ha tradotto. Allora noi abbiamo detto: “Siamo cinque ragazze prigioniere, siamo scappate, siamo arrivate fino a qua, abbiamo paura”. Lui ha detto: “Di me non abbiate paura, non dovete aver paura, io sono una persona onesta”. Difatti è entrato, gli abbiamo aperto la porta, è andato nell’altra stanza, ha dormito lì. Dico la verità, perché non mi piace raccontare né più e né meno. Piuttosto meno che non più. E lì alla mattina si è alzato, si è fatto la barba, ci ha salutato ed è andato. Usciamo da questa villetta, da questa camera e sentiamo parlare l’italiano. Oh mamma mia, troviamo gli ex militari italiani liberati anche loro. Allora siamo andate vicino. Li abbiamo abbracciati, ci siamo messe a piangere e loro ci hanno detto: “Con chi siete?” “Siamo povere disgraziate sole, due, tre, quattro, cinque”, non so quante eravamo, perché ognuno andava per la sua strada, chi con francesi, con chi trovava insomma. Ci siamo aggregate a loro e con loro abbiamo fatto quasi tutta la Cecoslovacchia a piedi. Si camminava di giorno e di notte si andava nei campi o dove si vedeva che era un po’ nascosto perché si aveva molta paura.

Elvia, il secondo giorno dopo che sono arrivati i russi, ha mangiato la carne cruda. Elvia aveva diciassette anni, credo che abbia avuto più fame di me. Con quella si è ammalata. Siamo arrivati a Praga noi, piano, piano, col carro, coi cavalli. Io avevo fatto due o tre valigie di roba perché era pieno di roba per la strada, carri abbandonati, biancheria, ho sempre quelle mutande, almeno mi cambierò. Ho fatto le valigie, pesavano, butta via oggi, butta via domani, sono rimasta con quello che avevo addosso. Avevo sempre quei pantaloni e quella giacca. Siamo arrivati a Praga, siamo andate a dormire nella casa del consolato italiano. Era una stanza che era qualche cosa. Elvia aveva quarantadue di febbre. Domenico si chiamava, un meridionale, un militare, ha detto: “Non si può lasciare questa ragazza in queste condizioni”. Ha tanto fatto, tanto girato con questo carro e con lei sopra, l’ha portata all’ospedale. Giuro davanti a Dio che non vi dico una parola di più. L’abbiamo lasciata lì, io e Anna abbiamo continuato con loro fino sul confine che divideva dai russi o dagli inglesi o gli americani, quali erano e lì ci hanno aspettate gli americani, ci hanno portato col camion fino a Linz che sarebbe in Austria.

A Linz siamo rimaste quaranta giorni. Però avevamo cavalli che abbiamo ammazzato cavalli, si andava in cerca … hanno ammazzato gli italiani, quelli che facevano gli aguzzini. Hanno trovato un aguzzino mischiato con noi prigionieri, lo hanno messo sulla sedia, lo hanno legato e gli hanno fatto quello che lui ha fatto agli altri. Non l’hanno ammazzato, però i soldati nostri, dopo siamo andati a vedere, hanno ammazzato un ufficiale tedesco. Lo hanno appeso all’albero e gli hanno fatto la festa, ben fatta. Io ero priva di notizie, non avevo nessuno, non sapevo niente perché era impossibile. Finalmente arriva il giorno che ci hanno detto: “Domani viene la Croce Rossa, l’Opera Pontificia, trovatevi presto che vi vengono a prendere”. Ma da Linz fino a Bolzano siamo andate in treno perché era il 24 di giugno, come ieri l’altro, due giorni indietro. Siamo partite e finalmente arrivo a Udine, dopo molte peripezie per la strada.

D: A Bolzano dov’è che siete state… vi hanno trattenuto a Bolzano?

R: A Bolzano siamo state una notte.

D: Dove?

R: Adesso non mi ricordo. Non ricordo il posto perché io penso che ero euforica un poco. Io a pensare che ero viva, che io andavo a vedere i miei figli e mia mamma, perché avevo mia mamma viva, io ero non voltata di testa, ma ero talmente dentro di me che mi pareva di volare. Sono andata alla stazione a Udine, ho preso la littorina che va a Cividale. E quando sono tra Cividale e Udine, qui c’era Monzacco nel mezzo, il treno si ferma. E vedo uno che sale sul treno. Ho visto solo la gamba di dietro. Ho detto a quello che era con me che era uno di Cividale, un ex militare: “Quello là è mio fratello”. “Come fai a dirlo?” Io l’ho conosciuto dalla gamba, gli ho detto che è mio fratello. Parto, attraverso tutte le vetture, quelle che erano, arrivo e guardo dentro, dietro proprio alla porta che si apre era seduto mio fratello con un suo compagno. Io non ho detto niente, mi sono presa e mi sono seduta vicino a lui. Lui mi guarda, ha fatto così. Ci siamo messi a piangere tutti e due, ma dopo il momento più bello della mia vita, più emozionante, non so spiegare come, quando ho trovato i miei figli, mi è venuto vicino quello più vecchio che mi è morto, che sono cinque anni, avevo sessant’anni, mi è morto. Lui mi ha preso così: “Mamota”, capisce il friulano qualcuno? “Mamota sete tornada”. Non mi ha detto altro, poi è venuta mia mamma, ho visto mia mamma da lontano, le ho fatto così. “Ma quela è la Ines”, ha detto. Il giorno più bello della mia vita è stato quello lì. Dopo ho avuto un mucchio di gente, mie sorelle, mio fratello, tutti insomma, ho avuto persino l’arciprete che è venuto a salutarmi. Sì perché sono l’unica a Cividale che è stata presa, perché sono stata denunciata proprio, perché a Udine era la denuncia, dopo hanno preso anche mio fratello. E sulla carta di denuncia c’era scritto in tedesco ha detto perché mia mamma capiva un po’ il tedesco: digli a quello là se devo arrestare Tullio o se devo arrestare Bassetti che era quello della camicia nera che mi aveva denunciato anche a me. Allora vedi che noi avevamo già le prove e dopo in carcere a Udine, è stata la mamma della mia amica, era scritto il nome di Bassetti con la denuncia. Noi abbiamo avuto le prove schiaccianti, sicure. E si abitava vicino così.

D: Ester, durante il tuo periodo di deportazione ti sei mai ammalata?

R: No, ho avuto una volta trentanove di febbre, ma quando si era a … che si andava a lavorare nella fabbrica, il lavoro coatto che adesso dicono del lavoro coatto. Avevo mal di gola. Mi hanno lasciata un giorno e dopo all’indomani avevo trentotto, sono andata a lavorare lo stesso. Ecco questa è la mia storia. Una parola più, una parola meno.

Scuratti Mario

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni. 

Mario Scuratti, nato il 9 febbraio 1926 a Muggiò, ora residente a Monza in Via Guerrazzi 55/B. Inizio il mio racconto.

La mia cattura è avvenuta, non so se è stato su delazione perché noi come gruppo, la 104 brigata Garibaldi collegata con quella di Cinisello, verso la Taccona c’era una cascinotto dove c’erano dentro delle armi e qualcuno ha parlato e sono intervenuti i fascisti e han bruciato tutto.

Forse han trovato i documenti come lì dicevano, invece, non so come è stato. Ci han preso, almeno il sottoscritto quando l’han preso l’han portato il Via Tommaso Grossi a Monza dove c’era il comando delle SS.

Lì così, l’interrogatorio, hanno messo là un centinaio di fotografie; conosci questo, conosci quell’altro. Sì, io conoscevo quelli di San Fruttuoso, come i fratelli Carpani che dopo son fuggiti con Moscatelli. Di lì, ci han portato, dopo l’interrogatorio, dopo un po’ di tirate d’orecchie, qualche sberla, finito l’interrogatorio, ci han portati, mi han portato al carcere di Monza, lì così.

D: Ecco, scusa Mario, quando ti hanno arrestato?

R: Ecco, lì ho le date, dev’essere stato il 14 gennaio o il 23 del ’45

D: Ecco, scusami sempre, tu quanti anni avevi allora?

R: Avevo 18, quasi 19 anni

D: E lavoravi dove?

R: Io, no, lavoravo alla Pirelli però in quel periodo lì, diciamo così, il primo quadrimestre del ’26, allora, ero stato chiamato alle armi e io non mi son presentato e siam andati lì a lavorare un po’ nei campi degli agricoltori in quella zona lì.

D: Ecco ma tu abitavi lì, dov’è che abitavi allora?

R: Io abitavo, sempre a Monza, in Viale Lombardia 228, la nuova Valassina è lì.

D: E ti hanno preso a Cinisello?

R: No, mi han preso lì proprio a casa perché noi si dormiva sotto i magazzini, noi li chiamavamo i ripostigli e allora si era fatto come un rifugio, lì qualcuno ha parlato e son venuti a prenderci e dopo mi hanno portato …

D: In Via Tommaso Grossi

R: In Via Tommaso Grossi

D: Ma son venuti gli italiani o i germanici a prenderti?

R: No, erano italiani perché erano qui alla scuola di San Fruttuoso, c’erano dentro un po’ di tutti, alpini, bersaglieri, era un gruppo misto delle telecomunicazioni, praticamente era un centro, e ci han portati lì alle scuole di San Fruttuoso; di lì dopo mi han portato a Monza, in Via Tommaso Grossi, di lì, in una casa.

D: Ecco, ma lì in via Tommaso Grossi chi ti faceva gli interrogatori, erano italiani o germanici?

R: Ma, erano italiani, ma lì era la sede dove, io sono venuto a sapere, c’era il comando tedesco perché dopo, dato dei documenti, io praticamente ero in mano ai tedeschi, ci han portato in mano ai tedeschi, tant’è vero che dopo li avevano trovati a San Vittore, quella gente lì che ci aveva portato a Bolzano.

D: Quindi, scusa, via Tommaso Grossi, carcere di Monza.

R: Carcere di Monza, lì siam stati tre giorni. Dopo al mattino presto ci hanno caricato su un camion e lì è stato che, abbiam scoperto che eravamo lì in cinque di San Fruttuoso, tutti e cinque, allora c’era Bianchi Osvaldo, c’era Pessina, mi scappa il nome, c’era Fossati Franco e c’era Serrughetti, perché quello lì mi sembra che era stato già nell’esercito repubblichino, era scappato e dopo l’han preso, non so.

Si sospettava che fosse stato lui a parlare, perché, tutto lì, o che ci hanno ingannato e lì con i pullman, partendo di sera, ci han portato a Bolzano.

D: Scusami, a San Vittore, ti ricordi se ti hanno immatricolato a San Vittore?

R: San Vittore, tant’è vero che ho lì i documenti. A San Vittore avevo il milletrecento e qualche cosa, poi dopo i documenti, cella 17, ho lì un foglietto ancora, fatto da loro, fogliettino fatto da loro con su la cella del sesto raggio, quello dei deportati.

D: Che piano?

R: Piano, era forse l’ultimo, credo, perché era un casermone; eravamo là tutti e cinque, ci han dato una coperta a testa, due le abbiam messe di sotto e tre di sopra per coprirci tutti assieme, tutto lì.

D: E lì quanti giorni sei rimasto a San Vittore?

R: Lì siam stati un mese quasi, adesso io, praticamente le date della partenza e dell’arrivo corrispondono a quello che era il libretto di Bolzano, della Città di Bolzano.

D: E quindi da San Vittore poi vi hanno portati a Bolzano?

R: Bolzano

D: Ma come ti hanno portato a Bolzano?

R: Coi pullman, con dei pullman, lì alla sera, tant’è vero che c’erano delle strade sconnesse per i bombardamenti e siamo arrivati al mattino là.

I diciannove anni, tu mi hai chiesto quanti anni avevo, li ho compiuti a San Vittore, perché lì siam arrivati al 14, dev’essere stato il 20 di gennaio al carcere di Monza,il 23 a San Vittore, il 14 o 15 ci han portato a Bolzano e lì siam stati una settimana circa a Bolzano perché eravamo circa ottocento perché arrivavano da Torino, un po’ dappertutto. Siam stati lì circa una settimana, poi ci han messo sui vagoni, siam stati messi sui vagoni, siam stati lì circa 3 giorni in stazione, poi han incominciato i bombardamenti sul Brennero allora ci han tirati giù

D: Ecco, scusami, il viaggio da Milano, da San Vittore a Bolzano, lo avete fatto in pullman; con te c’erano gli altri tuoi quattro amici, quelli di San Fruttuoso?

R: Sì

D: Ecco, chi faceva la guardia sul pullman, chi erano?

R: Tedeschi, tutti tedeschi

D: Come ti ricordi l’arrivo nel campo a Bolzano?

R: L ‘ arrivo nel campo a Bolzano, noi quando siamo arrivati ci han portati al lavaggio, pelati tutti, teste e così via e ci han dato la tuta che era bianca come quella della marina, telone grosso e ci han dato i numeri, uno qui e uno da mettere sulla gamba

D: E il tuo numero?

R: Il mio numero era 9643.

D: E assieme al numero ti han dato un’altra cosa da mettere su, ti han dato un triangolo assieme al numero?

R: È quello, triangolo rosso e il numero era quello. Eravamo lì oltre a essere in campo, eravamo ancora cintati perché noi eravamo i pericolosi perché avevamo anche la “x” sulla schiena e confinavamo con le donne, era l’H, perché erano due cosi vicini, mi sembra che era E o H, tant’è vero che sul libro lì, ho segnato in rosso tutto quello che è.

D: Ecco, lì a Bolzano, cosa vi facevano fare, nel campo di Bolzano?

R: Nel campo di Bolzano, la mattina la sveglia, lavati e così via, poi la chiamata, inquadrati, cappelli su, cappelli giù, cappelli su, cappelli giù finché erano stanchi, poi quando uccidevano qualcuno ce lo presentavano là nel campo, se uno tenta di fuggire, questa è la fine, se uno non esegue quello che è, fa questa fine, sempre così, tutti i giorni la chiamata poi si ritornava dentro, si stava là a far niente, a fare, noi lo chiamavamo il rastrellamento, perché, a uccidere i pidocchi; croce rossa, croce nera erano i vari tipi e si faceva quel lavoro lì, ecco.

D: Ascolta, ti ricordi chi faceva le guardie, se erano italiani, se erano germanici?

R: No, no, tedeschi, tedeschi, poi era famoso quello che è scappato in Canada, e poi il comandante era quello che arrivava da Fossoli, il comandante.

D: E lì sei rimasto lì a Bolzano quanto tempo, nel Lager?

R: Nel Lager son stato lì una decina di giorni, perché dopo ci hanno spostato.

D: Dopo vi hanno portato sul treno per la partenza?

R: Per la partenza.

D: Come è avvenuto quel discorso lì della partenza, vi hanno chiamati all’appello?

R: Sì, sì chiamati uno a uno ci han portato con i camion in stazione, su, piombati, io praticamente mi son dissetato un po’ perché, non solo io, avevo un dentifricio alla menta, allora lo facevo passare un po’ a tutti per dissetarsi perché avevo un po’ di sete ma non si poteva neanche sedersi né niente.

D: E questo alla stazione di Bolzano o …?

R: No, no stazione di Bolzano.

D: Proprio alla stazione, e vi han fatto entrare in stazione e vi han caricato?

R: Tre vagoni là.

D: Sul carro bestiame?

R: Perché ci han portato dove c’erano i vagoni e ci han caricati, forse anche su un binario morto, non lo so.

D: E però il treno non è mai partito?

R: Mai partito perché dopo si sentiva un traffico di aerei, bombardamenti e si veniva a sapere un po’ così che bombardavano il Brennero perché quando si andava fuori in quella villa lì dove c’erano i famosi tedeschi, austriaci, quelli della…quelli anziani che si mettevano a controllarci perché non c’erano più giovani. E allora eravamo lì, primo lavoro che ho fatto è in questa villa che era su, in alto Bolzano, adesso non mi ricordo e là a fare l’imbianchino, era più l’imbiancatura che finiva su noi che quella che si dava ai muri.

D: Solo te o anche gli altri tuoi amici?

R: No, io e il Serughetti, in due, che poi lui ha tentato di fuggire, era fuggito, e io dopo l’ho chiamato perché stavano già sparandogli; “Peppino ritorna indietro, Peppino ritorna indietro” e allora è ritornato indietro ma in quel periodo lì eravamo già spostati giù in Val Sarentino e cosa han fatto? Quando è rientrato al campo, l’hanno messo al palo, tutta notte, senza mangiare e io penso adesso al rischio che ho corso, gli ho portato da mangiare, fuori alla sera, andar là a dargli qualche cosa da mangiare.

D: Questo in Val Sarentino?

R: Val Sarentino

D: Ecco, ma allora, andiamo un attimo; sei sul vagone per andare oltralpe, il treno non parte; eravate in tanti lì sul vagone?

R: Tre vagoni erano.

D: Tre vagoni?

R: Adesso il numero…

D: Solamente uomini o anche donne?

R: No, uomini soltanto, a me risulta, il mio vagone erano soltanto uomini.

D: E ti ricordi se c’era con voi qualche sacerdote?

R: C’era un sacerdote giovane, non mi ricordo il nome, mi ricordo il nome dentro il mio blocco, che era professor Poggi di Genova, c’era un tenore, però questo era tra gli ebrei, tenore Asco Campagnano che gli facevano sempre cantare “Il nemico della patria” dell’Andrea S… poi c’era un certo avvocato Ulisse, non so se era un nome di battaglia o che, c’erano proprio nel mio … diversi intellettuali che erano una ventina, non li abbiamo più visti.

Però sono venuto a sapere che dopo il professor Poggi, a Genova, c’era ancora, perché leggendo i giornali, non so se dopo, forse perché erano gli ultimi periodi, si son salvati.

D: E poi c’era questo sacerdote giovane che dicevi.

R: Non mi ricordo più il nome.

D: E anche nel campo, ti ricordi se c’erano dei sacerdoti?

R: E sì, se c’era quello lì, c’era senz’altro qualcun altro.

D: E di donne ti ricordi qualcuna?

R: La moglie di Pesce, la Nori, la Nori, Pesce, me l’ha detto dopo quando ero là anch’io a Bolzano e lì dopo, in Val Sarentino eravamo lì a spaccare i sassi, lì praticamente nel torrente che vien giù dovevano fare un depuratore perché tutta la Val Sarentino è una galleria sola e da una parte avevano messo dei macchinari per fare proiettili, macchinari e noi eravamo giù, dentro ‘sto torrente, eravamo una cinquantina a spaccare ‘sti blocchi di sassi perché dovevano fare degli strati grossi, poi più leggeri, più fini; depurare l’acqua per alimentare tutte quelle gallerie

D: Ecco, com’è che vi hanno scelti per mandarvi in Val Sarentino?

R: Han preso tutti quelli lì; li han suddivisi, fatti scendere dal treno e li han divisi perché Pessina, Fossati e un altro, Bianchi li avevano mandati su a Vipiteno e dopo ho saputo; cosa eravate lì a fare? Si interveniva quando c’erano i bombardamenti a sostituire i binari che erano rotti; invece noi eravamo lì a far quel lavoro lì.

D: E invece voi vi hanno mandato in Val Sarentino?

R: Val Sarentino.

D: Solo uomini eravate?

R: Solo uomini, sì.

D: Ti ricordi com’è che avete fatto il viaggio per andar su da Bolzano, qui, a Val Sarentino?

R: Con i camion tedeschi, perché dopo lì c’erano delle baracche, lì proprio in Val Sarentino, perché facevano anche i lavori; c’erano delle baracche e noi rimanevamo lì in Val Sarentino, si usciva al mattino. C’erano i tedeschi a controllarci però c’erano anche i tecnici della, quelli che controllavano i lavori, come si chiamano quelli lì, la Todt.

D: La Todt.

R: La Todt, c’erano quelli lì che controllavano i lavori, però c’erano gli armati tedeschi a controllare.

D: Ecco Mario scusa, lì in Val Sarentino ti ricordi dov’era più o meno il campo, in che zona era il campo, vicino a delle case?

R: No.

D: C’era un castello, ti ricordi un particolare?

R: Mi ricordo dei particolari; quando si veniva giù e così via, c’erano quei famosi tedeschi, quella della zona dell’Alto Tirolo, con ‘sto grembiule azzurro oppure vestito, che ci sputavano addosso, ci davano qualche calcio.

D: Ma era vicino a qualche paese?

R: Paesi non ne ho visti però era una zona dove forse c’erano i famosi, le famose case, come si chiamano non mi ricordo…

D: Masi.

R: I masi lì, perché venivano giù a gruppi, a piedi.

D: Però il campo era vicino al torrente?

R: Al torrente sì, vicino al torrente.

D: Il campo era grande? Com’era il campo, come ti ricordi il campo?

R: Il campo era una baracca, sarà stato lungo, eravamo una cinquantina dentro, era una baracca.

D: Una sola?

R: Una sola.

D: Ed era recintata questa baracca?

R: Sì, sì recintata.

D: Il posto in cui lavoravate, era nel campo oppure per lavorare andavate fuori dal campo?

R: No, no si andava fuori, dentro nel torrente, perché quello lì era spostato dove c’era la baracca, si usciva dal campo e si andava verso il torrente a fare i lavori.

D: Ma pochi metri oppure era più lontano?

R: No, era un pochino lontano, non tanto ma era sulla costa, dopo le gallerie praticamente.

D: Sulla costa?

R: Sì, diciamo così.

D: Un po’ sul pendio?

R: Ecco, sul pendio.

D: E quindi per lavorare scendevate nel torrente?

R: Scendevamo dentro nel torrente

D: Dicevi le gallerie, queste gallerie qui, ci lavoravano altri deportati, nelle gallerie

R: Non lo so.

D: Nelle gallerie, tu non sei mai entrato?

R: No, noi eravamo lì a fare quei lavori lì ma non so se funzionavano già o meno perché praticamente, cosa avevano fatto; io ho visto, così passando, non che son andato dentro; da una parte delle gallerie avevano piantato i macchinari mentre dall’altra c’era la possibilità, con i camion, di portare avanti e indietro il materiale.

D: E’ come se avessero allestito un’officina dentro nelle gallerie?

R: Su un fianco della galleria avevano istituito delle gallerie, delle officine.

D: Però tu dentro non sei mai andato quindi non sai.

R: Mai, perché noi, no, no…

D: Hai visto movimenti, cosa facevano?

R: No, no.

D: Voi eravate addetti alle pietre e basta, e siete riusciti a fare quello sbancamento, quel filtro lì, quel depuratore?

R: Ormai ci han mandati lì perché in Germania o meglio in Austria non siamo più potuti andare per i bombardamenti, che si sentivano. Al Brennero tremava tutto, sembrava il terremoto perché i bombardamenti gli ultimi momenti erano intensi e allora per forza non han finito di fare i lavori che dovevano fare.

D: Dicevi che eravate in cinquanta in questa baracca?

R: Sì, una cinquantina.

D: Quindi più o meno vi conoscevate uno con l’altro? Eravate tutti, che ne so, tutti lombardi oppure c’erano anche altri ragazzi di altre regioni, più anziani di voi?

R: Sì, sì ce ne erano, parecchi anche perché dentro nel campo quando si faceva la famosa ginnastica: cappelli su, cappelli giù, si facevano su, giù, le flessione e così via, c’era qualcuno, gli anziani che cadevano, allora nervate, perché pretendevano l’impossibile da quei poveretti lì.

D: E comunque eravate tutti italiani?

R: No, io il viaggio l’ ho fatto anche con un russo che veniva da Torino, che aveva una cancrena al braccio, dopo non l’ho visto più, era un ingegnere lui mi diceva; parlava bene l’italiano e poi non l’ho visto più, mi ricordo benissimo di questo sovietico.

D: Ma lì nel campo della Val Sarentino c’era questo russo? Lì nel campo, in questa baracca di cinquanta persone più o meno, c’erano anche degli stranieri come prigionieri o eravate tutti italiani?

R: No, che mi ricordo eravamo tutti italiani.

D: E quanti erano i tedeschi che vi facevano la guardia, circa?

R: La guardia al campo?

D: Sì, a voi, Val Sarentino?

R: In Val Sarentino, in Val Sarentino c’erano poche persone, saranno state una decina sì e no.

D: Ma avevate un filo spinato intorno alla baracca?

R: Sì. Sì era cintato, era cintato; dentro in baracca, come ho detto, l’han messo là al palo; quello là era cintato ma non proprio contro, tanto è vero che come sono uscito da lì, incosciente dicevo di essere, chissà dove erano loro.

D: Ascolta Mario, nel periodo che tu sei stato a Bolzano o in Val Sarentino, sei riuscito a scrivere a casa o a ricevere delle lettere da casa

R: Mai.

D: O un pacco, qualcosa?

R: Il pacco l’ ho ricevuto da mio papà, dentro nel campo a Bolzano, ma del resto, tant’è vero che sul documento, sulle lettere: Come mai gli altri scrivono e tu non scrivi? Perché io non ho mai avuto la possibilità di scrivere e così via…

D: E questo pacco il tuo babbo come ha fatto a mandartelo su?

R: Tramite una; è stato all’ultimo momento che ha dovuto preparare tutto ‘sto pacco perché è venuto a sapere; ormai lì si facevano passare la parola i famigliari, che il giorno successivo sarebbe partito il camion per Bolzano, il camion della Falck e allora praticamente preparavano i pacchi e li portavano su.

Perché noi sapevamo, eravamo avvisati che se si riusciva a scappare, si doveva andare alla Falck, dove praticamente eravamo salvi.

D: Ascolta, la Liberazione come te la ricordi?

R: La Liberazione. Ero in Val Sarentino, al mattino sono venuti a chiederci di andar su ad aiutare i tedeschi perché c’era stato un bombardamento, c’era un distaccamento tedesco su in alto, verso Vipiteno; di andar su ad aiutare a a recuperare i morti di ‘sto bombardamento; io me ne vado a casa. Allora ci han portato in centro, ci hanno dato un piccolo lascia passare che si veniva dal campo di Bolzano, un documento che diceva che noi eravamo arrivati a casa, ci avevano liberati.

D: Questo lascia passare ve l’ hanno consegnato nel campo, cioè vi hanno riportati al Lager di Bolzano, vi hanno dato il lascia passare oppure …

R: No, mi sembra al Lager, mi sembra che me l’abbiano dato al Lager.

D: Quindi siete ritornati al campo, vi hanno dato il documento.

R: Il documento perché ormai là non c’era più nessuno in pratica.

D: E questo che giorno è stato?

R: Il primo maggio del ’45.

D: E tutti e cinquanta vi hanno portato giù, dalla Val Sarentino, dal campo?

R: Sì, sì

D: Vi han portato giù al campo di Bolzano?

R: E dopo ci han dato il documento per la Liberazione.

D: E tu cosa hai fatto?

R: E io ho preso il documento e fatto la prima tappa con una coperta, perché tra l’altro c’era brutto tempo, la prima tappa Bolzano-Trento, a piedi, sì, a piedi.

Ma c’erano quelli che avevano anche le carriole, a Trento, dopo da Trento…

D: Scusa, scusa Mario, sempre con la tuta?

R: Sempre, sempre, fino a casa. Particolare della tuta, son arrivato a casa, ne abbiam parlato proprio ieri con mio fratello, allora c’era lì a casa il Bianchi perché stava lì da me, da noi in cortile, mi ha visto ed è andato a chiamare mia mamma. No, non entro in casa: preparami un bel mastello, allora si diceva così, per lasciar fuori la tuta da casa, perché ero pieno di pidocchi. Ecco, la cosa è stata così.

D: Però hai fatto da Bolzano a Trento a piedi, da solo, eri da solo?

R: No, non eravamo in tanti ma eravamo sette o otto. Dopo di lì abbiam fatto, non Rovereto ma siam andati su mi sembra verso l’Adamello e lì avevamo trovato dei partigiani, su, e nelle case lì ci offrivano le sigarette perché avevano le case piene di sacchi di sigarette perché avevano svaligiato la manifattura di Rovereto.

Dopo, da lì, siamo scesi, ed abbiam trovato gli americani appostati nella vallata perché non erano ancora venuti su. Da lì dopo siamo scesi a Torbole; Torbole, lì in una stalla ci han dato la polenta, un po’ da mangiare, quel poco che avevano anche loro, e abbiam passato la notte.

Al mattino ci hanno traghettato verso Limone, da Limone allora, pian pian Gargnano, a piedi, Gargnano, dopo siam arrivati a Brescia, praticamente ci abbiam messo nove giorni ad arrivare a casa, a Loreto, perché a Brescia abbiam trovato un camion, Serrughetti è andato a finire con un altro camion a Bergamo, invece a me mi hanno portato fino a Loreto e da Loreto altra passeggiata fino a casa.

D: A Monza a piedi?

R: A Monza e a piedi.

D: E hai portato a casa, dal campo, la tuta?

R: Tuta, il numero.

D: Il triangolo, il tuo numero e poi il cappello?

R: No, no il cappello non lo avevamo.

D: Il lasciapassare?

R: Lasciapassare che poi dopo, non mi ricordo più, forse l’ho adoperato per il …

D: Vitalizio?

R: Riconoscimento; vitalizio no, troppo problema, per la qualifica di partigiano, tutti quei documenti…

D: E l’hai spedito?

R: Spedito, allora mi han mandato.

D: E non ti è più ritornato?

R: No, i documenti sono rimasti tutti a Roma. Quello che mi è rimasto è la faccenda del vitalizio, lì è stato, prima di tutto c’era l’Angelo.

D: Signorelli

R: Signorelli, che continuava a dirmi, e Zilli che lavorava insieme, Fai la domanda, fai la domanda, fai la domanda; mai fatta, proprio perché ero disgustato in una maniera, per tutto quello che è successo dopo la Liberazione e allora l’ ho fatta dopo dieci anni circa. Poi è sorto il problema che il mio nome risultava con una t sola e lì praticamente ho fatto l’autocertificazione, gli ho mandato tutto, anche se nel foglio immatricolare dell’esercito c’è una t sola e io ho due t.

Allora, ho lì tutti i documenti, risulta il 9643, risulta Scuratti con una t e allora finalmente ho risolto, praticamente dopo un anno, no di più, di più di un anno e ho preso gli arretrati e i famosi 3.800

D: 50%

R: Di quelli che arrivano, il 50% dei famosi 15 milioni

D: Mario…

R: Dimmi.

D: Mentre hai salvato il triangolo e il numero, la tuta ..è bruciata?

R: Non lo so, prova a chiedere a mia madre ma non c’è più

D: Non c’è più la tuta?

R: Non c’è più.

D: Volevamo chiederti una cosa, quando eri a Sarentino, in Val Sarentino in quel campo lì, qualcuno di voi o tu siete riusciti a scrivere a casa, lì era possibile mantenere il contatto con le famiglie, vi sono arrivati dei pacchi oppure solo a Bolzano?

R: A Bolzano soltanto, io quello che ho ricevuto, l’ ho ricevuto soltanto a Bolzano, tanto è vero che ho lì la lettera che ha scritto mio papà, di accompagnamento, di quello che c’era dentro, pane giallo, liebig, varie cose e tre lire che chissà dove sono finite.

D: Ascolta, oltre al gruppo di San Fruttuoso, di Monza che erano su con te in Val Sarentino, ti ricordi qualche altro nome di qualche altro deportato, della Lombardia o anche non della Lombardia?

R: Sì, ho lì i nomi, ce n’era uno di Milano, poi ce n’era un altro di Verona, un altro di Asti.

D: E i nomi?

R: Quelli che eravamo più vicini, diciamo così…

D: I nomi non ti vengono in mente?

R: No, li ho lì scritti, c’è dentro il bigliettino, li ho li scritti.

D: Aspetta, io avrei ancora un paio di domande. Al campo della Val Sarentino, dicevi che c’era una baracca, c’era una baracca con voi dentro, c’era anche una baracca separata per il comando?

R: E sì.

D: Sì?

R: Praticamente, come posso dire, una baracca, una specie di quella che c’era lì dove c’è la Breda.

D: Era stretta e lunga?

R: Sì, lunga, tutta lunga.

D: E invece l’altra com’era?

R: Una baracca lunga in legno. Non mi ricordo, era più staccata, più in su.

D: E c’erano delle altre baracchette o c’erano solo queste due, una per il comando e una per voi, se ti ricordi?

R: Noi eravamo in quella lì, poi non mi ricordo, non vedevo le altre perché lì come si rientrava, basta, chiusi dentro, al mattino si usciva, non c’era la possibilità di girare o che.

D: E il mangiare, a che ora mangiavate e che cosa vi portavano, a Sarentino?

R: Il famoso orzo, quando c’era, un pezzo di pane nero, sembrava sapone, pesante come un accidenti, ma poca roba, allora si manteneva la linea.

D: Avevate la cucina lì nel campo?

R: Non lo so, non lo so perché.

D: E il rancio era uguale mezzogiorno e sera?

R: Quando c’era sì perché per esempio in campo di concentramento ci davano poca roba, tutta brodaglia e un pezzetto di pane nero con un po’ di margarina.

Volevo citare un particolare, nella Pasqua del ’45, l’Arcivescovo di Bressanone ha ottenuto la possibilità di mandarci dentro qualche cosa da mangiare, ci ha mandato un filone di pane bianco, due mele, uova, forse altre cose, non mi ricordo più; siamo stati tutti male, perché le uova, troppo sostanziose, noi non mangiavamo niente, eravamo tutti a correre dove c’era il fossetto, c’era il famoso fossetto dove si andava a lavarsi, dentro nel campo tutti diarrea, diarrea, dissenteria a tutto andare perché eravamo denutriti, lui ha fatto opera di bene però per noi…

D: Questo, l’Arcivescovo di Bressanone?

R: Sì.

D: Ma ve lo hanno detto lì che era stato l’Arcivescovo di Bressanone, da cosa te lo ricordi?

R: Sì sì proprio l’ Arcivescovo di Bressanone.

D: Ma questo quando eri su in Val Sarentino però?

R: No, nel campo di Bolzano.

D: Quando eri giù a Bolzano?

R: Giù a Bolzano ancora, perché la Pasqua è arrivata che ero ancora a Balzano.

D: Eri a Bolzano. Non è che è venuto qualche sacerdote a celebrare messa, dentro nel campo, non te lo ricordi?

R: No, perché a dirti la verità, noi uscivamo, cappelli su, cappelli giù, si rientrava e fino al giorno dopo basta.

D: Ecco, non ti ricordi se nella Pasqua del ’45 è entrato qualcuno a celebrare messa lì nel campo ma a Bolzano questo, non in Val Sarentino?

R: No, non è venuto nessuno lì.

D: Quindi questo pane, queste mele, queste uova; quando tu eri ancora a Bolzano?

R: Bolzano.

D: Non su in Val Sarentino?

R: No, no, no.

D: Perché in Val Sarentino sei stato su quanto tempo?

R: Bisogna guardare il libro.

D: Tu non ti ricordi più o meno?

R: Il libro, le date corrispondono giuste, in base ai documenti che ho io, in base alla prigionia a Monza, la partenza che eravamo in circa 800, che ci han messo su sui vagoni e che ci han tirato giù, è sul famoso libro del Comune di Bolzano.

D: Ho capito. Era il 25 febbraio quando vi hanno caricato sui vagoni per farvi partire, non siete partiti, poi vi han tirato giù, mandati a Val Sarentino e poi alla Pasqua del ’45 tu eri di nuovo nel campo di Bolzano, la Pasqua era nell’aprile del ’45, allora vuol dire che a Sarentino sei rimasto il mese di marzo?

R: Sì, alla fine, praticamente.

D: Un mesetto praticamente?

R: Praticamente era la fine, perché la Liberazione è avvenuta in Val Sarentino.

Scala Teresa

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Teresa Scala, comunemente chiamata Marisa Scala, da tutti, fin dalla prima età. Sono nata a Verona il 13 novembre 1919. Ho vissuto a Verona con la mia famiglia fino all’età di 15, 16 anni. Dopodiché lasciammo la città perché mio padre, dipendente della Cassa di Risparmio di Verona, dovette lasciare il lavoro perché non iscritto al partito fascista. Andammo in provincia, fra Padova e Vicenza, dove c’era un fratello di mio padre che era un grosso agricoltore. E lì vivemmo qualche anno coi miei fratelli, mia madre e mio padre.

Nel ’39 venni a Torino perché c’era una cugina di mia madre, che avevo conosciuto, vedova qui con due figlie. Venni a Torino per vedere Torino. Fui sua ospite per qualche giorno e invece mi fermai, quasi per sempre. Conosciute le figlie riuscii a trovare dei piccoli lavori perché la cugina era vedova, viveva di una piccola pensione con le figlie, per aiutarla in casa. Nel frattempo avevo cercato la famiglia Scala che sapevo essere a Torino e con cui non avevamo rapporti; mio padre non aveva rapporti non so per quale ragione. Rintracciai l’ingegner Giancarlo Scala, fratello di Luigi Scala che era in prigione da parecchi anni come appartenente e Giustizia e Libertà“, condannato dal Tribunale Speciale di Mussolini. Riallacciammo l’amicizia, la parentela in un certo senso e, con il fratello Remo, che spesso veniva a trovarmi a Torino ed era un giovane studente, fummo ospitati da Giancarlo in piazza Vittorio 13.

Non fui iniziata, diciamo così, alla vita politica, ero giovane, anche se mio padre per ragioni politiche aveva dovuto lasciare il lavoro, ma non ci aveva educato in quel modo. Mio padre era un uomo molto chiuso, molto silenzioso, aveva combattuto una sua guerra. Però un giorno avevo conosciuto un anarchico, un ciabattino anarchico in via della Rocca, mi pare, o in via fratelli Calandra a Torino; avevo portato un paio di scarpe a risuolare e l’avevo pregato di farlo in fretta perché a quei tempi, in tempo di guerra, non si aveva le quaranta paia che si hanno oggi.

E lui mi disse: “Ah, signorina si fermi, gliele faccio subito, gliele faccio”. E cominciammo a parlare. Mi disse che era un anarchico; e il termine di anarchico per me voleva dire rivoluzionario, assassino, quelli che ammazzavano di nascosto.

Vedevo quest’uomo mite, anziano, ciabattino, col suo piccolo desco e, non lo so, qualche cosa in me scattò. Cominciai a pregarlo di raccontarmi, di dirmi. Ricordo che mi disse una cosa: “Sono molto più importanti, avendogli detto di Luigi Scala, quelli che sono in carcere a soffrire che non i fuoriusciti, perché la voce dei carcerati è molto più potente del fuoriuscito”. Io non faccio commenti, non so cosa volesse dire, non capii e forse anche oggi non capisco bene. Comunque non parlai mai con Giancarlo di questo anarchico, forse qualche cosa mi tratteneva.

Nel frattempo attraverso Giancarlo conobbi persone di “Giustizia e Libertà”, fra cui Ada Gobetti, sua carissima amica, e altri. Così entrai un po’ in un circolo, ma sempre non con militanza politica o cultura politica; sempre, confesso, molto da ignorante, insomma. C’era in me la ribellione al fascismo ma era quella ribellione così, che una parte di italiani avevano. Io poi ero un po’ prepotente e quindi quello che era prepotente con me si scontrava. Comunque col tempo capii qualcosa di più.

Il mio impatto tremendo è stato nel dicembre ’42 quando, accompagnando Giancarlo a Castelfranco Emilia a trovare il fratello, glielo permettevano una volta all’anno, nella bassa di Castelfranco Emilia, tutta nebbia: questa fortezza, una fortezza mi pareva, e passando per la sorella di Luigi, siccome stesso cognome eccetera, le guardie mi fecero anche vedere Luigi, perché il fratello solo aveva il permesso, io non avevo il permesso.

Vidi un uomo lungo lungo, magro magro. Vidi gli occhi di Luigi, due occhi lucidi, splendidi che parlavano e lui chiese: “Chi è?”, rivolto a me, e allora il fratello gli spiegò chi ero. Io li lasciai subito perché sentivo che dovevano parlarsi loro due, il colloquio durò pochissimo. Uscii e quel ricordo mi rimane ancora oggi, ecco gli occhi di Luigi.

Passò del tempo e nel frattempo entrai più addentro in quello che era il movimento antifascista. Feci molte cose. Nel ’43 Luigi arrivò a casa in piazza Vittorio, inaspettato, liberato da Badoglio. Sentimmo suonare il campanello e vedemmo questa figura ieratica, così strana, e dice: “Sono a casa”.

Era Luigi Scala che tornava a casa, era in carcere dal ’36 ma era stato già in carcere nel ’31, per due anni o tre anni e poi liberato, riprocessato nel ’36 assieme con il gruppo famoso “Giustizia e Libertà”: Vittorio Foà, Franco Venturi, Mario Cugini e tutto il gruppo, e condannato a 20 anni o 30, qualcosa del genere.

La prima cosa che ci colpì fu la sua salute malmessa. Lo portammo a Cuneo dove viveva la madre. La madre viveva quasi sempre a Cuneo, in provincia di Cuneo, un paesino vicino, una frazione dove avevano una piccola bella proprietà terriera. Lo portammo lì e l’incontro fra madre e figlio, erano anni che non si vedevano, era dal ’36 che non si vedevano, fu una cosa commovente quanto mai. Per prima cosa le baciò la mano, ma non era un gesto borghese, era un gesto così, a cui era abituato da bambino. Poi la madre lo abbracciò e stettero così un quarto d’ora stretti.

Ricordo il primo pranzo a tavola, pranzammo assieme. Finito il pranzo venne servita la frutta e dico questo perché non sono ricordi borghesi, sono ricordi che toccano secondo me. Finita la frutta Luigi prese in mano una pesca e continuava a tenere la pesca in mano e poi sua madre disse: “Fallo”. Voleva tagliare la pesca nel vino come era abitudine in Piemonte, cosa che non si faceva a tavola, non si poteva fare.

Un uomo che aveva fatto anni di carcere chiedeva alla madre se poteva tagliare la pesca nel vino, ecco, chiuso. L’8 settembre dovevano portare via Luigi da Cuneo perché già la IV Armata dilagava nelle montagne.

A Cuneo gli Scala erano molto conosciuti, conosciutissimi a Torino ma a Cuneo in particolare Luigi Scala. Già a Torino avevano già avvisato le persone, Ada Gobetti e altri. Mi fermai qualche giorno ancora a Cuneo perché, nel frattempo, c’era questo dilagare pauroso della IV Armata, che scendeva dalle montagne e si riversava su Cuneo; Cuneo era già in mano ai tedeschi. Io con altri, disperatamente, cercavamo di convogliare i poveri disgraziati militari, vestiti da preti, vestiti da suore, vestiti in tutti i modi, verso non la stazione di Cuneo ma la stazione della Saluzzo-Cuneo, che nessuno conosceva, le piccole stazioni locali dove i tedeschi non c’erano, forse non le conoscevano neppure loro.

Io ho visto prendere dei giovani di vent’anni alla stazione di Cuneo così inermi, ecco in un modo tremendo, asserragliati sui camion. Dopo qualche giorno riuscimmo a portare con la Saluzzo-Cuneo Luigi a Torino. Abbiamo peccato di un’enorme ingenuità.

Era molto malato, malato di tubercolosi, è chiaro, e quindi abbiamo pensato che un uomo in quelle condizioni, inerme, non potesse dar fastidio a nessuno. Dovevamo spostarlo in Svizzera ma non poteva essere spostato attraverso le vie ufficiali, dovevamo spostarlo attraverso le montagne, non era in condizioni, doveva essere portato in barella. Le montagne erano già piene di neve e non si poteva andare. Siamo rimasti a Torino. Il 1 o il 2 novembre il fratello era a Saluzzo per ragioni di partigianato e sentimmo bussare dalla porta di servizio del numero 15 le “tre famose bussate più due” che era un po’ il segnale degli amici.

Luigi aprì la porta e ci trovammo davanti le SS italiane che dissero: “Luigi Scala”. Dice: “Sono io”. “E lei chi è?”, “Marisa Scala”. “Venite con noi”.

Ci portarono al commissariato di Via Verdi; a dire il vero il commissario finge di non sapere niente, e che doveva essere stato chiamato improvvisamente via, voleva lavarsene le mani, voleva fare qualcosa, ma di fronte alle SS!

D: Che anno era quello Marisa?

R: Il 1943, ai primi di novembre, non so bene il giorno. A mezzanotte sempre queste SS italiane ci portarono a piedi da Via Verdi a Torino all’Albergo Nazionale che era in Via Roma, Piazza S. Carlo, che era il comando delle SS tedesche. Addirittura dovemmo aspettare un quarto d’ora perché non ci volevano aprire.

Finalmente ci consegnarono alle SS tedesche, andammo nella solita camera con la faccia appoggiata al muro e aspettammo il mattino. Al mattino venne un maresciallo austriaco, Schumann. L’ho davanti agli occhi perfettamente, un uomo bonario sui quaranta anni, ci portò in ufficio per interrogarci.

Io con la mia solita prepotenza dissi: “Ma cosa vuole? Guardi che è molto malato, è molto malato quindi non è un partigiano; sì, è uscito dal carcere perché è un antifascista ma è molto ammalato. Io poi ero a casa con lui perché gli facevo un po’ da infermiera, gli preparavo da mangiare”, le solite cose che si raccontano.

Poco dopo entrò Schmidt, il comandante delle SS, e io di nuovo, in italiano, parlavo in italiano a Schmidt, dissi: “Ma è molto malato, è il dottor Scala, in carcere fascista, è molto malato ai polmoni!” e Schmidt guardò Luigi e disse, battendosi con le mani la fronte, “No paura, partigian, paura teste”. Fui interrogata varie volte. Vidi Luigi una sola volta in attesa di un interrogatorio ma lo interrogarono, mi disse, due o tre volte; non avevano niente da chiedergli. Nel frattempo mi dissero che Luigi l’avevano mandato in un convalescenziario per militari e io ci credetti, in un certo senso.

Io rimasi in carcere per tutto il mese di dicembre. Perché? Perché speravano che qualcuno si facesse vivo, di prendere qualcuno. Ripeto, quello che mi rovinava era il cognome Scala, che era abbinato a tante cose. Poco prima di Natale mi liberarono e mi dissero chiaro e tondo che dovevo abitare in Piazza Vittorio 13, non muovermi di lì, andare tutte le mattine dalle SS in Piazza S. Carlo perché speravano che sarebbe arrivato Giancarlo, che sarebbe arrivato qualcuno e di poterli prendere. E io vissi lì per parecchi giorni.

Era un alloggio enorme, con due entrate, dal 13 e dal 15; le stanze di allora, i vecchi palazzi di Torino, cinque metri di altezza, freddo da morire, eccetera. Dopo pochi giorni, intanto incontravo Giancarlo al Cottolengo.

Il Cottolengo è stato per noi, per lo meno per me personalmente, un buon rifugio perché entrare al Cottolengo anche per i tedeschi non era una cosa facile; cioè entravano, ma il Cottolengo era una città nella città e quindi era molto difficile.

Lì avemmo molti colloqui. A un certo momento dissi che io saltavo il fosso, non ce la facevo più. E da quel momento, naturalmente, saltai il fosso; venni via di lì, ebbi documenti falsi e cominciai a fare la mia vita di partigiana, collegamenti fra l’uno, l’altro, eccetera. Cambiavamo spesso case, indirizzi.

Nel frattempo mio fratello era in montagna, nel Cuneese, e io avevo notizie, non le avevo. Con la battaglia di Pasqua lo persi di vista perché so che erano stati ammazzati quasi tutti e invece poi lo ritrovai. E nel frattempo mio fratello venne a Torino e cominciò anche lui il lavoro di coordinamento con noi. Ai primi di luglio, mentre rientravamo a casa – rientravo a casa a mezzogiorno in via Piffetti – ho visto mio fratello che mostrava la pistola a tre persone: erano gli agenti del commissariato vicino. Io arrivai vicino a casa, però entrai nel portone. Lui mi vede, mi ride e disse: “Beh, andiamo in commissariato, voi lì telefonate e vedrete che ho ragione io, che sono un agente regolare”. Io entrai in portineria e chiesi al portinaio, che non mi conosceva, abitavamo lì da otto giorni: “Ha una pistola? Ha una pistola? Ha una pistola?” e quello mi guardò come una pazza.

Vidi portare via Remo, non potevo fare niente, però il mio terrore era che Giancarlo rientrasse anche lui per mangiare, ed era il comandante militare GL della piazza di Torino, quindi un pezzo grosso. Allora salii in casa e cercai di arraffare quanto più possibile perché pensavo che poi sarebbero ritornati. Nel frattempo arrivò Giancarlo Scala e io dissi: “Dobbiamo scappare, dobbiamo scappare; come? Usciamo dalla porta”. Abitavamo al quarto piano mi pare, abbiamo visto gli agenti che salivano da sopra, erano in sette o otto addirittura, che salivano la scala. Noi, dal quarto salimmo al quinto piano, suonando a tutti i campanelli, nessun rispondeva; in tempo di guerra erano tutti sfollati. Mentre gli agenti arrivavano alla nostra porta e cominciavano a suonare e battere, uno tira fuori la pistola. Noi intravedevamo da sopra, Giancarlo vide una scala legata alla tromba delle scale; era la scala che portava nelle soffitte perché c’era una botola. Riuscimmo a slegare la scala, aprire la botola, salire su. Mentre Giancarlo saliva cominciarono a sparare perché si erano accorti del rumore. Siamo riusciti, nelle soffitte, trascinandoci, a passare da una via ad un’altra via, un altro palazzo, poi uscire fuori sui tetti e passare su un balcone.

Io, a dire la verità, ero attaccata, non mi volevo mollare; Giancarlo mi pestò le mani e caddi su questo balcone. Di lì entrammo in un alloggio anch’esso disabitato. Riuscimmo ad aprire, scappammo in Corso Tassoni con le sirene che suonavano. C’era l’Umpa (forse UPI), c’erano le guardie, c’erano tutti perché avevano capito che c’era un covo importante, non per me ma per Giancarlo.

Arrivata in Corso Tassoni io caddi lunga distesa per terra. Ero tutta graffiata, tutta sporca. In una piccola osteria, che ho cercato e che era sparita dopo qualche anno, entrai, c’erano degli operai che mangiavano qualche cosa. Mi presero in braccio, mi portarono dietro, mi diedero un bicchiere di grappa da bere, qualcosa, non mi ricordo più. Io urlavo come una pazza perché sapevo che Remo era stato preso.

Stetti tre giorni nascosta e poi ricominciai la mia vita. Mi dicevano che Remo era in buone mani, che lo stavano aiutando. Avevano trovato in casa, purtroppo, non il denaro che ci era stato paracadutato da distribuire alle bande ma le coordinate del lancio. Difatti Remo non lo disse ma so che passò al controspionaggio in Piazza Callina con i carabinieri, perché era intesa col nemico proprio. Chiuso.

Ad agosto, in un incontro in via fratelli Calandra con Pedro Ferreira, comandante GL della piazza di Aosta, fummo catturati alle 11 del mattino perché una spiata aveva denunciato il fatto. Difatti la casa, questo palazzo, era dalle cantine alle soffitte tutto quanto pieno di agenti. Le Brigate Nere presero Pedro Ferreira e me, e ci portarono in Via Asti, nella caserma di Via Asti, al Comando delle Brigate Nere. Stetti un mese lì con Pedro Ferreira. Poi suoi ragazzi catturarono una decina o venti tedeschi ad Aosta e scambiarono Pedro Ferreira con questi, fecero uno scambio.

Lui, mentre lo liberavano, mi urlava: “Marisa, ne prendo trenta per te!”

Ero in via Asti insieme con Aurelio Peccei, prigioniero di stato di Mussolini, il famoso Peccei della Fiat, ed altri politici.

Ad un certo momento venivo interrogata di notte all’una o alle due da, non ricordo il nome, una bestia nera proprio, lo chiamavano “il macellaio”, della questura di Torino.

Mi veniva a interrogare e mi diceva: “Ho visto tuo fratello piangere disperato perché dice che lo hai accusato, che lui non c’entra niente, poveretto!” Lui sapeva di mio fratello, voleva emozionarmi. Furono interrogatori tremendi, non per l’una o le due di notte in cui il cervello non è tanto limpido, quanto per quello che mi diceva di mio fratello. Poco dopo arrivarono le SS, che nel frattempo avevano saputo che ero stata presa, a prelevarmi e mi portarono in carcere. E lì ricominciò di nuovo l’interrogatorio con le SS.

Dal carcere fui mandata in una caserma di corso Stati Uniti dove ho visto un duecento o trecento persone che nella notte sarebbero partite con me per un convoglio per la Germania probabilmente, a lavorare in Germania. Eravamo nella caserma in un grande stanzone. Ad un certo momento pioveva fuori, io avevo un impermeabile e mi misi un foulard in testa, avevo delle sigarette in tasca dell’impermeabile, e uscii da una porta. Mi incamminai lungo la caserma per l’uscita, mi fermai davanti alla sentinella tedesca SS, mi accesi la sigaretta e la salutai, e uscii fuori, corso Unione Sovietica. In quel momento passava il tram numero 8, era un tram che veniva dalla Fiat, senza porte, un tram degli operai quasi. Corsi davanti al tram che fece una frenata paurosa, salii sul tram e dissi: “Corra, corra, sono scappata, se mi prendono mi ammazzano.” Nessuno parlò, era pieno e nessuno aprì bocca; il tranviere fece due fermate e mezza e fermò il tram fra una fermata e l’altra, fermò. Io saltai giù, attraversai il cavalcavia di via Sacchi e corsi, corsi, corsi fino in piazza San Carlo e mi rifugiai nella farmacia di via Giolitti; sapevo che era uno nostro di GL il proprietario.

Di lì mi portarono al secondo piano dove c’era Gina Lupo, una nostra, una signora anziana che aveva già tenuto alcuni inglesi nascosti. Stetti tre giorni in casa di questa Gina in attesa che mi portassero in qualche posto. Al mattino del terzo giorno, alle 5 del mattino, bussarono alla porta e dissero: “Dateci Marisa Scala”: una seconda spiata.

Queste cose vanno dette perché, purtroppo, sono successi tanti fatti gravi in seguito a elementi che si erano intrufolati. Fui portata in Via Asti di nuovo, tre giorni.

Le SS mi ripresero, mi portarono di nuovo in carcere, alle Nuove. E Schumann mi disse: “Stavolta, mia bella signorina, Lei non scapperà più”. Nel convoglio, mi pare non ricordo più bene, fosse ottobre, fui ammanettata, caricata su un pullman insieme con altri.

Eravamo scortati da Brigate Nere, non SS. Arrivammo a Milano. A Casale ci fermammo. Io dovevo andare alla toilette. Non mi tolsero le manette e un ragazzo di 16 anni mi portò alla toilette, mi tirò giù le mutande e io feci la pipì. Poi me le tirò su.

Arrivammo a Milano e ci portarono nel carcere di S. Vittore fino al pomeriggio; poi ci intrupparono assieme con Vasari, Magini ed altri e partimmo per Bolzano, sempre ammanettata. Viaggiammo tutta la notte, l’indomani mattina arrivammo a Bolzano. Arrivata a Bolzano ricordo Muller o l’altro, non so: mi videro, mi guardarono con occhi un po’ particolari. Questa donna ammanettata! C’erano tanti uomini, donne non ce n’erano, eravamo soltanto in due.

Mi misero da una parte, mi misero. Poi tolsero le manette, mi misero nel blocco delle donne, e lì rimasi fino al gennaio del ’44, nel blocco. Non potevo uscire, andare a lavorare, la mia speranza era di unirmi a dei gruppi perché avevo anche la speranza di scappare.

D: Che anno era questo?

R: ’44, ’45; a cavallo del ’44 e del ’45. Natale ’44 lo feci in blocco.

In seguito ad una partenza, mi pare, di quel gruppo di Milano, di Vasari e altri, io fui convocata al comando insieme con la Margherita Montanelli, la moglie del giornalista, e accusata di aver passato aiuti, siccome il nostro blocco era vicino, attraverso le inferriate. Stiamo tutto il giorno al comando, terrorizzate tutte due perché non era una cosa piacevole; poi la Margherita la rimandarono nel blocco e io fui portata in cella. Non voglio parlare della mia deportazione in Bolzano che ho ripetuto, era una cosa dove si sopravviveva, direi benino, se noi pensiamo.

D: Ti ricordi il tuo numero di Bolzano?

R: Aspetta, ce l’ho qua: 6.678.

D: E il blocco in cui ti hanno messo, te lo ricordi?

R: Era il blocco delle donne. C’era un solo blocco e il capoblocco era una certa “Cicci” di Milano; non so per quale ragione fosse lì, come non seppi mai la ragione per cui tanta gente era in campo di concentramento. C’è stata la gente che si trovava nel posto sbagliato nel momento sbagliato, presa dai tedeschi. Comunque con me in blocco c’era la dottoressa Silvia Pons, socialista di Milano, la Schumacher di Trieste, l’altra dottoressa. Beh. Fui portata nelle celle e furono veramente quaranta giorni di terrore che passai: le celle erano dominio assoluto di due ucraini, due ucraini pervertiti, pervertiti non so se sessualmente, indubbiamente di cervello lo erano.

Non ho visto niente salvo la tortura di un giovane, che lo scambiavo quasi per mio fratello Remo perché gli assomigliava un pochettino. Però ho sentito per quaranta notti le urla e le imprecazioni, i lamenti di gente che veniva torturata, seviziata, stuprata da queste due bestie. Nel campo di Bolzano il vitto era quello che era, ma non si moriva di fame, si sopravviveva; se ci sono stati dei morti è perché sono stati ammazzati. Non morti di sfinimento come nei campi KZ, gente che aveva cercato di scappare, gente che aveva fatto cose che non doveva fare.

Mi risulta che dalle celle la mattina successiva, ogni tanto portavano fuori i morti nei sacchi. Di cosa erano morti? Ci sarà qualcuno che lo saprà. Io posso solo dire che gli urli erano tali che non li ho neanche sentiti nell’Albergo Nazionale dove sentivo lamenti quando interrogavano, a Torino. Dopo quaranta giorni fui rimessa nel blocco, tornai alla mia vita sedentaria lì, fino all’attesa della scarcerazione.

D: Quando eri rinchiusa a Bolzano non sei mai uscita a lavorare dal campo?

R: Mai uscita. Eh, era la mia speranza! Anche perché mesi di inerzia, seduta sul castello, seduta per terra, era già tremendo quello. E verso la fine, un mattino – noi avevamo un recinto dove potevamo uscire – chiusi in questo recinto metallico vidi un gruppetto al di fuori del nostro recinto, cinque o sei uomini vestiti da aviatori, col berretto, giubbotto. Era Edgardo Sogno, Catone, Mario Luino ed altri, che erano stati presi a Milano mentre tentavano di liberare Ferruccio Parri che era stato arrestato. Io ho riconosciuto Edgardo Sogno col quale avevo dei contatti a Torino, ero della Franchi, il servizio inglese di spionaggio. E lo chiamai: “Edgardo, Edgardo sono Marisa”. Lui mi guardò e fa: “Ma sei qua?” “Sì, sono qua” “Ti credevo in Germania” “No, sono qui” “A Torino come va?” “Lo sai cosa è successo?” “No” “Hanno ammazzato Duccio Galimberti”.

E’ stato l’altro grave colpo della mia vita, perché di Duccio Galimberti si dovrebbe parlare molto di più di quanto non si parli. Un uomo meraviglioso, un uomo pieno di vita, un uomo proprio trucidato dalle Brigate Nere di Cuneo per vendicarsi del nobile cuneese, figlio del senatore. Proprio la vendetta bassa, la vendetta animalesca quindi.

Fummo liberati. Rientrai assieme con un gruppo, col professor Meneghetti di Padova poveretto ed altri, col professor Zin, professore universitario di Torino, con Edgardo Sogno e con altri: rientrammo a Torino attraverso la Svizzera. Entrammo: Merano, la Svizzera, e poi ordinaria amministrazione.

Tengo a dire che rientrando a Torino ebbi notizie della mia famiglia, di mia madre che di quattro figli che aveva, uno era in guerra dal ’39 e non si sapeva niente. Mia sorella l’avevano presa, messa in carcere a Verona, agli Scalzi, ma era scappata durante un bombardamento e viveva un po’ nascosta; di mio fratello Remo non sapeva niente e di me pure. Io avevo un peso sullo stomaco, il peso di mio fratello, perché essendo più vecchia di cinque anni ed essendo stata edotta in certe cose più di lui, in fondo l’avevo portato in montagna.

L’avevo portato? Era cosciente di quello che faceva ma insomma ero la sorella più vecchia e avevo un certo qual rimorso. Allora mi buttai a una cosa. Intanto sapevo che a Bolzano c’era la Lancia, che era sfollata da Torino. Difatti per chi scappava dai campi di concentramento l’unica salvezza era di infilarsi alla Lancia dove gli operai non li mettevano nel forno, è chiaro, ma li nascondevano dietro i forni, non so. Andai alla Lancia e dissi: “Io devo andare a Bolzano, so che voi avete…”, “Noi abbiamo i camion che vanno.”

Partii la prima volta da Torino a giugno, su un camion della Lancia, seduta su dei cassoni dietro, Torino-Bolzano. Non cabina. Arrivai a Bolzano e seppi che cominciavano a rientrare i prigionieri della Germania, militari, politici, eccetera.

Ma non vidi dei prigionieri, ebbi notizie. Col primo camion di ritorno tornai a Torino e da quel momento cominciai ad andare alla Fiat da Aurelio Peccei e poi dalla Maria, la mia cara amica, che era la segretaria dell’ufficio stampa della Fiat.

Dissi ad Aurelio Peccei: “Voglio un’autoambulanza, me la devi dare, devo andare a Bolzano”. La Fiat mi prestò la prima autoambulanza con autista, e arrivammo a Bolzano. A Bolzano ci avviarono a delle scuole dove c’era gente per terra, sdraiata, malata, non malata, eccetera. Lì facemmo un primo carico.

Io dicevo: “Torino, Piemonte”, perché mi pareva che prendere un napoletano dovevo portarlo a Torino, speravo che altre regioni portassero i loro insomma. Ormai l’Italia era stata liberata. E infatti feci due viaggi. Il primo con l’autoambulanza della Fiat, il secondo con l’autoambulanza dell’Ordine di Malta per la quale fui accusata dall’Associazione Deportati di essere una monarchica. Cosa che, se lo fossi stata, non c’era niente da vergognarsi perché i due fratelli Valenzano, nipoti di Badoglio, sono stati presi, con le armi in pugno, dai tedeschi e portati a Mauthausen.

La terza volta, che fu ai primi di luglio, andai con un’altra autoambulanza della Fiat.

In una scuola vedevo la gente che si lamentava per terra nel semibuio.

Mentre passavo e dicevo: “Torino, Piemonte, Piemonte, Torino, Cuneo” mi sentii tirare la gonna. Guardai e vidi una persona, subito non capii se era un uomo o una donna perché vidi una cosa per terra nel semibuio. Poi mi sentii chiamare per nome: era Luigi. Di nuovo rividi gli occhi che avevo visto nel ’42 a Castelfranco Emilia.

Voi direte che sono monotona, non sono monotona: Luigi ha parlato con gli occhi e vissuto coi suoi occhi, non coi polmoni, non col suo sistema sanguigno.

Lo presi in braccio ma mi scivolò via, perché pur essendo ridotto pelle e ossa era molto alto. Lo caricammo sull’autoambulanza insieme ad altre cinque persone.

Sull’autoambulanza avevamo delle assi perché ogni tanto c’erano delle buche verso Trento per i bombardamenti e dovevamo mettere le assi per passare. Sul lago di Garda ci fermammo per lavare un po’ il sangue dall’autoambulanza perché eravamo un po’ tutti pieni di sangue.

Arriviamo a Torino, mi pare due giorni, un giorno e mezzo, è stato un viaggio tragico. A Torino ci aspettavano, sapevano già di Luigi, ad una clinica in collina dove fu ricoverato. La prima cosa che disse il professor Penati allora: “Caro amico Luigi sta morendo, non può vivere in queste condizioni”. Era cardiologo ma bastava fosse medico. In quella piccola stanza visse otto, nove giorni e passò tutta Torino, cioè la Torino GL, la Torino comunista. Lui aveva un sorriso e una parola per tutti, però la sua parola era: “Marisa ho visto Torino libera, Torino libera, il sogno della mia vita”. Aveva pagato molto caro il sogno della sua vita.

Andai a prendere la madre che non lo vedeva dal ’43, che lo credeva in un sanatorio in Svizzera e che su un giornale di GL aveva letto: “E’ tornato Luigi da Mauthausen, ma sta morendo”. La Fiat mi dette una macchina, andai a prenderla nella sua piccola proprietà, la portai a Torino. Si chiuse in questa stanza a Torino per un’ora, sola. Dopo un’ora, un’ora e mezza uscì e mi disse: “Mi vorrei riposare un po’, c’è un salotto?” Si riposò un’oretta e poi mi disse: “Mi puoi portare a casa adesso.”

Riprendemmo la macchina e ritornammo a Cuneo, aveva salutato suo figlio.

Luigi moriva dopo due, tre giorni. Tutta la notte lo abbiamo tenuto, io una mano, il fratello l’altra. Ci guardava, sorrideva. Gli demmo l’ossigeno e poi morì.

Vorrei che ricordaste non i funerali perché era ateo per cui è stato portato davanti alla Madre di Dio, ma l’orazione funebre del professor Monti, una cosa toccante; dice: “Ma cosa è servito liberare Roma se non c’è più, ……. non mi ricordo il nome. Cosa è servito liberare Torino se non c’è più Luigi Scala”. Il famoso, quello che ha un nome strano, quella moglie brutta. Amnesie. Comunque l’orazione di Monti è una cosa epica, ve la farò avere, è una cosa meravigliosa.

D: Marisa, la tua Liberazione del campo di Bolzano come te la ricordi?

R: Me la ricordo in modo strano perché noi al mattino aspettavamo che da fuori tirassero il catenaccio per aprire la porta per la conta, la famosa conta, ma quel mattino qualcuno, non so chi forse io forse un altro, appoggiandoci alla porta quasi cademmo perché la porta era aperta. Cominciammo a uscire nel campo.

Però siccome cinque giorni prima, o sei o sette, era arrivato un pullman della Croce Rossa Internazionale in campo e aveva raccolto tutti gli ebrei e li aveva portati via, allora noi politici abbiamo bestemmiato tutto quello che era possibile bestemmiare perché insomma “E noi chi siamo?” Aspettavamo anche noi il camion della Croce Rossa Internazionale.

Nel frattempo sentivamo “radio bugliolo”, noi la chiamavamo, sentivamo bombardamenti giorno e notte, i treni non passavano più.

Quel mattino siamo usciti, qualche donna è uscita, poi abbiamo visto degli uomini pure uscire. Ci guardavamo interrogandoci e guardavamo anche nelle torrette: nelle torrette non c’era più nessuno. Allora poi ci siamo fatti coraggio naturalmente, ci siamo incolonnati e siamo usciti da quel famoso cancello che esiste ancora adesso a Bolzano, con l’entrata.

D: Questo quando era?

R: Il 28 o 29 aprile, prima di maggio.

D: E una volta uscita dal campo cosa hai fatto?

R: Una volta uscita dal campo, siccome il campo allora era in campagna, c’erano delle piante da frutta. C’era della gente ed era il Comitato di Liberazione di Bolzano, esisteva e ci chiamavano: “Venite, venite, venite”. Noi eravamo titubanti perché insomma avevamo sempre paura di una mitragliatrice, di qualcosa.

Poi ci siamo incamminati. Nel frattempo Edgardo Sogno fa: “No, no, siamo liberi, siamo liberi”, ha parlato con uno e in un gruppetto di venticinque persone ci hanno portato a mangiare in un palazzo a Bolzano, non so dove, non so da chi, comunque era uno dei nostri insomma che ci dette da mangiare e ci disse che appunto si era procurato questo mezzo e che saremmo partiti per Merano.

Il tragico era che arrivati al confine fra Merano e la Svizzera, non so come si chiami, c’era ancora la postazione tedesca che non aveva avuto l’ordine di lasciare mentre a Bolzano non esisteva più nessuno. Lì ci fermarono, non volevano farci scappare. Per fortuna un socialista, mi pare il conte Soleri di Venezia, aveva conosciuto a suo tempo il capitano che comandava questa postazione, tedesco. Si avvicinò, avendolo riconosciuto, in tedesco gli disse: “Ma noi siamo stati liberati dal campo di concentramento di Bolzano, non esistono più i tedeschi né a Bolzano né a Merano, in nessun posto, voi cosa fate ancora qui?”. Questo ci guardò sconsolato e fece alzare le sbarre; di là c’erano gli svizzeri che ci chiamavano. Naturalmente gli svizzerotti, da bravi svizzerotti, siccome Edgardo Sogno si mise subito in contatto con il comando inglese a Berna, ci risparmiarono la quarantena. Però ci fecero salire su camion militari svizzeri, scortati, senza mai scendere, tutto il Parco Nazionale svizzero in braghette di tela, un freddo boia.

Rientrammo in Italia attraverso la Valtellina, dico bene? Non mi ricordo più.

Lì c’erano al confine altri che avevano saputo nel frattempo e che ci raccoglievano, ci portavano a Milano. Vi dico una cosa che ci tengo a dire.

Io andai nella casa del giornalista Angiolillo, amico di Montanelli, assieme con la moglie. Siamo stati invitati al pomeriggio alle 7 ad un ricevimento a Milano.

Dunque, voglio che capiate cosa voglio dire. Eravamo rientrati da un campo di concentramento, a Milano si davano già i ricevimenti, e noi siamo stati invitati al ricevimento.

Todros Alberto

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Alberto Todros, nato a Pantelleria il 21.7.1920.

D: Quando?

R: 21.7.1920.

D: Alberto, i motivi dell’arresto, del vostro arresto.

R: Per individuare i motivi dell’arresto devo fare una premessa. Io sono figlio di un matrimonio misto tra un ebreo e una cattolica. Cattolica mia madre, ebreo mio padre. Durante la Prima Guerra Mondiale mio padre era di stanza a Pantelleria, ha conosciuto mia madre e si è sposato appena finita la guerra nel 1918, fine del ’18, inizio del ’19. Ha portato mia madre a Torino, per cui io sono nato a Pantelleria perché come tutti i siciliani, come tutte le donne siciliane, quando devono partorire, vanno presso i genitori a Pantelleria. Infatti anche mio fratello Carlo è nato a Pantelleria. Trasferiti a Torino, nel ’25 ho perso il padre, per cui ho vissuto con la madre, sostenuto dai nonni paterni. La vita è stata una vita di stenti, difficile, perché senza padre a Torino non era facile vivere. Però ho potuto fare gli studi fino all’università, quando ad un certo momento nel 1938 durante il fascismo sono state promulgate le leggi razziali. Qui c’è la prima origine del mio interessamento alla politica, in quanto essendo figlio di matrimonio misto, non battezzato perché i miei genitori avevano deciso che ci saremmo battezzati, avremmo fatto la scelta religiosa alla maggiore età, non battezzato, sono stato dalle leggi razziali dichiarato di razza ebraica. Perciò espulso da tutte le scuole pubbliche. Per poter continuare ho dovuto iscrivermi all’Istituto San Giuseppe dei Fratelli delle Scuole Cristiane a Torino, perché era ammessa, essendo mia madre cattolica, la possibilità di continuare gli studi nelle scuole private. Ho fatto il liceo scientifico e appena finito il liceo scientifico le leggi razziali erano già state promulgate, non avrei potuto iscrivermi all’università. Qui c’è un episodio importante della mia vita: essendo intenzionato a continuare poiché essendo dichiarato di razza ebraica col liceo scientifico non avrei potuto fare nulla come occupazione, mi sono recato al Politecnico dove ho incontrato il direttore amministrativo, che si chiamava Martini, al quale ho chiesto, essendo figlio di matrimonio misto, battezzato, perché mia madre mi aveva poi fatto battezzare, di iscrivermi al Politecnico, anche se dichiarato di razza ebraica. Naturalmente tralascio tutte le vicende, sono state vicende lunghe che mi hanno portato ad un colloquio col Preside del Politecnico, dopodiché hanno accettato che io mi iscrivessi al Politecnico prendendomi la responsabilità di dichiararmi di razza ariana. Mi sono iscritto al Politecnico e ho fatto il primo biennio. Però da quel momento la mia attività si è svolta contro il fascismo che mi aveva così emarginato, creato mille problemi, dichiarato di razza ebraica anche se io mio padre lo avevo conosciuto fino a cinque anni, cioè per pochissimo tempo. Quando il Politecnico è stato bombardato io mi sono trasferito con la famiglia ad Imperia, ad Imperia Porto Maurizio dove ho continuato a fare dei viaggi di studio ad Acqui dove era stato trasferito il Politecnico. Viaggi che sono stati interrotti, perché durante un viaggio, io ero all’età della leva, però essendo dichiarato di razza ebraica ero stato escluso dal servizio militare, di conseguenza mi trovavo senza documenti militari e con la mia età… una pattuglia ha rastrellato il treno. Io ho capito che se mi prendevano mi avrebbero arrestato, mi sono gettato giù dal treno e non sono più andato ad Acqui per evitare inconvenienti di questo tipo. Però a Porto Maurizio proprio per la mia origine e le vicende che avevano tratteggiato la mia vita mi sono gettato nella politica con un primo contatto con un gruppo di giovani antifascisti, coi quali facevamo delle riunioni clandestine, divulgavamo la stampa clandestina di quel tempo e discutevamo sul da farsi per lottare contro il fascismo. Fino a che è venuto l’8 settembre.

D: Scusa Alberto, con te c’era anche tuo fratello?

R: Mio fratello è venuto dopo. Nel primo periodo delle riunioni con questi giovani antifascisti c’era un giovane comunista, c’era un liberale, c’era un giovane del Partito d’Azione, c’erano diverse componenti dell’antifascismo giovanile di allora. E’ intervenuto l’8 settembre, avevamo avuto notizie che i tedeschi si avvicinavano ad Imperia, occupavano la Liguria. Da allora per evitare che le armi che esistevano ad Imperia cadessero in mano ai tedeschi la prima cosa che abbiamo fatto con questo gruppo di giovani, siamo andati sul molo d’Imperia. Ad Imperia c’è un lungo molo che penetra nel mare per circa settecento metri. Abbiamo buttato in mare tutti gli otturatori dei cannoni antisbarco. Poi siamo andati alla capitaneria del porto dove abbiamo gettato in mare delle casse di munizioni, pistole, mitra, tutto quello che abbiamo trovato. Poi ci siamo recati alla caserma della quarantunesima fanteria tra Porto Maurizio e Oneglia, abbandonata dall’esercito perché l’8 settembre l’esercito si è sciolto, sono scappati tutti. Abbiamo incominciato, ed è qui che è entrato mio fratello, con alcuni giovani raccolti a Imperia abbiamo iniziato a trasferire le armi che abbiamo trovato in un rudere nella collina antistante la caserma della quarantunesima fanteria. Durante uno di questi viaggi un compagno di scuola mi ha visto da lontano, dalla collina di fronte e questo fatto si è poi tradotto nel motivo fondamentale del mio arresto, perché ad un certo momento verso le 18.00 dell’8 settembre abbiamo avuto notizia che i tedeschi erano arrivati ad Imperia. Per cui la prima cosa che si pensava facessero era di recarsi nella caserma per vedere cosa era successo. Abbiamo abbandonato il trasferimento delle armi e ci siamo recati nelle nostre abitazioni. Questo compagno di scuola appena i tedeschi hanno preso possesso della città e ristabilito le cariche fasciste e tutto l’apparato fascista che si era dileguato all’8 settembre, appena stabilito questo rapporto ha fatto una denuncia. Questa denuncia è andata in prefettura, il prefetto, che era ancora il prefetto del periodo badogliano, ha ordinato immediatamente l’arresto. Di conseguenza la milizia volontaria ha fatto il primo arresto. Io in quel periodo per poter vivere facevo il supplente in una scuola magistrale superiore di un comune vicino a Imperia dove la scuola dopo i bombardamenti si era trasferita, Ponte Dassio. Mentre sto facendo lezione arriva il commesso e mi invita a recarmi in presidenza. Mi reco in presidenza e in presidenza trovo i poliziotti della questura di Imperia che mi dicono che devo recarmi con loro dal questore per un interrogatorio. Mi portano sotto, mi caricano su una macchina, vanno ad Imperia. Quando arrivano a Oneglia, anziché proseguire per la questura, mi scaricano al carcere di Imperia. E lì è il primo arresto.

D: Quando è avvenuto questo?

R: Questo è avvenuto ai primi di ottobre del ’43. Ai primi di ottobre del ’43 mi portano nel carcere a Imperia dove trovo tutto il gruppo che aveva con me fatto il trasferimento di armi dalla caserma della quarantunesima fanteria alla collina di Imperia. Rimaniamo ad Imperia in carcere, ritrovo mio fratello, sono nella stessa cella con mio fratello. Il capo del carcere, un certo Cangemi, era un antifascista. Di conseguenza ci ha molto aiutato per i rapporti con la famiglia. Potendo avere rapporti con la madre io mi sono ricordato che il figlio del prefetto era un mio carissimo amico. Allora io invito mia madre ad andare a parlare al figlio del prefetto, il quale parla al padre e il padre che cosa fa? Stabilisce che ci può rilasciare considerando i fatti che abbiamo compiuto come una ragazzata. Io ero il più vecchio, avevo ventitré anni, gli altri erano tutti più giovani di me. Per cui dopo quindici giorni di carcere ci mettono fuori. Io riprendo a fare lezioni all’Istituto Magistrale Superiore di Fisica e Matematica quando un giorno il verbale del prefetto va in mano alla Gestapo, la quale non crede che quanto asserito dal prefetto sia un fatto da lasciare non colpito e ordina l’arresto di tutti i sette ragazzi che avevano fatto l’azione l’8 settembre. Per cui ad un certo momento i carabinieri, invitati dalla Gestapo, si recano nelle case di tutti i sette ragazzi e non trovano nessuno, perché erano tutti fuori casa e li invitano a recarsi dai carabinieri. Loro discutono se recarsi dai carabinieri o no, poi ad un certo momento, dato che tra i sette c’era il figlio di un comandante della Milizia, Gazzano, il quale dice: “Se ci fosse stato qualcosa di particolare mio padre sarebbe stato avvisato”, decidono di presentarsi. Si presentano tutti e sei dai carabinieri, i quali li arrestano, li ammanettano, li legano alla catena tre e tre e li portano da Porto Maurizio di nuovo al carcere di Imperia. Io non c’ero perché ero a lezione di matematica a Ponte Dassio. Quando torno da Ponte Dassio e passo davanti al municipio d’Imperia li vedo tutti e sei arrestati coi carabinieri che vanno verso il carcere. Vado a casa, mia madre disperata dice: “Hanno arrestato di nuovo tuo fratello, scappa almeno tu”. Io vengo preso da un tormento: scappare o non scappare? Poi a un certo momento, dato che ero il più anziano e responsabile dell’azione, ho deciso di presentarmi ai carabinieri. Di fatti ho preso un pacchetto con la biancheria, mi sono presentato alle tre ai carabinieri, i quali, meravigliati, mi hanno preso e mi hanno portato in carcere.

D: Questo quando?

R: Questo sempre nel novembre del ’43. In carcere ad un certo momento è arrivato l’ordine di passaggio alla Gestapo di Savona. Allora ci hanno preso dalle celle, tutti e sette ci hanno caricati su un furgoncino e ci hanno portato a Savona. A Savona nella piazza della stazione c’era un albergo occupato dalla Gestapo. Ci hanno consegnato alla Gestapo, la quale ci ha trasferito al carcere di Savona. Il carcere di Savona era un carcere vecchissimo, terribile, senza i confort normali di un carcere, per cui noi siamo stati scaraventati in una cella con dei delinquenti comuni, con dei ladri, con dei prigionieri comuni. Siamo stati lì alcuni giorni, fino a quando verso la fine di novembre un giorno ci hanno fatti uscire dalle celle insieme ad altri, ci hanno portato nel cortile. Nel cortile c’era un furgoncino, ci hanno caricato su quel furgoncino e ci hanno portato a Marassi di Genova sotto la SS. A Marassi di Genova siamo entrati in questo carcere che era terribile, perché non si usciva a prendere aria, si mangiava una volta al giorno, una fetta di pane e un cucchiaio di zuppa, non si poteva stare seduti sul letto, la sentinella controllava dallo spioncino in continuazione. Bisognava stare in piedi, tutte le mattine c’era l’ispezione del comandante del carcere della SS che ci faceva mettere in perfetto ordine d’altezza, controllava se i letti erano fatti alla perfezione. Se non erano fatti alla perfezione succedevano dei pasticci. Di conseguenze è stato un periodo dove sia per la mancanza di aria che per il vitto scarso siamo tutti quanti deperiti abbastanza. Per cui quando nel febbraio del ’44 è arrivato l’ordine di trasferimento a Fossoli di Carpi eravamo tutti già abbastanza provati, deperiti e provati per il carcere che avevamo subito. Ci hanno caricati su un carro merci e coi binari che erano davanti al carcere ci hanno portato alla stazione. Lì un fatto particolare: mentre formavano il treno che sarebbe andato a Fossoli, davanti al treno che si stava formando è passato un treno della Genova Ventimiglia sul quale c’erano dei conoscenti di Imperia. Quando mi hanno visto, io ho detto: “Voi dove andate?”. Loro hanno detto: “A Imperia” dal finestrino, “Tu chi sei?”. Ho detto il mio nome, mi ha detto: “Non ti riconoscevo più” tanto ero deperito. Allora ho potuto attraverso di loro mandare notizie a mia madre. Siamo partiti, siamo arrivati a Fossoli e a Fossoli la scena che si è manifestata all’entrata nel campo è stata una scena terribile, perché si passava per arrivare al campo politico davanti alle baracche dove c’erano gli ebrei, dove c’erano bambini che giocavano all’esterno. Era quasi sera. Giocavano all’esterno delle baracche dove c’erano dei vecchi. C’era una popolazione di ebrei che aspettava di essere trasferita al campo di concentramento. Siamo entrati nella baracca numero 10 di Fossoli e a Fossoli si è sparsa una prima voce che saremmo stati liberati se aderivamo alla Repubblica Sociale. Dato che la baracca non era ancora organizzata, mancavano i castelli, mancavano i materassi, mancava tutto quanto necessario per poter vivere, durante la notte abbiamo discusso cosa fare. Una parte ha optato per presentarsi per poi scappare e andare in montagna, una parte ha deciso di non presentarsi e io e uno dei due fratelli Serra, perché con noi c’erano altri due fratelli, abbiamo deciso di non accettare. Ma la cosa non era vera, infatti alla mattina non se n’è nemmeno più parlato. La nostra vita a Fossoli è stata una vita abbastanza interessante, perché eravamo all’aperto, si lavorava in lavori molto leggeri, ricevevamo i pacchi dalla madre, che intanto si era trasferita a Carpi, ci mandava tutti i giorni il pacco dei viveri, si poteva discutere. E’ lì che io ho avuto i primi incontri politici con alcuni comunisti e socialisti, che facevano durante le ore di riposo le scuole di partito ai giovani. La vita è andata avanti fino a giugno del ’44, quando una mattina si è sparsa la voce che il giorno dopo ci sarebbe stato un trasporto per la Germania.

D : Scusa, Alberto, a Fossoli ti hanno immatricolato?

R : Sì, mi hanno immatricolato. Io avevo una delle prime matricole, adesso non mi ricordo nemmeno più il numero, mi sembra il 10, perché il campo politico è stato costituito con il nostro gruppo. Poi sono arrivati da Genova, da Milano, da Torino, sono arrivati altri prigionieri e siamo diventati un gruppo numeroso. Tralascio tutti i tentativi di fuga fatti, perché sono scritti in un libro di memorie che io ho compilato. Fino a che, arrivata la notizia, una mattina si è presentato il maresciallo delle SS, ha incominciato a chiamare un certo numero di persone e man mano che li chiamava si allineavano da una parte. Dopodiché sono arrivati dei pullman, ci hanno caricato sui pullman e portati alla stazione di Carpi. Durante l’andata alla stazione si doveva compiere un tentativo di fuga che non si è compiuto, però è descritto in un libro che Bonfantini, uno dei prigionieri che era con noi, ha scritto, “Il salto nel buio”, dopo il ritorno. Siamo arrivati alla stazione di Carpi, ci hanno caricato su questi carri bestiame, cinquanta, sessanta per carro. Era giugno, faceva caldo. Mia madre intanto, che aveva ottenuto a Verona dalle SS il permesso per venirci a trovare a Fossoli al campo di concentramento, quando è arrivata le hanno detto che noi stavamo partendo per la Germania. E’ venuta alla stazione, tramite l’aiuto della popolazione di Carpi, che è una popolazione meravigliosa, che ha fatto delle cose meravigliose per l’antifascismo, ha raccolto dei viveri, dei vestiti ed è venuta alla stazione. Ha cercato di avvicinarsi al treno, inizialmente le SS non l’hanno lasciata venire, poi resistendo e scavalcando un muretto si è avvicinata al vagone, ci ha consegnato questi viveri e questi abiti. Il treno ad un certo momento hanno chiuso i vagoni ed è partito. Tra l’altro, alla partenza ci hanno detto che durante il viaggio per ogni prigioniero che sarebbe scappato, all’arrivo dieci sarebbero stati fucilati. Ad un certo momento con noi nel vagone c’era un anarchico di Genova che era un uomo coraggiosissimo, che era già scappato due volte dalla SS, il quale alla partenza, mentre noi abbiamo ricevuto i bagagli dalla famiglia, lui ha consegnato alla moglie tutti i suoi bagagli, ha detto: “Ci vediamo in tal posto, perché io scappo”. Infatti appena chiuso il vagone ha incominciato a tentare di tagliare il fondo del treno, perché gli addetti alla stazione di Carpi ci avevano consegnato un fiasco di vino con dentro un fascio di lime per il ferro e poi una mezza forma di formaggio, ci avevano dato un mucchio di cose. Per cui questo qui con le lime che aveva trovato nella valigia ha incominciato a segare il fondo del treno. Però era giorno, non si poteva scappare in quel modo, perché la SS occupava un intero vagone e controllava tutti gli altri vagoni. Per cui ci siamo messi d’accordo a una certa ora, appena veniva buio, di tagliare il filo spinato che c’era sul finestrino del vagone, calarsi giù uno alla volta. Lui si è proposto di essere il primo, con l’impegno di attaccarsi alle sbarre di apertura del vagone e aprire la porta del vagone. Infatti questo qui ad una certa ora, appena si è fatto buio, io ero sotto il finestrino, l’ho aiutato a salire, è uscito dal vagone, sì è trasferito davanti alla porta e ha aperto la porta del treno. Appena aperta la porta, io l’ho tirata, tre o quattro sono saltati giù, io ho chiamato mio fratello. Mio fratello, faceva molto caldo, eravamo tanti nel vagone, si era addormentato, per cui si è svegliato. Nel momento in cui arriva fino alla porta del vagone, il treno si ferma a Rovereto, per cui non siamo potuti scappare. Dopo la partenza abbiamo tentato di rifare lo stesso gioco altre volte, ma non ci siamo più riusciti, perché gli altri prigionieri si sono opposti dicendo: “Una volta possiamo dire che l’hanno aperta dall’esterno, lo facciamo due volte ed è la fine di tutti”. Per cui siamo arrivati a Mauthausen. L’arrivo a Mauthausen è una cosa allucinante: di notte, con questi SS coi cani, con le grida, i colpi col calcio del moschetto, del fucile se non facevamo presto. Siamo scesi dai vagoni, ci siamo incolonnati e abbiamo iniziato la salita verso Mauthausen, perché Mauthausen è in cima a una collina e ci sono parecchi chilometri per poter salire. Io e mio fratello avevamo i bagagli che ci aveva dato la madre. Durante la salita non ce la facevo a portarli su e lui continuava a dire: “Resisti, resisti che questi saranno la nostra salvezza”. Ad un certo momento con molta fatica resistendo a lasciare i bagagli vediamo nel cielo una luce che man mano ci avviciniamo aumenta. Sembrava un incendio. Invece, era l’illuminazione del campo. Quando arriviamo davanti al campo si aprono le porte del campo e noi entriamo dentro questo campo di concentramento che aveva un grosso piazzale, a destra c’erano la lavanderia, la cucina, l’ospedale e a sinistra tutte le baracche. Entriamo e ci mettono tra il muraglione, sembrava una fortezza con dei muraglioni alti tre metri con sopra il filo spinato con l’alta tensione. Ci mettono tra la baracca della lavanderia e il muro per la notte, perché siamo arrivati a sera tarda. Tra l’altro, pur essendo in giugno faceva freddo. Vediamo delle ombre che si avvicinano, che sono come dei fantasmi, perché hanno la testa rapata con una striscia in mezzo alla testa, poi hanno dei vestiti con tanti tasselli di colore diverso, un numero. Sono prigionieri del campo che si avvicinavano e ci dicono: “Domani vi porteranno via tutto, perciò date a noi i valori che avete e noi, quando ritornate nel campo, ve li restituiamo, oppure date a noi i valori che vi diamo una bottiglia d’acqua” perché eravamo tutti assetati dopo un giorno e una notte passati nel vagone, eravamo tutti assetati. Allora molti accettano, lì succede una scena che a raccontarla sembra ridicola, che tutti cercano di mangiare tutto quello che possono. Appena sanno che gli portano via tutto, mangiano lo zucchero, mangiano quello che possono. Alla mattina arriva la SS, ci fa spogliare completamente, si ritira da una parte i documenti, i gioielli, i soldi, tutto quello che abbiamo. Mette i vestiti su un mucchio di vestiti e poi, mano a mano che siamo spogliati, ci manda sotto la lavanderia, c’erano le docce.

Ci manda sotto le docce dove nella prima camera c’erano degli altri prigionieri che con un rasoio senza sapone, senza niente ci depilano completamente, sia i peli del pube che le ascelle, i capelli. Ci depilano completamente e poi ci mandano in un secondo salone dove ci sono le docce. Uno alla volta veniamo messi tutti lì dopo essere stati classificati, catalogati, prima di entrare …. Quando siamo tutti dentro questa grande doccia esce l’acqua, ci fanno la doccia, naturalmente doccia senza sapone, senza niente. Poi usciamo dall’altra porta e ci sono due mucchi di vestiti, mutande e camicia. Si passa davanti ad un mucchio, ci danno una camicia, dall’altro le mutande e poi fuori. Naturalmente non essendo scelte c’era il magro che aveva le mutande grandi, il grasso che aveva le mutande piccole, tra noi facciamo dei cambi per avere il minimo della possibilità di vestirci con questi. Poi ci mettono in fila e ci portano nei blocchi di quarantena. La quarantena era un periodo che si passava in un blocco tra una baracca e l’altra, era il periodo più terribile del campo dove avveniva la prima eliminazione. Tutti i deboli che non resistevano venivano subito mandati all’ospedale ed eliminati. In questa quarantena io ero al blocco 17, erano quattro blocchi di quarantena, 15, 16, 17, 18, poi c’erano due blocchi, 19 e 20, che erano i blocchi della morte. Pur essendo all’interno del campo avevano una seconda cinta che li ricingeva e lì dentro venivano mandati i condannati a morte, erano trattati…tra poco lo descriverò quando tratterò della fuga che hanno tentato. In quarantena la vita era terribile perché si stava in piedi tra i due blocchi, senza scarpe, con camicia e mutande. Questo avveniva per noi fortunatamente a giugno, ma per gli altri anche a gennaio. Si stava lì in mezzo, sempre in piedi, non si beveva, non si poteva far niente se non chiacchierare tra noi, non ci si poteva sedere per terra perché il capo della baracca subito arrivava col manganello di gomma e ci dava delle bastonate. Ad un certo momento alla mattina ci mettevamo in fila e facevamo la ginnastica col cappello: “Mutzen ab, Mutzen auf”, cioè su e giù il cappello. Poi arrivava l’orzo, il mestolo di orzo che ci davano. Tra l’altro avevamo poche gamelle, per cui ce la passavamo uno con l’altro. Poi rimanevamo lì, a mezzogiorno ci davano un mestolo di zuppa di rape che era terribile, i primi giorni non si riusciva a mangiare, poi la fame faceva mangiare anche quella zuppa. Dopo si passava al pomeriggio, alla sera davano una fetta di pane e un cucchiaio di margarina. Poi ci facevano mettere, questa è la cosa più allucinante, in fila e ci portavano dentro il baraccone dove c’era il camerone per dormire. C’erano dei materassi di paglia per terra. Ci portavano a due per volta e ci mettevano uno con la testa e uno coi piedi, come le acciughe, uno con la testa e uno coi piedi. Finita la prima fila c’era un piccolo corridoio in mezzo, seconda fila, un altro corridoio, terza fila. Naturalmente quando non ci stavamo tutti, perché eravamo molti, veniva il comandante con questo bastone di gomma a picchiare per farci stringere, stringere e far entrare quelli che erano rimasti fuori. Naturalmente si passava lì la notte senza poter dormire, perché io cercavo di avere sulla faccia i piedi del fratello o dell’amico e di conseguenza era meno… Tra l’altro i piedi scalzi dopo essere stati tutto il giorno nel cortile fangoso. Alla mattina ci si alzava, ci si doveva lavare nel Wascheraum, che era una vasca con tanti zampilli dove ci si lavava alla bell’e meglio. Poi si tornava fuori, si stava così quaranta giorni. Al quarantesimo giorno o trent’otto, trentasette secondo i bisogni veniva il trasferimento al comando di lavoro. Allora veniva la SS con un elenco, chiamavano un certo numero di nomi e questi che venivano chiamati venivano inquadrati a parte, poi uscivano dalla quarantena, li vestivano con la giubba di tela e i pantaloni di tela e gli zoccoli e andavano nel comando cui erano destinati, perché erano destinati ai vari comandi di lavoro attorno a Mauthausen, nelle officine, in vari luoghi dove c’era il lavoro forzato. Io non vengo chiamato, mentre mio fratello viene chiamato. Io non sono stato chiamato perché arrivando a Mauthausen ho detto che ero studente d’ingegneria e sul mio cartellino hanno scritto “Bauteckniker”, tecnico in costruzioni, perché ero studente di ingegneria civile edile. Tecnico in costruzione, perciò come specialista non vengo chiamato. Qui era un comando di manovali, di fatti sono stati portati a Melk e la metà è morta subito, dopo i primi mesi. Non vengo chiamato, non mi ero mai diviso dal fratello. Vado dal segretario del Baukomando e chiedo di non dividermi dal fratello, di mandare anche me in questo comando. Lui prende il mio cartellino e dice: “No, tu non puoi perché sei tecnico specializzato, devi rimanere qua”. “Allora lasci mio fratello qua”. Quello dice: “Non posso, non posso”. Poi con la mia insistenza cosa fa? Prende mio fratello, lo toglie dal comando, lo rimette in quarantena e mette al suo posto un altro prigioniero. Il giorno dopo io vengo chiamato al Baukomando e mio fratello invece rimane in quarantena. Vengo chiamato al Baukomando che era il comando costruzioni. Tutte le mattine alle 7.30, alle 8.00, secondo la stagione alle 8.30 venivamo inquadrati nella piazza d’appello e portati fuori a fare dei lavori edili, strade, baracche, a fare dei lavori, muretti di recinzione, a fare dei lavori. Io vengo destinato al gruppo degli scaricatori. Ad un certo momento arrivavano camion pieni di ghiaia, cemento, sabbia, materiali edili. Io dovevo tutto il giorno scaricare questi materiali e portarli nel deposito.

D: Scusa una cosa, Alberto. Quando vi hanno immatricolati a Mauthausen?

R: Appena arrivati.

D: Ti ricordi il tuo numero?

R: 77.604. Era molto importante perché da quel momento la nostra identità è scomparsa e siamo diventati dei numeri. Faccio questo lavoro con la preoccupazione, tornando in campo tutte le sere, di non trovare più mio fratello. Faccio questo lavoro per quindici giorni, è un lavoro faticoso, sento che non ce la faccio più. Combinazione, il segretario di questo comando era un delinquente comune, un ergastolano viennese, il quale quando ero arrivato aveva sentito che io ero italiano, lui amava molto Venezia, Roma, Firenze, per cui si ricorda di me e mi manda a chiamare dal luogo dove scaricavo i camion. Mi mette un registro davanti di pagine bianche e mi chiede se sono capace di fare le linee nei fogli tutti uguali, dato che sono studente di ingegneria dovrei essere capace. Mi mette alla prova. Naturalmente io lo faccio, lo faccio molto bene perché erano fogli a quadretti, per cui era facile col righello fare tutte queste righe. Lui contento dice: “Va bene, allora rimani qui a lavorare con me”. Mi mette a lavorare in una baracca al caldo. Questo qui era uno dei primi arrivati a Mauthausen, un Kapò, mangiava ogni ben di Dio perché facevano il traffico con l’esterno, con i gioielli dei deportati. Mi faceva sedere vicino, ogni tanto si faceva delle grosse pastasciutte. Tra l’altro essendo viennese faceva con lo zucchero e il cioccolato. Quando rimaneva un po’ me lo passava. Era il dolce più prelibato che ho mai mangiato nella mia vita. Dopo una settimana di questo lavoro al chiuso, al caldo, al coperto mi dice: “Ma come mai sei qui tranquillo e sei sempre lì preoccupato, silenzioso?”. Gli dico: “Io ho mio fratello in quarantena, tutte le sere che vado su ho paura di non trovarlo più”. Mio fratello in quarantena quando andavo a trovarlo alla sera, perché alla sera dopo il lavoro, dopo aver mangiato avevamo mezz’ora e potevamo girare nel campo, andavo verso la quarantena e alla quarantena lo trovavo e diceva: “Hai fatto male a togliermi”. Adesso era con dei russi, con tutti altri… “Io non capisco nessuno, non conosco nessuno, almeno andavo con gli amici. Se mi mandano a lavorare non so come farò a resistere senza conoscere nessuno”. Allora lui mi dice: “Perché non me l’hai detto prima?”. “Io non gliel’ho detto, Lei è già così gentile con me, non volevo…”. Allora alla sera arrivo, questo era un uomo potentissimo perché il comando all’interno, l’organizzazione era in mano a questi Kapò. Alla sera ritorno, trovo mio fratello trasferito nello stesso mio blocco e nello stesso mio comando.

D: Che era il blocco del campo libero numero?

R: Dieci, numero dieci.

D: C’era anche Don Gaggero?

R: C’era anche Don Gaggero, è stato un elemento favoloso. E così alla mattina dormiamo nello stesso letto in ottanta centimetri io e lui, siamo di nuovo assieme, viene a lavorare e a prendere il mio lavoro a Mauthausen, il lavoro da scaricatore. Io continuo a scrivere, a fare il segretario. Insomma, fatto sta che, per farla breve, la mia vita a Mauthausen è stata una vita fortunata, perché tolto questo mese di quarantena, tolti i quindici giorni passati a fare lo scaricatore, ho trovato un lavoro stabile, seduto, mangiavo qualche cosa di più, stavo al caldo rispetto agli altri che invece hanno passato dei momenti terribili. Con la mia posizione ho potuto vedere dei fatti terribili, per esempio l’uccisione dei sabotatori di Vienna. Erano trentasei operai di Vienna che sono stati arrestati per sabotaggio e mandati nella scala della morte. A Mauthausen c’era una scalinata che andava alla cava di pietra di 186, 187 gradini. A questa scala lavorava la compagnia di punizione, caricavano dei grossi massi sulla schiena e li facevano portare su per i 186 gradini tutto il giorno, fin quando non ce la facevano più e li eliminavano. Questi operai viennesi sono stati mandati in questa compagnia, hanno cominciato a caricare delle pietre molto pesanti e andare e venire. Man mano che cadevano li ammazzavano. Io ho visto, perché lavoravo vicino, ho visto cadere uno per uno tutti questi deportati, ammazzati. La cosa strana che mi sono sempre chiesto è come mai quando hanno visto il primo, il secondo, il ventesimo, il trentesimo non si sono mai ribellati. L’istinto di conservazione è più forte della volontà di ogni uomo, per cui speravano sempre che la cosa finisse. Ho visto tanti altri episodi importanti, per esempio a un certo momento è arrivato a Mauthausen un gruppo di ebrei ungheresi trasferiti nella collina, perché nel campo non c’era più posto. Nella collina, di fronte alla camera dove io dormivo. In questa collina li hanno recintati, li hanno lasciati lì che morissero un po’ alla volta. Io alla sera arrivavo dal lavoro, c’era il mucchio di cadaveri di quelli che erano morti durante il giorno, tra i quali c’erano ancora molti vivi, perché si vedevano delle braccia e delle gambe che si muovevano. Poi veniva il carretto, li caricava e li portava nel forno crematorio. Li hanno ammazzati quasi tutti, donne, vecchi, bambini, tutti, fino a quando li hanno poi caricati su dei pullman. Noi l’abbiamo saputo, li hanno portati sul Danubio e hanno affondato la vecchia nave nella quale li hanno caricati.

D: Vicino a te, nel blocco 10, dormiva Hans, se non mi sbaglio.

R: Sì. Dunque, Hans è stato un deportato che mi ha aiutato molto. E’ stato un po’ la causa quasi della mia morte, perché in quarantena è arrivato davanti alla quarantena… Hans era un deportato di Bolzano che parlava benissimo il tedesco e che era stato messo in un comando importante, quello del pane. Lui una sera, saputo che erano arrivati degli italiani, è venuto davanti al blocco di quarantena, è il primo che mi ha spiegato che cosa era Mauthausen, quale inferno era Mauthausen. Poi prima di andare via mi ha dato una sigaretta. Naturalmente la sigaretta non si poteva fumare nel cortile, allora quando siamo entrati nel blocco, messi a dormire, abbiamo trovato un fiammifero e, quando il Kapò è uscito, abbiamo acceso la sigaretta. Poi io l’ho passata al mio vicino che era un comandante partigiano, Valentini. Valentini l’ha passata a Vecchi. Mentre passava la sigaretta a Vecchi è entrato il capo blocco, li ha visti e li ha presi tutti e due. Li ha portati nel Waschraum, noi abbiamo sentito gridare, sentito delle urla che non finivano più. Poi questo qui è entrato dentro e ha detto: ” Chi ha acceso la sigaretta venga fuori”. Io avevo acceso, questi erano vicino a me, non potevo che essere io ad aver acceso la sigaretta. Allora mi sono alzato, sono arrivato lì e ho trovato tutti e due insanguinati, svenuti per terra e quello ha cominciato a picchiare me. Mi ha picchiato, quando svenivo con un secchio d’acqua mi faceva rinvenire, poi ha detto: “Adesso vado a chiamare la SS”. Dato che al nostro arrivo a Mauthausen ci avevano letto il regolamento di Mauthausen, cioè chi veniva pescato a fumare veniva impiccato immediatamente alle travi del blocco, questo dice: “Vado a chiamare la SS”, c’era un segretario spagnolo, politico che dice: “Ragazzi, siete finiti perché se arriva la SS vi impicca tutti e tre”. Io parlavo tedesco perché avevo studiato al liceo scientifico tedesco, parlavo un po’ di tedesco. Allora gli dico: “Ma Lei è un fumatore, erano quattro mesi che non fumavamo in carcere, ecc. Abbiamo ricevuto una sigaretta, abbiamo sentito il bisogno di fumare. Lei dovrebbe capirlo”. Questo qui è uscito, dopo un quarto d’ora invece di tornare con la SS è tornato e ha detto: “A dormire”. Alla mattina ci ha chiamato fuori, ci ha detto chi voleva andare all’ospedale, perché eravamo tutti pieni di botte, di ferite, ecc. Ci avevano detto che andare all’ospedale era meglio non andare, perché lì si moriva. Abbiamo detto di no e abbiamo continuato la nostra vita. Quando siamo andati a lavorare e ci hanno messi al blocco 10, nel letto di fianco al mio c’era Hans, il quale si alzava alla mattina molto presto per andare al comando del pane. Dato che non aveva tempo di fare il letto, perché lì volevano il letto squadrato, fatto alla perfezione, abbiamo fatto un contratto. Dice: “Sentite, voi mi fate il letto quando vi alzate un’ora dopo, un’ora e mezzo dopo, io tutte le sere vi porto un pezzo di pane”. Abbiamo fatto il contratto e abbiamo mangiato il pezzo di pane tutte le sere che lui ci portava e abbiamo fatto il letto.

D: Alberto, scusa, il forno di panificazione era dentro nel campo di Mauthausen?

R: No, era fuori.

D: Ma fuori giù verso il villaggio?

R: Fuori, nelle baracche esterne dove c’erano gli uffici, la segreteria, dove c’erano le baracche della SS. Era fuori.

D: Il momento della Liberazione.

R: Il momento della Liberazione è stato una cosa meravigliosa e drammatica nello stesso tempo. Noi sette, otto giorni prima della Liberazione, che è avvenuta ufficialmente il 5 Maggio del ’45 naturalmente, prima della Liberazione un giorno ci comunicano che non andiamo più a lavorare. Allora noi abbiamo subito capito che stava finendo, perché avevamo le notizie che la guerra andava male, che gli alleati erano vicini. Però il comitato internazionale dei deportati nel campo ci ha informati che avrebbero tentato di farci fuori tutti, allora ha dato delle disposizioni per cui ciascun gruppo, ciascuna nazionalità doveva aggredire una parte della cinta per cercare di fuggire, qualora avessimo visto che facevano i preparativi per eliminarci tutti. Fatto sta che mentre noi facevamo questa organizzazione loro non hanno fatto in tempo a far niente. Una mattina hanno raccolto tutti i gioielli, i soldi, le cose che avevano, sono saliti, hanno preso i Kapò e sono scappati. Per cui ci hanno lasciati liberi. Alla Liberazione è successo il finimondo, perché di 40.000 persone che eravamo 30.000 stavano morendo di fame. Per cui organizzare il campo era difficilissimo. Di fatti il CLN ha armato delle squadre per ogni nazionalità e le squadre costringevano i deportati ad andare in cucina a far da mangiare, costringevano i deportati a tenere un minimo di pulizia. Facendo da mangiare, cos’è successo? Che cambiando il vitto è scoppiata un’epidemia di diarrea. Per cui morivano come le mosche. Il blocco era come un gabinetto, pieno, non facevano in tempo ad andare nel Washraum, tutti i letti…era una morte continua. Tanto che, questo è l’episodio più bello di Mauthausen, Don Gaggero, che era in una condizione terribile, aveva le gambe gonfie, magro, stava in piedi per miracolo, raccoglieva tutte le lettere, i dati dei moribondi e poi un giorno mi dice: “Alberto, io ero stato nominato segretario, non segretario politico, segretario burocratico del comando della baracca 10”. Mi dice: “Senti, io voglio andare a Mauthausen”. Prima mi dice: “Facciamo la sepoltura a tutti quelli che muoiono”. E abbiamo incominciato col primo a fare la sepoltura, ma morivano così tanti che non siamo riusciti a farlo. Poi mi dice: “Voglio andare a Mauthausen a prendere l’ostia e gli abiti per dire la messa al campo”. Parte, va a Mauthausen, dal prete di Mauthausen, si fa dare l’ostia, si veste da prete, ritorna al campo e dice la messa al campo di Mauthausen. Un episodio meraviglioso, perché l’abnegazione di Don Gaggero è stata una cosa indescrivibile.

Cussigh Ferdinando

L’intervista è stata resa in dialetto. La trascrizione è stata tradotta in italiano.

Sono stato arrestato a Udine.

D: Aspetta, ti chiami, scusa?

R: Cussigh Ferdinando.

D: Sei nato?

R: Nato il 14 settembre 1925.

D: Dove?

R: A Savigliano del Torre, Comune di Povoletto.

D: Sei stato arrestato quando, Nando?

R: Arrestato il 4 settembre 1944.

D: Dove e da chi?

R: A Udine dalla SS.

D: Perché ti hanno arrestato?

R: Perché mi hanno arrestato? Perché ero un po’ con lo zoppo.

D: Cioè eri un partigiano?

R: Sì, assieme a me c’era tanta gente, tanti amici. Di cinque sono rimasto solo io. Siamo stati in prigione a Villaco, a Villaco in prigione ci hanno portati.

D: Da Udine? Ti hanno arrestato a Udine?

R: Sì e portato a Villaco, nelle prigioni di Villaco. Dopo, un trasporto a Dachau.

D: Ma ti hanno interrogato?

R: Interrogato niente. Non sono mai stato interrogato, neanche a Dachau.

D: Il libro lo puoi lasciare stare adesso. Stai tranquillo. Allora, da Villaco?

R: Da Villaco a Dachau, trasporto su un treno.

D: Era un treno come?

R: Era un treno pieno di ebrei, parte di Zaga, Jugoslavia, pieno di ebrei era. Zeppo, insieme a noi.

D: Ma era un carro merci?

R: No, era chiuso. Un treno passeggeri no, sempre un carro merci. Eravamo slegati, era pieno di pacchi perché li avevano portati da mangiare gli ebrei, erano pieni di tutto loro. Dopo, invece, a Dachau ci hanno spogliati di tutto, anche dei vestiti. Via tutto.

D: Quanto è durato questo viaggio?

R: Questo poco, Villaco e Dachau erano a pochi chilometri.

D: Quando sei entrato a Dachau cos’è successo?

R: Entrati a Dachau ci hanno dato un numero, dopo il bagno, ci hanno levato tutti i vestiti. Dopo ci hanno dato dei vestiti alla rinfusa, che avevano loro, andavano bene, non andavano bene è uguale. Ci hanno fatto la doccia, ci hanno rasato la testa, hanno rasato anche il resto. Dopo ci hanno mandati fuori, ci hanno dato il numero.

D: Il tuo numero te lo ricordi?

R: No, quello di Buchenwald sì, 100.328, hunderttausend-dreihundertachtundzwanzig. L’altro invece in tedesco non lo so, neanche in italiano.

D: Quello di Dachau non te lo ricordi?

R: Aspetti che vediamo qua, c’è qua il numero. Guardo.

D: Allora, Ferdinando, sei arrivato a Dachau, lì ti hanno spogliato ecc., poi ti hanno mandato in blocco di quarantena?

R: In quarantena, sì.

D: Ti ricordi quale blocco?

R: Il blocco non me lo ricordo, ero in quarantena, proprio al margine, contro Monaco, si sentivano bene le sirene suonare per l’allarme. Sono stato circa trenta, quaranta giorni, proprio non lo so, bisogna vedere.

D: Dentro nel blocco?

R: No, no, in quarantena.

D: Non lavoravate lì?

R: No, no. Fermi. Dopo abbiamo fatto un altro trasporto. Erano tremendi i trasporti, perché si era chiusi, bombardamenti sempre. Ci hanno portati a Buchenwald. Altro controllo, altro bagno, cambiato il numero, cambiati i vestiti. Anche lì sono stato non in un blocco, in una grande tenda in fondo al campo, una tenda proprio grandissima. C’era fango, c’era freddo. Ho conosciuto i fratelli Villa, padre e figlio. Il padre dopo è morto a Mauthausen, invece il figlio è vivo ancora. Dopo un altro trasporto ancora, fino ad Alberstadt.

D: Ma lì a Buchenwald quanto tempo sei rimasto più o meno?

R: Poco in quei campi, Dachau e Buchenwald, poco tempo. Dopo sono stato più ad Alberstadt, che allora era una fabbrica di apparecchi. Ci hanno messi ad aiutare i Meister, si fabbricavano ali degli Junker.

D: Lì c’era un campo?

R: Sì, era un campo chiuso, vicino alla fabbrica. Era il migliore, si è potuto stare bene proprio, abbastanza. Si mangiava abbastanza, non era male lì. Dopo, invece, ci hanno trasferito di notte.

D: Ma in questo campo dove costruivi gli apparecchi c’erano anche dei civili con te?

R: Civili? Un civile e un deportato, faceva l’aiuto lui come me.

D: Ti ricordi se la fabbrica aveva un nome?

R: Sì, Junker, la Junker.

D: Lì sei rimasto quanto tempo?

R: Lì sono rimasto sicuramente tre mesi, ma lì si stava, si poteva… Dopo ci hanno trasferiti a Langestein, lì invece era dura. Non tanto dura per me, perché io ero dentro nelle gallerie a montare il macchinario, perché doveva servire per fare pezzi di ricambio per Dora. Invece quelli esterni come il dottor Burelli, Berti erano a lavorare, a spingere vagoni, vagonetti per estrarre materiale. Quelli stavano molto peggio.

D: Il campo lì a Langenstein era fuori dalle gallerie, ma vicino alle gallerie?

R: No, no. Il campo era nel bosco. Per andare nelle gallerie c’erano sicuramente due chilometri. Alle sei alla mattina, senza vestiti, senza niente e camminare. Andata e ritorno. Alle sei si partiva, si ritornava alle… Dodici ore ci toccava fare dentro lì.

D: Le gallerie lì erano grandi?

R: Erano dietro a costruirle, sì, adesso non lo sono più, adesso la DDR le ha fatte più grandi. Le ha viste Lei?

D: No.

R: Adesso è lusso, ma quella volta erano piccole ancora, dove lavoravamo noi erano abbastanza grandi per mettere i macchinari, per montare i macchinari, ma era ancora da finire tutto.

D: Lì sei rimasto quanto tempo a Langenstein?

R: Fino a quando è avvenuta la marcia della morte.

D: Che è avvenuta quando, te lo ricordi?

R: E’ avvenuto… Anche quello è scritto. Nel mese di maggio, il 2 maggio mi pare. E’ finito abbastanza male.

D: Parlaci un po’ di Langestein, com’era organizzato questo campo?

R: Il campo di Langestein era organizzato, quello nel bosco era tutto dei deportati che facevano le gallerie, noi eravamo sull’orlo della strada chiusi, separati dagli altri.

D: Ma eravate anche voi deportati?

R: Uguale a loro. Solo che c’era un lavoro più leggero. C’era … di Trieste assieme a me, dopo c’era Primas Mario, anche quello era di Capo d’Istria, dopo c’erano molti russi, Ebrei mai visti, non li ho mai visti. Dopo c’erano tedeschi anche, c’erano i Kapò che erano tremendi. Entrando nelle gallerie, sempre botte. Dopo il pane lo rimpicciolivano ogni giorni di più. Trovando allora la colonna che entrava e che usciva si chiedeva: “A quanti pezzi danno il pane?”. “….” rispondevano i russi, avevo imparato anche il russo un poco io.

D: Quindi la pagnotta di pane veniva divisa?

R: Sempre, dopo ultimamente non era niente quasi, davano pezzettini così.

D: Ascolta, il campo dei deportati che lavorava nelle gallerie era nel bosco?

R: A parte, sì.

D: Erano nel bosco? Mentre voi eravate di fronte alle gallerie?

R: Di fronte, ma sempre nel bosco quasi, perché non passava mai nessuno lì.

D: Ma sempre con le SS attorno?

R: Sempre con le SS, sempre…

D: E anche voi nelle baracche?

R: Baracche nuove noi avevamo, perché eravamo appena arrivati.

D: Sempre attrezzate con i letti a castello le baracche?

R: Sì, tre o quattro posti. Uno sopra l’altro.

D: Voi facevate i turni?

R: Turni niente, di giorno facevamo noi, non so dopo durante la notte se facevano. Mi pare di no, mi sembra i turni solo quelli che erano nel campo grande, quelli sì facevano il turno.

D: Quelli adibiti allo scavo?

R: Non ci si incontrava mai con quelli, solo per la strada oppure si chiedeva il pane, dopo non sapevo se lavoravano come meccanici o a scavare le gallerie. Non si poteva vedere, guardare dove si voleva. Lì mi è morto il mio amico, Primas Mario, nel mese di febbraio. Era di Cassaco, vicino al mio paese.

D: Come mai è morto?

R: No Primas Mario, Conbelli Luca, ho sbagliato. Si può ritornare indietro?

D: Non preoccuparti.

R: Conbelli Luca era di Cassaco, è morto perché allora aveva messo un po’ di carta perché aveva freddo, l’hanno trovato, l’hanno pestato, l’hanno picchiato. Dopo gli sono venuti i buchi nello stomaco e le gambe così grosse, dopo è morto. Le gambe così, non ho mai visto una gamba uguale. Si spingeva dentro il dito e rimaneva il buco, una roba da non credere. Dopo abbiamo portato dei morti per una settimana intera su, fuori dal campo, dove adesso abbiamo il monumento. Anche quello abbiamo fatto. Dopo siamo partiti per la marcia della morte.

D: Com’è che vi hanno detto, dovevate evacuare il campo?

R: Sì. Tanti sono rimasti dentro, come Berti, come Burelli. Io non lo so, noi invece…

D: Ascolta, la marcia della morte quando è iniziata, la tua marcia della morte?

R: La mia marcia della morte… Anche quello sarà scritto qua, mi pare il 2 aprile.

D: Eravate in tanti, Nando?

R: Tremila. Sono rimasti quattrocento o cinquecento di loro.

D: Ma cosa vi hanno detto? “Sveglia”?

R: “Sveglia, incolonnati e fare per partire”. Non si sapeva neanche cosa facevamo, dove andavamo. Il bello è che si andava contro i russi, perché sono stato liberato dai russi io.

D: Raccontaci un po’ di questa marcia della morte. E’ stata lunga quanto?

R: Allora, dal 2 fino al 29, un mese. 300 chilometri, dico pure.

D: Camminavate di giorno?

R: Camminavamo di giorno, forse di notte. Camminavamo svelto, perché loro potevano ucciderci se non si andava avanti. Se cadevano erano morti, toccava mandarli via, era un disastro. Dietro si sentivano gli spari che li uccidevano quelli che cadevano. …., quello triestino, abbiamo parlato un giorno. Prima, “Quando vengo a casa ti porterò tanto pesce”. Il giorno dopo l’hanno fatto fuori. In quella lettera chiedono se è vero che … era con noi, se è morto, se è vivo. L’ha letta quella lettera? Sono venuti… mi ha rubato la…a vedere com’era la storia e avvertono anche la mia famiglia, che se non è rientrato vuol dire che è morto anche lui. Io ho detto che purtroppo l’ho visto uccidere.

D: Era assieme a te durante la marcia della morte?

R: Sì, sì. Era lui. Dopo era Primas Mario di Capo d’Istria, vicino là. Quello l’ha fatto fino in fondo, dopo l’hanno portato in ospedale anche. Dopo durante la marcia della morte, è scritto lì ancora, uno delle SS ci ha fatto andare fuori, scappare fuori dalla fila. Noi siamo scappati, io, Primas e tre belga, appena fuori poco dopo capitano tre ragazzini piccoli così col fucile, quattro colpi e li hanno fatti fuori tutti e tre. Noi per fortuna, perché il bosco là era così, loro sono scappati per di qua, noi per di là, ci siamo salvati. Non so come, non ci hanno visti, siamo qui ancora. Anche il Primas Mario è vivo ancora. Uccisi tutti e tre. Dopo sono tornato a vedere io, dopo liberato. Allora uno era appeso ad un albero, era più vecchio di tutti. Poteva morire se appeso con la cinghia. Gli altri due erano proprio morti con le pallottole. Un fucile, non pistola, un fucile avevano. Il campo era vicino proprio lì, allora loro hanno fatto quel lavoro lì apposta per farsi uccidere. Era un capo della Hitler-Jugend quello lì. Ieri sera ho cercato carte, ma io quando parlo di questa roba qua mi…

D: Ti ricordi il posto dov’era però? Così a memoria ti ricordi? Ti ricordi dov’era questo campo qui?

R: Sono tornato dopo anni a cercarlo, ho voluto trovarlo.

D: E dov’è quel posto?

R: Sono andato con Berti, con una signora che anche il suo marito non credevano, c’era mia moglie, c’ero io, il cognato di Berti, Nicoletto, non so se lo conosce. Avevo pressappoco in mente i binari, perché abbiamo camminato tanto sui binari che non si riusciva a passare, alzare le gambe per passare di là, non si riusciva a passare. Allora mi sono ricordato dei binari, dopo mi sono ricordato che era Wittenberg Uttestadt. Allora siamo arrivati a Wittenberg Uttestadt, abbiamo chiesto nelle chiese, no, no, no, no. Ma io volevo trovare i binari e li abbiamo trovati, ma non erano quelli. Ci siamo fermati in un posto, io guardavo sempre a destra, mai a sinistra. C’era una casa qua, andiamo a chiedere là. Prima abbiamo chiesto in paese, nessuno sapeva niente, andiamo a chiedere là. Allora siamo andati a chiedere là, era una professoressa. Berti sapeva il tedesco, chiedeva. Ha preso la macchina, comincia a girare, a chiedere per le case, nessuno sapeva niente. A un certo punto la signora e Berti: “Andiamo alla forestale”. C’era ancora un forestale, sono andati, io intanto aspettavo. “Adesso lo troviamo” ha detto Berti. Allora la signora, lei avanti, noi dietro e abbiamo trovato il paesino.

D: Che si chiama?

R: Si chiama…non so, il paesino Quaka, ma non credo che sia quel nome lì.

D: Tu non te lo ricordi adesso?

R: Sì che me lo ricordo adesso, ma il nome non so.

D: Stai lì tranquillo, stai lì, appoggiati dietro. Così. Perché altrimenti c’è un problema di microfono. Quindi avete trovato questo posto?

R: Abbiamo trovato quel posto lì, gli ho insegnato dove eravamo io e il Primas, gli ho detto che era un grande uomo, padrone di una fattoria. I russi gli hanno pulito fuori tutto. Dopo Primas Mario si era ammalato, ci ha dato il carretto quel signore e l’ho portato otto chilometri, ho portato Primas Mario fino in ospedale a Wittenberg Uttenstadt. Guarda che forze che avevo ancora.

D: Appoggiati dietro… Così.

R: Io non sono fatto per queste robe qua.

D: No, vai benissimo.

R: Eh, sì.

D: Nando, va benissimo. Ascolta un attimo, ma quando questo tedesco vi ha detto di scappare, lì avevate camminato quanto già?

R: 200 metri neanche, il campo era vicinissimo, quello della Hitler-Jugend. Ci hanno fatto andare apposta per farci uccidere. Non so com’è successo, siamo stati fermi in un acquitrino io e il Primas, abbiamo visto una casa, di notte quando era scuro siamo saliti sul fienile. Non ho dormito, dopo io sono sceso perché ho visto le galline, sono andato giù a prendere il mangime delle galline, ho portato su il mangime. Dopo qua che non si mangiava. L’ho portato su anche a lui, il mangime. L’indomani mattina lui sapeva lo slavo, somiglia al russo, allora abbiamo sentito parlare e ha detto: “Sono arrivati i russi”. Erano arrivati i russi quella notte lì. Tre giorni prima, due giorni prima hanno ucciso quei ragazzini lì.

D: Ma Nando, lì ormai la marcia della morte era già finita?

R: Sì, era già finita. Noi non sappiamo dopo, perché io sono rimasto lì con Primas, tre sono morti, siamo rimasti nascosti. Dicono che la marcia della morte è finita subito dopo, ma non so.

D: In tutto avete camminato quanti giorni?

R: Venti giorni, anche più.

D: Per fare 300 chilometri?

R: Sì, mica si andava per le strade, per i campi, per tutte le deviazioni. Abbiamo incontrato molte colonne che venivano, che andavano.

D: E mangiare?

R: Il topo, ho mangiato il topo. Dopo ho trovato una patata per terra, mi sono abbassato a prenderla e mi ha dato un pugno, qualcosa, qua ho il segno, uno delle SS, non mi usciva neanche sangue più. Pesavo trenta chili, neanche.

D: Tu sei andato a prendere una patata?

R: Hanno seminato le patate, si passava per i campi. Mi ero solo abbassato per prenderla, perché era appena seminato, le tagliano e le mettono giù. Ho cercato di prenderla, mi è arrivato un pugno proprio qua, mi ricordo bene. Menomale che non mi ha ammazzato, non mi ha ucciso.

D: E la storia del topo cos’è?

R: La storia del topo, la notte ci si accampava o qua o là per terra. Per fortuna io ho trovato un topo che era vicino a me, l’ho mangiato. Cosa avrebbe fatto Lei? Mangiare alberi, foglie, quelle robe lì. Non si mangiava niente più.

D: Non vi davano niente?

R: Niente, no, no.

D: E sul trenino in quanti siete arrivati?

R: Dicono quattrocento vivi. E’ scritto tutto lì.

D: Quando avete incontrato i russi cos’è successo?

R: Incontrato i russi, per prima roba ci hanno presi, ci hanno cambiati i vestiti. Io ero tutto marcio di scabbia, tutto marcio, fradicio, proprio fradicio. Pieno di pidocchi. Anche lui, uguale. Ci hanno dato una famiglia, ci hanno portato i vestiti, ce li ho ancora di ricordo a casa. Dopo ho trovato una valigia con una pelliccia dentro, l’ho portata a casa anche quella. E’ appesa anche quella là. I russi ci hanno trattato bene.

D: E’ lì che hai preso il tuo amico e l’hai messo sul carro?

R: Da lì l’ho portato sul carretto, non carro, l’ho trainato a mano all’ospedale di Wittenberg Uttestadt, al …

D: Per 8 chilometri?

R: 8 chilometri, sì. Dopo ho saputo che sono 8 chilometri, il giorno che ho trovato il paesino, quando siamo andati via ho visto che sono 8 chilometri per arrivare in città.

D: Hai lasciato il tuo amico in ospedale?

R: Il mio amico in ospedale insieme, è partito prima di me. Ormai mi portavano nella vasca da bagno, mi buttavano dentro perché era per chi è ammalato, perché ero tutto marcio. Ero peggio di lui dopo, peggio di Primas. Dopo, un bel giorno si dava la minestra in ospedale. Sono arrivato dopo e ho trovato che mangiava la minestra, anche la mia minestra quello là. Sarà anche così, ma in ogni modo… Tutto quello fatto, perché sarebbe morto anche lui. Primas, era lui che mi mangiava la minestra anche dopo. Perché se io lo lasciavo là… Dopo sono andato a trovarlo io a Capo d’Istria, mica lui. Perché lui credeva che fossi morto, perché stavo malissimo. Invece è rimasto di sasso quando mi ha visto.

D: Lì in ospedale quanto tempo sei rimasto?

R: E’ qua tutto.

D: Quanto tempo sei rimasto in ospedale?

R: Il 10.5.1945 sono entrato, uscito il 30.06.1945.

D: Quest’ospedale era gestito da chi, dai russi?

R: Era gestito dai russi, ma erano medici tedeschi, c’era anche un medico che si chiamava Rossi, italiano e lavorava anche lui per noi. Abbiamo trovato anche signore, signorine, ex deportate di Auschwitz. Lì ho conosciuto Pitar Maria, era di Gorizia. Dopo c’era un’altra di Gorizia, purtroppo è morta lì, era una bambina ancora, è morta proprio nell’ospedale. Io sono andato a guardarla, …. , addio, viene freddo. Morta proprio nell’ospedale in un modo proprio… E Pitar Maria è morta subito dopo a casa.

D: Quando ti hanno lasciato andare dall’ospedale cosa hai fatto?

R: Cosa ho fatto? Sono stato ancora fino al giorno di Sant’Anna al mese di giugno, sono stato a Dresda a piedi, tutto a piedi. Dopo ci hanno caricati a un campo di smistamento, ci hanno portati in Italia. Allora sul confine siamo passati sotto gli americani. Sotto gli americani un po’ col treno, un po’ con i camion sono ritornato a casa. Ero uno degli ultimi io.

D: Che percorso hai fatto per rientrare in Italia?

R: Brennero, dopo dal Brennero siamo venuti per Udine.

D: Vi hanno fermato a Bolzano?

R: Sì, hanno fatto una disinfestazione … Non so che nome si chiamava quello là. In zona austriaca ancora. Ci hanno fatto pulire.

D: In zona austriaca vi hanno fermato?

R: Sì.

D: E in Italia dove vi hanno fermato?

R: Nessun posto. C’erano i preti che parlavano male dei russi, già quella volta parlavano male dei russi.

D: Sono venuti su i preti a prenderti?

R: Erano lì dove si passava il confine dell’Austria, erano lì, parlavano.

D: Questo viaggio l’hai fatto in treno?

R: Fino al confine in Austria, dopo in camion mi pare. Non sono proprio tanto… Dopo il treno abbiamo preso, e uno, un ex deportato, forse non ex deportato dai campi, era fermo lì, arriva il treno e lo uccide, era un carnico. Roba da non credere. Anche quello.

D: Tu sei arrivato a casa a Udine?

R: Il giorno di Sant’Anna a Udine e volevano che pagassi il biglietto del tram. Sono arrivato a Tricesimo e c’era tutta la gente a guardare come se fosse arrivato chissà cosa, perché ero il figlio unico, giocavo a calcio, ero un po’…

D: Quand’è il giorno di Sant’Anna?

R: Il mese di luglio, quel giorno sono arrivato io. Ero tra gli ultimi, tutti erano rientrati ormai, come quelli di Mauthausen, subito dopo erano a casa, invece io…

D: Durante la tua deportazione, quindi a Dachau, a Buchenwald, a Langenstein, negli altri campi, sei mai stato punito tu?

R: Punito? No, non sono mai stato punito.

D: Hai visto azioni violente?

R: Conbelli Luca, purtroppo. Si era bastonati sempre, entrando nei tunnel delle gallerie c’era un bastardo…

Appia Anna

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come vi chiamate?

R: Appia Anna.

D: E siete nata, quando?

R: Il 18 gennaio 1921.

D: Dove, Anna?

R: A San Giovanni al Natisone.

D: Provincia?

R: Di Udine.

D: Anna, quando vi hanno arrestato?

R: Il 31 luglio del 1944.

D: Chi vi ha arrestato?

R: Le SS tedesche.

D: Perché?

R: Eh perché, per attività partigiana, per quelle cose lì.

D: Vi hanno arrestato dove, in casa?

R: In casa alle 4.00 del mattino sono venuti, hanno circondato tutto e hanno fatto il rastrellamento, ci hanno portati via tutti, tutta la famiglia, e ci hanno portato via tutto quello che avevamo: biancheria, coperte, tutto, ci hanno pulito la casa e mi hanno portato a Gorizia, prima a Cormons, poi a Gorizia, nelle carceri di Gorizia.

D: Tutta la vostra famiglia?

R: La mia famiglia dopo un po’ l’hanno mandata casa e la mia mamma l’hanno portata con me; per quaranta giorni è rimasta fino a che lei l’hanno mandata a casa e noi siamo partite.

D: Vi hanno fatto qualche interrogatorio?

R: Sì, come no, tutti gli interrogatori. Io avevo il fidanzato, è stato quello il motivo più grande: lui era venuto a casa l’8 settembre da militare e non sapeva con chi stare, doveva pur lavorare. Lui lavorava però era attivo con gli altri, non con i tedeschi, come devo dire? Con i partigiani. Ma lavorava però, era in attività con loro. E allora è stato tutto lì.

Loro volevano sapere da me qualcosa, ma io non ho mai detto niente perché non sapevo neanche niente, noi ci vedevamo poco: c’era il coprifuoco di notte, di giorno si lavorava e non si poteva incontrarsi mai. Come posso sapere io che cosa fa un uomo? Non ero mica sposata per sapere cosa faceva l’uomo. Allora io ho detto proprio quelle parole lì. Io le cose di un uomo non posso saperle. Volevano sapere di quello, dell’altro, di tutti, della gente. Che ne so? Io non ho mai detto niente perché uno non sapevo e anche se avessi saputo non sarei andata a dirlo a loro.

D: E dopo cosa è successo?

R: L’8 settembre ci hanno messo in trasporto. Siamo partite con la tradotta, con il treno merci. In quaranta di noi dentro in un vagone, senza bere, senza mangiare per sei, sette giorni, fino a che siamo arrivate a destinazione, senza sapere dove si andava, senza potere fare i bisogni corporali, perché era quello che era. Per sei, sette giorni siamo state ammucchiate in quaranta di noi sdraiate a terra in un vagone. E non si sapeva dove si andava. Siamo arrivate ad Auschwitz.

D:Siete entrate col treno?

R: Siamo entrate sulla ferrovia, col treno e poi siamo scese, ci hanno fatto camminare, portare tutta la roba che avevamo. Cammina, cammina, cammina, non si sapeva niente; era di sera, poi ci hanno fatto stare in piedi tutto il tempo e siamo arrivate in un capannone. Lì ci hanno preso tutto, ci hanno spogliate del tutto, proprio spogliate, nude e poi ci hanno fatto il numero sul braccio.

D: E il vostro numero, Anna, qual è?

R: 88.651. E poi ci hanno tagliato i capelli, tutte quelle cose lì. Dopo ci hanno fatto la doccia, ci hanno messe sotto la doccia fredda senza niente, senza asciugarci perché non avevamo più niente. Poi ci hanno dato uno straccio di vestito bagnato e l’abbiamo messo su. Mi ricordo queste cose che non dimentico mai. Siamo state tutta la notte in piedi, quella notte. Tutta la notte in piedi perché si vede che non avevano posto dove metterci: tutta la notte, senza mangiare, senza bere, dopo sei giorni. Poi ci hanno accompagnate nella baracca, avevamo un metro di posto per dormire in sette di noi. Un metro, non era di più, in sette, otto di noi. La mattina ci alzavamo che era notte, verso le 4.00 di mattina al buio e ci facevano stare in piedi fino a che veniva giorno. Cinque, sei ore in piedi nel freddo e col freddo che era; era paludoso il terreno. Era tutta argilla, fango, e stare in piedi tutte quelle ore fino a che passavano a fare l’appello… Dopo si andava a lavarsi la faccia, non c’era neanche l’acqua, tutto il giorno così. La sera uguale.

Siamo state lì dall’8 settembre, siamo arrivate verso il 12, 13 settembre, e siamo rimaste fino alla fine di ottobre.

D: Lì non lavoravate?

R: No, solo tutti i giorni ci spogliavano, ci visitavano, ci facevano fare i bagni con le docce per lavarci i vestiti, per disinfettarli, e poi ogni altro giorno ci facevano visite per vedere chi fosse sana, buona, brava, bella, tutte le belle presenze, eravamo giovani. Fino che ci hanno mandato in trasporto.

D: Ti ricordi il numero della tua baracca.?

R: Era il numero 13. Mi ricordo sì, come no.

D: Di Auschwitz?

R: Era tutto attaccato lì.

D: Quello grande, grande.

R: Sì. Poi quello che si vedeva, tutti i camini che fumavano. Quell’odore acre di grasso bruciato. Era terribile, non si può descrivere quello che abbiamo visto lì noi perché uno che non ha provato, non ha visto, non può capire neanche lontanamente: solo noi, chi ha visto e provato, sa. E’ come raccontare una storia.

D: E da mangiare cosa vi davano?

R: Un po’ di brodo di carote, di rape e una fetta di pane e basta.

D: Dopo è venuto il trasporto. Come vi hanno scelto, ti hanno chiamata?

R: Sì, ci sceglievano. Quelle che erano belle, sane e giovani le mandavano a lavorare e ci hanno scelte. Mi hanno scelta e siamo partite un’altra volta con la tradotta; anche lì siamo state due o tre giorni senza mangiare prima di arrivare a destinazione perché siamo venute in Germania poi a lavorare in Bassa Sassonia. Siamo arrivate in una città che si chiamava….e lì abbiamo lavorato tutto l’inverno in una fabbrica di armi. Ci facevano lavorare dodici ore al giorno, o di giorno o di notte, perché c’era turno continuo, la macchina non si fermava mai, dodici ore di giorno e dodici di notte, una settimana per sorte. Siamo state lì fino a che sono venuti i bombardamenti che hanno distrutto tutto. Una notte hanno distrutto la fabbrica; era una grande cosa perché quella notte lì mancava la luce, c’era stato il bombardamento di mattina e noi eravamo lì a dormire. La sera mancava la luce. Siamo andate a lavorare ma non ci hanno fatto lavorare, ci hanno fatto tornare indietro perché non c’era la luce. Quella notte lì è andata giù la fabbrica perché hanno bombardato, hanno bombardato tutta la notte. É andata già tutta la città quella notte.

Dove dormivamo noi siamo rimaste tutte salve e dopo era tutto rotto, non c’era acqua, non c’era da mangiare, non potevano fare, ci mandavano a pulire le macerie nelle case, nelle fabbriche dove c’era bisogno. Siamo state lì a fare quel lavoro fino al 13 aprile.

D: Anna, quando eravate in questo campo ti hanno dato un nuovo numero?

R: Numero di che cosa?

D: Numero di immatricolazione; o avevi sempre quello?

R: Sempre quello. Eravamo sempre sotto la protezione di Auschwitz noi, era sempre quel comando anche se eravamo nella fabbrica.

D: Il campo era vicino alla fabbrica o era fuori dalla fabbrica?

R: Era fuori; non era un campo, era una grande fabbrica anche quella dove eravamo a dormire. Sotto era fabbrica e sopra dormivamo noi. La fabbrica dove lavoravamo io e lei era fuori nella città. Allora ci trasportavano a piedi, andavamo in fila, ci portavano e ci tornavano a portare qua perché erano le donne militari che facevano…

D: Quindi vedevate i civili?

R: No, perché si andava via che era notte, si tornava che era notte e poi come si faceva a vedere i civili, anche se li si vedeva? Avevamo le guardie, non si poteva mica. Andavamo in fila noi.

D: Eravate solo donne?

R: Sì.

D: Non c’erano uomini?

R: Dove, a lavorare? C’erano i maestri solo, i capi.

D: Erano militari i capi?

R: No, erano vecchi, si vede che erano della fabbrica, i capifabbrica e noi si lavorava, loro ci insegnavano. Sa come fanno i capi.

D: Lì cosa costruivate?

R: Armi. Ognuno aveva il suo lavoro. Io ero su una macchina in piedi alta così, ero abbastanza grande, stavo in piedi tutto il giorno.

D: E cosa facevi Anna?

R: Avevo un ferro che era un otturatore di moschetti, facevo i buchi coi trapani, sulla macchina lavoravo.

D: E lì sei rimasta fino a quando?

R: Fino a che hanno bombardato la fabbrica: era il 5 marzo e poi ci hanno fatto lavorare ancora, perché ci mandavano a pulire macerie. Si vede che non sapevano dove mandarci. Dopo il 13 aprile ci hanno trasferite a piedi. Siamo andate in un campo che si chiamava Leitmeritz e siamo state una settimana. Lì non abbiamo né lavorato né niente.

Poi ancora a piedi siamo arrivate in Cecoslovacchia; c’era una polveriera, non so come si chiamasse quel posto, non saprei dire; abbiamo lavorato quindici giorni fino alla fine, si facevano le bombe per i carri armati col tritolo. Riempivamo i cosi di tritolo e poi si metteva il detonatore.

D: E la fabbrica era sempre vicino al campo o era più distante?

R: Era tutto vicino lì. Lì siamo stati fino alla fine.

D: E anche lì non vi hanno cambiato il numero.

R: No. Perché il numero lo hanno fatto solo ad Auschwitz.

D: E basta?

R: Ci chiamavano sempre con quel numero perché eravamo un numero, non un nome.

D: E ti ricordi il tuo numero in tedesco?

R: No, me lo ricordo in polacco ma non in tedesco.

D: E in polacco com’era?

R: Perché erano le polacche che al blocco comandavano!

D: E a chi non capiva cosa succedeva?

R: Ormai si capiva, si doveva capire, sennò era meglio tacere.

D: Hai mai ricevuto punizioni tu?

R: Qualche schiaffo ogni tanto ma non grandi cose, perché ho sempre lavorato.

D: Al Revier sei mai andata?

R: Cos’era?

D: L’infermeria.

R: Sì, perché avevo male ad un orecchio. Avevo un ascesso, mi era venuto come un grande raffreddore, mi era venuto l’ascesso all’orecchio; c’era una dottoressa polacca e mi ha curato. Mi ha pulito, avevo paura ad andare. Non avevo voglia di andare. C’era una slovena che mi ha detto: “Andiamo, andiamo che io so parlare, vieni che non ti fanno niente.” Ma sai com’è. Allora sono andata, mi ha curata. Quello sì.

D: La Liberazione come te la ricordi?

R: La Liberazione? Fino all’8 maggio abbiamo lavorato. Una sera abbiamo caricato un grande camion di quelle bombe poi siamo andate a dormire e abbiamo visto la luce fuori nel campo, era illuminato. Abbiamo detto: chissà che cos’è? Perché non era mai accesa la luce e si vede che loro intanto erano scappati e noi la mattina ci siamo trovate sole: era il momento in cui arrivavano i russi. E’ venuta una polacca e ha detto: “Finita la guerra!”.

Allora noi eravamo contente, felici. Senza mangiare, non importava. Siamo state tutte riunite insieme e abbiamo detto: “Cosa dobbiamo fare?” Aspettare i russi non si poteva perché non si sapeva quando arrivavano e poi eravamo solo ragazze. Allora abbiamo detto: “Mettiamoci a camminare, andiamo avanti e troveremo qualcosa”. Non si sapeva dove andare, non si sapeva parlare e ci siamo riunite tutte le italiane e ci siamo messe a camminare sotto il fronte, perché i tedeschi si ritiravano e i russi stavano arrivando.

Gli aeroplani mitragliavano le truppe che si ritiravano e noi si camminava sull’orlo della strada, sul margine della strada, l’una dietro l’altra, in fila.

Pensare che mitragliavano e noi si andava nel fosso per ripararsi! Però nessuna si è ferita. Potevano ucciderci tutte per strada i tedeschi che erano tutti armati coi fucili, invece nessuno ci ha fatto niente. Abbiamo camminato tutto il giorno, era il 9 maggio, il giorno che è finita la guerra. Loro si ritiravano tutto il giorno e noi sempre a camminare. Via, avanti fino a che è venuta sera, senza bere e senza mangiare. Però eravamo libere almeno di camminare. Quando è venuta sera siamo arrivate in un paese e lì sono arrivati i russi, i primi carri armati russi e noi tutte sulla strada che si alzava le braccia. Si vede che loro hanno visto chi eravamo perché avevamo lo Straf dietro la schiena: hanno cominciato a buttarci giù pane, roba da mangiare. Lei non può capire quel momento lì cos’era. Nessuno lo può capire. Uno piangeva, uno pregava, uno cantava. Non si sapeva cosa fare. Vedere roba da mangiare, affamate! ci siamo inginocchiate e non sapevamo cosa dire.

Abbiamo messo giù una coperta, abbiamo raccolto tutta la roba e abbiamo cominciato a mangiare e via, e così è finita la giornata.

D: Poi cosa avete fatto?

R: Poi si andava a dormire dove si poteva: in una stalla, in una stanza, in una casa, dove si poteva. Siamo state lì due giorni e dopo abbiamo trovato uomini italiani che tornavano come noi, soldati militari. Abbiamo cominciato a parlare e loro hanno detto: “Se volete ci facciamo compagnia, andiamo avanti da qualche parte”. Non si sapeva, eravamo in Cecoslovacchia. Allora hanno detto i ragazzi: “Andiamo avanti perché è meglio che andiamo avanti per non stare coi russi”, perché avevamo paura che ci trattenessero anche loro. Non si sapeva come comportarsi. Allora noi abbiamo detto: “Sì, almeno ci sono anche uomini che ci guidano”. Eravamo sole, senza guida e senza niente.

Siamo andati avanti camminando e siamo arrivati a Praga e siamo stati a dormire nella Casa d’Italia, in una grande sala tutti insieme là. Dopo abbiamo cominciato un’altra volta a camminare, ad andare avanti, fino che siamo arrivati in Austria, fino a Linz. Abbiamo camminato per quindici giorni così. Di sera si trovava qualche fienile oppure anche nei prati si dormiva, senza niente. Fino che siamo arrivati a Linz e a Linz c’erano gli americani. Poi ci hanno radunati tutti in un altro campo che era libero e ci hanno tenuti lì un mese in attesa di rimpatrio.

In giugno siamo partiti e siamo arrivati a Bolzano. Da Bolzano sono venuti da Udine a prenderci con una corriera che veniva ogni giorno a prendere i prigionieri. Allora ci hanno portati giù a Udine e dopo sono venuta a casa, il 25 giugno sono arrivata a casa.

D: Come oggi.

R: Come oggi, di mattina.

D: 55 anni fa.

R: 55 anni fa, sì, sono tanti, no?

D: Come hai trovato la tua casa?

R: Ho trovato la casa tutta rotta, senza niente perché c’era stata la guerra anche lì. C’era un ponte vicino a casa mia, avevano buttato giù il ponte, bombardato, era rotto. E poi ci avevano portato via tutto. Abbiamo dovuto cominciare a lavorare e tornare ad aiutarci come si poteva, ma nessuno mi ha aiutato però. E’ la prima volta che qualcuno si interessa a me dopo cinquantacinque anni. Mai nessuno si è interessato a me, mai.

D: Anna, a Bolzano ti ricordi dove ti hanno portato?

R: Era un bel posto, eravamo in tanti lì, non so cosa fosse, qualche scuola, qualche posto. Siamo stati un giorno.

D: Cos’era un ospedale, una caserma?

R: Deve essere stata una cosa di quelle perché c’era tanta gente.

D: Ti hanno rilasciato un certificato a Bolzano?

R: No.

D: Vi hanno dato da mangiare?

R: Sì, da mangiare sì. Arrivavano lì, si vede che era un posto apposta per ricevere la gente.

D: Anna, ritorniamo ad Auschwitz un attimo. Nel periodo in cui sei rimasta ad Auschwitz non hai mai lavorato nel campo?

R: No, non abbiamo lavorato là.

D: Potevi scrivere?

R: No.

D: C’era qualcuno che riceveva dei pacchi?

R: Che abbia visto io no. Da dove? Chi sapeva dov’eravamo? Neanche parlarne. Pacchi? No. Può chiedere quello che vuole, io Le dico.

D: Non hai mai visto neanche persone della Croce Rossa?

R: No.

D: Nemmeno negli altri campi?

R: No, io no.

D: Quando eri ad Auschwitz o negli altri campi hai visto per caso se c’erano anche delle ragazzine?

R: C’erano anche bambini ad Auschwitz, ho visto bambini che giocavano e anche bambine piccole, ragazzine, di tutte le qualità, sì. Abbiamo visto anche scendere dal treno quei poveri vecchi di ebrei, tanta gente che scendeva dai treni.

D: Nel campo della polveriera, come si chiamava?

R: Era un altro posto che non saprei cosa fosse, non abbiamo saputo che cos’era.

D: C’erano anche degli uomini?

R: C’era qualche uomo, devono essere stati militari mi pare, ma che abbia conosciuto io, no, io non ho avuto a che fare.

D: E quanto tempo sei rimasta in quella polveriera?

R: Gli ultimi quindici giorni.

D: Anna, tu non sei più ritornata a ….?

R: No, non voglio neanche andarci. E’ abbastanza una volta, poi guai, non potrei tornare a vedere quei posti. Non mi sento.

D: Ti ricordi altri episodi di quando eri ad Auschwitz o in altri campi che ci siamo dimenticati adesso?

R: Cosa vuole, episodi!!

D: Per esempio, quando parlavi degli abiti che ti hanno dato, vi hanno dato della biancheria?

R: No, che biancheria? Un abito, uno straccio di abito e basta, con gli zoccoli di legno. Io avevo i piedi piccoli, erano così, li trascinavo. Con quel fango non si poteva camminare. Che vuole?

D: Delle tue compagne che sono partite con te in trasporto quante sono ritornate?

R: Siamo tornate tutte quelle che conoscevo. Però una è morta a casa. Noi siamo tornate.

D: Ti ricordi qualche nome?

R: I nomi. Una si chiamava Bruna, povera che è morta. Ines che è viva è a Cividale, Elvia e io. Poi ce n’era un’altra che si chiamava Antonietta, è morta anche quella e poi ce n’erano di Gorizia, di Trieste, ce n’erano tante, siamo tornate in tante di quelle che conoscevo io. Quelle che eravamo a lavorare siamo tornate. Però non so perché si sono anche ammalate per la strada. Quelle non so se sono tornate o no. Come ad Elvia, le è venuto male quando eravamo a Praga e hanno dovuto portarla all’ospedale, lei è tornata dopo, in settembre. E’ guarita ed è tornata dopo di me, a settembre ottobre.

Bianco Natalina

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Bianco Natalina detta Pasqualina. Sono nata a Susa il 18 Gennaio 1928. Sono stata presa dai fascisti alla Trattoria Balma”. Ero con mia sorella, ed erano venute delle persone a dirci che ci aspettavano in montagna nascosti dietro i sassi i nostri fratelli con altri partigiani. Aspettavano che portassimo loro qualche cosa da mangiare, e mia sorella, mi sembra fossimo in cinque, aveva fatto cinque sandwich con quei grandi pani di campagna e con un po’ di vino. Si vede che quando sono venuti ad avvisarmi c’erano già le spie: mi hanno presa proprio sul cancello con lo zaino in spalla. Avevo gli scarponi per andare in montagna. A quei tempi si usava il nastrino rosso ed è già tanto che non me l’abbiano fatto mangiare, perché era rosso. Di lì ci hanno portati giù in paese.

D: In quale paese, Natalina?

R: San Giorgio di Susa, perché la Balma è sotto San Giorgio di Susa. C’era pure mia sorella. Ci hanno portati alle scuole di Sant’Antonino. Ci facevano pure l’appello, c’erano dei partigiani e ci facevano stare attenti, nella piazza della scuola. Dicevo: “Qui siamo a posto, ci fucilano anche qui”. Siamo stati tre giorni nella scuola a dormire per terra sulla paglia. Dopo hanno trovato un partigiano nascosto sul sottotetto; il fatto è che avevamo della paglia, dei conigli e hanno fatto rumore, allora loro hanno voluto salire su con le baionette nella paglia, hanno trovato il partigiano nascosto e l’hanno portato con noi assieme alle scuole; poi l’hanno portato al cimitero. C’era una serie di partigiani che sono stati fucilati e noi presenti, sull’attenti, a vedere la fucilazione. Poi di lì ci hanno poi portate alle Nuove a Torino; avevamo la camera vicino ad Anna e di tanto in tanto toc toc.

D: Quando ti hanno portato a Torino? Ti ricordi?

R: Alla fine di maggio, perché era giugno quando eravamo a Torino.

D: Ti hanno mai interrogata, Natalina?

R: Sì, sì ma non alle Nuove; lì ormai eravamo già predisposte per la Germania. Lì avevamo con noi in cella Ondina, così si chiamava, mi sembra fosse biellese e poi non è rientrata più, l’hanno fatta morire nel campo di Ravensbrück; l’hanno subito fatta fuori perché mi sembra che avesse qualche disturbo, era malata. Allora quelli che erano malati venivano fatti fuori subito, eliminati. Volevano gente sana e robusta che doveva lavorare sodo.

D: Dopo le celle delle Nuove di Torino cosa è successo?

R: Siamo andate a finire a Porta Nuova sul vagone in quattordici. Per poter far capire ai miei che partivo per la Germania abbiamo fatto dei bigliettini, li abbiamo buttati fuori dal finestrino, sperando che qualcuno facesse sapere, c’era un po’ di gente, che facesse arrivare alla famiglia la notizia che noi non eravamo più alle Nuove, così che mia mamma non dovesse venire più a portare i pacchi o qualcosa alle Nuove, perché noi non c’eravamo più.

D: Tu e tua sorella.

R: Sì, siamo sempre state assieme. Eravamo in tre in cella, con Ondina. Poi è partita la tradotta. Abbiamo fatto tutto il percorso detto da Anna, attraverso l’Austria e via, con la paura di essere fermati dai partigiani. La nostra tradotta viaggiava sotto sorveglianza dei tedeschi perché lo sapevano che era piena di deportati che andavano in Germania. Allora pensavamo anche noi di subire un attentato, essere liberate, e non so se qualcuno è fuggito via e ce l’ha fatta, perché delle sparatorie ci sono state. Comunque siamo rimasti in Austria a Innsbruck per un po’ di tempo, un po’ di giorni. Poi siamo partite direttamente per la Germania.

D: Come ti ricordi il tuo ingresso a Ravensbrück ?

R: Terribile! La Carletti ha fatto tutto questo traffico per la strada, faceva la matta, si sedeva per terra, sulle valigie: ma lei era una diva, non era una poveretta come noi! Comunque a Ravensbrück come siamo entrate la prima cosa che ho visto furono le carriole piene di pietre e i prigionieri a portare queste pietre, io non lo so dove le portavano queste pietre. Dicevo: “Mamma mia, se noi dobbiamo fare dei lavori così, siamo a posto”. La prima cosa che ho visto è stato tutto quel filo spinato e poi mi ricordo che siamo entrate in quello che sembrava un bagno. Io me lo ricordo che abbiamo passato notte e giorno nudi; tutta questa roba che abbiamo tolto e tutta questa roba che abbiamo portato per cambiarci, la biancheria, io me lo ricordo che l’abbiamo messa tutta nel sacco già, tutta nel sacco, i gioielli, l’orologio, tutta nel sacco. “Verrà restituito quando andate via”, “Ce l’ha restituito?” Dovevamo lavarci, pulirci, non si poteva bere l’acqua perché c’era pericolo di tifo. Era l’acqua del lago. Senza bere, oltre che senza mangiare anche senza bere. Dopo siamo andate nelle baracche. Non so più se avevano solo due letti a castello, erano basse queste baracche. Io mi ricordo che quel cibo non potevo mangiarlo. Mia sorella mi dava il suo pezzo di pane per non vedermi morire. Comunque si mangiava quella porcheria, per me era immondizia cotta.

D: E tu avevi allora quanti anni?

R: Sedici.

D: Ti ricordi il tuo numero di matricola di Ravensbrück ?

R: 44.151, non so più se mia sorella aveva 152 e io 151.

D: Cosa ti hanno dato per vestirti dopo?

R: Ci hanno dato subito quel tipo di camicia, sembrava grigia; era d’estate, era leggera, altro che freddo. Noi eravamo dalle quattro all’appello fino alle sette, sull’attenti. Quando passavano le …noi per non farsene accorgere ci aiutiamo l’una con l’altra con la schiena così per scaldarci un po’, perché eravamo anche nude, oltre che alle quattro del mattino. É una zona fredda. Ci davano quella ciotola lì senza cucchiaio, senza niente, dovevamo noi magari cercarci qualcosa, scagliare dai letti qualche cosa per non prendere il cibo così con le mani. Mi sembra che avessimo la vasca con l’acqua, i rubinetti; nell’ingresso c’erano le baracche coi lettini. La prima cosa: guai a non essere pulite. C’erano pure le botte se non ci tenevamo pulite. A me sembrava di essere in quarantena. Non so se siamo state quaranta giorni.

D: Avete subìto delle visite?

R: Sì, eravamo sempre in coda e sempre nudi. Per visitarci, anche gli occhi o la bocca, dovevamo essere nudi, era fatta così. C’era gente anziana, purtroppo per la gente anziana è un’umiliazione forte. Di lì ci hanno destinati a Schönefeld a lavorare nel campo.

D: Lì ti hanno dato un altro numero?

R: Io non me lo ricordo questo numero della fabbrica, non me lo ricordo.

D: Tu cosa facevi in quella fabbrica?

R: Eravamo tutti allineati con i martelli pneumatici a mettere i chiodi agli apparecchi da caccia. Tutto il giorno così, facevamo dodici ore, una settimana di giorno e una settimana di notte. Comunque quando siamo arrivati lì ci hanno dato un po’ di mangiare normale, abbiamo toccato il cielo con le dita, ma era solo per il primo giorno. Ci hanno dato una caramella da succhiare, era come una caramella da succhiare, ci hanno trattato coi fiocchi il primo giorno e poi invece c’erano i bombardamenti. Mi ricordo sempre: tante volte venivamo all’appello, non c’era da mangiare per tutti perché non arrivava, noi aspettavamo il turno degli altri e poi andavamo a lavorare senza mangiare. Anche lì avevamo i letti a castello; ero al terzo piano, guai, dovevamo avere sempre il letto in ordine. Il pagliericcio che vada giù qualcosa! É successo anche che mi abbiano rubato tutti i trucioli e ho reclamato. Ho preso pure le botte. Dato che mia sorella distribuiva il mangiare là dentro ha cercato di recuperare qualcosa per aiutarmi, altrimenti io dormivo sempre sulle assi perché dovevo stare attenta a cosa mi succedesse. Purtroppo eravamo di tutte le razze. C’erano zingari, c’erano russi, c’erano slavi.

D: Natalina, anche tu ti ricordi a Ravensbrück di aver visto dei bambini?

R: Sì, erano alti così, andavano anche in fila a fare le visite. Io penso che fossero ebrei, delle famiglie ebraiche.

D: Che tu ricordi a Ravensbrück uomini non ce n’erano.

R: No, noi vedevamo in centro un tipo di torre che girava, sorvegliava, con sopra un tedesco; pensavamo che dall’altra parte ci fosse un altro campo come il nostro. Di là c’erano gli uomini e di qua c’erano le donne.

D: Natalina, come te la ricordi l’interruzione del ciclo mestruale?

R: Noi abbiamo capito subito che avevano messo qualcosa, delle polverine nella minestra, perché era tutto uguale. Io già avevo dei problemi, mia sorella che aveva quindici anni più di me aveva detto alla mamma: “Fai visitare la bambina, falle fare delle iniezioni perché non è normale che a quindici anni non abbia ancora il ciclo”. Appena fatte le iniezioni per farmi venire il ciclo me le hanno fatte per farlo andar via. Questo influisce molto sulla salute, penso. Poi c’era quella ragazza, Bice, con noi, a lei invece venivano come emorragia. Ha capito com’è? Lei doveva stare molto attenta perché a lei venivano come emorragia e allora è peggio ancora. Ad ogni modo io lì a Schönefeld avevo Bice vicina a dormire, invece mia sorella non dormiva con me. Forse Anna era in un altro padiglione dove c’era mia sorella. Anna era piuttosto robusta e ben piazzata, per quello la mandavano a prendere il rancio, diciamo rancio, magari fosse stato rancio, per me non era rancio, era schifezza.

D: Natalina, tu non ti sei mai ammalata?

R: Ringraziando il cielo, ho pregato tanto, piangevo e pregavo. Sono sempre stata piuttosto debole da quel lato. Purtroppo mi sono vista la vita distrutta, poi pensavo alla mamma da sola, e i fratelli via. Poi chissà come va a finire! Comunque è stata fortuna anche che magari, essendo giovane, uno resiste di più. Difatti mia sorella non ce la faceva, cercavo di aiutarla, l’accompagnavo fuori quando andavamo coi badili e la zappa a fare le trincee. Trascinavo lei, portavo il badile e la zappa sua per poter riuscire a fare qualcosa. Lei non ce la faceva proprio più a stare in piedi e l’hanno portata all’ospedale.

Quando è rientrata io lavoravo già alla FIAT. Pensi un po’. Noi siamo state, questo me lo ricordo, liberate anche il 25 aprile, e mia sorella è entrata a ottobre e io lavoravo già alla FIAT. A quei tempi, avendo la casa incendiata con tutto quello che è successo, avevo solo da dire “beh” e subito sono stata presa.

Proprio mi rifiuto, non voglio sentirne parlare più dei Lager. Andare a vederli per me è la morte. Mi sembra di morire. L’ho vissuta come una tragedia. Quando siamo rientrati ci hanno fatto fare una grande manifestazione in divisa al cimitero generale, con il rullo di tamburi. Io ho sempre pianto e mi ci è voluta più di una settimana per mettermi a posto. Sono già di carattere più fragile, non lo so.

D: Descrivici una giornata di quelle che hai trascorso a Ravensbrück.

R: Tutte tragedie. Per me era tutta una tragedia. Mia sorella nelle sue condizioni mi sgridava, mi faceva forza e coraggio. Lei non aveva la forza di trascinarsi e io ero fragile. Mi vedevo… io non so se sarò stata lì da dieci giorni, mangiavo il pezzo di pane che mia sorella mi faceva passare perché quella sbobba non mi andava proprio giù, mi veniva da rimettere. Come si può mangiare una cosa che è contro lo stomaco?

D: Il ricordo più negativo che hai sono le violenze, le percosse oppure la fame, il freddo?

R: La fame, anche il freddo e quell’appello da stare tre ore dalle 4.00 alle 7.00 del mattino sempre tre ore lì sull’attenti. Non è facile da mandare giù, perché dovevamo farlo, perché dovevamo farlo? Non so se avevo 44 di numero eravamo in 44 penso. 44.000? Non lo so.

D: C’erano altre ragazze della tua età?

R: Sì, ce n’erano, degli altri paesi, dell’Italia eravamo solo noi quattordici. Poi non so perché ci sono stati altri gruppi, magari altri periodi, quando siamo andati via noi sono venuti degli altri o che erano venuti prima. Non so.

D: E in fabbrica hai lavorato fino a quando?

R: Fino a che hanno capito che si sentivano già i colpi dei cannoni; quello ci dava un po’ di forza, un po’ di coraggio. “Forse ce la facciamo, forse ce la facciamo”. A noi i Meister non potevano dare tanta confidenza, quando avevamo tutti i chiodi così, facevamo il mucchio, dicevamo tra di noi: “Sta venendo avanti il fronte. “Alles kaputt”: capivano che arrivava la fine per loro, tant’è che poi abbiamo trovato anche i bagni caldi, le case ancora riscaldate, ancora a posto quando noi siamo entrate e ci siamo trovate libere.

D: Ma prima della Liberazione vi hanno riportato a Ravensbrück ancora?

R: Io questo non me lo ricordo. Mi ricordo solo che ci hanno fatte preparare per andare via, abbiamo fatto un percorso in camion, poi a piedi. Mi ricordo che viaggiavamo sembrava in una foresta. Una cosa che mi ricordo è che ho visto un bel vischio sopra un pino. Ho detto: “Questo forse è il portafortuna”. Difatti io me ne sono accorta e poi ci siamo trovate noi libere. Poi ci siamo trovate chiuse in un locale che mi sembrava una stalla. A me sembrava una cosa così.

D: E tua sorella era con te?

R: No, mia sorella era all’ospedale, mia sorella non ce l’ha fatta a venire via, era all’ospedale e non si sapeva niente. Poi è arrivata e io lavoravo già alla FIAT.

D: Avete trovato i russi in quella stalla?

R: Erano fuori, erano fuori. Lì avevamo delle russe, loro hanno capito che oramai eravamo sole. Dovevamo stare molto attente perché c’erano gli apparecchi di continuo che mitragliavano, una cosa o l’altra. Dovevamo stare molto attente a non essere prese, a scamparla. Arrivare alla liberazione e lasciarci la pelle!! Stavamo molto nascoste, il più possibile, perché gli apparecchi caccia si abbassavano a mitragliare.

D: E da quel posto lì….

R: E da quel posto lì abbiamo fatto armi e bagagli e il necessario per vestirci, cambiarci, sul carretto abbiamo fatto 300 chilometri a piedi, fino all’Elba. Tutta la parte russa l’abbiamo fatta tutta a piedi: al fiume Elba dall’altra parte avevamo gli americani e allora era tutta un’altra cosa. Ci hanno fatto attraversare di là. Ad ogni modo eravamo con Anna, in tutto quel percorso siamo state molto unite con Anna. Eravamo vestite da maschietti per mascherare che non eravamo mica ragazze. La violenza lì non mancava e dovevamo stare nascoste per la violenza, violenza sessuale.

I russi, l’abbiamo subìta dai russi la violenza sessuale. Noi ci siamo trovate in ville con bei lettini, ci siamo sistemate lì a dormire, eravamo due nella camera mia, due o tre nell’altra camera. Per quello poi siamo state molto unite e vestite da maschio: sono venuti i militari russi ubriachi, col mitra, sul tavolino da notte e dover subire. Ce l’ho fatta a sgattaiolare e scappare. C’era una pozza di sangue. Andarmi a nascondere, poi sempre stare nascosta. Da allora con Anna restavamo nascoste, andavano i ragazzi, gli amici, fuori a fare la spesa; noi facevamo da mangiare, nascoste. É guerra. Noi tutta questa violenza di cui stanno parlando adesso l’abbiamo subita, purtroppo.

D: E dopo vi hanno preso gli americani?

R: Quando poi abbiamo attraversato e ci hanno preso gli americani ci davano da mangiare la mensa buona, ci davano la cioccolata, le caramelle. Ci davano quello di cui avevamo piacere; ce l’avevano e ci rispettavano. Abbiamo dovuto passare tutto un percorso per arrivare a destinazione e raggiungere l’Italia che era molto lontana.

D: Però l’avete raggiunta l’Italia.

R: Ce l’abbiamo fatta.

D: Come avete fatto Natalina?

R: Non so dire, non so dire perché sulla tradotta non c’era posto per tutti; c’era gente sopra i treni e quando passavano sotto i ponti e sotto le gallerie ci lasciavano pure la pelle. Tutti volevano prendere il treno, tutti volevano prendere il treno, tutti volevano venire in Italia. Tutti cercavano dei mezzi il più veloci possibile per arrivare in Italia. A Milano non ho trovato un gran che di accoglienza.

D: Quando sei arrivata in Italia?

R: Ero con Anna, siamo state liberate il 25 aprile, poi abbiamo fatto tutto questo percorso: siamo arrivate a luglio, siamo arrivate a luglio.

D: Passando per Bolzano, per il Brennero?

R: Sì, ecco dal Brennero. Quanta gente ha attraversato dal Brennero e ci ha lasciato la pelle, perché tutti volevano prendere il treno. Tutti volevano venire, ma più di tanti non ci si stava, neanche accavallati.

D: Vi siete fermati a Bolzano?

R: Non mi ricordo più. Anna diceva che ci hanno dato quella roba, era appena dopo la guerra, tutti avevano dei problemi per i fatti loro, non è che abbiamo avuto un’accoglienza del tipo “Arrivano i deportati”, no, no.

Da Milano ce l’abbiamo fatta. Abbiamo fatto anche un tratto col pullman, forse da Bolzano alla stazione di Milano.

D: Tu non ti sei fermata a Pescantina?

R: No, non me lo ricordo neanche quel nome. Forse non davo tanto peso, non ci facevo tanto caso. Anna è più brava di me.

D: Poi sei arrivata a Torino.

R: Sì.

D: Tu accennavi prima alla tua casa incendiata. Lo sapevi che la tua casa era stata bruciata?

R: No.

D: Questo è avvenuto dopo.

R: Dopo; quando sono arrivata a Bussolengo ho incontrato un amico di mio fratello. E’ stato lui ad accompagnarmi, ad andare ad avvisare mia mamma che stavo arrivando per non farle venire un infarto. Essendo tutta la casa disastrata lei ha avuto anche i suoi problemi e poi non era più tanto giovane.

D: Quando vi hanno incendiato la casa e chi?

R: I fascisti.

D: E quando?

R: Quando siamo state portate via. Non so se l’hanno fatto subito. Io ho anche un fratello deportato, Bianco Romano: è stato a Trieste, alla Risiera di San Sabba.

D: E poi?

R: É stato preso più tardi in una chiesa fuori da Chivasso, mi sembra.

D: Ma è ritornato da San Sabba?

R: Sì, è ritornato anche lui. Lui ha fatto un po’ più tardi, ha fatto meno prigionia, penso.

Buttol don Raffaele

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono don Raffaele Buttol, nato il 9 maggio 1918 ad Agordo, ordinato sacerdote nel 1943, mandato cappellano a Vodo di Cadore in novembre. Ho avuto una pleurite proprio in quell’anno e ci sono rimasto un anno; durante l’estate del 1944 sono cominciati i movimenti partigiani da quelle parti.

La scintilla è scoppiata con la morte di Bill, avvenuta in un rastrellamento da parte della Gestapo al rifugio Venezia.

I partigiani erano accampati sul Monte Rite, dove ora stanno trasformando il forte in museo di montagna.

Alcuni partigiani sono scesi, sapendo che c’era questo rastrellamento, incontro ai tedeschi.

Due sono scesi sul ponte sul Boite, dove il passaggio dei tedeschi era obbligatorio e con imprudenza si sono nascosti là per combattere.

Sennonché due tedeschi li hanno visti, hanno buttato una bomba, Bill è morto, Penna ferito ad una spalla è stato preso prigioniero, portato alle carceri di Belluno e si pensa che sia stato fucilato in quelle carceri.

Ho avuto un incontro con i tedeschi che portavano via Penna, i quali mi hanno detto che c’era un partigiano che aveva fatto kaputt.

Il giorno seguente, insieme ad un certo Pietro Talamini, fratello di Riccardo Talamini, chiamato Orso, nome di battaglia, si trovava sul Rite, abbiamo perlustrato il bosco alla ricerca della salma di Bill.

D: Raffaele, quando è avvenuto questo? Ti ricordi la data?

R: All’inizio di agosto del ’44. Siamo saliti fino al Monte Rite cercando la salma, ma non l’abbiamo trovata, siamo scesi.

La salma è stata ritrovata poi da un cacciatore, perché sentiva l’odore di corruzione. Da allora ho avuto continui contatti con i partigiani, dato che li abbiamo incontrati sul Rite. Ho avuto contatti anche con Gallo, il nome di battaglia era… mi scappa il nome.

D: Dopo lo recuperiamo.

R: Era comandante della Brigata Calvi. L’ho incontrato la prima volta in bicicletta e si è fermato a chiacchierare con me e mi ha chiesto se potevo conservare dei viveri per loro in canonica e li ho conservati. Questo perché un battaglione della Calvi si era trasferito proprio nella nostra zona, il battaglione Bepi Stris.

Il motivo perché si era trasferito lì era questo: il trenino di Cortina faceva servizio di trasporto d’armi; le armi arrivavano via Linz a Dobbiaco, da Dobbiaco caricavano sul trenino di Cortina – Calalzo. A Calalzo le trasportavano su quello di Padova e così le armi arrivavano al fronte.

Questo a causa di bombardamenti del Brennero, per cui c’era molta difficoltà a portare armi attraverso il Brennero.

Una missione di alleati aveva avvisato i partigiani che gli alleati avevano intenzione di bombardare la Valle del Boite per impedire che il trenino funzionasse.

Allora la Calvi promise che avrebbe trasferito nella Valle del Boite un battaglione per sabotaggi e così è stato.

E’ stato affidato questo compito al battaglione Bepi Stris ed allora ci sono stati diversi scontri.

Di notte i partigiani facevano saltare ponti, venivano minati e saltavano, finché i tedeschi stanchi di questo continuo sabotaggio avevano rastrellato truppe per l’Austria e portate fuori, hanno fatto un grande rastrellamento sui boschi dell’Antelào, da sopra San Vito, verso Vodo.

Sono stato avvisato del rastrellamento da un certo Signor Ragni, che era interprete della gendarmeria di San Vito, la quale gendarmeria si era collocata all’Alberto Malgora, dove questo signore era direttore. Avendo visto come mi trovavo, la mia situazione, quel signore mi ha avvisato del rastrellamento, pregandomi di dire ai partigiani di scappare e di non combattere, di nascondersi perché anche per un solo tedesco che fosse morto, avrebbero, per rappresaglia, bruciato Vinigo.

Non potevo muovermi perché era domenica ed ho mandato su sempre il fratello di Orso, Piero Talamini, il quale avvisava i partigiani; i partigiani sono scappati, si sono nascosti e non è successo nulla, è andato tutto liscio.

Qualcuno si è accorto del mio colloquio con un ragazzo che è arrivato in bicicletta e che mi ha avvisato della cosa e hanno denunciato me e sono stato arrestato ai primi di novembre del 1944.

D: Prima, ad ottobre, qualcuno aveva denunciato i tuoi rapporti con i partigiani?

R: Penso di sì, perché i tedeschi nell’interrogatorio mi hanno chiesto anche altre cose.

D: Ti hanno arrestato dove?

R: Mi hanno arrestato a Vodo. Sapendo di dover essere arrestato, perché avvisato, andai a Belluno e poi venni a casa mia; andavo a salutare i miei e ritornando a Calalzo ho incontrato una signorina che mi avvisava che i tedeschi mi cercavano, erano stati a Vodo per arrestarmi e non trovando me avevano portato via il parroco e la domestica.

Il parroco mi hanno detto che era sul trenino che ritornava a casa, rilasciato dopo un interrogatorio, e la domestica era ancora agli arresti. Sono salito sul trenino, sono arrivato a Peaio, una frazione prima di Vodo.

La mia intenzione era di tenermi nascosto, scappare per le montagne e ritornare ad Agordo.

Invece mi sono rifugiato la mattina presto in asilo, è arrivato il parroco per dire la messa in asilo, ci siamo incontrati, poi è ritornato in canonica, ha trovato i gendarmi che volevamo arrestarmi e lui ci è cascato: ingenuamente ha detto che ero in asilo ed ho dovuto presentarmi, di conseguenza; così è andata la cosa.

Mi hanno arrestato, mi hanno portato a Tai, là sono stato interrogato per tre ore, insistevano perché firmassi un verbale e mi sono rifiutato di firmarlo. Ad un certo momento ho buttato la penna sul tavolo, dicendo che mai mi sarei condannato da me firmando delle cose false e presi la porta per uscire: mi hanno lasciato andare.

D: A Tai dove ti hanno portato?

R: Nelle caserme, c’è una caserma, a Tai.

D: Da chi era gestita questa caserma?

R: Dalle SS penso in quel momento.

Avevano rastrellato anche tutto il Cadore, c’erano stati anche degli impiccati in Cadore in quel periodo ed addirittura avevano incominciato ad impiccare con il gancio anziché con il laccio, una cosa tremenda e pensavo che avrei fatto quella fine anch’io.

Quando sono uscito dall’interrogatorio, lungo il corridoio c’erano uomini armati da una parte e dall’altra con la baionetta in canna. Quando arrivai davanti alla mia cella volevo entrare, invece un soldato mi ha detto: “No, reverendo, venga con me”.

Mi ha accompagnato giù per le scale ed allora ho pensato che mi portassero sulla piazza d’armi per impiccarmi o per fucilarmi ormai, invece mi hanno portato, guarda che sorpresa, al cancello perché una donna mandata dal parroco di Pieve di Cadore ci portava da mangiare.

Dopo alcuni giorni ci hanno portato via, eravamo in diversi prigionieri, ognuno di noi aveva un angelo custode tedesco, con il trenino fino a Dobbiaco, e a Dobbiaco siamo scesi.

Nel frattempo è venuto un allarme aereo, sarebbe stata l’occasione buona per scappare, ma avevo sempre il mio angelo custode attaccato e quindi sono dovuto salire sul treno assieme agli altri e siamo arrivati a Bolzano.

Di notte ci hanno accompagnato al Corpo d’Armata e di lì immediatamente, senza neanche entrare, al campo di concentramento di Bolzano: lì sono rimasto per alcuni mesi.

D: Raffaele, quando sei entrato a Bolzano vi hanno spogliato e vi hanno immatricolati?

R: Subito in campo di concentramento. Abbiamo lasciato i nostri vestiti, ci hanno dato una tuta di canapa, color canapa mi sembra, con la croce di Sant’Andrea sulle spalle, il numero, il mio 6.447.

D: Assieme al numero vi hanno dato qualche altra cosa?

R: Il triangolo rosso, il segno della causa per cui eravamo dentro, politici.

D: In quanti eravate voi, nel tuo gruppo?

R: Partendo da Tai? Saremo stati una ventina penso, non ricordo il numero, ma una ventina sì.

D: Ti ricordi il nome di qualcuno?

R: No, non ricordo proprio, non ricordo più, mi dispiace.

D: C’erano anche delle donne in questo gruppo?

R: No, solo uomini.

D: Quando sei entrato a Bolzano in che blocco ti hanno messo, te lo ricordi?

R: Confinavo con il blocco delle donne, il D mi sembra. So che parlavamo anche con le donne attraverso i reticolati in alto, la parete che divideva.

D: Gli altri sapevano che tu eri un sacerdote?

R: In campo sì, mi sono subito manifestato come sacerdote e venivano anche a confessarsi, venivano anche a consolarsi, io cercavo di aiutare quanto più potevo.

Il lavoro però era faticoso, portare travi, era un lavoro veramente faticoso, si facevano le piaghe sulle spalle.

C’era un deposito di travi fuori del campo di concentramento, dovevano allargarlo, abbiamo portato via tutte quelle travi, dopo abbiamo preparato i plinti in cemento armato alti meno di un metro, per porci sopra altre baracche ed allargare il campo.

Una curiosità: un giorno, mentre lavoravo a fare i plinti fuori del campo di concentramento, vedo una donna fuori dai reticolati: era mia sorella.

Allora ho detto ai miei compagni: “Là c’è mia sorella, fuori!” “Prenditi un piccone, vai su vicino”, mi hanno detto.

Ho preso un piccone, ho cominciato un buco, ma mia sorella come mi ha visto mi ha riconosciuto e si è messa a gridare il mio nome ed una guardia sulla garitta ha cominciato a gridare, urlare e puntare il fucile, per cui io sono scappato e mia sorella ha dovuto allontanarsi.

Ero stanco per le fatiche; i lavori di fatica erano affidati sempre a chi aveva un titolo di studio, a chi non aveva un mestiere pratico: medici, maestri, laureati ed anche preti.

Un giorno mi lamentavo del lavoro, della fatica che facevo con un tizio incontrato prima della conta sul campo aperto: mi ha chiesto chi ero ed ho detto: “Sono un prete della diocesi di Belluno e faccio veramente fatica a fare certi lavori”.

Allora lui, veramente buono, era un emiliano, mi ha detto: “Guardi, sono responsabile dei falegnami in campo, chiederò un altro falegname perché ne ho veramente bisogno. Quando il comandante chiede se c’è un falegname tra voi, tu alza immediatamente la mano, senza esitare.” Così ho fatto ed il giorno seguente o la sera seguente, non so, mi hanno chiamato fuori e sono andato a lavorare in falegnameria.

D: Dov’era la falegnameria?

R: Dentro nel campo.

D: Quindi non uscivate dal campo.

R: No, preparavamo le baracche per l’allargamento del campo.

Mi hanno dato una tavola da piallare, la pialla si piantava come una zappa nel campo e non andava avanti, allora si sono messi tutti a ridere. Erano tutti emiliani in quell’ambiente. Allora mi hanno detto: “Tu non sei mica falegname!” “No” dico “Qual è il tuo mestiere?” “Indovina!” Hanno cominciato a chiedermi i mestieri, poi i titoli, lauree niente.

“Insomma che cosa sei tu?” “Prete” ho detto. Da quel giorno mi hanno dato sempre del Lei, gli emiliani.

D: Raffaele, mentre trasportavate i pali lo facevi assieme ad altri deportati?

R: Sì, c’erano questi due di Lentate sul Seveso, sono poi venuti a trovarmi qui ad Agordo. I Parisio, due fratelli.

D: Nel campo c’erano altri sacerdoti?

R: C’era un certo don Andrea Gaggero, che era chiuso nelle celle perché aveva fatto il damerino della mensa degli ufficiali. Una volta entrando gli avevano affidato denari, non so chi, da portar dentro per i deportati genovesi, glieli hanno trovati addosso e quindi lo hanno chiuso in cella e castigato per diverso tempo.

A quello, sapendo che c’era, ho passato una Divina Commedia, un Dantino piccolo, formato tascabile, perché si passasse il tempo, anzi mi hanno permesso di entrare a vederlo, una guardia. La guardia delle celle era un altoatesino, era un buon individuo, portava dentro anche sigarette se gliele davano.

In cella, fra l’altro, c’era anche il segretario comunale di Vodo di Cadore, Filippi Antonio, incarcerato perché non aveva testimoniato contro di me.

Quel Dantino è rimasto in cella, lo so perché dopoguerra ho letto un giornalino femminile ed una deportata raccontava del campo di concentramento di Bolzano e di aver avuto tra le mani, nelle celle, perfino un Dantino, con grande meraviglia sua: come aveva fatto ad entrare quella Divina Commedia? Era il mio io penso, senz’altro.

D: Raffaele, ti ricordi di un medico all’interno del campo?

R: Lo ricordo sì. Sono andato da lui perché ero pieno di macchie rosse attorno alla cintura; siccome c’era la scabbia in campo pensavo di avere anch’io la scabbia.

Sono andato da lui, mi ha guardato e mi ha dato uno schiaffo sulla pancia, dicendo: questi sono pidocchi, non scabbia.

D: E’ stato quel medico che è stato colpito, che ha subìto dei maltrattamenti?

R: Non ricordo, mi sfugge.

D: Anche un falegname…

R: Un falegname sì, l’ho visto. Un falegname aveva lavorato nel blocco delle donne; finito il lavoro percorreva il corridoio di reti con la scala sulle spalle e un martello nel taschino. Ad un certo momento si è fermato perché il corridoio era chiuso da dei sottufficiali che ascoltavano il maresciallo, lui parlava.

Si era fermato a distanza, uno di questi sottufficiali ha fatto un passo avanti per lasciarlo passare, lui, credendo che fosse l’invito a passare si è mosso, sennonché il maresciallo pensando che avesse scomodato quegli ufficiali, è andato lì, ha levato il martello dal taschino e gli ha dato un colpo in testa.

Dopodiché io non lo incontrai più quel falegname, non lo vidi più.

C’erano delle avventure in campo di concentramento.

D: Non ti ricordi il nome di questo?

R: No, non lo sapevo, non l’ho mai saputo neanche.

D: Adesso ti dico un nome che ti ricorderai. In campo c’era anche un maestro, il maestro Palmeri.

R: Quello lo ricordo, faceva il facchino del carro, e un giorno mi ha avvisato: “Guarda don Raffaele che domani ho un incontro con mia moglie in un magazzino, incontro progettato da un magazziniere, se hai bisogno di qualcosa”. Allora ho preparato una lettera per il mio vescovo, gliel’ho data, se l’è messa nelle scarpe, nel magazzino ha finto di doversi allacciare la scarpa, l’ha levata e l’ha consegnata alla moglie e quella lettera è arrivata al mio vescovo.

In quella lettera io dicevo al vescovo che ero stato processato, ma non avevano testimonianze contro di me, anzi, mi ero rifiutato anche di firmare il verbale. Per cui il vescovo ha avuto la lettera ed è intervenuto. Si è incontrato con il Dott. Sailer, presidente del Tribunale Speciale di Bolzano ed hanno progettato di levarmi dal campo di concentramento e trasferirmi ancora alle carceri giudiziarie di Bolzano per rivedere il processo.

Al vescovo, me lo ha detto il vescovo quando uscii, ha detto che avrebbero rivisto la causa, ma se mi trovavano colpevole avrei avuto la fucilazione come minimo, fucilazione al petto anziché alla schiena.

Ma la cosa è andata liscia, nessuno più testimoniava perché la guerra andava male per i tedeschi. Tutti avevano paura a parlare e così riaperta l’istruttoria in Cadore non sono venuti a capo di niente, anzi il Tribunale Speciale aveva preparato il foglio di scarcerazione, era venuto Sailer, assieme a Hölzl, in carcere a dirmi che avevano preparato il foglio, ma le SS lo avevano cestinato.

Nel frattempo hanno detto che avrebbero pensato a qualcos’altro per farmi andare a casa, ma nel frattempo mi avrebbero mandato nelle carceri giudiziarie, nelle carceri mandamentali di Silandro.

Difatti una sera è venuto un gendarme che mi ha preso perché doveva trasferirmi a Silandro ed ho fatto il viaggio con lui.

D: Hai parlato più volte del vescovo, del tuo vescovo, ma chi era?

R: Monsignor Maffeo Ducoli, un eroe. Mi commuovo quando parlo di lui. Un eroe anche della Resistenza, davvero, sotto tutti gli aspetti, ha sempre difeso le popolazioni, ha parlato forte contro gli occupanti e ha difeso quanta più gente poteva. E’ stato anche lui sequestrato per lavoro lungo una strada tra Belluno e Feltre.

E’ stato sequestrato anche a Feltre e portato dentro nel piazzale della fabbrica dell’alluminio e poi è stato rilasciato, ma sulla strada ha dovuto lavorare anche lui una volta, assieme agli altri fermati.

Poi è merito suo una cosa che resta in memoria di tutti i bellunesi: a Belluno hanno impiccato quattro partigiani che erano in carcere, è stata una rappresaglia e lui, saputo questo, si è presentato in piazza, sfidando anche l’ira dei gendarmi e di chi era lì.

Si è fatta portare una scala ed è salito, ha dato l’olio santo a tutti quanti quei quattro.

D: Scusa Raffaele, come si chiamava il vescovo?

R: Maffeo Ducoli.

D: Non c’entra con Bortignon?

R: Scusi, sbagliavo io! E’ Bortignon. Bortignon, era amministratore apostolico della diocesi di Belluno, poi è stato trasferito con grande nostro dispiacere a Padova ed è morto a Padova. Come si fa a correggere ora?

D: Non c’è problema, è corretto. Quindi il tuo vescovo era Bortignon, ed è venuto anche nel campo.

R: Io ero già fuori dal campo, forse ero in carcere, so che è andato in campo ed ha detto anche una messa in campo di concentramento.

D: Aveva portato anche dei generi alimentari.

R: Sì, certo. Ha sfidato le ire dei tedeschi; ha scritto una lettera a Franz Hofer, ferrata, chiusa, forte, in difesa delle sue popolazioni.

D: Nelle carceri di Silandro quando ti hanno portato? Ti ricordi?

R: Ai primi di marzo, ma sono rimasto pochi giorni a Silandro, 17 giorni. Là ho incontrato gente che avevo conosciuto nelle cantine delle carceri di Bolzano, dove si scendeva durante gli allarmi per i bombardamenti aerei. Cioè Gino Lubich e Giorgio Tosi. Gino Lubich l’ho rivisto. Arrivati a Silandro mi hanno assegnato una cella, mi hanno dato il necessario per fare il letto, mi hanno chiuso dentro. Fatto il letto, avevo tracciato una croce sulla parete di calce e mentre ero inginocchiato che pregavo, aprono la cella ed entrano Gino Lubich e Giorgio Tosi: sono rimasto quanto mai contento e soddisfatto di incontrarli.

Ora Gino Lubich l’ho incontrato ancora a Roma, è fratello di Chiara Lubich, la fondatrice dei Focolarini. L’ho incontrato alla redazione di Città Nuova e Giorgio Tosi ha comprato una casa qui nella nostra valle di San Lucano e viene in villeggiatura in Valle di San Lucano.

Una casa vicino alla chiesa di San Lucano, vedesse che posto.

D: Raffaele, tu eri nel campo di Bolzano, ti hanno prelevato dal campo di Bolzano e portato in carcere a Bolzano e lì hai avuto un incontro….

R: Con questi due nelle cantine, durante i bombardamenti.

D: Anche un incontro con SS? Non hai avuto un incontro, un interrogatorio?

R: Sì, con il Dott. Hölzl. All’inizio si mostrava molto severo, mi ha chiesto: “Tu sei il tal dei tali? Sei nato in questo luogo? Tu hai avuto relazioni con i partigiani, sì e quali?” “Amministravo dei sacramenti, sepolto morti” “Ma ti sei interessato anche per altro?” “No”, ho detto io. Allora come una vipera mi ha sgridato ed ha detto che ritornassi in carcere, che ci ripensassi, se non volevo rimanere in carcere a vita. Allora dentro di me mi sono detto: “Se tu mi tieni in carcere a vita sono ben contento, se parlavi di impiccarmi avevo paura .. ma così…”

In seguito ha cambiato tono, forse si era incontrato con il Dott. Sailer ed ha cambiato anche tono, più remissivo, più buono direi.

D: Lì c’è stato l’interessamento anche del Comitato di Liberazione?

R: Penso di sì, perché la moglie del Segretario di Vodo, Antonio Filippi, è andata al Tribunale Speciale a chiedere informazioni di suo marito ed è stata trattata male, male e male, probabilmente era andato da Dott. Hölzl. Uscita, si è appoggiata ad un ippocastano del viale a piangere. E’ passato di lì un signore che vedendola piangere l’ha interrogata, ha detto il motivo e le ha detto: “Stia tranquilla, signora, pensiamo noi a quel tizio, vedrà che cambierà tono”. E così è stato.

D: Dalle carceri di Bolzano…

R: Dalle carceri di Bolzano sono andato a Silandro e lui, invece, qualche giorno prima è stato lasciato libero, per fortuna sua, perché è ritornato a casa con il tifo addosso ed è stato ricoverato a Belluno e per fortuna in tempo, sennò guai.

D: A Silandro c’erano altri religiosi?

R: Quattro preti, altoatesini tutti e quattro. Non ricordo i nomi, ma buoni, buoni religiosi, celebravo con loro la messa alla mattina, mangiavo con loro perché i frati del convento portavano dentro loro il vitto per noi. Il primo giorno che ho mangiato con loro non mi saziavo più. Hanno portato dentro delle palle grosse così, i canederli, mi sentivo pieno fin qua ed ancora ne avrei mangiate se avessi potuto; si era risvegliata la fame, perché ad un certo momento a Bolzano non si sentiva neppure più la fame. Si perde anche quella.

D: Oltre a questi quattro sacerdoti, a Silandro c’erano altri prigionieri?

R: Sì, delinquenti comuni ma di passaggio più che altro, ho conosciuto un tizio che mi ha parlato di un certo Stradelli, che era stato incarcerato con lui.

D: Erano sacerdoti tedeschi?

R: Sì, uno poi aveva 97 anni. E’ stato condannato a morte prima, per una stupidaggine direi.

Dopo Natale aveva disfatto il presepio nella sua chiesa, però l’hanno chiamato nel frattempo non so dove ed ha lasciato lì il bue e l’asinello, era di sabato. La domenica seguente entra in chiesa un signore e gli chiede come mai sono rimasti soltanto il bue e l’asinello sul presepio e dice: “Vogliono rimanere loro due soli al mondo, lasciali”. “Ma chi?” “Hitler e Mussolini!”, ha detto lui.

Per questo motivo è stato arrestato e condannato a morte per lesa maestà e lui si è messo a ridere, dicendo: “Ormai tanto non mi rubate, ho 97 anni!”

Ma poi è scoppiato a ridere quando ha sentito che la sua condanna veniva commutata in diciotto anni di carcere. Si è messo a ridere dicendo: “Voi volete regalarmi vita, ma dovete fare i conti con il Padre Eterno!”

D: Le guardie a Silandro chi erano?

R: C’era un custode, un certo Giuseppe Semola, mi sembra si chiamasse, o Segala, con la famiglia che custodiva il carcere, non c’erano altri.

C’erano i gendarmi sulla caserma, tanto è vero che si poteva uscire nel giardino della prefettura e un giorno sono salito su per il colle a spidocchiarmi un po’, per pulirmi. Parlavo sempre con Gino Lubich più che con Giorgio Tosi dell’esistenza di Dio, perché si diceva ateo, ma non era ateo, era alla ricerca io penso e con Giorgio Tosi abbiamo discusso dell’autenticità del Pentateuco. Aveva ragione lui, aveva studiato un testo di un certo cardinale Beha, il quale insisteva che l’autore del Pentateuco era Mosè e che le differenze di stile erano dovute a periodi diversi e luoghi diversi dove aveva scritto.

In realtà oggi gli esegeti dicono che è di autori diversi, però la fonte sì è Mosè, poi gli altri hanno redatto i testi. Aveva ragione lui quindi, questo è Giorgio Tosi.

D: A Silandro sei stato interrogato?

R: No, in santa pace, anzi…

D: Fino alla Liberazione.

R: Sì, è arrivata subito su una sera mia sorella e dice: “Sono venuta a vedere se sei ancora qui. Devi scendere a Bolzano per firmare un contratto di scambio di prigionieri”, è venuta mia sorella a dirmelo, quella che mi portava i viveri a Bolzano, ma io dico: “Mi sembra impossibile la storia!” Invece è arrivato un gendarme la sera mi ha preso e mi ha portato a Bolzano. Siamo arrivati alla sera al Tribunale Speciale e ci siamo incontrati con altri quattro, un certo Armando Osta di Comelico, che era già condannato a morte, l’avevo conosciuto nelle celle dei condannati, perché andavo con il cappellano, don Giovanni, mi sfugge il nome, cappellano delle carceri di Bolzano, portava la comunione tutte le mattine e l’accompagnavo in quella cella a portare la comunione ai condannati a morte.

C’era lui dunque liberato, una signora di Seren del Grappa e due ragazzi di Fonzaso; ricordo il cognome di uno, Balestra, ma dell’altro non ricordo niente, e siamo usciti tutti assieme.

Io ho firmato. Don Mario Martinelli che era dell’ufficio prepositurale ci ha offerto la cena; quella sera abbiamo fatto festa e poi il giorno dopo siamo partiti per tornare a casa. Un mese prima che finisse la guerra.

D: Tu cosa hai firmato?

R: Il contratto di scambio. Io purtroppo ho dato i miei documenti a chi ha stampato questo libretto e me li hanno persi. Eccolo qua, il contratto è qui. E’ un contratto di scambio: per sei gendarmi il Tribunale liberava cinque politici.

Mi sembra che tra questi sei gendarmi ci fosse un alto ufficiale, è per quello che hanno accettato lo scambio. Per la prima volta, io penso: forse è il primo contratto di scambio che combinano con i partigiani di Belluno. Il contratto dice: Scambio di prigionieri tra il Tribunale Speciale e il Corpo Volontari della Libertà della provincia di Belluno. Forse è la prima volta che danno un riconoscimento ufficiale ed anche l’ultima penso, perché ormai la guerra finiva.

D: La tua lettera al vescovo è stata conservata?

R: Sarà stata conservata dal vescovo penso, io non ho copia.

D: Il maestro Palmeri dove si incontrava con sua moglie?

R: In un magazzino.

D: Di scarpe forse?

R: Non lo so, è entrato, non credo di scarpe, perché andava fuori per i generi alimentari del campo di concentramento, faceva il facchino di quel carro. Dunque il magazziniere ha dato l’appuntamento alla moglie; lui, entrando nel magazzino ha finto di doversi allacciare le scarpe ed intanto parlava, la signora era vestita da commessa e così potevano scambiare qualche parola, così è stato.

Bravo quel Palmeri, non so come mai non è rimasto a Feltre, è ritornato in Italia meridionale.

D: Ti ricordi come nel campo di Bolzano facevate l’appello?

R: Sì, eravamo tutti in squadra, a graticola, mi sembra dieci per dieci, se mancava uno si vedeva subito il suo posto, perché tutti avevamo il nostro posto fisso: il compagno di fianco, quello davanti, quello dietro, tutto fisso, quindi era facile notare se uno mancava: lo si vedeva subito.

D: Quante volte al giorno veniva fatto l’appello?

R: Al mattino ed alla sera. Alla mattina prima che partissero quelli che lavoravano nella galleria della Lancia ed alla sera. Era triste quando c’erano le partenze, quando facevano l’appello di chi doveva partire per la Germania al mattino: partivano alle volte le mogli con i bambini ed il marito era alla Lancia a lavorare, alla sera, quando ritornava non trovava più la moglie, una desolazione era.

Poi erano tremendi anche contro le donne, i tedeschi. Era di partenza una spedizione per la Germania e non essendo partiti immediatamente per colpa dei bombardamenti hanno dovuti trattenerli in un blocco vicino alle donne, già scaricati dal campo di concentramento. Le donne avevano passato i viveri per il viaggio, consumati tutti i viveri, non avevano più niente da mangiare le donne, una sera hanno passato i loro viveri e per questo motivo sono state castigate, una giornata intera in piedi all’aria, fuori. Cadevano e dovevano rimanere a terra così come cadevano, fino a sera.

D: Hai parlato di donne ed hai accennato a dei bambini. Ti ricordi dei bambini nel campo?

R: Sì, erano sempre con le donne e li ricordo, poverini, ma loro avevano la mamma ed erano abbastanza tranquilli, ma le mamme! Per loro erano spine.

D: Gli appelli per la partenza per la Germania erano diversi dall’appello del mattino o della sera del campo?

R: Mattina e sera ci contavano solo, non facevano l’appello, ci contavano quanti eravamo nella graticola per così dire, in squadra, invece per la partenza in Germania chiamavano i numeri. Erano momenti di tremore quelli, avevamo tutti paura.

D: Tu hai visto tuoi amici partire?

R: No, amici si diventava lì in campo. Il 31 dicembre del ’44 abbiamo fatto un po’ di festa fino a mezzanotte, gridato, urlato, anch’io ho recitato preghiere con gli altri, tre rosari in gruppi diversi, poi a mezzanotte si sono quietati tutti quanti, sennonché un ragazzo era usciti in piedi su una cassetta, la cassetta della legna e stando lì in piedi raccontava barzellette ai suoi amici attorno. Io fingevo di non sentire, dormivo là vicino, ma ad un certo momento ho cominciato a ribollire, perché erano tutte barzellette sudicie e sono sceso dal mio castello al quarto piano, ed ho detto: “Per favore raccontate barzellette belle che possa ascoltare anch’io invece di queste cose sporche”.

E’ saltato un capocellula dell’Emilia, tutto ansimante e mi ha detto: “Reverendo, lasci che si divertano, cosa interessa a lei?” “Io non volevo mica disturbali, volevo soltanto che cambiassero barzellette per sentirle anch’io” e cercavo di ragionare con questo tale.

Un avvocato di Biella che dormiva vicino a me ha detto questa frase: “Reverendo, nolite abicere margaritas ante porcos, vuol dire non butti pietre preziose ai porci”, è una frase del Vangelo. Allora questo capoccia è andato a discutere con lui, ma lui non ha risposto, ha adagiato la testa, ha lasciato che l’altro gridasse e non ha risposto per niente ed anch’io ho potuto adagiarmi.

Alcuni giorno dopo quei ragazzi, incominciando da quello che raccontava barzellette, hanno chiesto di confessarsi da me, li ho confessati tutti ed il giorno dopo, alla conta, li hanno chiamati fuori in partenza per la Germania. Guardi la provvidenza come lavora.

D: Tornando un passo indietro: in questa zona ci sono state delle azioni repressive, paesi bruciati?

R: Caviola e Voltago. Due paesi bruciati. Voltago dista quattro chilometri da Agordo e Caviola quindici.

D: Perché sono stati bruciati?

R: A Caviola è arrivato un battaglione tedesco, non so quanti ed i partigiani hanno cercato di resistere in fondo alla valle di Canale d’Agordo e poi hanno distrutto quel paese, dimentico i nomi. Poi hanno combattuto la sera i partigiani. Questi tedeschi sono scesi dalla valle, hanno fatto il Passo San Pellegrino mi sembra, sono scesi a Canale d’Agordo, hanno bruciato il primo paese, il paesino, poi sono usciti per la vallata e poi, arrivati verso Falcade hanno trovato la resistenza da parte di partigiani, c’è stato un combattimento forte ed i tedeschi hanno bruciato Caviola, proprio per rappresaglia.

D: Gli abitanti di questo paese li hanno fatti evacuare?

R: No, erano tutti là. Hanno assistito all’incendio. Hanno dovuto ricostruire tutto nel dopoguerra. E’ una cosa triste.

A Voltago è successo pressappoco la stessa cosa: sono arrivati i tedeschi in rappresaglia, avevano preso prigioniero un partigiano, non so come, hanno voluto che questo partigiano indicasse le case dei partigiani, l’hanno portato avanti, non so se abbia indicato le case dei partigiani, fatto sta che hanno bruciato tante case ed un ragazzo di Voltago, uno studente, scendeva ad un villaggio per prendere il latte per la sua famiglia, ha visto i tedeschi che arrivavano con questo partigiano, è corso in paese a gridare “I tedeschi, i tedeschi!”.

In paese c’erano già tedeschi che l’hanno preso, Loris Scussel si chiamava il ragazzo, il nome del partigiano invece non lo ricordo; sono stati uccisi ambedue, il partigiano impiccato e questo ragazzo fucilato, sedici anni il ragazzo, ed hanno bruciato molte case del paese.

In campo di concentramento ho incontrato un sacerdote, don Vittorio Tiscornia, di Chiavari, il quale celebrava la messa la domenica, quando permettevano che fosse celebrata. Come facesse ad avere vino e particole io non lo so, ma certamente la domenica quando diceva messa distribuiva anche la comunione e conservava alcune particole per la settimana e quando volevo fare la comunione andavo da lui al mattino presto, prima della conta e mi dava la comunione.

Questo sacerdote era stato deportato perché quando ha avuto la primizia dell’olio, anziché conferire l’olio all’ammasso, l’ha distribuito ai poveri della sua parrocchia.

D: Bellissima questa cosa: è rimasto nel campo?

R: E’ rimasto nel campo fino alla fine.

D: Ti ricordi in che blocco era? Nel tuo blocco?

R: Mi sembra che fosse il blocco B.

D: Il numero non te lo ricordi?

R: No.

D: La messa dove la facevate?

R: Sul campo, all’aperto. Potevano venire da qualsiasi blocco, non potevano entrare naturalmente quelli delle celle, chiusi in cella, quelli no, per forza, ma gli altri potevano venire tutti.

D: Quindi all’aperto.

R: Sì, all’aperto. Non tutte le domeniche era permesso, se succedeva qualcosa in campo contro la disciplina o altro allora non permettevano più la messa, altrimenti sì.

D: Questo da quando è iniziato, te lo ricordi?

R: Quando sono entrato in campo io. Mi ricordo che a Natale un gruppo di deportati altoatesini hanno cantato Stille Nacht e tutti i loro canti tradizionali dell’Alto Adige; hanno commosso la gente, davvero.

D: Quindi c’era anche il coro?

R: C’era il coro, tutti altoatesini.

Bellumat Vittore

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Vittore Bellumat, sono nato a Feltre il 12 ottobre 1926.

Come ha detto l’intervistato di prima, sono stato preso il 3 ottobre da una pattuglia tedesca, 3 ottobre 1944, qui in Feltre, in occasione di quel famoso rastrellamento cui è stato accennato prima. Portato prima nella Caserma Zanitelli di Feltre e poi al Cinema Italia, dove abbiamo pernottato quella notte; il giorno dopo siamo stati trasportati a Bolzano, con tappa a Grigno, Grigno di Valsugana.

Siamo arrivati a Bolzano tre giorni dopo, perché durante i bombardamenti il treno veniva messo sul binario a fianco, per dare modo agli altri treni di snellire.

Siamo arrivati a Bolzano alla sera, verso alle otto.

Una cosa che mi ricordo sempre è che, penso neanche in trenta secondi, eravamo in centoquattordici, noi di Feltre, e ci hanno allineati con i cani: ci sembrava gente veramente agguerrita militaresca, tanto era il terrore che ci incutevano.

Poi ci hanno portato nel campo di Bolzano e lì è stato un impatto terribile, perché abbiamo visto gli altri già prigionieri da prima, e nella penombra sembravano ancora più brutti.

Il giorno dopo ci hanno dato il numero, il mio numero era 5.014, ci hanno rapato i capelli a zero, consegnato una tuta con il triangolo ed abbiamo cominciato la nostra vita nel campo di concentramento di Bolzano.

Consisteva nella chiamata mattutina, l’appello, il famoso appello, si divertivano a prenderci in giro, cappelli su, cappelli giù, allineati.

Non ci chiamavano più per nome, eravamo solo un numero e guai a chi non rispondeva, magari per un momento di disattenzione, magari si aspettava che chiamassero il nome, invece era il numero e lì erano botte.

Ci portavano poi tutti i giorni a lavorare, uno da una parte, uno dall’altra. Sono stato alla Galleria del Virgolo, sono stato alla Caserma di Gries a lavorare.

Durante i bombardamenti loro si mettevano nei rifugi e noi nella piazza della caserma a lavorare con i bombardamenti sopra.

Ho lavorato, ho scaricato treni, ho lavorato in galleria, tanti lavori pesanti, e dopo i bombardamenti a sgombrare dalle macerie.

Alla sera, quando si rientrava, con quel poco da mangiare, fortuna che fuori qualcuno ci aiutava, si dormiva, non importa se il pagliericcio era misero, un paio di centimetri di trucioli e si dormiva, non c’era bisogno di calmanti, né niente.

D: Vittore, eravate sempre sorvegliati anche quando eravate sul luogo di lavoro?

R: Sì, mi ricordo per esempio al Virgolo: noi lavoravamo solamente all’interno, si caricavano i carrelli e quando si arrivava all’imboccatura c’erano i civili che portavano via il materiale o quello che noi si portava con i carrelli, ce li riconsegnavano e noi si lavorava all’interno.

Alle bocche del Virgolo c’erano le mitragliere e noi eravamo propri assoggettati a loro e basta.

D: Tu nel campo di Bolzano fino a quando sei rimasto?

R: Io sono rimasto… la data precisa non mi ricordo, ma senz’altro fino a febbraio, dopodiché mi hanno trasferito a Vipiteno. Ci hanno trasferiti, perché il campo brulicava ormai. Si sentiva dire che l’ultima spedizione per la Germania fosse stata nel febbraio, non ricordo la data.

Dopodiché hanno cominciato a sfoltire il campo nei campi satelliti, i vari campi satelliti.

So che quando ero ancora a Bolzano sono stato in Val Sarentino a lavorare; si pensava di andare là mentre ci avrebbero preparato il campo. Erano le voci, noi si diceva, di radio bugliolo, le notizie che venivano da fuori, era la famosa radio bugliolo. Abbiamo lavorato in Val Sarentino e poi mi hanno portato, invece, a Vipiteno, che era al confine.

D: Scusa Vittore, prima accennavi di essere stato a lavorare in una caserma a Bolzano.

R: Quella di Gries, mi pare Gries.

D: Cosa facevi in quella caserma?

R: Tutto quello che occorreva, pulizie delle sale, servizi alle stanze degli ufficiali, tutto quello che c’era da fare. Generalmente, però, erano lavori pesanti, come scaricare camion: Partivamo con i camion di munizioni che si portavano al castello vicino a Bolzano, quel famoso castello dei conti Firmian, Castelfirmiano; lì c’era vicino un deposito d’armi e si portavano dentro queste cassette di munizioni.

Ricordo che il passaggio era sconnesso, con queste cassette da oltre cinquanta chili, era tremendo, perché in quattro si doveva scaricare un camion, uno dei lavori che mi ricordo d’aver fatto.

D: E su a Vipiteno?

R: Anche, uguale, eravamo alloggiati in una caserma, che era una caserma ex finanza. A Vipiteno noi eravamo esclusivamente sotto la SS, perché c’era una caserma con oltre, mi dicevano, mille SS a Vipiteno. Perciò potrei dire che quasi quasi stavo peggio lassù che a Bolzano, anche perché lassù nessuno ci aiutava: a Bolzano qualche pagnotta o frutta ecc… si poteva recuperare, a Vipiteno no.

Se si lavorava magari vicino a qualche casa normale si chiedeva a qualcuno: “Per cortesia può andarmi a prendere in farmacia qualcosa?”, io avevo la bronchite. Non capivano ed allora, era gioventù magari, dicevo una parolaccia e si vedeva che avevano capito.

Ho sentito tuttora a Vipiteno, pur essendo zona turistica, che accolgono bene ecc…; ci sono stato l’altro anno, dopo tanti anni ed ho trovato un autista, era una gita. Invece che andare a vedere le miniere, il museo delle miniere e quello che c’era in programma, in due ore di sosta, sono andato via per i paraggi dov’ero ed ho trovato un taxista. Ho visto la macchina: “E’ in servizio?”, “No, dice, era un tedesco dall’accento, ma parlava l’italiano, serve?” “Sì, vorrei andare qua”. Ero vicino alla stazione e mi ha portato là, ho visto la caserma e dico: “Fermo che guardo, chi c’è qui adesso?” “Ci sono i Kosovari” e parlavamo. “Lei conosce i posti”, mi dice, “Sì, ci sono stato parecchi mesi prigioniero!” “Mi ha detto mio padre, con la sua pronuncia, che qui c’erano i banditi”. “Ma che banditi, ho detto io, voi siete gente cattiva!” Ero giovane, ho compiuto diciotto anni nel campo di concentramento ed ho patito, perché quando sono tornato ho fatto otto mesi in ospedale, ho avuto il periodo dello sviluppo proprio nel campo, senza mangiare né niente, avevo una pleurite trascurata e altro, parecchie magagne; ho fatto otto mesi all’ospedale.

D: Ascolta Vittore, ma quando tu eri a Vipiteno, cosa facevi di lavoro?

R: Di lavoro eravamo in una caserma. Per esempio andavamo nelle caserme del luogo a lavorare, nei boschi. Vicino alla nostra caserma stavano facendo un rifugio antiaereo, una galleria, perciò lì avevo lavorato tanto e ci mandavano dentro quasi subito dopo scoppiate le mine di avanzamento. Non ricordo se erano intossicate, io ho sempre tossito, in quel periodo avevo la bronchite cronica e mi è rimasta anche adesso, a dire la verità.

Lavori pesanti veramente, scaricare camion, treni, anche per esempio vicino a Fortezza: ci portavano giù, c’era una caserma, un castello, una polveriera, scaricare munizioni anche lì, tutti lavori che servivano a loro.

D: C’erano anche delle donne in questo campo a Vipiteno?

R: No, nel nostro gruppo no; c’erano le donne, direi le amanti dei comandanti, quelli che ci trattavano veramente male e ci guardavano con disprezzo perché loro erano dall’altra parte.

D: Fino a quando sei rimasto lì?

R: Fino alla fine della guerra. Al 3 maggio, nel pomeriggio, sono arrivati i tedeschi, che erano in ritirata, via via, in mezzora abbiamo dovuto prendere i nostri stracci, so che ho dormito in un vagone in stazione a Vipiteno, perché ci hanno buttato fuori nel pomeriggio, nel tardo pomeriggio.

D: E poi cos’è successo?

R: Poi, non ho avuto la fortuna di Gianni di avere un camioncino, ero giovane, mi hanno preso che ero appena venuto fuori dal collegio, perciò non avevo né esperienza né niente ed ho cominciato a tappe a venire a Feltre. Ci sono voluti cinque giorni e sono arrivato veramente al limite delle forze.

D: Non sei passato dal campo di Bolzano?

R: No, lì c’erano i tedeschi, hanno messo una fascia di servizio ed hanno avuto due o tre tragitti con il treno, da una stazione, da un ponte rotto all’altro ponte rotto. Avevano fatto saltare tutti i ponti ed ho avuto la fortuna di montar su, sono centocessanta mi pare i chilometri da Bolzano a Feltre, ne avrò fatti centoventi a piedi.

D: Scusa, dicevi che vi hanno messo una fascia?

R: No, i tedeschi si erano messi una fascia e facevano un ottimo servizio di smistamento, chi doveva andare in su e chi in giù e tenevano l’ordine. Da quel lato li ho ammirati, pur odiandoli ancora al giorno d’oggi, in quel lato dicevo: “Hanno tenuto loro per liberare la zona”.

D: Ascolta, quando vi hanno detto che eravate liberi, in quanti eravate?

R: Noi qui da Feltre eravamo, nel nostro gruppo, quattordici, poi lassù ce n’erano tanti, passati per il campo di Bolzano provenienti da Sanremo, un gruppo da Sanremo, mi ricordo. Tanti che avevano anche fatto una ricerca per trovare un certo Annibale, non ricordo il nome, che piangeva sempre, quello era più giovane di me, ma piangeva sempre. Mi ricordo d’aver fatto amicizia.

D: Ascolta, Vittore, durante il tuo periodo di deportazione hai potuto scrivere a casa?

R: I primi tempi ci avevano dato il permesso di scrivere a casa ed ho scritto in collegio, perché mia mamma era a Milano, era a balia; mio papà era morto in un incidente di lavoro. La mamma non era a Milano ma vicino a Domodossola, con la famiglia del notaio per cui lei lavorava, dove avevano la casa di montagna; andava al mare, poi in montagna.

Perciò avevano fatto la Repubblica della Val D’Ossola e lei è venuta a saperlo tre mesi dopo che ero prigioniero ed è venuta su con una neve!, quell’anno ne ha fatta tanta di neve, a trovarmi a Vipiteno.

D: Tua mamma è venuta a Vipiteno?

R: Quando ha saputo, con l’autostop ecc…, è capitata su, lei ed un’altra signora di Feltre.

D: E tu sei riuscito a vederla?

R: Ce n’era qualcuno più umano, la caserma era recintata, aveva un ampio recinto. Ci mandavano fuori, eravamo senz’acqua, a prendere l’acqua in paese ed allora l’ho vista: “Mamma, stai lontana!”, poche parole e via.

E’ stata su due o tre giorni e quando è tornata a casa io ho respirato, anche perché non volevo farmi vedere che ero ammalato ed avevo questa bronchite continua e lei soffriva.

D: Quindi sei riuscito a parlarle?

R: Sì.

D: Tu potevi ricevere posta, pacchi?

R: No, a Bolzano ne ho ricevuto qualcuno, lassù mia mamma ha portato un pacco.

Poi c’era una di Feltre che penso andasse d’accordo con uno della SS, un tenente; mi ha portato un paio di pacchi, era una che io conoscevo già, aveva un paio d’anni più di me e mi ha portato i pacchi, so che veniva lì accompagnata con questo tenente della SS e diceva: “Vittorino ti ho portato un pacco, me l’ha dato tua mamma”. Lassù eravamo in mezzo a gente, oltre che la SS, avevamo contro anche la popolazione. Veramente non ho un bel ricordo di Vipiteno.

D: Come chiedevo a Gianni prima, tu ti ricordi di qualche religioso, di qualche sacerdote?

R: Sì a Bolzano, a Vipiteno no.

D: Ricordi quando celebravano?

R: Celebrava la messa, mi ricordo che una volta ha detto anche: “Fate pure la comunione, non occorre la confessione! quando tornerete a casa vi metterete a posto, qui siete tutti liberi con la coscienza di poter fare la comunione” e l’abbiamo fatta, mi ricordo con tanta devozione, un paio di volte.

D: Questo nella piazza del campo?

R: Sì, nella piazza del campo, che era grande.

D: E potevano assistere tutti a queste funzioni?

R: Sì tutti, quelli che non erano nelle celle, perché a Bolzano c’erano anche le celle. C’era un feltrino anche…

D: Ricordi il sacerdote com’era, se era un tipo particolare, giovane, anziano, alto, magro…

R: Statura media quello che diceva la messa, non ricordo bene, perché eravamo una folla, eravamo dall’altare magari anche un po’ lontani, poi la comunione… Ma una persona molto umana, molto simpatica, era prigioniero anche lui.

D: Era un deportato?

R: Sì, io ho letto anche il nome sul libro fatto nella ricorrenza dei trent’anni del Lager di Bolzano; c’è il nome di quel sacerdote.

D: Tu non lo ricordi adesso il nome?

R: No, il nome no.

D: Il tuo triangolo di che colore era?

R: Rosa all’inizio, all’inizio mi avevano dato… l’errore che diceva Gianni prima, all’inizio mi avevano dato il numero 5.514 ed il giorno dopo mi hanno richiamato e mi hanno dato il 5.014, avevano saltato di cinquecento numeri.

Sul libro figuro 5.514, ma ero 5.014.

Poi a Vipiteno dovevamo tenere sempre il triangolo e la tuta ed il freddo, come diceva Gianni per Colle Isarco, il freddo di Vipiteno era tremendo; aveva fatto tanta neve, c’era parecchia aria e non ci si poteva vestire più di tanto ma gli abiti civili non li tolleravano.