Braini Vilma

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

La testimonianza è stata realizzata con il contributo delle Amministrazioni Comunali di Cassago Brianza, Cremella, Monticello Brianza e Sirtori.

Sono Vilma Braini, nata il 14.06.1928. Sono Vilma Braini ma Brainic, i miei nonni e anche genitori, poi trasformati in Braini perché sotto il fascismo era così. Sono di origine slovena, cittadinanza italiana, nata qui a Gorizia, residente sempre a Gorizia Sant’Andrea. Ho già detto che sono di origine slovena, ho iniziato a collaborare con i partigiani già nel luglio 1943 alla caduta del fascismo e poi ho iniziato a capire qualche cosa.

Sono stata arrestata due volte, una prima volta nell’aprile del 1944 quando è stata fatta una spiata e sono venuti ad arrestarci in casa alle quattro e mezza del mattino, hanno arrestato me a casa mia e anche mio zio, ci hanno portato in carcere …

D: Scusa, Vilma, chi ti ha arrestato?

R: La prima volta sono venuti le SS con un interprete sloveno, qui a Gorizia.

Sono entrati in camera, dormivo con mia madre e un’altra sorellina più piccola nello stesso letto perché mio padre è stato portato via ai battaglioni speciali come sloveno, nel gennaio 1943. Sono entrati in camera senza bussare, hanno chiesto “Chi è Braini Vilma?”, ho risposto “Io”, “Vestiti e vieni con noi”.

D: Quanti anni avevi allora?

R: Avevo quindici anni!

D: Quando dici che eri nelle formazioni partigiane, intendi italo slovene o solo slovene?

R: Italo slovene e slovene perché qui il paese era sloveno ma si lavorava anche con gli italiani oltre l’Isonzo.

D: Ricordi le tue azioni, portavi ordini, facevi la staffetta?

R: Portavo ordini, biglietti e bigliettini, nel paese facevo la raccolta di viveri e medicinali, tutte queste cose che erano necessarie per i partigiani. Discutevamo anche delle questioni, imparavamo a parlare lo sloveno. Le scuole slovene non le abbiamo fatte, c’era qualcuno che ci insegnava le canzoni partigiane e per noi era un rinascere perché fino ad allora non si è capito perché si parlava solo l’italiano e i genitori a casa dicevano: “Qualsiasi cosa ti domandano, se ti dicono cosa parli a casa devi rispondere l’italiano”. Mia nonna non sapeva parlare l’italiano, mia mamma poco o niente, mio padre sapeva poco di più perché aveva fatto dei corsi di meccanica.

D: Ricordi se davanti ai negozi c’era la scritta famosa “Qui si parla …”

R: Non davanti ai negozi, nei locali pubblici, dappertutto “Qui si parla solo l’italiano”. Qualcuno ha ancora quelle scritte ma sono negli archivi, nei musei; in Slovenia credo che vi siano ancora certi manifesti che dicevano “Qui si parla solo l’italiano”. Non dovevi esprimerti in sloveno ma fra noi quando si giocava succedeva, fra ragazzi alle elementari nel momento della ricreazione avevamo un parroco che chiamavano “Spinacia” perché era brutto e cattivo, se ci sentiva parlare ce le dava per le mani.

D: Se vi sentiva parlare sloveno?

R: Sì!

D: Quando dicevi raccoglievamo viveri, medicinali, servivano per quell’ospedale partigiano?

R: Dappertutto servivano, non sapevamo dove andavano, non si sapeva nulla né dell’uno né dell’altro, anche nelle varie riunioni dove si andava non ci si chiamava mai per nome.

D: Il tuo quale era?

R: Il mio era “Belzostrelka”

D: Tradotto vuol dire?

R: Vuol dire “Mitragliatrice”. E’ stata fatta una mostra a Villa Manin con dei ritratti enormi, ve la farò vedere dopo!

D: Sono venuti quella notte, quella mattina prestissimo, le SS che erano stanziate qui a Gorizia e ti hanno detto di seguirle e ti hanno portato dove?

R: Mi hanno portato dietro la Chiesa, lì vi è una piazza e ci hanno messo uno distante dagli altri in modo di non poter parlare, vi erano dei soldati, delle SS che ci guardavano. Nel frattempo sono andati a prendere altra gente e quando hanno preso tutti quelli che erano nella lista, è stata fatta una spiata, hanno preso me, mio zio e altri di Sant’Andrea. Ci hanno portato in via Barzellini, in carcere.

D: In quell’arresto vi era anche Elvira?

R: No!

D: Ti hanno portato in carcere?

R: Lì sono stata per due mesi.

D: Ti hanno interrogata?

R: Mi hanno interrogata, ho sempre negato tutto perché alla mia amica hanno trovato un tappo con il simbolo della stella rossa che serviva da timbro, alla sera invece di portarlo via dove doveva portarlo lo ha messo nel cassetto del comò e lì è stata la sua condanna. Poi sono stati portati in Germania gli altri che erano arrestati con me. Sono stata l’unica ad uscire, in carcere ho conosciuto anche un signore che era amico di mio padre, erano della Pro Gorizia e quando mi ha visto ha chiesto: “Che cosa fai qui?”, ho risposto: “Non so”. Anche a lui non ho detto la verità perché non sapevo e questo signore ha fatto tanto, tramite un avvocato, e sono uscita dopo due mesi di carcere. Il 13 giugno il trasporto è partito per la Germania portando mio zio, questa mia amica e altri. I miei sedici anni li ho compiuti in carcere e poi sono uscita, sono stata ferma poco tempo perché mi hanno detto: “E’ meglio se stai ferma, non venire agli appuntamenti”. Si sapeva dove, anche se hanno cambiato tutti i posti di incontro, ci incontravamo anche lungo l’Isonzo dove vi erano boschi, caverne.

Il periodo dal giugno del 1944 fino a settembre 1944 avevano bisogno di me per portare certe cose nei paesi vicini, a Ranziano… quando arrivavo a Biglie vi era la staffetta che aspettava, se dovevo attraversare il Vipacco me lo facevano attraversare con una barca, per non andare sul ponte perché era pericoloso. Capitava qualche volta che bisognava correre sempre in bicicletta ma devo premettere che andavo molto fuori anche perché mio padre faceva il commerciante di frutta e verdura e abbiamo continuato questa attività, poi si è formato un gruppo ma mia sorella e mia zia lavoravano ancora e io anche ho continuato a fare queste cose.

Avevo un lasciapassare tedesco, avevo due lasciapassare, i partigiani sapevano che avevo quello tedesco e quello partigiano. Sapevo la parola d’ordine e ci portavano oltre il Vipacco per andare a Ranziano dove si dovevano portare queste cose ma solo biglietti, per la merce vi erano dei posti di riferimento dove portavano tutte queste cose. Un giorno mi vengono a dire che dovevo andare ad un appuntamento per ritirare dei medicinali e questo alla fine del 1944, sarà stato fine novembre, ho detto: “Va bene, dove devo andare?”, mi hanno risposto: “Devi andare ai giardini, lì ti avvicinerà un signore e ti darà dei medicinali, lui sa chi sei”. Troppe domande non si potevano fare, qualche volta meno si sapeva meglio era. Vado ai giardini ma non trovo nessuno, torno a casa e contatto questo signore avvisando che non c’era nessuno, “Ci sarà stato qualche disguido, vedremo”. Dopo pochi giorni viene questa persona e mi dice “Ora puoi andare”. Era dicembre, verso la fine. Vado per prendere questi medicinali e di nuovo non trovo nessuno e poi viene di nuovo questa persona per dirmi che sarebbe stato meglio che io fossi andata via perché lì non ero più sicura perché questa cosa era un po’ strana, “Fammi passare il Natale a casa poi vengo”. “D’accordo passa Natale e Capodanno ma dovresti andare…” “Va bene, vado”, dovevo prendere dei medicinali anche per mia nonna che aveva settanta anni. Vado e aspetto e cammino e arriva l’allarme, prendo subito l’autobus per andare verso casa senza aver trovato niente. Quando arrivo alla Stazione Centrale di Gorizia scendo dall’autobus perché non arrivava a Sant’Andrea e vado verso casa.

C’è un ponte dove passa la ferrovia, vengo giù per la scaletta, oltrepasso il ponte, guardo verso la città e vedo un gruppo di giovani che quasi conoscevo. Nel frattempo l’allarme era cessato, vado verso Sant’Andrea, vedo da via Fatebenefratelli, Sant’Andrea e la via Barca altri gruppi di ragazzi. Vado verso Sant’Andrea: questi vengono verso di me tutti in borghese, e mi chiedono se sono Vilma Braini, “Sì” ho risposto e mi hanno detto di seguirli.

Io in mezzo e loro una quindicina tutti intorno attraverso tutto il corso di Gorizia fino a via Barzellini e chi passava mi ha visto. Non salutavo nessuno, nel momento in cui ti trovavi in difficoltà era meglio non conoscere nessuno perché non si sapeva quello che poteva succedere.

Mi portano in via Panzeriti di nuovo e lì aspetto dopo Capodanno e mi vengono a chiamare per l’interrogatorio. Mi hanno detto che collaboravo con i partigiani e che ero andata in cerca di medicinali; ho detto che li cercavo per mia nonna, il tedesco ha cominciato ad urlare, gli interrogatori li facevano tutti in tedesco con l’interprete, qualche tedesco sapeva anche l’italiano, ho detto di no che non era vero. Mi hanno portato in carcere …

D: L’interrogatorio dove lo facevano?

R: La prima volta in via Bagni, erano le SS in via Bagni nella Villa Marpurgo, la seconda volta in via Crispi dove c’era la SD, un altro gruppo di SS. Vi era un ufficio collocamento e c’erano lì le SD, l’interrogatorio lo facevano sempre i tedeschi.

Ho detto di no, questo tedesco ha incominciato ad urlare e a dire di tutto, non le ho prese, era solo infuriato e cattivo. Mi hanno mandato di nuovo in carcere ma mi hanno portato in cantina dove c’era una cameretta con una tavolata e un bussolotto in un angolo e sono stata lì per tre giorni e tre notti.

D: Sola?

R: Sì, sola!

D: A sedici anni?

R: Sì, a sedici anni. Ogni giorni veniva la Madre Superiora perché nelle carceri femminili c’erano le suore. Veniva a trovarmi la Madre Superiora, entrava … c’era la guardia che apriva la porta … lei entrava. Le suore una volta avevano le maniche larghe; sfilava una mano e me la porgeva, solo con gli occhi mi faceva cenno di prendere quello che aveva in mano, una caramella o uno zucchero, senza carta, senza niente, io lo prelevavo e lo mettevo in bocca.

D: Ti ricordi il nome? Era Suor Pierina?

R: No, quella per me era la suora più in gamba di tutte e poi vi era un’altra suora buona, Anna, una cuoca.

D: A volte ti dava uno zuccherino senza dire niente?

R: A volte una caramella, solo mi chiedeva come stavo e mi diceva di pregare. Il secondo giorno che ero lì verso l’imbrunire, saranno state le quattro o le cinque, sento chiamare il mio nome, mi guardo in giro, in quella cantina vi erano quelle finestrelle che davano sul cortile dei condannati a morte, non so dirti chi era ma vedo che stava facendo qualche cosa e vedo delle ombre, alza la rete di questa finestrella e mi getta qualche cosa e dice: “Metti subito in bocca e vai sotto il tavolaccio, tocca, vedrai che si sposta il mattone, leva quel mattone e metti quella cartina lì”, così ho fatto. Ti aiutava a vivere, la solidarietà che c’è in quei momenti non si può descrivere.

D: C’erano cose da mangiare?

R: Sì, zuccherini, caramelle, qualche cosa c’era, questo per tre giorni e tre notti. Il terzo giorno sono venuti a prendermi ma avevo la bocca tutta arsa, non riuscivo più a parlare, mi si è gonfiata anche la lingua.

Mi hanno portato alla SD, ho atteso. Nel frattempo che aspettavo in corridoio è venuto un gruppo di donne, c’erano una mamma e una figlia con una borsa, ero seduta e questa mamma mi guardava, apre la borsa, prende un pezzettino di pane, chiede se può andare in bagno e torna con il pane tutto bagnato e mi dice: “Metti questo pane in bocca e non inghiottirlo”. Queste donne erano di Aidussina, era gente che avrà provato chissà quante cose brutte nella loro vita e mi ha alleviato l’arsura della bocca, della lingua, non riuscivo nemmeno a parlare.

Quando mi hanno portato dalle SS per interrogarmi hanno visto che non potevo parlare e hanno cominciato ad urlare e il cane ad abbaiare, avevano sempre il cane vicino, ad imprecare. Mi hanno tenuto ancora un po’ poi mi hanno riportato in carcere.

Quando arrivo in carcere trovo delle ragazze di Sant’Andrea. Anche se avevo i nomi illegali di tutte le ragazze ho solo guardato, ho fatto finta di non conoscere nessuno e sono andata nel mio angolo e lì sono rimasta senza dire niente.

Passa un giorno, passano due, ero sempre appartata, non volevo parlare con nessuno. Viene vicino a me una signora di Sant’Andrea e mi dice “Vilma, perché sei così?” “Ti prego non venirmi vicina”. “Non ti preoccupare, hanno ucciso un tedesco a Sant’Andrea e c’è stato un rastrellamento“. E’ stata come una libertà perché pensi sempre al peggio. Sentire queste cose anche se erano brutte, hanno rastrellato tanta gente, tanti giovani, poi mi ha raccontato la faccenda e ho detto “Sapete che non sono così ma purtroppo devo fare così” e poi ho raccontato qualche cosa e basta. C’era anche l’Elvira …

D: Avevano portato in piazza anche loro?

R: No, questo è il secondo arresto, questo era il rastrellamento, non so come sono state arrestate perché chi è andato a lavorare quel giorno, verso la fine di gennaio, li hanno lasciati ma chi non è andato a lavorare li hanno portati tutti via.

D: E lì hai incontrato l’Elvira!

R: Elvira la conoscevo già prima, ho incontrato in carcere l’Elvira che era amica di mia sorella, ci conoscevamo bene. Nella cella, quando sono tornata, ho trovato anche mamma e figlia e mi è rimasto in mente, non so se era il suo vero nome, si chiamava Diana Varallo. Nel frattempo hanno organizzato un trasporto per la Germania ma non ero inclusa io né Elvira ma quelle che era là prima di noi, ecco perché le celle erano piene. Giornalmente arrivavano donne, ragazzi, uomini ma loro erano sotto, noi eravamo all’ultimo piano.

Il tempo si è poi normalizzato, non venivano a cercarmi, tutti erano d’accordo che andava a lavorare in Germania. Venivano delle notizie in carcere, chi andava a fare le pulizie nei comandi delle SS sentiva qualche cosa poi ci raccontava, la guerra andava verso la fine, ma il 24 febbraio non mi hanno più interrogato, e ho saputo poi che è stato mandato via quel comandante, qualche cosa è successo per cui non sono stata più interrogata.

Il 24 febbraio era l’ultimo trasporto da Gorizia, Trieste, Pola, ma non più in treno da Gorizia bensì con i camion e le corriere e ci hanno portato fino a Pontebba.

D: Durante il trasferimento chi faceva la guardia? Erano germanici o anche italiani?

R: Anche italiani, gente che si conosceva. Uno mi guardava perché lo conoscevo bene, lo guardavo non di buon occhio ed era quasi triste. E’ venuto vicino perché durante il viaggio da Gorizia a Pontebba ci si doveva fermare perché vi erano i bombardamenti. In uno di questi posti, nei boschi, ci hanno fatto fermare per andare dove si doveva andare, questo ragazzo è venuto vicino a me e mi ha detto “Se scappi ti cercherò”. Io l’ho guardato così, è stato un attimo, “Se scappo mi spara” ho pensato, invece, forse lo avrà fatto veramente per aiutarmi, non ho mai saputo niente di lui.

D: Prima di ritornare al trasporto ci racconti di Suor Pierina?

R: Suor Pierina era tutto fare nel carcere, anche se c’era la superiora che non ricordo come si chiama. Suor Pierina mi chiamava quando c’era da portare il caffè ai minorenni, l’aiutavo; facevamo il giro del carcere delle donne. Mi trattava con autorità ma il suo cuore era buono, era autoritaria, imponente ma era buona d’animo, generosa. Facevo il giro con lei, in carcere ha avuto anche qualche amore.

D: Ti coccolava un po’?

R: Sì, ma anche lei aveva una simpatia per un uomo.

D: Ti ha fatto anche un po’ da mamma!

R: Sì, era una cosa inverosimile perché lei c’era e non c’era, vi era un corridoio enorme, con le celle di quelle che non dovevano parlare con nessuno e quando si portava a questa persona il pranzo, la portella si apriva e davi …

D: Nei confronti dei germanici come era Suor Pierina?

R: Per lei non c’era differenza, non si sottometteva, non so poi che fine ha fatto perché tornando dalla Germania non so se c’era ancora, non saprei dire!

D: Era lei che comunicava la lista dei Transport?

R: Sì!

D: Quando siete partiti il 24 quanti eravate?

R: Duecento, duecentocinquanta, non saprei dire esattamente. Io ero sulla corriera di allora, ma la maggior parte degli uomini erano sui camion.

D: Arrivati a Pontebba che cosa è successo?

R: E’ successo che nelle stazioni vi erano questi vagoni merci aperti e lì dentro, dentro, dentro. Se ci fosse stato un fiammifero o uno stuzzicadenti non ci stava.

D: Poi hanno chiuso il Transport … Vi avevano dato delle cose da mangiare o da bere?

R: Quello che avevamo portato da casa perché tutti i genitori hanno cercato di portare il massimo, lo zaino con pane, burro fuso nei vasetti, tutte quelle cose.

D: Perché tutti eravate convinti di andare in Germania!

R: In Germania a lavorare!

D: Quanto è durato il viaggio?

R: Tanto, non c’era mai fine, siamo arrivati fino a Monaco, poi gli uomini li hanno distaccati e poi hanno agganciato un treno di cose per militari, ricordo dei vagoni, c’erano anche dei camion sui treni. Andavamo verso Berlino verso il fronte, non sapevamo esattamente ma era così.

D: Non vi hanno mai fatto scendere dal treno?

R: Nei boschi, ci hanno fatto scendere, andavamo a fare i bisogni poi si mangiava la neve bella fresca.

D: Avevi diciassette anni, c’erano persone più anziane?

R: Tante persone anziane.

D: Sia italiane che slovene?

R: Poche italiane, la maggior parte slovene; escluse l’Elvira tutte le altre erano dei paesi vicini.

D: Finalmente arrivate ad una stazione dove vi fanno scendere.

R: Ci fanno scendere e ci fanno avviare verso questo Lager. C’era un lago da una parte, cammini, guardi e non capisci che cosa è, si spalancano queste porte con tante urla e ci mandano nelle baracche con tutta la nostra roba e lì siamo stati due giorni e una notte.

D: Il Lager era quello di…

R: Ravensbrück . Quando passavamo oltre la rete vi erano delle deportate vestite così, noi le guardavamo e ci chiedevano di dove eravamo, noi rispondevamo che eravamo italiane, slovene, dicevamo sempre di essere italiane ancora quella volta. “Ma di dove siete, Gorizia, Trieste, Postumia? Se avete da mangiare vi preghiamo, dateci qualche cosa perché vi toglieranno tutto!”

Noi ci guardavamo e dicevamo: “Come ci toglieranno tutto, perché?”

Qualche piccola cosa l’avevamo. Poi ci dicevano: “Non vi avvicinate alla rete perché la rete è tutta elettricizzata”. Qualche cosa abbiamo dato ma poco perché diventi cattiva, egoista, e siamo state lì per due giorni. Il secondo giorno ci hanno di nuovo messe in colonna e fatte ripartire.

D: Quando siete arrivate a Ravensbrück non vi hanno fatto la spoliazione?

R: Niente, noi avevamo tutto, siamo partite da Ravensbrück di nuovo e siamo andate verso Bergen Belsen.

D: A Ravensbrück non vi hanno fatto nulla?

R: Nulla!

D: Vi hanno lasciate in una baracca?

R: Sì!

D: Tutte del vostro trasporto?

R: Sì! Tutte donne perché Ravensbrück è un campo di concentramento di donne.

D: Lì non vi hanno fatto niente?

R: Niente!

D: Dopo due giorni vi hanno rimesso in colonna ancora in treno?

R: Ancora in treno sui vagoni e ci hanno portate a Bergen Belsen!

D: Come ti ricordi l’ingresso a Bergen Belsen?

R: Non so come descrivere. Tu camminavi per entrare in questo Lager e vi era come una polvere, qualche cosa che si muoveva, non capivi che terreno era, non c’era nemmeno la neve, ma non capivi che cosa erano… Ci hanno portati fino in fondo al Lager dove c’erano queste baracche, ci hanno portati in una baracca dove ci hanno detto di lasciare le nostre cose bene ordinate, piegate su delle panche, le scarpe con i lacci allacciati e ci hanno detto: “Andrete a fare la doccia e all’uscita troverete tutte le vostre cose che avete lasciato”. Questo è stato detto in tedesco, polacco, la maggior pare erano polacche quelle che ci bastonavano e imprecavano, le Kapò.

D: Arrivate a Bergen Belsen vi fanno lasciare lì tutto, la doccia, e la Veronesi era con te?

R: La Veronesi era con me, sempre con me.

Lì ci hanno fatto le procedure di ingresso, la spoliazione, le docce, uscite fuori dalla doccia all’aperto, era fine febbraio, primi di marzo, entrate in un’altra baracca dove come entravi ti consegnavano e non capivi che cosa era, vestiti sporchi, laceri, non erano i tuoi vestiti e ti sei vestita come potevi. Io avevo un vestito celeste di lana, tutto liso, un cappuccio arancione e un cappotto che non era verde, grigio… Non avevamo le casacche zebrate ma i vestiti che hanno trovato, sulla schiena la stoffa zebrata e il triangolo rosso scritto in italiano. Ci siamo vestite ma siamo rimaste scalze perché le scarpe non c’erano. Uscite da questa baracca c’era il nostro mucchio di scarpe, pazzesco, come poter trovare un paio di scarpe che ti andassero bene. Vedo i miei scarponi e più giudizio che fortuna vedo questi scarponi e me li metto, li ho avuti per tutto il tempo …

D: Senza calze!

R: Stracci, come si poteva, poi ci hanno dato una Miska con un cucchiaio e hanno detto che quello era per il cibo. Se lo perdevi … ci hanno mandati poi nelle baracche. Cercavamo di stare più unite, eravamo tutte di queste parti, ci conoscevamo, tutte slovene, e siamo state più insieme possibile, siamo entrate in questa baracca dove c’era altra gente, ucraine, francesi …

D: Accennavi prima al triangolo, ma oltre al triangolo ti hanno dato anche un numero?

R: Quella era una tragedia nel senso che quando ci hanno dato il numero ti hanno fatto capire che si doveva impararlo a memoria ma non in sloveno o in italiano ma dovevi impararlo a memoria in tedesco. Quelle che c’erano già ci hanno aiutato a impararlo a memoria, non lo puoi dimenticare né in sloveno, né in italiano né in tedesco. Il mio numero è 36.848, dove vado lo dico in tutte e tre le lingue … è bello così!

D: Perché è giusto … anche voi avete subito la depilazione?

R: No, noi non abbiamo subito né depilazione né altro perché non c’era tempo, non c’erano i mezzi, c’era tanta gente… a Bergen Belsen c’erano tante donne.

D: Nel blocco più o meno in quante eravate?

R: Tanti, tanti, era enorme … per terra non più sulla paglia ma sulla polvere, ormai era quello che era e si dormiva per terra.

D: Siete entrate in una baracca dove c’erano già altre deportate? Vi hanno accolte bene?

R: Non c’era un saluto, ognuno faceva quello che poteva fare. Il grande lavoro era pulirsi i pidocchi, cercare di eliminarli. Ci si aiutava l’una con l’altra sulla testa perché non potevi farlo da sola, ma i vestiti, era indescrivibile come da un giorno all’altro ci si trovava addosso tutti questi pidocchi che ti succhiavano il sangue.

D: Con le russe come è andata?

R: Con le ucraine non avevamo problemi, con le polacche sì. C’erano tante ucraine ma non tante nel blocco. La maggior parte erano polacche e quelle caso mai se potevano te le davano, se non stavi in riga, se volevi uscire, ti guardavano ore e ore ad aspettare le SS che ti controllavano e ti dicevano: “Queste sono tante, 10 morte e 10 vive”. Erano davanti alle baracche perché doveva passare prima la SS, poi il carro per portare via le morte.

D: Quante volte al giorno all’Appelplatz?

R: Una sempre e durava ore e ore. Se c’era qualche cosa che non andava anche alla sera, o perché era successo qualche cosa nel Lager o per punizione ci mettevano all’appello e lì stavi ore e ore al freddo a calpestare questa terra che non capivi che cosa era. Dopo pochi giorni ci hanno detto: “Questa è la nostra cenere” perché dalla baracca dove eravamo noi poco più lontano vi erano i crematori che fumavano giorno e notte. Poi abbiamo capito, vi era questa brutta terra nera, cenere, e si calpestava, non c’era altro da fare.

D: Che cosa è la “cumba”?

R: “… e noi cantiamo la bella cumba, cumba, cumba”; tutte noi slovene ci mettevamo tutte vicine e si cercava di cantare le canzoni partigiane.

D: La cumba che canzone è?

R: Non è una canzone slovena …

D: Non te la ricordi adesso?

R: No!

D: E’ un canto partigiano?

R: Sì, era serbo …

D: Vi mettevate nel blocco …

R: Sì e cantavamo le nostre canzoni partigiane, cantavamo anche “Mamma” in italiano perché fino a Lubiana tutti si cantava in italiano e le polacche un giorno hanno sentito che cantavamo “Mamma” e ci hanno detto “Italiano … mamma”. Le abbiamo guardate e non sapevamo cosa fare, poi Elvira (che aveva una voce bellissima) ha detto “Ragazze cantiamo, fa bene anche a noi”. Abbiamo cantato “Mamma” e poi ci hanno dato un pezzetto di pane per ciascuna, le polacche, le Blockowe

D: Le Blockowe italiane non le avete viste?

R: No, non posso dirlo …

D: La maggior parte erano polacche …

R: Anche ucraine ma poche, la maggior parte polacche.

D: Al mattino appello lunghissimo …

R: Lunghissimo, ore e ore sull’appello, se avevi bisogno di andare in qualche posto dovevi chiedere il permesso e correre, correre, per arrivare prima che arrivasse la tedesca perché c’era la SS tedesca che veniva a guardare. Una volta non sono riuscita ad andare fino a dove dovevo andare, mi sono fermata dietro a una baracca e c’era la SS lontano che mi vedeva. Sono scappata di nuovo … lei mi ha visto con il cappuccio arancione e non potevo dire che non ero io … non mi hanno bastonato né castigato … solo una volta le ho prese da una Blockowa polacca perché le polacche avevano all’entrata della baracca il loro angolo ed era con dei fusti… Dormivano più in alto di noi, io e l’Elvira abbiamo chiesto se si potesse andare sotto lì, ce ne hanno date tante che metà basta, “Italiani, traditori!” Ci dicevano di tutto, fascisti no ma traditori si. Quelle Blockowe … I politici avevano un rispetto in più perché vi erano tanti altri criminali, c’era di tutto, non nel nostro blocco, nella nostra baracca ma negli altri posti c’era gente, ucraini, tanti rom, ungheresi, quelli erano di una dignità enorme, avevano la loro regina…

D: Cosa ti ricordi dell’alimentazione?

R: Prima non ho finito nel dire che la SS mi ha individuata e sono stata castigata nel senso che quel giorno il pane non mi è stato dato, ma ci davano la pagnotta e doveva essere tagliata in dodici pezzi e quel giorno solo in undici. Chi doveva tagliarla ha fatto lo stesso dodici pezzi così il pezzettino di pane l’ho ricevuto anch’io e le altre una briciola in meno. Qualcuna il pane non se lo mangiava tutto subito e qualche volta qualche briciola scappava ma c’erano tragedie per un pezzettino di pane. Quello che mi davano lo mangiavo subito, non dicevo “Dopo”, tutto subito. Quando c’era la fila per andare a prendere questa minestra ti dovevi mettere subito in fila. Le ucraine, quelle che erano già più anziane andavano sempre per ultime e chi dava la minestra … qualcuno dava l’acqua e le altre avevano la parte più densa, cosa c’era? C’era una brodaglia con bucce di patate con la rapa nella Miska e guai se la perdevi e quando finivi di mangiarla la pulivi e mangiavi con le dita; qualche volta la lavavi e qualche volta no, non c’era il tempo …

D: Al mattino vi davano Caffé Ole?

R: Ci davano un pezzettino di pane… non so se cosa era, qualche cosa ci davano.

D: Poi la zuppa.

R: A mezzogiorno.

D: Alla sera?

R: Basta! Non era proprio mezzogiorno …

D: Anche tra voi donne c’era qualcuno che faceva la conta per dividere la fetta di pane?

R: Si faceva il giro.

D: Questo a chi … questo a chi …

R: No, non c’era più quell’entusiasmo perché eravamo sfinite.

D: Al lavoro non vi hanno mai mandate?

R: Mai mandate! Chi ha lavorato in quel campo ha lavorato per il campo dentro ma per due o tre giorni. Verso la fine il campo si stava evacuando e i magazzini erano pieni di roba nostra e i tedeschi ci hanno fatto fare la colonna da Belsen, dal campo di concentramento fino a Bergen, alla stazione ferroviaria. C’era tutto un giro di prigionieri che portavano la merce alla stazione e lì ne sono morti tanti perché qualcuno non ce l’ha fatta.

D: Quando siete arrivati a Bergen Belsen c’era già il tifo petecchiale?

R: C’era già il tifo petecchiale, c’erano gli ospedali … e chi era dentro raccomandava: “Se vi sentite male, se vi sentite qualche cosa non andate mai, non chiedete, cercate di aiutarvi come potete ma non chiedete di andare in infermeria”.

D: Nessuna di voi ci è andata?

R: No, per fortuna. Se andavi là non ti davano nemmeno quello che ti dovevano dare, restavi lì e basta.

D: Come ti ricordi la liberazione?

R: La liberazione è stata cosa … eri talmente sfinita che non riuscivi nemmeno a pensare e a credere, non c’erano più tedeschi, non c’era più l’appello, ti davano da mangiare qualche cosa, chi c’era, chi non c’era, però ricordo che vi erano degli uomini in civile con la fascia bianca. Ci hanno fatti sgomberare le baracche, hanno fatto delle immense tende e ci hanno portato lì, ero già ammalata e l’Elvira mi curava, se non c’era lei non so se sarei stata qui, questo lei lo sa. Quando mi portava fuori dalla tenda guardavamo in giro e le dicevo “Elvira per cosa serve tutta quella legna, perché non fanno fuoco?” avevo freddo. “Vilma, mi diceva, non è legna, sono cadaveri”. Un giorno si sentono dei camion, dei rumori e c’erano i soldati inglesi ma questi uomini li hanno fermati, non li hanno lasciati entrare perché vi era l’epidemia e non so dopo quanto tempo è arrivata la Croce Rossa, in tuta, maschere antigas, ci spogliavano del tutto, ci mettevano delle coperte da dove veniva fuori la polvere, e ci hanno portati negli ospedali militari di Bergen e lì sono stata tanto tempo, non ricordo nemmeno quanto tempo. Ci hanno curato bene perché tanti sono morti quando è arrivata la Croce Rossa e hanno dato da mangiare le scatolette, il pane. Devo dire che le slovene erano provate e hanno detto: “Non dovete prendere niente”. Le addette di quella baracca andavano a ritirare il mangiare, prendevano le scatolette di carne, una volta vi erano dei limoni di celluloide, il succo di limone. Quelle hanno portato a ceste quelle cose, scatolette di carne, hanno trovato delle pentole, hanno messo questa carne dentro e poi andavano a raccogliere lontano dal Lager delle erbe, le lavavano e cucinavano questa carne con quelle erbe da mangiare liquido, erano delle donne meravigliose, sapevano il fatto loro.

D: Sei rimasta in ospedale fino a quando?

R: Fine maggio perché la prima volta che mi sono alzata, non ricordo quando, sono andata alla toilette da sola, mi sono guardata nei vetri e non mi sono conosciuta perché ero trasformata, magra, avevo la bocca così, le orecchie … guardavo le altre e non erano così … Piano piano siamo rinsavite ma quando ero ancora all’ospedale è venuta una delegazione di partigiani jugoslavi, della Croce Rissa, ed è stato un bene anche per noi, hanno chiesto se c’erano delle slovene croate, ci hanno detto che il 1° maggio i partigiani erano arrivati a Trieste e questo per noi era una cosa meravigliosa, abbiamo lottato per questo, abbiamo vissuto per questo, nel male era bello sentire parlare di queste cose e poi ci hanno detto che chi era guarito dall’epidemia sarebbe stato portato nei paesi vicini. Noi ci hanno portato vicino ad Hannover, in una cittadina nelle scuole, in infermerie dove c’erano quelle che stavano poco peggio e lì siamo stati fino a che non ci hanno fatto partire, sono venuta a casa con le jugoslave. E’ la Croce Rossa jugoslava che ha organizzato tutto …

D: Che percorso hai fatto al ritorno?

R: Tutta la Germania, l’Austria, Lubiana, Postumia e a casa.

D: Quando sei arrivata a casa, mamma …!

R: Vorrei dirti una cosa prima del trasporto. Nel trasporto partito da Gorizia vi erano anche due donne incinta di cui nessuno sapeva, nemmeno nel Lager. Finita la guerra hanno partorito, a Bergen, una bambina e un bambino. Erano in una scatolina, una cosa inverosimile e sono ancora vivi, la ragazza si chiama Mira e il ragazzo Boris.

D: Erano slovene?

R: Sì, uno di Ranziano e uno di San Basso. Una cosa indescrivibile.

D: Quando sei arrivata a casa?

R: Sono arrivata a San Pietro in treno, mia madre era di San Pietro. Sono andata da mio zio, ho lasciato le cose che avevo con me e gli ho chiesto la bicicletta e sono venuta a casa da San Pietro. Qualcuno mi ha visto ed è andato più forte di me e quando sono arrivata vicino alla caserma degli Alpini, una volta vi era la Campagnuzza ora vi è il Villaggio degli Esuli, lì c’era la Campagnuzza dove una volta andavamo a pascolare le capre. Ho incontrato mia nonna con la mia sorellina piccola che aveva due anni, mi sembrava di vedere qualche cosa di bellissimo, mia sorellina bionda bionda e la nonna, poi mi è venuto incontro mio papà, la mamma mi ha aspettato a casa, era una donna riservata …. sono momenti che non si possono descrivere, passano gli anni e non puoi dimenticare.

D: Il Lager è brutto per tutti, gli uomini ma anche per le femminucce, ad esempio, il ciclo mestruale …

R: Niente, cessato completamente dall’oggi domani, ma anche a casa non c’era più niente. Il corpo era tutto una vescica, ci hanno curato, io camminavo così, sulla spina dorsale avevo una crosta.

D: Per una donna soprattutto il ritorno, l’umiliazione del corpo, la violenza ma anche non fisica, ad esempio la spoliazione, non è uno scherzo.

R: Io ero giovane, tante erano giovani, ma quelle madri e quelle nonne che avevano il petto che gli veniva giù, non sapevano come celare… Anche noi, non si sapeva dove mettere le mani, come coprirti, attorno a te vi erano solo uomini, nelle baracche le donne.

D: Questo oltraggio della persona …

R: Il non parlare più per tanti anni, il non accettare questa cosa anche nel senso che tu sei tornata, la mia amica non è tornata. Era quasi una colpa perché anche se non ero con questa mia amica, andavo a trovare la mamma, e non era piacevole.

D: A tua mamma non hai mai raccontato che cosa è stato Bergen Belsen?

R: Ho iniziato a parlare di qualche cosa con mio figlio….

D: Vent’anni dopo? Quindici?

R: Mi sono aperta con i nipoti che sono stati il mio toccasana, sono nipoti meravigliosi, raccontavo a loro queste cose come una storiella, la bambina mi diceva quando aveva cinque o sei anni: “Nonna, ancora, ancora, la tua guerra voglio”. Raccontavo un poco di questo, un poco di quello, un poco di quell’altro, qualche cosa dico anche adesso, ti dirò che con i miei nipoti ero ad Auschwitz, io ero Kiascia e lei era Vilma perché lei mi portava, sono delle esperienze meravigliose. Con il nipote ero a Mauthausen e a Ravensbrück, ho chiesto a mio figlio e alla nuora se potevo chiedere a loro di venire. Mio figlio dice “Che cosa chiedi a me, chiedi a loro”, “Se siete d’accordo, c’è la scuola”, “Chiedi a loro, se vogliono venire”.

D: Quanti anni avevano quando li hai portati?

R: La ragazza quattordici, anche David aveva quindici anni ma la seconda volta ne aveva diciotto.

D: Quando sei ritornata dopo tanti anni a Ravensbrück …

R: Era nel 1985, ero dappertutto con la delegazione jugoslava. La prima volta nel 1985 ero con loro, ci siamo guardate perché vi erano i russi, a Ravensbrück si poteva vedere il lago, i Bunker, i crematori, il grande muro ma nel Lager non potevi entrare perché vi erano i russi e allora ci guardavamo e dicevamo “Dobbiamo entrare”.

Con un gruppo siamo andate davanti a questo protone e ci hanno aperto. Quando ci hanno aperto ci hanno fatto un effetto … non avevamo il coraggio di oltrepassare questo portone, poi ci siamo fermate, abbiamo ringraziato, salutato e siamo andate via, questa la prima volta che ero a Ravensbrück. C’era un incontro internazionale, ci hanno fatto un’accoglienza inverosimile, hanno parlato tutte le delegazioni, la musica. Alla fine di tutto questo sono partiti dei palloncini di tutti i colori, tanti, tanti e una scia di bambini con la camicetta bianca e blu e un fiorellino in mano è venuta verso di noi. Erano tedeschi, non sapevamo cosa fare, eravamo esterrefatte, li abbiamo abbracciati, erano bambini, non avevano colpa ma era dura, tremendo. Con questi gesti ti liberi di qualche cosa …

D: Sempre al ritorno, il sospetto che una donna sia sopravvissuta all’altra, hai avvertito qualche cosa?

R: Il sospetto in che senso?

D: Nel senso soprattutto legato al corpo femminile.

R: Il sospetto no, il corpo femminile no perché non ho subito violenze …

D: La gente di qua quando sei arrivata …

R: Non parlavo, “Sei tornata, stai bene?”mi dicevano nel paese, ma quando andavo in città mi sputavano in faccia. Andavo tutti i giorni in città perché facevamo i commercianti, mio padre era un commerciante, andavo ogni giorno al mercato e i fascisti mi sputavano, mi dicevano “Titina e sciava”, questo per anni.

D: E’ importante che i giovani conoscano queste cose?

R: Sì, io parlo tanto con i giovani, ero con il Treno della Memoria ad Auschwitz. Quest’anno eravamo in treno, l’anno scorso con le corriere e si è parlato tutta la notte, avevi a disposizione tanto tempo, hanno fatto anche un DVD, tutti hanno elaborato queste cose. Era un treno di 700 giovani, da Torino a Bari… poter parlare, poter dire le tue opinioni, rispettare quelle degli altri e anche gli altri rispettano le tue.

Ho parlato con tanta gente, vi era gente che non capiva, io sono sempre stata comunista, da quando ho iniziato, non ho fatto scuole slovene, il pensiero di potermi esprimere liberamente! Abbiamo lottato per questo, per me è un ideale, anche se qualcuno mi dice che è un’utopia spero di mantenere sempre questo mio ideale.

Pahor Boris

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

La testimonianza è stata realizzata con il contributo delle Amministrazioni Comunali di Cassago Brianza, Cremella, Monticello Brianza e Sirtori.

Mi chiamo Boris Pahor, nato a Trieste il 26.8.1913, come cittadino austriaco. Per quanto riguarda il mio arresto dopo l’8 settembre scappo anch’io. Ero interprete presso prigionieri jugoslavi, prima ufficiali poi a Bergamo vi erano quelli francesi; vengo a Trieste con un treno e la faccio franca fino alla stazione centrale di Trieste.

Alla porta vi era un carabiniere, un militare tedesco e si era ingabbiati. Alcuni sono montati su un treno che partiva e abbiamo viaggiato fino a Miramare dove siamo saltati giù dal treno e siamo scappati verso Contovello e Prosecco ed io ero deciso di andare dai partigiani per salvarmi dalla città.

Mia mamma che era di origine contadina è venuta su da Barcola a portarmi stivali da montagna e un sacco da montagna che poteva tenere la pioggia. Intanto che mi preparavo per partire è venuta mia sorella minore insieme con la sorella di Pino Tomasic, quello che era stato fucilato dopo il secondo processo per la difesa dello Stato nel 1941. Mi dicono: “Cosa vai a fare, i partigiani possono fare senza di te, qua a Trieste abbiamo bisogno”.

Mi sono calato giù alla chetichella e dico: “Qua non mi pescano i tedeschi” perché a Trieste conosco tutti i buchi e per un po’ mi sono arrangiato a raccogliere il necessario per i partigiani. Abbiamo fondato un Comitato nel centro della città ed erano di Lubiana i collaboratori, clericali sloveni che combattevano secondo loro l’ateismo comunista. I comunisti erano la parte più combattiva del Movimento di Liberazione Nazionale sloveno, erano insieme con i comunisti cristiani sociali, i liberali di sinistra e la maggior parte della cultura slovena. Invece questi disgraziati (non posso dire altrimenti) sono venuti qui da noi, avevano una caserma al rione San Giovanni e in città avevano un centro di polizia scoperto dopo perché io avevo collaborato con la rivista dei cristiani sociali di Lubiana perché possiamo dire che era la gente di cultura più qualificata. Ho mandato una novella e me l’hanno pubblicata con tutto che il mio sloveno era abbastanza scadente ma si vede che l’hanno corretta e questi hanno pensato: “Siccome questo ha pubblicato dai cristiani sociali certamente è legato con loro”, soprattutto perché tutti i nostri sloveni della regione Venezia Giulia erano capi tutti antifascisti organizzati, dai comunisti fino ai liberali e ai cattolici, si era tutti antifascisti, soprattutto qua, sapevano che dalla parte cattolica, persino i nostri sacerdoti, erano dalla parte antifascista, contro il Vaticano perché ha dovuto obbedire al Duce e la Chiesa ha dovuto pensionare l’Arcivescovo di Gorizia, che era un vescovo fantastico, aveva detto: “Il Vangelo insegna di dare la lingua che parla un popolo, dare anche la maniera di pregare nella propria lingua; mi manterrò a questa norma o se si vuole a questo cristianesimo pratico a costo di perdere la Mitra pastorale” e poi l’ha persa e hanno mandato via anche lui.

Loro sapevano di questo e sono venuti proprio con questa idea di prelevare tutti quelli che potevano diventare membri della lotta di liberazione nazionale, si presentavano come partigiani bisognosi di dormire e accoglievano la gente festosamente. Non si era parlato sloveno per vent’anni, era tutto proibito quello sloveno, a sentire un uomo che parlava sloveno ci cascavano come pere cotte.

Purtroppo, il primo trasporto eravamo in 600. Questa polizia è venuta a casa mia, abitavo in via San Nicolò, n. 13 – IV piano, sono venuti al mattino alle 6,30, il portone a quell’ora era sempre chiuso e si sono arrangiati loro il giorno prima per la chiave. Erano in 4 o cinque, uno era in abiti civili, gli altri avevamo la divisa un po’ differente, avevano qua una specie di tricolore sloveno. Hanno svegliato la famiglia, quello che era peggio in tutta la questione era che uno dei militari, c’era un capitano prigioniero al lago di Garda dove ho fatto l’interprete, era uno sloveno, vi era un tenente colonnello sloveno, un capitano e un altro; uno si è rifugiato a Trieste e non sapeva se andare dai partigiani o no, mia mamma cattolica ha detto “Prendete la camera delle due sorelle”, una andava a dormire nell’altra camera e dormivamo insieme. Ci avevano presi tutte e due. Io avevo una macchina da scrivere e avevo un articolo che avevo preparato contro i nazisti sotto il marmo del tavolino di notte. Ho detto a mia sorella quando mi salutava in anticamera prima di andare via: “Butta via quello che c’è sotto il marmo”. Invece di aspettare che fossimo andati via è andata subito a cercare il marmo e l’hanno pescata, mi hanno fatto tormentare dalla SS. Mi hanno portato prima in un loro ufficio in centro e mi hanno dato un po’ di colpi con dei cinturoni che avevano, dicevano che mi avrebbero fucilato. Dopo è venuto uno che doveva avere un’autorità superiore, un giovane e dice “Mandiamolo a marcire”, parlava sloveno ….

D: Professore, questo quando è avvenuto?

R: E’ avvenuto il 21 gennaio 1944. Lì sono stato una giornata io e questo disgraziato di capitano, era simpatico, abbiamo fatto un mese e mezzo di prigione insieme. La sera mi hanno consegnato in prigione, ormai avevano fatto il loro dovere e sono stato in cameroni dove c’era posto per quattro persone, eravamo in 32! Le pescavano sul Carso queste persone… Dopo quattro o cinque giorni mi chiamano perché ero già preparato, certi avevano le facce tumefatte, già provate, c’era un comunista, gli avevano fatto delle cose con l’elettricità. Alla radio aveva parlato anche dei sindacati, di come sono ben organizzati, ha ceduto, io avevo paura siccome come costituzione non sono forte, avevo paura di essere tormentato.

Al primo piano di questo palazzo che adesso stanno rifacendo, c’erano le celle, avevo in mente che ve ne erano tre, pare che ve ne siano state altre, o le hanno messe dopo. Io ero colpevole di non essermi presentato perché ero sottufficiale interprete, quando avevano bisogno di questo interprete volevano un ufficiale, il mio reggimento era Cremona, avevo fatto un anno di Libia prima, ho detto “Non sono ufficiale ma la lingua croata la so”, quindi, il mio colonnello mi ha fatto prima caporale poi voleva avere un sergente e quando sono venuto a Trieste ero un sergente, avrei dovuto presentarmi al comando. Ero due volte colpevole, la prima per non essermi presentato, la seconda era che trovandomi con la macchina da scrivere e quel mio articolo ero un antinazista; lui si è fermato soprattutto sul punto della macchina da scrivere più che sul fatto che non mi sono presentato al comando militare.

Vi era la questione della macchina da scrivere che, per fortuna, me l’avevano cambiata alcuni giorni prima. Avevo una macchina molto in gamba, questi nostri uffici avevano bisogno di macchine che facevano copie e me l’hanno tolta dicendo “La sua macchina è troppo bella, gliene diamo un’altra”, per fare le copie ci mettevano dentro tre, quattro carte carbone.

Alla SS dico: “Questo me lo hanno dato perché dal momento che non avevamo la possibilità di studiare lo sloveno, come studente universitario mi hanno detto di correggere la lingua, non è battuto sulla macchina che hanno trovato da me” e là si capisce, ci hanno giocato su abbastanza tempo, poi mi hanno legato a una sedia con un pezzo di manico di scopa tra le gambe in maniera che ero con la testa in giù e le gambe in aria, uno da una parte e uno dall’altra e davano dei colpi; ero come una zebra quando sono tornato in prigione, ero ben conciato.

Volevo dire che lui ha cominciato il discorso dicendo “Noi abbiamo avuto tante occasioni in Europa di parlare con gli intellettuali e ci siamo sempre trovati d’accordo su come poter lavorare insieme”. Tra di me pensavo: “L’avete fatto ma la conseguenza sarà che ne prenderò di santa ragione” e ho resistito, “Se non comincia con l’elettricità spero di farla franca”. Chi ha dato il testo da correggere non mi ha detto chi era, mi ha incontrato al caffé e per essere legali non si dice nome e cognome. Mi arrangiavo con il tedesco perché avevo fatto il seminario cinque anni, avevo sempre insufficiente in tedesco non perché non fossi capace di impararlo ma perché non lo sopportavo dal momento che i nostri vecchi non parlavano dell’Austria a cui si era soggetti. Mi è servito in campo di concentramento il tedesco come mi è servito il francese che ho fatto a Padova. Mentre ero interprete sul Lago di Garda andavo a fare degli esami con il permesso del colonnello, se non mi arrestavano quei disgraziati di collaboratori finivo a Trieste, mi laureavo e volevo andare a fare il partigiano con un attestato di studio perché dicevano che i partigiani erano una raccolta di gente che non faceva niente, erano non mezzi delinquenti ma fannulloni, la gente che non voleva essere del Movimento di Liberazione Nazionale aveva una brutta concezione di questi che si raccoglievano nei boschi, dicevano: “Che razza di esercito è questo?”, conoscevano qualcuno che non aveva mai fatto niente di interessante e che andava a fare il partigiano. Non volevo essere uno studente che non ha finito i propri studi ma volevo finirli.

Mi hanno chiuso durante una notte in un armadio a muro. Da noi abbiamo nelle vecchie case questi armadi a muro, non potevo stare né in piedi né mettermi giù, dovevo stare accucciato. Quella paura dell’ambiente chiuso l’ho sempre avuta, anche andare sotto terra con le miniere, quello è stato il peggio che ho sofferto. Il giorno dopo si è messo a dettare tutto quello che avevo detto e credo che sia stato l’unico caso. C’era tanta gente che se voleva fare a tutti una cosa simile c’era da battere a macchina moltissimo, invece si vede che voleva dimostrarmi una specie di legalità e ha battuta a macchina dicendo “Ha collaborato con i comunisti”, “No, dico, con il Movimento di Liberazione Nazionale”, ha corretto e mi ha fatto firmare.

Ho capito dopo che se avessero pescato uno che era con me, se avesse fatto il mio nome sarebbero stati capaci di farmi impiccare perché tante volte avveniva questo, lo racconto anche nel mio libro, una volta tre polacchi hanno fatto così. Molte volte ho avuto fortuna!

Ho firmato questo e dopo vi era uno di questi lubianesi che faceva il servizio, e mi dice “Vada via, mandatelo in prigione”. Allora sono andato in Coroneo e sono stato quasi tutto il mese di febbraio, mi pare che sia stato il 26-27 febbraio e abbiamo fatto questa vita di preparazione e per fortuna ci hanno mandato via perché pochi giorni dopo al Conservatorio di Musica triestino li hanno impiccati sulle scale, le finestre in via Ghega … se fossi stato lì sarei finito dentro, anche con la firma che ho fatto non sarebbe servito niente.

A Dachau come tutti i campi appena arrivati vi erano i bagni grandiosi, ci prendano via tutto quello che era peloso cominciando dal pube e sotto le ascelle, i capelli, dopo il bagno c’era la disinfezione come le giumente, con un pennellone che bruciava maledettamente e dopo si era sulla neve. La neve c’era già a Trieste, in carcere si andava a fare le passeggiate sul terreno bagnato dalla neve. Era una spianata dove da una parte si usciva fuori dalla doccia e dall’altra si era in fila per passare davanti ad una baracca dove si dava nome e cognome e ci davano il numero che si sarebbe cucito sulla parte sinistra del petto, il triangolo rosso come prigioniero politico e bisognava dichiarare la professione. Non ero preparato e ho detto “Studente universitario”, ed è la peggiore professione per loro, tutta gente che andava a scavare e a lavorare nella cava; se avessi saputo prima avrei inventato qualche cosa.

Il fatto è che all’uscita della baracca si prendevano un paio di pantaloni, una specie di camicia, roba che come vestizione invernale era una miseria, un paio di zoccoli per camminare sulla neve, era un disastro. Quando siamo partiti da Trieste le nostre mamme ci avevano preparato tutta la lana, cappotto pesante, eccetera, è stata una delusione tremenda.

Davanti a una baracca, eravamo 600, siamo stati fermi non so quante ore prima di farci entrare dove si sarebbe dormito e siamo rimasti lì sei o sette giorni, non so la data giusta, si perde poi la concezione del tempo. Poi ci hanno fatto un altro svestimento e ci hanno mandato in Alsazia, in un paese che si chiamava Markirch che voleva dire Chiesa della Maria, in francese si chiama Saint Marie aux mines, che vuol dire Santa Maria alle miniere.

D: Vi ricordate il vostro numero a Dachau?

R: Dovrei andare a pescare le lettere …. posso trovarlo …

D: A memoria non lo ricordate?

R: Dopo di questo ho avuto quello di Natzweiler, poi quello di Dora, dopo Bergen Belsen.

D: Quando siete partiti da Trieste vi hanno portato dal Coroneo alla stazione?

R: Questa partenza e anche quella dopo la mia, siamo tutti partiti dalla parte commerciale, dove c’è adesso il silos. La prima partenza era uguale a tutte le altre solo che a Trieste vi erano tutti vagoni chiusi, diversi trasporti che ho fatto dopo erano chiusi e aperti, peggio era in quelli aperti, si era esposti al freddo e alla pioggia.

D: Da Dachau a Markirch come vi hanno portato?

R: Come al solito era un treno da carro bestiame e ci hanno scaricato alla stazione, ci hanno portato in un’industria di pellame, era tutto a piano terreno con una specie di tavolato dove correva l’acqua sotto e lì vi erano i soliti letti a tre piani per dormire i castelli, là mi sono ammalato perché dal punto di vista intestinale sono suscettibile e ho subito lo shock perché ci alzavamo alla mattina di buon ora e si andava a fare 3 km da un traforo che era ferroviario, abbandonato, e bisognava trasportare i binari da una parte in modo che poi hanno cementato l’altra parte e hanno fatto la fabbrica di motori per i missili, i “V2”. Bisognava lavorare 12 ore e ritornare a piedi sulla neve in questi stanzoni; non era organizzato come i campi normali, era tutto da costruire e dopo che ci davano quel pasto pomeridiano, un pezzo di pane sempre uguale, una specie di pane come una cartolina illustrata di due dita di altezza, si andava a dormire e dopo un’ora e mezza all’appello perché o mancava o … stanchi di 12 ore di lavoro, dormi un’ora e mezza … è morto uno dei triestini, uno di Padriciano, dopo un mese e a me su quella cassa di morto mi hanno portato a Natzweiler. Mi sono buttato per terra, il pane non lo mangiavo, il comandante mi ha dato alcune pedate e mi ha messo su questo camion che partiva, erano 50 km. Da Strasburgo e da questa specie di campo, abbiamo fatto tutte quelle salite, avevo 38 gradi di febbre. Il capo del quale dopo sono diventato interprete, mi ha dato un’aspirina, dopo due o tre giorni l’organismo si è rimesso a posto, ho avuto qualche purga, anche adesso porto sempre con me il sale amaro, sono quello dell’intestino difficile, ma là mi hanno messo in una baracca, una manifattura, e si tagliavano dei pezzettini di diverso materiale. Hanno detto che poi mettevano insieme i pezzettini, facevano dei palloni per i bastimenti affinché non battano contro il molo. Stava con me Gabriele Foschiatti di cui parlo, non sapevo che era del Partito d’Azione; mi diceva che dopo la guerra avremmo organizzato il problema delle minoranze; tra di me pensavo “Venire proprio davanti al forno crematorio per fare l’amicizia tra i popoli!”. Tornando ho letto un libro che hanno fatto a Udine proprio dedicato a lui, c’era una specie di organizzazione sulla carta e poi il fantastico è che è il controllo delle minoranze dei diversi stati deve essere fatto in base a un’organizzazione europea, non ciascun stato dà per se stesso e oggi abbiamo il Parlamento Europeo, ma non c’è una legge dove gli Stati siano obbligati ad essere controllati.

D: Come vi ricordate Natzweiler quando siete arrivati?

R: Era terribile perché è fatto a scalinate, quindi come da noi dal mare fino su al paese del Carso. L’avevo confrontato con i nostri vigneti, lì vi erano i vigneti della morte, ogni giorno non si faceva solo la vendemmia dell’estate. Entrando e andando su per le montagne, alla prima entrata che si fa vi è il patibolo di legno, quando abbiamo fatto il primo incontro con quelli che erano gli anziani. Come nelle vite militari, la recluta che viene deve subire da prima gli anziani, poi i caporali, i sergenti; l’unica entrata è per quel camino che vedi laggiù, vi era un forno crematorio alla buona, vi era un camino di latta, ora lì l’hanno fatto in muratura, ma non era un grande campo, un campo di istruzione. Si capisce che stare alle adunate con neve dappertutto, si camminava sulla neve, restare lì due o tre ore era la fine del mondo, quello è l’unico caso dove ho pregato. Adesso sono credente nel senso che mi inchino davanti all’universo, al mistero ma come istituzione no. Invece una volta ero uno studente che aveva fatto il seminario, ho fatto due anni di teologia, è stata una preghiera della paura quindi, la preghiera non dovrebbe essere fatta in base alla paura ma si vede che già il primo uomo una volta con la paura ha creato il mistero della vita.

Specialmente di notte o di sera, solitamente non si facevano gli appelli, ma con il dilungarsi di un appello restavano tutte queste scalinate piene di gente e poi c’erano i fari, ci sono delle foto, c’era un disegnatore francese che ha fatto dei bei disegni su queste notti o serate scure, oppure quando c’erano i nuvoloni che si potevano toccare con la mano, ho descritto un’impiccagione ed era là che sono stato scosso.

Bisogna dire che su sedici blocchi la metà erano già ammalati, impotenti, gente che era in posizione orizzontale, era difficile uscire guariti da quelle baracche. Quel medico francese che è venuto a farci le fasciature perché avevano paura dei pidocchi, quindi, voleva dire tifo e i tedeschi stessi avevano paura, c’era il pericolo che prendevano anche loro.

Mi hanno tagliato un panericcio (in lingua tecnica non ricordo), c’era una specie di marcio che si è formato e un chirurgo belga ha fatto tre tagli ed ero quasi guarito, avevo una fasciatura di carta, non c’erano fasciature in tela, era tutta carta e mi tenevo questo braccio e dico: “Fino a che ho la fasciatura non vado a finire in qualche ….” più in là di mezzo chilometro c’era la cava. Questo medico dice: “Non so cosa fare, questo è guarito” e ho detto: “Non ti interessare, dammi la fasciatura ancora una volta!” Ha visto che mi arrangiavo in francese, “Italiano si vede che in francese te la cavi”, dico: “Me la cavo ma non perché sono italiano, ho fatto l’università, due esami, e poi sono solo cittadino italiano, la nostra regione è slovena”.

Dice “Ci sono tanti russi, polacchi, ciechi”; ha avuto la buona idea di dare il mio nome, l’ufficio che ho avuto non c’era nel regolamento del campo, c’era un interprete che era uno sloveno di Lubiana, faceva per la parte slava, mi hanno fatto da aiuto interprete al medico capo che era un medico in gamba, e bisogna dire che nel campo di Natzweiler e in quello di Buchenwald, c’erano i cosiddetti NN che in tedesco vuol dire “notte” e “nebbia”. Potevano fare di loro quello che volevano, erano destinati alla morte prioritaria, avevano sulla schiena della giacca, o quello che poteva essere una giacca, una N in rosso. Questo valeva per i francesi, per i belgi, gli olandesi e i norvegesi.

D: A Natzweiler vi hanno immatricolato un’altra volta?

R: Sì, sì!

D: La baracca della tessitura dove eravate voi era la numero 6?

R: Doveva essere stata la 8 perché era in alto, o la 8 o la 7, potrei anche sbagliarmi perché tante cose non mi interessavano, tante cose veramente le ho conosciute dopo. Trovandomi nel luogo del bagno c’era per terra uno zingaro, bello, forte, con la bava azzurra, sapevo che in qualche posto lo avevano gasato ma non mi sono mai interessato, pensavo che fosse nel campo invece fuori, lì dove c’è vicino una specie di rifugio, vi è quel casotto che è una specie di bagno.

Mi interessava nominare questo medico, un primario, non sapeva altro che il tedesco, dovevo aiutarlo anche in francese, l’italiano non lo sapeva quasi nessuno; sono stato suo interprete da marzo a settembre, perché la seconda armata francese con gli alleati erano a Belfor che non era lontana e avevano paura che circondassero il campo e tutti quelli che camminavano li hanno fatti marciare giù fino al treno, dopo non so se sono andati a Dachau perché lì non accettavano volentieri gente di cui non avevano bisogno; Dachau era un campo elite per i tedeschi, i primi deportati erano comunisti, socialisti antinazisti. Quelli che invece, erano ammalati, bisognava portarli dalla baracca fino al camion davanti al campo e dopo dal camion giù e caricarli e si capisce che era un trasporto, erano trasporti malvagi per la maniera con cui bisognava arrangiarsi, bisognava portarli a peso d’uomo. Per caso vi erano delle carriole, i russi facevano questi lavori di fatica, messi in carriole attorno al campo che aveva le scalinate in mezzo ma poi tutto in giro vi era la possibilità di andare con i camion e lì si capisce che c’era tanto bisogno di camion che molte volte bisogna aspettarlo.

Arrivati a Dachau di nuovo tutti quanti la doccia, avevano paura che infettassimo il campo, vi era un mucchio di morti davanti alla doccia. Dachau era grande, vi erano stracci, gavette, tutto il possibile e immaginabile, quelle strisce di carta, come racconto nel libro.

Quando si è entrati vi era questa specie di disastro e il disastro era che moltissima gente non poteva stare in piedi ed era ancora viva, doveva stare sdraiata; vi erano questa specie di anziani, molte volte non erano simpatici, non erano tutti politici, erano pezzi di galera che se la prendevano con i prigionieri come volevano. Poi vi erano anche gli anziani veri e propri ma questi non avevano questo lavoro diretto specialmente quando si entrava nel campo, certi sì ma non erano tanto simpatici, specialmente quelli che facevano i barbieri, gridavano, si faceva tutto gridando e poi quando bisognava levare i peli anche se ve ne erano pochi… Siamo finiti in un blocco di quarantena che era speciale perché non avevano più coperte e ci hanno dato dei sacchi: quello non mi andava giù, essere in un sacco non lo sopportavo, soffro di chiusura, non l’ho mai potuto accettare. A Dachau vi erano 3.000 sloveni, era un grande numero per la piccola Slovenia occupata dagli italiani e dai tedeschi, non so se i tedeschi dalla parte tedesca hanno cercato di svaligiare, mandare la gente verso il sud, hanno fatto man bassa per liberarsi della popolazione slovena da parte loro facendoli partire dalla Slovenia. Quelli che hanno il Movimento di Liberazione nazionale finivano nel campo di concentramento. Si vede che vi era qualcuno di questi sloveni del Movimento Cristiano Sociale che collaborava con il Movimento che i cosiddetti collaboratori li mandavano a Dachau senza avere la documentazione che attestasse che erano legati a quel Movimento, come preventiva, era moltissima gente, gente di cultura, vi era un chirurgo sloveno di fama europea, professori universitari. Hanno trovato tra le cartelle anche Boris Pahor e siccome con questo cristiano sociale avevo pubblicato una novella o due hanno visto che ero da salvare, mi hanno tirato fuori dal blocco e mi hanno trovato un posto da infermiere nel blocco della dissenteria, della cacca. Avevo questo polacco che si faceva passare per tedesco che aveva delle maniere abbastanza rudi; questi disgraziati avevano ancora un corpo in forma o normale e facevano tutto lento, non erano più da far lavorare, lo lavavo, e lui voleva una cosa molto più sbrigativa. La prima occasione che c’era me l’ha data Dora: hanno fatto un’organizzazione speciale per fare sabotaggi, vi erano ingegneri russi, francesi insieme con gli ingegneri tedeschi, hanno pescato i missili che non partivano oppure partivano e cadevano giù e quando li riportavano indietro sapevano da che parte era stato fatto il sabotaggio. Ne hanno impiccati una quindicina, hanno fatto una specie di rotaia attraverso il tunnel.

Insieme a questi ingegneri vi erano anche degli amici che facevano gli infermieri, come hanno partecipato quelli dell’infermeria non so, il fatto è che ne hanno scaricati una decina e hanno chiesto a Dachau dieci infermieri. In parte sloveni, poi vi era un croato e siamo partiti con treni normali fino a Dora; ho dormito una notte in prigione perché non sapevano dove mandarmi e poi hanno deciso per Natzweiler che dipendeva da Dora.

D: Prima di arrivare a Dora che cosa è successo a Monaco?

R: A Monaco vi erano i bombardamenti e le distruzioni, li facevano in maniera tremenda. Dalla baracca della quarantena si poteva, se si voleva, andare a fare i volontari a Monaco in città per scaricare il materiale, le macerie. Non avevo nessuna voglia di andare a lavorare e lì qualcuno ha avuto la maniera di mangiare perché dove cadevano le bombe vi era qualche cucinetta e hanno riempito le maniche delle giacche di cibo. Noi abbiamo incontrato la gente quando si andava in stazione e vi era un attacco aereo e ci siamo rifugiati, eravamo insieme con i cittadini impauriti, ci guardavano con una specie di occhiate che non si sapeva se erano di commiserazione o di paura, non erano di astio in quel momento.

In treno eravamo con questa gente, guardati dalle guardie e dopo mi hanno fatto fare servizio di infermiere, era un piccolo campo, tre o quattro blocchi, vi erano tre cambi. Si andava a lavorare in questi tunnel, questi trafori; molte volte mi hanno pregato, specialmente gli olandesi che erano lavativi e non avevano nessuna voglia di andare di notte. Per andare non era così semplice, prima si faceva un pezzo a piedi, dopo un pezzo con il trenino a scartamento ridotto dove vi erano le finestre rotte, faceva freddo, quando si arrivava ad un paesello bisognava salire su quei treni ribaltabili e specialmente per quelli malati arrampicarsi su era un lavoraccio. Non era un viaggio da accettare. Sono andato per liberarmi del campo anche perché dormivo insieme con i malati, mi sono preso la tisi dagli ammalati con cui dormivo e ci sono andato tre volte, erano 20 gradi sotto zero, dove c’era il vestiario ho avuto una specie di giacchettone che mi arrivava fino alle ginocchia ed era abbastanza solido.

Poi mi ricordo un ……. che aveva un paio di mutande lunghe che nessuno aveva e io me le sono cucinate in un vaso, con l’acqua bollente e ho indossato queste mutande lunghe così sotto il mio pantalone normale avevo queste mutande lunghe che era un caso tutto speciale, con 20 gradi sotto zero stavo bene, avevo una specie di riparo.

Questi disgraziati venivano da me, non entravo nel tunnel ma stavo fuori della baracca con due guardie, con gli ammalati. In queste baracche vi erano delle stufe che si facevano scaldare con quei quadratini di mattonelle di materiale pressato; era fuori che si moriva ma dentro vi erano solo malati. Lì ho avuto la fortuna di fare l’infermiere in una maniera, prima di partire dalle baracche, mentre si mettevano in fila, tutti questi ammalati, specialmente quelli che avevano la dissenteria, si lasciavano cadere i pantaloni e mostravano questa specie di … i resti di caffé, non so come si potrebbe dire, che scendevano giù fino alle ginocchia e a quelli si dava un bigliettino per presentarsi in infermeria, quindi, nelle baracche.

Sei o sette di queste cartelle le davo poi c’era qualcuno che aveva la febbre e aveva il termometro; intanto che uno si cavava i pantaloni davo il termometro all’altro, avrò salvato qualche vita ma era l’unica maniera che avevo di fare cosa utile come infermiere perché per tutto il resto avevo del carbone vegetale, una pasta bianca che faceva come una specie di gesso, ma se non c’era liquido caldo tutta quella roba invece di aiutare impasticciava lo stomaco, non faceva cosa utile, tutto il resto erano aspirine, disinfettante per le ferite, alcol. Lì sono stato fino ad aprile, ho avuto una emottisi che mi ha preoccupato molto, vi era un medico francese che faceva passare per medico anche suo fratello che non capiva niente di medicina e non mi piaceva come medico perché sapeva trafficare con il capo medico, era un medico reggimentale, non una SS. Avevo uno sloveno che aveva la febbre alta alla mattina e alla sera no, era un caso di tisi, potevo dargli un po’ di minestra a mezzogiorno invece dice a questo benedetto capitano “Sì, sì lo mandiamo a Dora”, “Ma”, dico in francese “c’è posto qua”, “No, perché là vi è una baracca speciale per ammalati simili”.

Me la sono legata al dito. Questo tipo non mi piaceva ma ho visto la visita che mi ha fatto. Il mio polmone aveva sputato sangue e aveva detto che non ci trovava niente ma credo che lo abbia detto a mio favore perché se avesse detto c’era un inizio di tubercolosi mi avrebbero scaricato. Mi ha mandato a Dora per fare una visita, i raggi che erano un assurdo fantastico con tutta quella gente che moriva e non avevano più posti nei forni crematori, avevano mucchi di cadaveri che ardevano. Sono stato a Dora quella settimana e mezza, ho visto la morte e lì è morto un infermiere sloveno che è venuto dal comando e si è preso il tifo e siccome non sapevamo nemmeno noi infermieri come è toccata a questo nostro amico, abbiamo fatto la proposta al capo che c’era, un olandese, di fare il controllo dei morti, l’autopsia. L’hanno fatta, davanti a questa baracca vi era un mucchio di gente, corpi che ardevano; arrivavano dei trasporti interi dalla parte russa perché liberavano i campi perché non volevano che venissero in mano ai sovietici e venivano dei treni completi di corpi coperti anche di calce, disinfettati, che venivano trasportati su questa specie di collina dove li bruciavano,. Vi erano questi trasporti infiniti e dopo i primi di aprile, avevo avuto dei bombardamenti, siamo stati un certo tempo senza acqua e senza luce, erano chiodi perché questi corpi di dissenteria si lavavano ma senza luce era una cosa …….. era una cosa infernale! E’ venuto poi questo ordine di scaricare il campo e fare il trasporto. Quelli che potevano camminare sono partiti ma siamo rimasti in quattro o cinque infermieri, più di cinque non eravamo. Vi era questo mio amico infermiere di Spalato, speravamo di restare insieme invece ha detto: “Ci fanno fuori tutti, vado a piedi, se c’è da camminare cammino” e si è salvato, l’ho incontrato dopo la guerra e non ha nemmeno voluto salutarmi. Sarà che abbiamo avuto questa specie di disgrazia che i comunisti sloveni dopo che si sono staccati, dopo che Stalin li aveva scacciati dall’Internazionale hanno fatto quel processo alla staliniana per mostrare ai russi che anche loro sono come loro e moltissimi di questi comunisti onestissimi hanno finito la loro vita impiccati e altri hanno fatto undici anni di carcere. Anche gli ex deportati non avevano tanto piacere di essere riconosciuti perché non si sapeva mai se c’era qualche spia che per vendicarsi… I processi erano finiti, io ne ho incontrato uno, un celebre pittore sloveno, incontrato a Lubiana il primo giorno: mi ha dato la mano ed è andato per le sue e questo l’ho scritto anche nel libro.

Io ero attaccato ai miei malati tanto è vero che c’era la sala vicino dove vi erano gli ammalati con le ferite ma c’era mancanza di minerali. Il corpo umano era esposto a ferite flemmoniche, le chiamavano così, che non si trovano oggi negli ospedali, lì invece bisognava incidere, vi era il pus, e poi vi era molto da fasciare.

Intelligentemente abbiamo scaricato tutto quello che abbiamo trovato nell’infermeria delle SS, molti bisturi, alcol, fiale di zucchero … non so come si dice in termine tecnico, lo zucchero della vite, lo zucchero che si mette nelle fiale agli ammalati, la flebo; hanno fatto anche delle pastiglie di questo zucchero, lo comperavo quando andavo in montagna per resistere, c’erano fiale da 10-20 cm e quelle le abbiamo adoperate in qualche caso per fare iniezioni. Il fatto è che abbiamo fatto un viaggio di cinque giorni, credevo fossero tre invece ho trovato in questi giorni la data e non ci siamo fermati dappertutto perché non sapevamo dove scaricare questo materiale, tutta questa gente semimorente, bisognava caricarlo da prima, uno o due ne abbiamo seppelliti, c’era un russo che faceva questo; di solito i russi facevano tutti i lavori di fatica, era gente che lavorava sul serio, non ammettevano un lavativo senza la voglia di lavorare. Ci siamo fermati il giorno dopo, ne abbiamo seppelliti 150, abbiamo lasciato vuoto un vagone, quello vicino alla macchina e poi non ne abbiamo più seppelliti altri. In vagoni aperti siamo arrivati a Bergen Belsen che il campo era pieno zeppo e anche lì ci hanno scaricati davanti a piccole caserme di un piano e hanno fatto delle foto. Ci siamo fermati vicino a un treno con un carico di patate. Uno ha scavalcato due rotaie, è andato fino a quel treno per prendere due patate e le SS hanno sparato e hanno traforato l’avambraccio e a questo polacco ha detto “Per una patata guarda cosa hai fatto”, prima gli ha detto “Stai attento”, poi si vede che è andato a cercarlo, poi ha trovato del nero, ha trovato delle scarpe, e si è unto con quel nero come un giorno di festa ed è andato lungo i vagoni e lo hanno riportato in linea orizzontale, scaricato nel vagone. Questa è una mia idea, è andato a cercarlo, poteva stare zitto, perché finire all’altro mondo due giorni … molti giorni dopo, caso mai sarebbe stato liberato anche lui. Gli infermieri sono stati così intelligenti che tutti questi malati che trovavamo, che potevano camminare li abbiamo aiutati e anche lì c’era poco da fare. Lì ci hanno liberato gli inglesi il 15 o il 16 aprile 1945 e hanno distribuito delle scatole di prosciutto cotto molto ben cotto e molta gente è andata all’altro mondo con quel prosciutto cotto e non c’erano cucine, e abbiamo dovuto impiantarle.

Con due francesi amici dissi: “Guarda che tagliamo la corda”. Non c’era filo spinato, c’erano i primi tentativi di cannibalismo, c’era gente affamata già nel campo mentre noi infermieri eravamo in posizioni migliori perché un po’ ci arrangiavamo. Con il pane che restava, con il pane che si ordinava per il giorno dopo quando il giorno dopo c’erano morti, si facevano piccoli pezzettini, un po’ di minestra in più ma già lavorare dentro era salute, tanta energia guadagnata. In cinque giorni non ho toccato né da mangiare né da bere, non ve ne era per nessuno, immaginate quelli in piedi, non potevano nemmeno accasciarsi perché non c’era posto, già lì vi era un mucchio di gente morta.

Mi hanno detto: “Noi tagliamo la corda se vieni con noi, e dico: “Meno male che me la cavo, che vado verso la Francia” e poi abbiamo fatto autostop con questi camion vuoti che tornavano indietro per prendere altro materiale. Loro due stavano in piedi e salutavano queste truppe che stavano arrivando ed io ero sdraiato in questa coperta sul tavolaccio del camion. Ad un certo punto ci hanno lasciato e siamo andati a piedi di nuovo e abbiamo dormito in un paese, non abbiamo trovato niente di caldo, la gente era scappata perché aveva paura dei militari.

Siamo arrivati alla frontiera olandese e là gli olandesi avevano preparato dei treni speciali di prima classe per quelli che tornavano. Non erano solo dalla parte nostra ma anche dalle altre parti, non solo da Bergen Belsen. Così abbiamo fatto il viaggio attraverso il Belgio fino alla frontiera francese, poi ci siamo fermati a Lille dove vi era il primo luogo dove abbiamo dormito con le lenzuola e con il pacco della Croce Rossa americana e siamo arrivati a Parigi.

A Lille abbiamo fatto questa sosta che era il 2 maggio, vi era il giornale Liberation, vi erano giornali di un formato di un quarto di giornale, Le truppe jugoslave hanno liberato Trieste”, questo lo racconto in un mio libro uscito in Francia, “Primavera difficile”, ho firmato un contratto e dovrebbe essere tradotto anche in italiano; arrivato a Parigi mi sono presentato all’ambasciata jugoslava e pensavo che dal momento che erano là si sarebbe risolto, invece è stata una bidonata perché ho perso tutto quel tempo che sono stato in Francia come jugoslavo, un mucchio di soldi hanno preso quelli che avevano la documentazione di essere stati là un anno e mezzo e io come jugoslavo sono andato fino a Trieste come deportato politico perché mi hanno dato la tessera dei deportati politici francesi e mi hanno curato come se fossi uno di loro, ho combattuto con i militari clandestini di De Gaulle.

Sono stato là fino a quasi a Natale del 1946 e sarei rimasto ancora lì ma siccome avevo una sorella minore che ha preso la tisi anche lei, scendendo dal quarto piano semivestita con il freddo che c’era, il medico disgraziato della mutua le diceva che aveva un’influenza invece di fare subito un controllo e dopo nel 1947 è morta. Sono tornato nel 1946 ed è morta a novembre del 1947.

Un po’ le due sorelle mi hanno fatto il predicozzo, là ho conosciuto un’infermiera e mi sono innamorato, per fortuna sono tornato alla vita mentre vi erano moltissimi deportati che si suicidavano, ogni giorno la radio cercava “Hai conosciuto il numero tale ..? l’hanno visto?” I primi mesi anch’io ero senza voglia, ho comunicato a casa ma non mi interessava tornare, poi a Trieste vi era il pandemonio, vi era il Movimento di Liberazione Nazionale diretto dai comunisti che non voleva avere contatto con i cosiddetti imperialismi e a scapito dell’interesse che avremmo avuto noi di avere come amici il governo militare alleato hanno fatto il contrario ed è stata una balordaggine politica fantastica.

Questa mia vita in Francia è stata molto in gamba perché mi arrangiavo con il francese entrando nel campo, poi un anno sono stato con i francesi e i belgi, ho conosciuto pochissimi sloveni in questi campi dove ho fatto il mio lavoro come infermiere, il francese lo parlavo abbastanza bene là poi ho fatto una specie di Università sdraiato sulla sedie di vimini. Eravamo la maggioranza, si potrebbe dire quasi tutti, ex prigionieri di guerra francesi, vi era poca gente deportata, uno è morto subito i primi mesi che era là, poi ho conosciuto un polacco e c’era poca gente deportata e questi erano simpaticissimi, tutta gente abbastanza anziana richiamata per la Seconda Guerra Mondiale ed erano tisici anche loro e si sputava, vi erano le bacinelle, cartoncini, sacchetti.

In questo mio libro “Primavera difficile” racconto questa specie di incontro e li si prendevano in giro, “Domani ti portano una cassa da morto”, “No, il prossimo sarà per te”, eccetera, ho imparato il francese, quello popolare, non solo quello parigino ma tutte queste specie di espressioni che mi sono servite dopo quando mi hanno pubblicato in Francia e mi hanno accolto come uno di loro perché anche oggi se occorre cambio disco e parlo francese come se parlassi italiano …

D: Lì avete conosciuto il vostro amore!

R: Per conto mio era una specie di ritorno alla vita in una maniera anormale perché questa francesina simpaticissima, intelligente, finita anche lei in un sanatorio che non aveva niente, il padre che non ha voluto che facesse delle scuole e aveva il dono del disegno.

In sanatorio non so quanto tempo è rimasta. Aveva letto tutti i libri che vi erano in biblioteca, si interessava non era costretta, era molto dotata per la letteratura. Un medico che ha scoperto che non aveva più nulla diceva “Cosa fai qua tu, perché non fai l’infermiera?”, l’hanno fatta infermiera ed era bravissima.

D: Non l’avete portata in Italia?

R: Non aveva il coraggio di venire, ha trovato uno abbastanza ricco del paese che le voleva bene, era un suo amico di infanzia e suo padre le diceva: “Qua vi è un partito in gamba, cosa vai a metterti con uno là?”. Il peggio era che gli ufficiali che erano anche loro ammalati avevano raccontato della Jugoslavia quello che avevano conosciuto durante la Prima Guerra Mondiale: “Lì ci sono le capre,le pecore che passano per le strade della città per andare in montagna, cosa vai a finire laggiù?”

Lei era un po’ sbilanciata, poi le ho spiegato che cosa è Trieste in confronto alle pecore, ma la madre che piangeva che voleva avere i nipotini e il padre che è andato a prenderla in sanatorio e l’ha portata a casa per paura che scappasse, ero tormentato, due anni è durata questa cosa e la racconto nel romanzo che si chiama “Nel labirinto”, tradotto in francese, ci sono queste sue lettere, aveva già il passaporto per venire poi è andato tutto fallito. Mi dispiace perché si sarebbe trovata la maniera, io non ho potuto andare a cercarla perché arrivato a Trieste ho dovuto finire la laurea, finire l’Università. L’avrei portata a casa mia come poi ho fatto con mia moglie quando avevo già il servizio come professore ma per impiantarmi e trovare un posto, ci volevano soldi, denaro e non ho fatto bene a portarla a casa mia perché mia madre era molto religiosa, io non ho voluto sposarmi in chiesa, mia mamma ce l’aveva con me e anche con mia moglie che non mi ha fatto fare quello che voleva anche la sua famiglia che era religiosa …. fino a che non mi sono deciso con l’aiuto di mio padre di comperarmi una casetta a Barcolla. I primi tempi ha dovuto andare dai suoi perché quella casetta che c’era ho dovuto distruggerla nella parte superiore ed alzarla, il primo armadio che c’era ha aspettato che fosse fatto il piano per essere coperto; ero non un poveraccio ma in male condizioni economiche per cui non potevo dire: “La vado a prendere e la porto”. Un altro forse avrebbe avuto più coraggio e avrebbe detto: “Trovo qualche casa del Carso, una cameretta per due persone e la impianto lì”, praticamente, è andata a finire male.

D: Professore, ritornando a Natzweiler vi ricordate se c’era una baracca isolata dalle altre perché facevano anche degli esperimenti?

R: Non era una baracca ma una casetta in muratura ….

D: Non la camera a gas, intendo dentro nel campo.

R: Nel campo non c’era questo …

D: Non c’era una baracca recintata?

R: Questo era fuori del campo, poi sono andato a visitare, c’è vicino quello che si chiama Struthof è appunto questo posto perché Natzweiler prende il nome del paese che adesso si chiama Natzweiler. I nomi tedeschi li hanno lasciati, qua non so perché hanno tirato via quella “e”.

Sono stato al corrente degli esperimenti perché vi era non separato dal campo ma dentro, mi sembra fosse stato il quarto blocco. Dirò una corbelleria perché non sono mai stato attento. Hanno voluto tanti russi comunisti, dicevano loro, per fare degli esami e hanno trovato anche dei recipienti, volevano fare esami del cranio per dimostrare che hanno uno sviluppo mentale differente dal normale, non so in che blocco vi erano questi resti ma quello che ho visto che hanno fatto alcuni giorni prima era questo giovane di cui parlo anche nel libro che gli hanno dato una dose minore e che stava sdraiato e quando passavo vicino tirava il fiato come un pesce fuor d’acqua, non poteva né vivere né morire e non so come sia finito perché l’hanno trasportato con il trasporto di Dachau. Vi erano questi istriani-sloveni non so dove li hanno trovati ed erano destinati al gas e li hanno presi come zingari, poi si sono difesi e hanno detto: “Siamo italiani”, “Zingaro o italiano è lo stesso” hanno risposto.

Uno di loro più intelligente che ha capito che andava a finire male ha detto: “Siamo austriaci”, e questo li ha salvati perché intanto prima a calci hanno cercato di farli tacere e poi finalmente uno ha insistito e diceva che sapeva parlare il tedesco in maniera austriaca, era un tedesco di seconda mano e questo è bastato.

Hanno chiamato un interprete sloveno, non hanno chiamato me perché avrei detto subito che ero dell’Istria. In diversi casi ce l’avevano con gli italiani, come i tedeschi stessi perché nel 1915 avevano lasciato la triplice per andare dagli alleati che offrivano di più e gli alleati volevano prendere un pezzo della Slovenia, l’Istria e gli alleati si interessavano poco di queste regioni e hanno detto: “Dopo la guerra vi diamo questo” …. fatto sta che questo lubianese è arrivato a capire che in sloveno hanno spiegato “Siamo stati soldati austriaci” e allora li hanno cacciati in blocco ma è un po’ strano perché di solito gli zingari li avevano sotto il titolo di zingari, non so perché hanno trovato fuori questi istriani ma si sono salvati.

D: Donne a Natzweiler c’erano?

R: Non ne ho mai vista una, le uniche donne che sono venute e hanno finito i loro giorni a Natzweiler sono quelle che erano in un altro campo e che pare facevano parte dei partigiani o le hanno prese perchè aiutavano i partigiani come hanno fatto gli italiani con Arbe, quelli che erano finiti malamente, paesi interi in questo campo della Dalmazia e potevano anche essere presi come aiuto partigiano, non ricordo il numero giusto ma forse una cinquantina di persone, li hanno portati in campo e mi pare ci fosse anche un prete con loro, a Natzweiler li hanno messi tutti nel blocco della prigione …

D: Nel Bunker

R: Dicevamo Bunker, c’erano delle celle dove non si poteva né alzarsi né sedersi, i medici di notte hanno controllato. Uno a uno dal Bunker attraverso la terrazza un colpo alla nuca, non c’era la possibilità di impiccare, hanno sparato e dopo vi era la seconda, la terza, a uno a uno, e vi era l’unico caso dove vi erano delle giovani che nessuno ha pianto, sapevano dove andavano, non c’era altra maniera di uscire dal campo la notte.

D: Professore, è importante che i giovani di oggi conoscano la storia della deportazione?

R. Ho sempre sottolineato dove mi hanno fatto parlare del mio vissuto che eravamo nei campi dei deportati politici, quindi noi eravamo antinazisti per cui non abbiamo niente a che fare con i campi dove sono finiti gli ebrei, quelli che rimanevano in vita dopo tutti quelli che morivano con il gas. Certi sono rimasti, potevano servire specialmente ingegneri per opere, come Primo Levi, hanno fatto una vita di campo simile al nostro solo che lì non avevano interesse di farli morire presto perché volevano servirsi di loro come al campo di Dora per i missili. Lavoravano ma siccome lavoravano all’interno, il cibo anche scarso, la gente serviva fino a che dopo se facevano sabotaggi finivano anche loro impiccati.

Bisognava sottolineare che vi erano questi campi cominciando da Dachau, Buchenwald, Dora che erano insieme con tutte le dipendenze. Se si pensa che Natzwelier dipendeva da Dachau immaginarsi tutto quell’arcipelago di dipendenze. Ad esempio, Dora era una dipendenza di Buchenwald, che poi aveva alle proprie dipendenze che non si sa quanti campi.

Hanno costruito vicino al campo un centro che chiamano Centro Europeo del Resistente Deportato e questo vale per tutta Europa e si conosce anche questo anche se i francesi non hanno fatto tanta propaganda e molte volte ho scritto di questo. In Francia mi hanno detto il bollettino dei deportati dove pubblicavo molte volte che erano deportati di Dora-Mittelbau, e dicevano “Caro Pahor, caro Boris, questa tua discussione che fai sui campi è una specie di antisemitismo”. Dico: “Dove antisemitismo se parlo parallelamente della gente che è andata all’altro mondo, diventata cenere come gli altri .. il problema ebraico e io sono antisemita?” “Guarda che queste cose come le impianti tu…!” “Come le impianto io, siamo o non siamo stati antinazisti, siamo o non siamo stati in questi campi dove si moriva di malattie. Oltre agli impiccati, abbiamo il diritto o no?”

Bisogna far conoscere, non siamo niente, non avevamo niente a che fare con la gente che è finita con l’olocausto, non c’era niente di olocausto da parte nostra, eravamo semplicemente destinati a morire perché antinazisti e quelli che siamo stati con i francesi, belgi, olandesi e norvegesi. Era semplicemente una vendetta tedesca verso questa parte di Europa che si è messa contro la Germania e speravano che questa parte dell’Europa avrebbe capito che la razza superiore tedesca aveva certi diritti.

Capuzzo Bacio Emilio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni

R: Io sono nato nel 1926 ad Anguillara Veneta, un piccolo paese in provincia di Padova.

D: Come ti chiami?

R: Capuzzo Bacio Emilio

D: E sei sempre stato lì ad Anguillara?

R: Ad Anguillara sono rimasto fino al 1938.

D: E poi dopo?

R: Poi dopo la fame, il freddo e la miseria costrinsero mio padre a venire in cerca di lavoro in provincia di Milano.

D: E sei arrivato a Nova Milanese?

R: Siamo arrivati a Nova Milanese nel mese di agosto del 1938.

D: Tu quanti anni avevi allora?

R: Io avevo 12 anni.

D: E sei andato a scuola qui?

R: No. Quando ero al mio paese, cioè Anguillara Veneta, si viveva nella miseria totale; ho dovuto smettere di andare a scuola perché i miei genitori non avevano una lira per comperarmi i libri ed i quaderni.

D: Non avevate i soldi?

R: C’era solo la fame.

D: Il tuo babbo lavorava dove?

R: Mio papà era l’unico metalmeccanico del paese, quando venne convocato dal suo datore di lavoro, il quale gli chiese se aveva fatto la tessera del Partito Fascista, mio padre naturalmente disse di no. Perché era un socialista. Allora il suo datore di lavoro disse: Lei, se vuole continuare a lavorare in questa piccola fabbrica, deve fare la tessera del Partito Fascista, altrimenti da domani lei non può più entrare in questa piccola fabbrica”. Mio padre, da buon socialista, rifiutò questo ricatto. Non solo venne licenziato dal posto di lavoro, ma addirittura sfrattato di casa, perché di proprietà di un fascista, con tre bambini, uno di quattro anni e mezzo, uno di tre anni, uno di uno e mezzo. Io ero ancora nel grembo di mia madre, pertanto posso solo dire che le prime sofferenze le ho subite quando ancora ero nel grembo di mia madre.

D: Quindi dopo avete trovato un’altra casa lì ad Anguillara?

R: Adesso qui bisogna chiarire un momentino i fatti. Con l’aiuto dei diversi parenti che avevamo, cioè con piccoli prestiti, è riuscito a comperare un pezzettino di terreno e costruire una piccola casa comune, avendo poi il peso ed il pensiero di come pagare quei debiti. Infatti quando siamo venuti a Milano, ha potuto vendere quella casa, soprattutto per pagare i debiti che avevamo.

D: Quando tu dici Milano intendi Nova Milanese?

R: Intendo Nova, perché il piccolo appartamento lo trovò qui a Nova.

D: Dove?

R: Nel cortile dei Garlati.

D: A quel tempo non andavi a scuola?

R: Quando sono arrivato a Nova in pratica avevo fatto solo la terza elementare. Ho dovuto abbandonare la scuola che non avevo ancora 10 anni, pertanto quando sono arrivato a Nova, che avevo 12 anni, ho dovuto continuare la scuola e fare la quarta e la quinta elementare.

D: Ti ricordi dove andavi a scuola?

R: In via Roma. L’unica scuola che c’era a Nova era in via Roma.

D: Quindi dal ’38 in avanti tu sei andato a scuola in via Roma?

R: In via Roma. Finita la quinta elementare avevo già qualche mese in più dei 14 anni, allora l’unica cosa era quella di fare il libretto di lavoro. Mi recai in Comune, fatto il libretto di lavoro non ebbi nessunissima difficoltà a trovare il primo lavoro, diciamo, che fu alla SIB di Desio, dove costruivano le casseforti. Però nello stesso tempo io andavo a scuola di apprendistato all’Ercole Marelli di Sesto San Giovanni. Avuto quel piccolo diploma, trovai subito lavoro alla Breda Campovolo.

D: Che dov’era?

R: Era tra Sesto e Bresso.

D: Lì lavoravi dove? In reparto?

R: Sì, lavoravo come apprendista aggiustatore, e posso dire che tutti noi guadagnavamo abbastanza bene, perché c’era un buon cottimo, diciamo, ma tutto questo durò molto poco, circa 2 anni, perché arrivò, come tutti sanno, eravamo già in piena guerra, e arrivò addirittura la caduta del fascismo il 25 luglio 1943.

Da allora le cose si fecero molto, ma molto brutte perché quella fabbrica venne addirittura occupata dai tedeschi perché avevano invaso l’Italia, e occupata quella fabbrica. Abbiamo dovuto addirittura smettere di produrre il nostro caccia bombardiere che all’inizio della guerra era sicuramente uno dei più veloci e forse il migliore in Europa. Abbiamo dovuto, addirittura in poco più di 15 giorni, metterci a produrre un bimotore bombardiere, che si chiamava Cant Z, il nome me lo ricordo, il Cant Z si chiamava.

Si lavorava, però era sparito il cottimo in pratica. Noi lavoravamo tranquilli anche se non molto volentieri fino a quando arrivarono le prime voci che non dovevamo correre quel grosso rischio di sabotare, perché era un grosso rischio, ma di rallentare la produzione perché finiti quei bombardieri lì, sicuramente sarebbero arrivati a bombardare la fabbrica, e così fu.

D: Ascolta un attimo, Bacio, lì in fabbrica, il movimento operaio era abbastanza sensibile, attivo con il discorso legato al movimento della Resistenza?

R: Guarda, quella fabbrica era quasi una fabbrica militare. Basta dire che il direttore ed il vicedirettore erano due alti ufficiali dell’aviazione. Pertanto non bisognava assolutamente pronunciare una parola che andasse contro la guerra o addirittura contro il fascismo. Abbiamo capito che tutto andava per il peggio, bombardamenti, e la guerra si pensava che non potesse finire a breve. Arrivò addirittura il primo sciopero del ’43. Il primissimo, anche se non fu un gran sciopero, però fu sempre uno sciopero per protestare contro la guerra, cioè per la pace, e soprattutto anche per il pane. Perché avevamo le tessere e mi sembra che fossero due etti di pane al giorno, pertanto era soltanto fame.

D: A persona?

R: A persona. Però avevamo solo quello, non è da dire che noi potevamo avere una buona bistecca oppure un piatto di spaghetti, era solo quello.

D: Ma lì, il movimento operaio, dentro in fabbrica, i tuoi compagni di lavoro, quelli più grandi?

R: Quelli più grandi. Avevamo capito che dovevamo prepararci per questo sciopero. Ed in pratica io, oltre che essere un portaordini, con il grosso rischio perché avevamo l’ordine di non allontanarci dal nostro reparto, e questo fu a metà febbraio del ’44, e quando incontrai, per puro caso, il mio capo reparto che lui viaggiava sempre in bicicletta quando faceva gli spostamenti, e lo incontrai, mi fermò e mi disse: “È questo il tuo posto di lavoro?” “Ma sono andato così a salutare un mio amico”, però lui non mi credette, in pratica. Lui non mi credette, tant’è vero che dopo 2 o forse 3 giorni vennero a cercarmi a casa i fascisti ed i tedeschi.

Fortuna volle, era il pomeriggio verso le 17.30, che davanti al mio portone di casa c’era Olivo Favaron, che lavorava insieme a me. Era a casa in malattia da diversi giorni e mi doveva consegnare il certificato della malattia perché noi avevamo la mutua interna, quando vide arrivare i fascisti ed i tedeschi che gli chiesero: “Abita qui un certo Capuzzo Bacio Emilio?” “Sì, abita sopra”. Ma nel frattempo lui prese la bicicletta e mi venne incontro, e mi trovò, perché noi smettevamo più o meno alle cinque e mezza di lavorare, e mi dice: “Guarda che ci sono i fascisti ed i tedeschi a casa a cercarti”. Allora io, alla sera, non andai a casa neanche a dormire, niente, e trovai un piccolo posto sicuro, diciamo. Andai addirittura dal fidanzato di una mia sorella, e lì rimasi per qualche giorno.

D: Scusa Bacio, i fascisti ed i tedeschi che sono venuti a casa tua, di che piazza erano, non lo sai? Non erano di Nova?

R: Non si sa. Venivano chissà da dove.

D: Da fuori?

R: Sì. Da fuori, sicuro.

D: E cosa volevano?

R: Non lo so. Loro mi cercavano, e allora io poi andai in diversi cascinotti perché oramai il fidanzato di mia sorella non è che potesse rischiare a tenermi lì per diversi giorni ancora, allora mi avvicinai ai primi gruppi di partigiani.

D: In fabbrica?

R: No, qui a Nova. Infatti andai, il primo cascinotto fu quello di Felice Beretta, ed il secondo quello di Luigi Erba. Trascorsi dai 15 ai 20 giorni.

D: Scusa Bacio, però tu in fabbrica andavi lo stesso a lavorare?

R: No, niente, adesso ti spiego.

Trascorsi, mi sembra 15 giorni, eravamo verso il 15 marzo, quando la bufera dello sciopero era già superata in pratica, allora io mi presentai all’ufficio del capo reparto. A dire la verità ero anche armato perché il rischio lo avevo già previsto. Mi presentai addirittura armato. Come mi vide, mi disse: “Come mai sei qua?” Ho detto: “Perché, lei non sa niente?”. “A cosa vuoi alludere?” “Non sa che sono venuti i tedeschi ed i fascisti a casa, a cercarmi? E lei ne sa qualcosa. Si ricorda quando mi ha trovato sulla strada e mi aveva chiesto dove ero andato, e che il mio posto doveva essere sul banco del lavoro? Dopo tre giorni sono venuti a casa a cercarmi i fascisti ed i tedeschi.” Mi ha detto: “Cosa vuoi dire con questo?” “Lei mi deve dire cosa posso fare, adesso, io”. E allora lui mi guardò in faccia e mi disse: “Guarda, se tu mi prometti che continuerai a far sempre quello che hai fatto, cioè a non spostarti più dal tuo posto di lavoro, dammi la mano e io ti giuro, come un padre di famiglia, che sarai tranquillo”. Purtroppo questo durò poco più di un mese.

D: Sei ritornato in fabbrica?

R: Sì, sono ritornato. Oh, mi ha dato la parola. E allora quando poi sembrava quasi tutto tranquillo purtroppo, il 24 aprile era di domenica, una domenica mattina verso le 11, arrivarono le super fortezze volanti, a ondate successive, e rasero, diciamo quasi completamente, quella fabbrica. Dopo alcuni giorni mi arrivò una cartolina di presentarmi al comando tedesco per essere mandato a lavorare nella fabbrica della Junker che si trova in Germania. Mi feci subito un’idea diversa e non esitai un solo giorno per fare una scelta, quella di aggregarmi ai gruppi di combattimento partigiani, cioè la GAP.

D: Ma sempre di Nova erano?

R: Sì, sempre qui, la GAP in pratica, le sue azioni non le faceva in montagna, c’era la GAP e la SAP che più o meno facevano le stesse cose. Il nostro compito era quello di tentare i sabotaggi, tagliare i fili del telefono, volantinaggio, scritte sui muri e possibilmente disarmare, perché avevamo assoluto bisogno di armi.

D: Ti ricordi qualche nome degli altri partigiani novesi?

R: Qui ce n’è diversi.

D: Quelli del tuo gruppo, prima.

R: Sì, quelli del mio gruppo, noi eravamo circa 12. Posso subito fare i nomi. I primi sono andati in montagna. In Valdossola, che furono Olivo Favaron, Giulio Villa, Renato Tagliabue, Attilio Sereni, e Biondi Giorgio.

D: Dove vi trovavate qui a Nova?

R: Il nostro cascinotto era, almeno per gli ultimi giorni, era il cascinotto di Vanzati Emilio, che si trovava nelle vicinanze di Desio. Però quando arrivò l’ordine di prepararsi per partire, perché era la fine di giugno del 1944, come prima cosa dovevamo procurarci un camion, per caricare non solo tutti noi, ma addirittura le armi ed il vestiario e soprattutto una macchina che doveva segnalare il pericolo in caso ci fosse stato.

D: Sapevate dove dovevate andare in montagna?

R: Dovevamo andare verso Dongo, quella era la nostra zona. Però il giorno prima era arrivato un segnale che, almeno dicevano, che noi eravamo segnalati in pratica, allora abbiamo avuto l’ordine di spostarci, e ci siamo spostati al Bosco della Valera, che è un bosco grandissimo. Lì siamo stati due notti in assoluto segreto. Purtroppo dopo due giorni accadde un fatto gravissimo.

D: Ascolta Bacio, quindi voi eravate lì cosa è successo?

R: Eravamo verso le 12.30, dopo pranzo, io ero di guardia, con il mio mitra in spalla, ed arrivò una ragazza in bicicletta. Era ormai troppo tardi per ritirarmi, mi aveva già visto, io la fermai e le chiesi subito: “Come mai ti trovi qui, dove stai andando?” “Ho un appuntamento con il mio fidanzato” “A che ora hai appuntamento?” Mi ha risposto: “Verso la una meno un quarto, dovevamo trovarci qui”. Gli altri, che erano nell’interno del bosco, sentendomi parlare con questa ragazza, vennero fuori e mi chiesero subito: “Chi è questa ragazza?” Io risposi che non lo sapevo, che l’avevo trovata lì e che mi aveva detto che aveva l’appuntamento con il fidanzato. Però passavano i minuti ed il fidanzato non si vedeva, allora Giorgio, che aveva l’arma in mano con il famoso difetto che non teneva la sicurezza, lui forse credeva di non avere il colpo in canna ed in modo scherzoso ha detto: “Guarda che se sei venuta per fare la spia, fai una brutta fine”. Ma lo diceva in modo scherzoso, appoggiò la canna della rivoltella sulla fronte e partì un colpo. Io ho visto il fatto che era sicuramente gravissimo perché veniva fuori addirittura il cervello, e allora io ebbi subito il compito di recarmi ad avvertire il comandante.

D: Bacio, lui si era appoggiato la pistola alla sua fronte?

R: Sì, se l’era appoggiata.

D: Alla sua testa?

R: Alla sua testa.

D: Non alla ragazza?

R: No, alla sua testa, ecco quale fu il fatto grave. Io ebbi subito il compito di recarmi ad avvertire il comandante, che abitava a Muggiò. Si chiamava Merati Enrico ed io ero l’unico a conoscere l’abitazione del comandante. Arrivato a Muggiò, entrai, era ancora a tavola che pranzava, gli raccontai il fatto, si mise le mani nei capelli. Allora io ed un altro suo amico, che poi è morto nel campo di Mauthausen

D: Robecchi.

R: Ecco, io non sapevo il nome, poi ho saputo che era Robecchi. Prima di entrare nel bosco della Valera, io sono ritornato a questo bosco per sentire le novità, cosa avevano fatto in poche parole e 100 metri prima credo di arrivare al bosco della Valera, dissi a Robecchi: “Tu fermati perché non si sa mai, potrebbe essere pericoloso”. Come io misi piede dentro il bosco della Valera, sentii sparare alcuni colpi per intimarmi di fermarmi. Mi chiesero subito perché ero andato in quel bosco e chi ero e perché ero andato in quel bosco della Valera. Io dissi subito che avevo sentito delle voci che si era ferito un ragazzo, addirittura Biondi Giorgio che abitava nel mio stesso cortile, e che ero venuto per vedere. “Tu non sai niente di tutto quello che c’era qua?” “Io no, perché dovrei sapere qualcosa?”. Allora visto che loro non si decidevano a lasciarmi andare dissi: “Dovete lasciarmi andare, perché i miei genitori saranno preoccupati”. Allora lui ha ordinato a due, perché lui era il comandante, era un brigadiere, ha ordinato a due della Guardia Nazionale Repubblicana: “Portatelo in Caserma, guardate che se fa brutti scherzi o tenta di scappare, non dovete aver paura a sparare”.

D: Bacio scusa, questi erano di Nova o di Desio?

R: Era la Guardia Nazionale Repubblicana di Desio perché lì c’era la caserma.

D: E ti ricordi quando era venuto qui a Nova il Battaglione Azzurro germanico?

R: Ecco, loro in pratica, sono venuti, credo verso la fine del 1944. Perché all’inizio non c’erano, all’inizio.

D: Ma tu te li ricordi questi?

R: Io a dire la verità non li avevo mai visti perché dopo quello che era accaduto io mi allontanai da Nova e rimasi alle cascine di San Fruttuoso.

D: Beh, dopo ci arriviamo. Quindi quelli erano di Desio.

R: Sì, erano della caserma della Guardia Nazionale Repubblicana.

D: Ma c’erano solo italiani, non c’erano tedeschi lì al bosco della Valera?

R: No, no. C’erano solo loro.

D: Ascolta, lì eravate te, Biondi?

R: Eravamo io, Biondi, Attilio Sereni, Macciantelli Maurizio, Erba Luigi.

D: Ma quando è successo il fatto lì di Biondi, della pistola, tu sei andato a Muggiò, gli altri cosa hanno fatto?

R: Gli altri hanno telefonato alla Croce Rossa, perché pensavano, almeno, c’era un filo di speranza per cercare di salvarlo.

D: Biondi lo hanno portato in ospedale?

R: Sì, loro hanno telefonato subito alla Croce Rossa. Lo hanno portato all’ospedale di Desio, gli altri hanno fatto sparire tutto quello che avevamo, era un piccolo accampamento, non è che c’era un granché, le armi e allora dopo in pratica io ho dimostrato di essere tranquillo al massimo, anzi continuavo a dire: “Ma dopo mi lasciate andare a casa, perché io non ho fatto niente, non so niente”.

E allora arrivato sulla via Milano, che è la via della circonvallazione di Desio, uno dei due disse all’altro: “Tu portalo pure in caserma, tanto vedo che è tranquillo”. Come arrivai sulla via Garibaldi, che è quella che ti porta in centro a Desio, c’erano sì e no 200 metri ad arrivare alla caserma, ho detto: “Questo è il momento buono”. Perché io nel frattempo macinavo come fare questa fuga, perché ero deciso a tutto, perché o mi ammazzano oppure dovevo tentare in tutti i modi a scappare. Allora presa la via Garibaldi gli ho dato sicuramente 100 metri di distacco. Arrivai alla Foppa.

D: Eravate in bicicletta?

R: Ero sulla bicicletta di Macciantelli Maurizio che era una bicicletta da donna. Quando arrivai alla Foppa nel fare una curva mi saltarono tutti e due i freni, andai a sbattere contro il marciapiede, ebbi la forza di alzarmi, e in quella arrivava lui con l’arma in pugno e mi intimava ancora l’Alt e mi disse che se tentavo ancora di scappare mi sparava. Ma proprio con l’arma appoggiata.

Però nel frattempo si avvicinarono decine di persone, addirittura c’era uno in borghese, avrà avuto una trentina d’anni, e disse subito: “Ma non vedi che è un ragazzo spaventato, toglili almeno l’arma puntata”. Era un poliziotto in borghese. Pensa un po’. Allora lui disse, “Sì, ma non è necessario tenere l’arma puntata”. Allora lui ritirò l’arma, ma nel frattempo voleva portarmi in caserma. “Io in caserma non voglio venire”, ho detto, “perché io non ho fatto niente, perché devo venire in caserma?” E allora, in pochi minuti, si riempì la strada, perché era domenica, e hanno cominciato a gridare: “Lo lasci stare, non vede che è un ragazzo?”. Sentì che la popolazione era solidale con me, però ha avuto il coraggio di dire: “No, non è un ragazzino, questo qui ha commesso un reato grave”. Io allora gli dissi che non era vero. Allora lui mi rispose: “Perché allora non vuoi venire in caserma, se non hai fatto niente?” Allora io trovai un’altra scusa, e dissi: “Se io vengo in caserma, siccome mi è arrivata una cartolina che dovevo andare in Germania ed ho rifiutato, pertanto potrebbe essere grave venire in caserma, pertanto io non ci verrò mai in caserma”. La popolazione ha iniziato a gridare: “Lo lasci andare, lo lasci andare”.

Nel frattempo si era aperto un varco, io naturalmente sono partito come una freccia, si può dire. Entrai in un cortile, scavalcai un muro, adesso l’altezza precisa non la so, ma ancora oggi stento a credere come io abbia fatto a scavalcare quel muro. Scavalcando quel muro addirittura entrai in un giardino privato dove c’era il negozio della famosa Maddalena che era una merceria, sulla via Garibaldi. Lei in pratica era in strada che guardava anche lei cosa succedeva, allora io le toccai una spalla e dissi: “Adesso lei mi deve nascondere”. “No, io ho paura”. Mi ha aperto il cancello e sono arrivato a Muggiò, dove erano tutti in stato d’allarme, pensando che mi avrebbero torturato, che avrei parlato, chissà che fine avrei fatto. Come mi hanno visto, un respiro di sollievo, in pratica. Mi dissero subito che lì di posto sicuro non ce n’era, partire per la montagna diventava sicuramente più difficile. “Tu non ce l’hai un posto, non dico sicuro, ma almeno tranquillo dove andare?” Io dissi di sì. “Io vado a Borgomisto, lì ho la fidanzatina, e in pratica tenterò almeno di farmi vedere il meno possibile”.

Passarono circa 10 giorni; io avevo cambiato già diversi cascinotti, perché non volevo dare il minimo sospetto, continuavo a spostarmi. Mentre ero su un sentiero che va verso le cascine di San Fruttuoso, arrivarono due persone, che dopo ho saputo chi erano, uno era Enrico Carpani che adesso spiegherò chi era. Come mi vide, mi dice subito: “Non avere paura, siamo dei tuoi”. E allora io presi coraggio, mi dice: “Ma non ti ho mai visto, da che parte arrivi, chi sei, con chi sei…” e gli spiegai il fatto. Allora lui mi ha detto subito chi era. “Io comando un gruppo così e così, alle cascine di San Fruttuoso, della SAP”. Non più della GAP, ma erano squadre di azione partigiana. “Se vuoi venire con me, adesso ti porto dove puoi dormire e se sarà possibile magari trovarti qualche cosa da mangiare”. Allora andò a casa sua, mi prese un pezzo di pane giallo, forse un pezzetto di formaggio, mi spiegò tutto quello che dovevamo fare, e allora tutto sembrava tranquillo, perché addirittura lui aveva il collegamento con la montagna, con la divisione di Moscatelli, figurati un po’.

Il compito della SAP non era solo quello di procurare armi, o di disarmare, per portarle in montagna, ma possibilmente anche di vedere di trovare indumenti. Io sono rimasti lì 4 mesi, a San Fruttuoso. Abbiamo fatto un’azione perché avevamo bisogno assolutamente di un camion per spedire la roba in montagna, avevamo indumenti di prima necessità, diciamo. Io addirittura dovevo segnalare se era possibile fermare il camion o lasciarlo andare. Eravamo sul viale Monza, io ebbi un sospetto, perché aveva il tendone, allora io non lo segnalai. Infatti, lo sai chi c’era su quel camion? Fascisti e tedeschi che sono andati a svaligiare quel magazzino che ci aveva promesso che ci dava un po’ di roba. Allora in pratica il sospetto del proprietario del magazzino cadde sul nostro comandante. Allora noi cercavamo di trovare la verità. Infatti venne un sospetto, perché con i tedeschi ed i fascisti che erano andati a svaligiare il magazzino, sicuramente c’era qualcuno del posto. Solo io non lo sapevo, ma lui sapeva che tre di San Fruttuoso facevano servizio alla caserma dei fascisti di San Fruttuoso. Io addirittura ero andato a trovare la mia fidanzatina, loro tre si avvicinarono ma non sono riusciti a bloccarlo e a disarmarlo. È partito un colpo, in pratica due se la sono cavata bene ed uno riuscirono a prenderlo, lo hanno torturato ed ha fatto tutti i nomi.

Allora io, forse dopo qualche ora, ritornai e vidi addirittura che il cascinotto dove dormivo io, era in fiamme, che era il cascinotto di Enrico Carpani. Non c’era più nessuno, erano scappati tutti. Lui era venuto a Nova, perché aveva dei parenti a Nova, ed a Nova ha subito organizzato il primo gruppo che ha trovato a Nova, che sono stati quelli che poi hanno arrestato, e ti dico subito chi erano, in pratica si arrivò verso la fine di ottobre.

D: Di che anno?

R: Del 1944. Erano 4 mesi che non andavo a casa.

D: La caserma che tu dicevi dei repubblichini, era quella di San Fruttuoso?

R: Sì, c’era proprio la caserma dei repubblichini.

D: E loro hanno tentato di fare l’assalto alla caserma?

R: No, di prendere uno di questi tre.

D: Che era lì in caserma.

R: Sì, era di sentinella, hai capito?

D: Ho capito. Quindi tu era già 4 mesi e più che non venivi a casa.

R: Sì, che non andavo a casa. Erano tutto luglio, agosto, settembre ed ottobre.

D: Di qua non sapevi niente?

R: Di qua io non ho saputo più niente, perché io mi sono aggregato con la SAP.

D: Che Biondi era morto?

R: Sì, per sentito dire. Biondi era morto dopo 2 o addirittura 3 giorni.

D: E gli hanno fatto il funerale qua?

R: Sì, hanno fatto il funerale.

D: A Nova?

R: Sì.

D: Degli altri invece tu non sapevi?

R: Non ho saputo più niente.

D: Contatti non ne avevi più?

R: No, completamente.

D: Una cosa, a casa tua non era andato nessuno a cercarti?

R: Più volte sono andati, sempre quelli della Guardia Nazionale Repubblicana. Mi cercavano e addirittura il giornale aveva anche esagerato, mi cercavano addirittura per omicidio. Quando io ho testimoniato davanti ai genitori di Biondi e avevo detto come era accaduto il fatto, cioè che si era puntato la rivoltella alla fronte ed era partito il colpo, gli altri avevano testimoniato la verità come ho fatto io, ma loro non mi hanno mai creduto, lo sai perché? Perché il dottor Oglio che era il primario dell’ospedale di Desio, ha dichiarato verbalmente che quello che avevamo detto noi non era vero, e cioè che il colpo lo aveva ricevuto alla nuca, ed era uscito dal davanti. Pertanto loro avevano il dubbio che fossi stato io. Perché lui continuava a dire: “Tu devi dire la verità, anche se ti è partito un colpo involontario.” “Ma la verità è questa”, dicevo. Il mio mandato di cattura, se c’era poi, era questo; l’imputazione era ricercato per omicidio, addirittura.

Allora loro hanno messo sul giornale di presentarsi, mi hanno dato un termine che scadeva, di presentarmi entro 48 ore, altrimenti dovevo essere catturato morto o vivo. Ma io non potevo presentarmi, vado a presentarmi per correre tutto questo rischio?

Allora la burrasca momentaneamente venne superata, diciamo così. In pratica dopo questi 4 mesi, che si era alla fine di ottobre, Benito Mussolini emanò un bando di perdono per tutti, partigiani, sbandati, renitenti, che non avevano commesso reati di sangue, se si presentavo entro 10 giorni venivano perdonati. Io approfittai per andare a casa, per salutare i miei, dopo circa mezz’ora che ero in casa, sarà stato verso le 9 credo, cioè le 21.00, vidi arrivare quelli delle Brigate Nere. Io come li vidi ho detto subito: “Sono venuto a casa per presentarmi”. “No, vieni con noi che c’è da chiarire qualcosa”. Infatti mi portano alle Brigate Nere di Cesano Maderno, e lì ebbi una grossa sorpresa, vidi addirittura Tagliabue Renato, grondante di sangue, perché lo avevano torturato a morte, come? Durante un’azione che andò male, perché si bloccò la macchina addirittura nelle vicinanze della caserma di Cesano Maderno. Lui tentò la fuga, perché erano in quattro, purtroppo rimase chiuso in una via cieca, lo arrestarono, lo torturarono e lui ha fatto tutti i nomi, anche il mio perché loro volevano soprattutto sapere chi era questo Carpani Enrico, e allora: “Chi lo conosce?” “Dov’è la sua abitazione e chi ha collaborato con lui?” Ha fatto anche il mio nome, e allora quando io sono arrivato e l’ho visto conciato così, gli ho detto subito: “Ma chi te l’ha fatto fare a te? Ma come mai hai fatto anche il mio nome?” “Perché io non capivo più niente”. Ma io avevo sempre un filo di speranza, cioè firmare che mi lasciassero, hai capito? E invece no, non fu così. Addirittura ci presero, io, Sironi Mario e Frigerio Mario, ci caricarono su un motocarro e ci portarono a Monza, alla caserma, non so se era delle SS o della Wehrmacht.

D: Alla caserma o al carcere?

R: No, no, alla caserma. Perché loro non potevano, quelli della Brigata Nera, portarmi al carcere. E mi consegnarono ai tedeschi, in una villa, che adesso io non so dov’era questa villa. Mi sembra che mi abbiano tenuto lì sì e no 5,10 minuti. Loro ci hanno consegnati, poi ci hanno caricati su un camion e ci portarono al carcere di Monza. Siamo stati lì più di un mese, sì almeno 40 giorni.

D: In cella?

R: In cella. Eravamo io, Sironi Mario e Frigerio Mario.

D: E loro perché li avevano presi?

R: Perché aveva fatto i loro nomi, prima del mio, aveva fatto i loro nomi. Loro non erano nella macchina che ha fatto l’azione, erano in casa tranquilli che dormivano. Li hanno presi, arrestati, in pratica, anche loro pensavano che forse firmando si sarebbero salvati, no, ci hanno consegnato ai tedeschi. E si salvò proprio Renato Tagliabue. In pratica, lo fecero firmare, rimase nelle Brigate Nere solo lui, solo lui.

D: Ascolta, quando tu eri giù a Monza, nelle carceri di Monza, siete mai stati interrogati, voi?

R: No, niente, il verbale lo hanno fatto le Brigate Nere.

D: E basta?

R: Sì, basta dopo.

D: I tuoi genitori sono venuti a Monza, in carcere?

R: Non potevano, non potevamo parlare né ricevere. Ricevere per esempio un pacco, oppure parlare per un colloquio qualunque e siamo rimasti lì più di 40 giorni. Molto prima di Natale, verso il 20 di dicembre, credo, ci caricarono su di un camion e ci portarono al carcere di San Vittore.

D: Solamente voi tre o c’erano degli altri?

R: C’erano degli altri che noi non conoscevamo. Arrivati al carcere di San Vittore, chiusi in una cella, dopo forse poco più di mezz’ora o un’ora, passò la guardia carceraria e io gli dissi subito: “Ho bisogno di parlare” “Cosa c’è?” “Guardi se io trovo da fare qualsiasi lavoro, non so, pulire i corridoi, distribuire il rancio, basta che ci sia da uscire da questa cella” e dopo un’ora venne e mi disse: “Guarda da domani mattina tu vai a distribuire il rancio, pulisci i corridoi, distribuisci il rancio, ti va bene?” “Sì, ho detto, va benissimo”.

D: Ti ricordi in che raggio eri?

R: Ma adesso non so se era il terzo o il quarto. Perché tu come entri a San Vittore era, tu non puoi immaginare, sì ma forse era il quarto raggio, perché il quinto era quello sopra. Nei cameroni c’erano gli ebrei, me lo ricordo perché andavo a distribuire il rancio, e allora mi hanno detto subito queste prime parole: “Guarda che c’è da distribuire il rancio anche agli ebrei, ci sono famiglie intere, ma tu non devi pronunciare una parola, devi solo dare il rancio”. “Sì” ho detto io.

Infatti quando ho distribuito il rancio uno di questi ebrei si allontanò un momento dalla guardia e mi disse subito, perché lui forse pensava che io fossi un civile, uno di servizio lì, e mi disse: “Non sai se c’è la possibilità di corrompere?” e gli ho risposto “Ma io sono come voi, corrompere cosa?” E loro si sono convinti subito che ero un carcerato come loro, che distribuivo il rancio. Si sono scusati e basta. Allora lì rimanemmo credo fino al 20 o al 21, forse il 20 o il 19 di gennaio,poi ci caricarono.

D: Gennaio di che anno?

R: Del 1945, il 19 o forse il 20, ci caricarono su due pullman, adesso non ricordo bene che pullman erano, ma poi ho saputo…

D: Dell’azienda tranviaria?

R: Ecco, dell’azienda tranviaria, l’ho saputo poi dopo, io. La partenza era sempre verso l’imbrunire, verso sera, perché c’erano i caccia che mitragliavano. Siamo arrivati alle porte di Brescia, si guastò il pullman e allora piano piano ci misero in fila e siamo andati verso il carcere di Brescia, aprirono il portone e ci hanno fatto dormire tutta la notte sul corridoio.

D: Eravate in tanti lì?

R: Sì, un pullman pieno, era.

D: Chi c’era a fare la guardia?

R: La SS. Abbiamo dormito, e alla mattina prestissimo, forse erano le cinque, partenza per Bolzano, si viaggiava su questo pullman, che nel frattempo avevano sistemato; sul pullman c’era un ufficiale delle SS che parlava un italiano perfetto, e allora mi è venuto un dubbio: “Come mai un ufficiale delle SS parla così bene?” Poi venni a sapere che Bolzano e tutto l’Alto Altesino se l’era annesso la Germania e loro si presentavano o con la Wehrmacht o con le SS. Ma poi ho saputo tutto questo.

Beh, siamo arrivati a Bolzano, era quasi mezzogiorno. La prima sorpresa fu un po’ di orzo cotto nell’acqua, neanche il sale c’era, e allora noi per assaporarlo un momentino c’era uno che aveva una scatoletta di estratto di sardine, e mi metteva mezzo cucchiaino, però il sapore non era simpatico. Era una specie di filoncino, di pane nero, sembrava quasi piombo, d’ogni modo queste erano cose normalissime. Allora venne poi la sera. Io mi ricorderò sempre, alla mattina ci svegliavano sempre prestissimo, ho fatto due mattine la conta sul cortile.

D: Ascolta, quando siete entrati a Bolzano vi hanno fatto la spoliazione, vi hanno dato qualcosa?

R: No, niente, solo rasati con la macchinetta, solo i capelli.

D: E basta?

R: Sì che poi li avevo lunghi un dito, perché appena arrivato a San Vittore mi avevano rasato

D: Un numero non te lo hanno dato?

R: No, niente numero, perché forse pensavano già che la partenza era a breve.

D: Ti ricordi in che blocco ti hanno messo?

R: Come fai? Avevo fatto due notti lì, in pratica. Perché la terza notte alla sera, verso le cinque mi hanno portato…

D: E con te c’era anche Mario?

R: Sì, Mario Sironi e Frigerio Mario, adesso ti spiego, allora ci prendono, ci portano alla stazione.

D: Questo il terzo giorno.

R: Questo al terzo giorno, di sera, ci chiudono dentro i vagoni, dopo qualche minuto sai cosa ci è venuto in mente? Di cantare “O mia bella Madonnina” guarda che, questo me lo ero dimenticato, questi come ci sentono cantare, “Smettetela di cantare”. Dopo un minuto o due aprono il portellone e ci fanno scendere in due. Ho pensato “Porca miseria!” invece no, era arrivato il camion del pane, dentro i sacchi. Dovevamo svuotarlo dai sacchi e accatastarlo sulla motrice davanti. In due eravamo. Io avevo fatto il mio dovere. Come si finisce, lo sai cosa fa il tedesco? Ci guarda se avevamo il pane. Quello che era insieme a me aveva nascosto un filone di pane, glielo ha portato via e poi gli ha dato quattro calci. “Tu niente?” Il filone che aveva portato via lo ha dato a me. Io come sono arrivato sul vagone l’ho distribuito.

D: Eravate in tanti sul vagone?

R: Guarda, senza esagerare, eravamo minimo una cinquantina.

D: C’era anche gente più anziana di te?

R: C’erano addirittura due o tre, forse anche quattro che avevano sui sessant’anni. C’era un avvocato, un ingegnere, un dottore chimico ed in pratica chiusi su questo vagone, la partenza al rallentatore, poi ci siamo fermati, eravamo quasi sempre fermi tra una stazione e l’altra, non si sa il perché. Lì non potevi tentare la fuga, perché erano lì con i mitra spianati. Come si parte, si mette in moto il treno, sento che c’è un mormorio e ho scoperto che si stavano preparando per tentare la fuga. Un gruppetto, e soprattutto uno di Bovisio, l’ho saputo adesso il nome, perché non si conosceva neanche i nomi in pratica, adesso ho saputo che si chiama Bignami, stavano scassando il lucchetto, perché il lucchetto era quello dello sportello, hai capito? Non quello del portellone grande, quello dello sportello.

Allora io pensavo che forse era una lima a triangolo, non lo so, e invece lui ha detto che era una specie di piede di porco, non so dove l’aveva, che poi lui lo ha confessato qui in Comune, ha detto che lo aveva messo dentro ad una pagnotta di pane, subito dalla partenza da San Vittore, lui così raccontava. Io tutto questo non potevo saperlo. Beh, scassato questo lucchetto, aperto il catenaccio c’era anche da tagliare, ecco perché io avevo pensato ad una lima a triangolo, perché c’era da tagliare anche tutti i reticolati, perché nella parte esterna avevano messo delle file di reticolato, come hanno fatto, so solo che sono riusciti a tagliarlo, e si sono buttati giù i primi due. Questo di Bovisio ed un altro che era di Ferrara.

Poi il treno comincia a viaggiare, io ero in terza posizione, incominciano a dire, “Ma perché ti devi buttare, rischiare la vita, sei giovane, ancora tante speranze”, che poi come hanno visto che io ero deciso a buttarmi giù dal treno, piuttosto che niente hanno detto: “Possono fare la rappresaglia, visto che ne mancano tre”. E allora ho pensato: “Perché non avete proibito anche agli altri due di buttarsi?” Qualcuno ha cominciato a dire: “Se lui ha preso questa decisione, perché noi dobbiamo impedirglielo? Tra due o tre non cambia niente, è volontà sua, lo deve fare e basta”. In pratica oramai eravamo quasi al Brennero, lì ha rallentato un po’ il treno, ma in piena notte, sai com’è, vai a sbattere contro qualcosa, era la morte sicura, ma anche ferirsi era morte sicura, perché poi ti torturavamo anche a morte, anche questo devi dire, però che mi salvò sai cosa fu? Il mezzo metro di neve, e forse anche qualcosa in più. Nel buttarmi sono scivolato giù dalla scarpata, e non mi sono fatto niente, solo un po’ graffiato.

Ho camminato diverse ore. Mi sono accorto di essere in Italia quando ho visto la Fortezza, ho visto un vecchietto, una persona anziana, e ho chiesto se c’erano molti chilometri per arrivare a Bolzano. Adesso non mi ricordo più quanti chilometri saranno una quarantina forse, più o meno. Ma insomma mi aveva detto i chilometri, che adesso non ricordo più, e allora mentre sto camminando arriva un camion tedesco, e si ferma un cento metri davanti a me. Lì c’era forse un bar, un tabaccaio, non mi ricordo più adesso, magari si sono fermati a bere un bicchierino di grappa, e allora mentre loro salgono sul camion, io arrivo proprio lì, ho rallentato un momento perché mi era venuto subito l’idea di saltare, anche se non riuscivo a salire, di saltare sul camion, magari di non farmi vedere per la seconda volta, e invece quando arrivo lì mettono in motto il camion io ho visto che dove c’era la ruota di scorta c’era spazio e allora mi sono infilato sotto, e prima di arrivare alle porte di Bolzano, sai chi ho trovato? Quello di Bovisio che era saltato giù prima di me. Ma molti chilometri prima perché lui l’aveva fatta tutta a piedi.

D: Quindi tu quando eri sul camion hai visto Bignami.

R: Bignami. E allora io gli ho fatto un segno, come a dire, appena posso saltare giù, perché il camion viaggiava, che lo aspettavo in poche parole, ho fatto solo segno così e basta. Come sono arrivato alle porte di Bolzano, il camion rallenta, perché c’erano le strade ghiacciate, non mi sono fatto niente, mi sono buttato giù dal camion, era già forse poco più di mezzogiorno, perché ho visto un gruppetto di operai davanti ad una piccola fabbrica. Parlavano veneto, io mi sono avvicinato, ed ho chiesto, come inizio, se avevano qualche bollino da darmi per comperarmi il pane. Loro mi guardavano in faccia e mi hanno detto: “Ma dove lavori, chi sei?”. Io ho risposto: “Lavoro lungo la ferrovia, sotto i tedeschi, però mi danno poco da mangiare. Se avete un bollino, due, tre, quattro, quello che avete”: Allora loro hanno aperto il borsellino e mi hanno dato forse due bollini mi sembra, ma adesso non lo ricordo bene, e al primo forno del pane, sono entrato e per la prima volta lo sai cosa ho visto? Lo strudel. Allora io gli ho fatto segno, “ma per questo ci vuole?” “No, questo può prenderlo senza bollini”. Nel frattempo avevo atteso sì e no dieci minuti, però mi è venuta un’altra idea, se hanno fatto questo buon gesto, ho pensato, provo a vedere se mi danno un’informazione per vedere come posso arrivare a Milano, e con quale scusa? E allora mi è venuto in mente di dire che mia mamma non stava bene, che però i tedeschi non volevano lasciarmi nessun permesso per andare a casa a Milano, ho chiesto: “Voialtri non sapete per caso se c’è qualche minima possibilità…”

D: Ma questo a chi lo hai detto?

R: Ai ragazzi lì. Sempre ai ragazzi, che sono tornati lì.

D: Della fabbrica?

R: Sì, quella piccola fabbrica, loro erano fuori. E mi hanno detto che sapevano per sicuro che tutte le settimane arrivava un camion della Montecatini da Milano e che poi tornava con un secondo carico, ma che loro non sapevano, di provare ad andare e chiedere informazioni.

Allora nel frattempo, dopo mezz’ora circa arriva il Bignami; per prima cosa gli ho dato il pane e gli ho spiegato il fatto che tutte le settimane partiva un camion della Montecatini che andava a Milano. Ci siamo appostati, più o meno quei ragazzi mi avevano spiegato la strada. “E allora tu vai avanti che non dai sospetto”. Ha suonato un campanello, io sono rimasto in strada; suona il campanello si presenta davanti alle guardie “Ho saputo che parte un camion tutte le settimane, non possiamo avere almeno un passaggio?” “Qui passaggi non ce n’è per nessuno” ha detto. Però il camion partiva la sera dopo, e allora dovevo informarmi come arrivare là. Noi alla sera giravamo, tanto per tirare sera, e all’imbrunire abbiamo visto un tramvai fermo, e siamo saliti. Siamo arrivati ad un piccolo paese, adesso chi è che se lo ricorda, entriamo, là era quasi tutto scritto in tedesco, in una trattoria e chiediamo se avevano qualcosa da darci. “No, non c’è niente”. Allora abbiamo trovato una scusa, “Perché noi vogliamo vedere se troviamo anche un posticino dove dormire, lei qui non ce l’ha?” “No, qui camere per dormire non ce ne sono”. “Perché siamo due camionisti, ci si è guastato il camion, eravamo a Bolzano ed in pratica fino a domani mattina non può consegnarcelo”. Lì c’era uno di loro che ci fa: “Guardate, io posso aiutarvi se vi accontentate, ho una bella stalla, ho dentro un cavallo, vi porto un po’ di paglia e delle coperte, se vi accontentate”. Abbiamo risposto di sì, che bastava riposarsi. Alla mattina addirittura ci hanno portati su in casa e ci hanno dato il caffelatte, pensa un po’. Riprendiamo il tranvai, e andiamo ancora a Bolzano, là eri in mezzo ai tedeschi, perché erano SS e Wehrmacht. Ad un certo punto io ho pensato, perché il mio pallino era Montecatini, o salto su di dietro o salto su in qualche modo io devo andare a Milano, allora sai cosa ho fatto? Ho detto a questo di Bovisio, “Guarda per dare meno sospetto, sai cosa facciamo? Dividiamoci, tu vai per conto tuo, io vado per conto mio”. Mi sono incamminato e sono andato verso la Montecatini. Suono il campanello, era verso mezzogiorno, come mi vede la guardia mi dice: “Ha bisogno?” Io rispondo: “Ho saputo che stasera parte il camion per Milano, se potete darmi un passaggio”. Allora mi guarda in faccia e mi dice: “Però devi dirmi la verità”. “Sì certo.” “Sei scappato dal campo di concentramento?” Io ho detto: “Dal campo di concentramento no, ma sono saltato giù dal treno che non cambia niente. Adesso se volete salvarmi bene, altrimenti me lo dite che troverò qualche altra possibilità”. Lui mi ha detto che ne avevano salvati diversi, e che avrebbero salvato anche me.

Mi chiese se avevo fame, se avevo mangiato, è andato in mensa, mi ha portato un bel piatto di minestrone, e poi mi ha detto che il camion partiva alla sera, verso l’imbrunire, perché viaggiare di giorno era pericolosissimo, perché veniva mitragliato. Là c’erano le brandine delle guardie: “Sdraiati lì, riposati, quando è l’orario giusto, ti chiamiamo”. Verso le cinque e mezza sento alcuni passi, infatti non solo la guardia, ma addirittura cinque o sei in borghese, mi sembra che ci fosse anche una donna, adesso non ricordo bene, ma erano in 5, 6 o 7 non ricordo più. “No, non spaventarti, siamo così e così e vogliamo solo sapere”. Allora mi hanno chiesto come, perché mi avevano arrestato, il treno, e ho spiegato qualcosa. “Noi ne abbiamo già salvati tanti, siamo in contatto con CLN Alta Italia”, adesso io non ho chiesto perché, come mai, e loro mi dissero subito, “Hai qualche soldo in tasca?” “Sì”, ho risposto. Avevo una piccola miseria, hanno fatto una colletta, avevano tirato su circa 400 lire, mi sembra, a quei tempi là non era poco, e in più la guardia mi ha dato una piccola borraccia di grappa, perché diceva che viaggiando su un camion avrei sentito freddo. Perché mi avevano nascosto …

D: Nel cassone?

R: Ecco. “Sul cassone, se senti freddo ti bevi un goccio di grappa”. E allora ogni tanto, “Alt, fermati”, c’erano i controlli, i blocchi, loro guardavano i documenti, e ti lasciavano andare. Quando siamo arrivati alle porte di Usmate, prima di Monza, arrivano i caccia che mitragliavano tutto quello che vedevano in movimento, allora blocca il camion, salta giù, io sono saltato anch’io e ho salutato. “Io me ne vado per conto mio”, ho fatto tutto il giro del parco di Monza, perché passare per Monza poteva essere pericoloso, e nella Piazza di Biassono non trovo, non vedo proprio uno che lavorava insieme a me al Campovolo? Allora lo guardo, sì, è lui, e lui mi chiama e gli spiego tutto. Mi ha portato a casa sua, e alla sera con due biciclette, anzi no, una bicicletta, io in canna, mi ha portato. Come arrivo a casa, verso le sei e mezza, perché siamo partiti verso sera, mia mamma è rimasta, perché mai più lei pensava di vedermi così. Mi dice subito: “Guarda che un’ora fa sono venuti quelli della Guardia Nazionale a cercarti”. “Ma tu non gli hai detto che mi avevano arrestato e mi avevano consegnato ai tedeschi?” Loro agivano tutti in modo autonomo e questo è stato.

D: Ti ricordi quando sei arrivato qui a Nova, che giorno era, più o meno? Quando sei scappato, quando ti hanno lasciato giù dal camion?

R: Guarda, era verso il 26 o il 27 gennaio, del ’45.

D: E poi sei rimasto qui a Nova?

R: No, sono tornato subito là, perché avevo diversi amici.

D: Dove là?

R: A Borgomisto. E infatti qualcosa ho potuto almeno trovare, mi hanno dato un pezzettino di pane, dello stracchino, una cosa e l’altra. In pratica lì si tentava ancora di organizzarsi. E abbiamo fatto una piccola squadra, eravamo in 5. Però diciamo che 3 non erano proprio tranquilli, perché lì a Borgomisto dormiva un ufficiale dei Repubblichini, lui era siciliano, però lì aveva la fidanzata e allora veniva a casa, ma era uno dei nostri, per cui ho detto io: “In montagna non posso andare”, e in pratica ci ha dato le armi e due bombe a mano. Perché lui diceva che era impossibile andare in montagna, perché era arrivata una nevicata, alla fine di gennaio del ’45. “Allora adesso state lì tranquilli, e poi vedremo”, freddo faceva freddo, però verso il 15 di febbraio ho saputo che lì vicino a Cinisello si era avvicinato questo tizio, era un parente di questo mio amico, che poi era venuto anche lui in montagna, si chiamava Bellotti, questo qui aveva uno zio che abitava in una fattoria vicino a Magenta e suo figlio era su in montagna. Allora lui ha fissato un appuntamento, e siamo partiti in tre, questi qui davanti ed io e il mio amico di dietro, con le biciclette, a Rho non ci ferma una squadra di fascisti con il suo comandante? “Fermi. Dove andate?” E allora noi niente, ma proprio sinceri al massimo, ci hanno chiesto i documenti, la carta d’identità, la mia era un po’ falsata, no? Al posto della data 01.02.26 davanti al 2 il mio amico aveva messo 1, perché le carte d’identità si scrivevano tutte a mano a quei tempi. E allora: “Quando sei nato?” “Sono nato l’1 del 12” “E allora perché non ti presenti?” mi ha detto quest’ufficiale. “Perché non mi hanno ancora chiamato, adesso come mi chiamano, vado.” “Ma puoi anche presentarti prima”. “Sì ma siccome siamo in 7 fratelli, e c’è solo mio padre ed una sorella che lavorano, e uno è nell’aviazione e l’altro è nella X MAS per adesso sto a casa per aiutare un po’ la famiglia” “Va bene ha detto, ma dove state andando?” “Stiamo andando da un amico del mio socio, qui, che ha una fattoria e diverse risaie e vogliamo vedere se possiamo avere qualche chilo di riso”. Pensa un po’. Ma ti racconto proprio la verità, eh, qualche chilo di riso. “Sì”,ha detto, “andate pure” E siamo arrivati a questa fattoria, in questa fattoria dopo due giorni arrivò la staffetta a prenderci, sempre a piedi, e la prima tappa l’ho fatta a Suno, lì c’era il comandante di distaccamento, il comandante era Lupo.

E lì ci ha tenuto tre giorni, però ha detto “Io qui non posso tenervi, perché il distaccamento non può superare i 34, 35 uomini, vi devo consegnare al comando di battaglione che si trova a Cavaglio d’Agogna.” E allora alla mattina presto ci siamo incamminati e siamo arrivati al comando di battaglione, il comandante di battaglione si chiamava Scacchi. Alla seconda o terza mattina mi ha detto: “Te la senti di andare giù insieme agli altri che dovete portare su il pane?” Perché ci facevano il pane fresco, eh? Giù al forno, farina requisita ad un mulino dove c’era un presidio fascista, sai chi ti vedo? Carpani Enrico. Come mi vede, mi ha chiesto, e allora gli ho spiegato il fatto, lui andò subito dal comandante di battaglione a spiegare chi ero e chi non ero, come arrivo su mi chiama il comandante di battaglione e mi dice “Guarda è venuto il tuo ex comandante che lo hai visto giù in paese e vuole portarti con sé, io ti terrei, vorrei che tu rimanessi qui, perché ho saputo quello che hai fatto e in pratica siccome adesso ne arrivano moltissimi di nuovi, in montagna, pensiamo di fare un altro distaccamento. Se rimani qui, con la formazione di questo nuovo distaccamento tu farai il vice comandante.” All’inizio io accettai, accettai perché io non ho mai voluto grosse responsabilità, “Si” ho detto, “io rimango”. Però il comandante del distaccamento non c’era mai lì perché era il comandante della Volante che sequestrava gli ufficiali per darli in cambio ai partigiani. Allora in pratica, dopo credo neanche 15 giorni, si pensava ad un grosso rastrellamento, cioè l’allarme era quello, avevamo capito che la responsabilità era troppo grossa, perché io sì potevo rischiare per conto mio, perché con quello che avevo fatto avevo rischiato diverse volte, ma era quel peso lì, la responsabilità degli altri, io non me la sentivo, e allora ho detto “Mi avete fatto vice comandante, ma il comandante non c’è mai? Perché io devo avere tutte queste preoccupazioni e questo peso di essere responsabile anche per gli altri?” E allora mi ha detto: “Sai cosa facciamo? Dobbiamo formare la squadra dei guastatori, aggregata al comando di battaglione”. Uno addirittura, Fieramosca, era un comandante di distaccamento, e durante un’azione aveva lasciato diversi morti, e anche lui non se la sentiva più. Gli altri erano tre capi squadra e in più il Topo che lo avevano dato in cambio, sì, lo avevano fatto prigioniero e dato in cambio. “Se tu accetti di far parte di questa squadra”. “Sì”, ho detto.

E allora lì ho accettato, e sono rimasto con la squadra dei guastatori. Ma in un certo senso potevamo essere in certi casi tra i più fortunati. Adesso ti spiego perché. Quando attaccavamo i presidi, Borgomanero, Cressa, Romagnano, dovevamo noi bloccare la strada in caso di rinforzi. Lo sai come si minava la strada? Con le bombole di ossigeno, si riempivano di dinamite, soprattutto la gelatina e avevamo tritolo, gelatina, miccia detonante, miccia lenta ed i detonatori. Guarda che c’era un grosso rischio, la mettevamo da un lato della strada e con il percussore, eravamo sempre in due, uno tirava il percussore e tirava il filo di là della strada, quando arrivava il rinforzo che poteva essere un autoblindo, e se partiva era un disastro, ma dovevamo sempre scegliere un posto dove potevamo, in caso, difenderci. Hai capito? O attraverso un canale, un fosso o una casa, perché dovevamo stare lì più o meno, per curare, anche un cane poteva avrebbe potuto far saltare.

Perciò il pericolo c’era e in caso se arrivava il camion che erano magari duo o anche tre, saltava sì il primo, ma gli altri due cominciavano a sparare, e in quel caso lì bisognava non scappare ma anche difendersi e avevamo delle armi che erano abbastanza micidiali, perché lo Sten era un grosso rischio perché poteva fare bersaglio a 50 metri, non di più. Lo Sten era un’arma sicurissima perché non si inceppava mai, ma il Bren faceva bersaglio a 200 metri. Era un’arma potentissima. In ogni modo ci andò benissimo, il rischio peggiore lo abbiamo corso al presidio di Arona, quando abbiamo attaccato il Presidio di Arona, io ed un altro dei guastatori, il giorno prima, avevamo lì due prigionieri, un maresciallo ed un tenente; erano due padri di famiglia, e non sapevamo come poterli salvare, perché mandarli a casa, tenerli lì non potevamo, beh è arrivato l’ordine di portarli su al comando di divisione che era su a Bocca, sempre a piedi, allora li consegniamo e nel frattempo però ci viene consegnato il primo bazooka che lo avevano lanciato tre giorni prima.

E con quello abbiamo anche fatto l’attacco del presidio di Arona. Lì ci sono stati solo 14 morti, perché sono arrivati tutti i rinforzi da Meina, che erano più di 100 tedeschi, e quei famosi 100 tedeschi lo sai chi erano? Quelli che quando sono arrivati dopo l’8 settembre e hanno rastrellato, mi sembra più di 200 ebrei, donne, bambini e vecchi, li hanno massacrati e buttati dentro al lago. Allora è successo così, quelli erano animali in pratica, non erano esseri umani, erano animali.

Allora poi è arrivato il rinforzo della Folgore da Novara, abbiamo resistito quasi 3 ore, ma poi abbiamo dovuto ritirarci e ci abbiamo lasciato 14 morti, più 3 civili. Ad ogni modo il rischio peggiore io l’ho avuto alla fine, quando sembrava che tutto fosse finito, non so se era il 23 aprile, perché noi, in pratica al 23 aprile avevamo già in mano i carri armati della Folgore di Borgomanero. E’ riuscito un prete a convincerli alla resa, perché oramai era la fine, era inutile resistere, spargere sangue. Erano i peggiori che c’erano, basta dire che al presidio di Borgomanero tre volte abbiamo tentato e non hanno mai ceduto. L’ultima volta che pensavamo di farcela, lo sai come? D’accordo con gli americani che dovevano gettarci due o tre bombe, e invece era una giornata di vento e le bombe non hanno centrato in pieno il presidio e abbiamo dovuto ritirarci.

Avevamo addirittura i loro carri armati, mi sembra il 23 aprile o forse il 24 arriva un ordine che a Castellazzo di Novara si sono concentrati, allora si diceva, più di 2000 fascisti. C’era la Monte Rosa, la Folgore, le Brigate Nere; noi come guastatori dovevamo perlustrare prima le cascine, prima di arrivare lì. Arriviamo nella prima, non troviamo niente, senza chiedere permesso, un colpo alla porta e si sfondava. Arriviamo alla seconda, io do un colpo alla porta e mi vedo due, avevano la nostra divisa, la divisa cachi che l’avevamo messa su 15 giorni prima. Quelli del Monte Rosa avevano il color cachi come la nostra e io stavo per dire: “Ma sono i nostri” no, invece loro avevano le fiamme bianche, noi invece avevamo le stellette bordeaux, “Ma no questi sono fascisti!” Il Topo lì mi dice di disarmarli, io li disarmo e fuori c’era Mosca, “Voi altri chiedete rinforzi, tentate di accerchiarli, io rimango qua dentro”, però un minuto prima, disarmati questi, al Topo viene in mente di guardare nell’altra stanza, e stavano venendo giù diversi fascisti. Sempre quelli, e allora scarica, si può dire, una raffica di mitra, e allora diciamo ai due che erano rimasti: “Ce ne sono altri?” “Sono sopra che preparano la mitraglia per la difesa”. E quindi loro, Fieramosca, il Topo hanno costeggiato il muro e hanno portato questi due fascisti dove c’era il grosso, per avvertire che bisognava accerchiarli. Io ero in trappola, cosa faccio, cosa non faccio, di là sentivi i lamenti perché qualcuno era ferito, in poche parole, in pochissimi minuti cominci a sentire sparare a destra, a sinistra, e sai cosa è stato il miracolo, diciamo così? Che quelli che erano sopra, come hanno sentito che stavamo per accerchiarli, sono saltati giù, perché erano al piano superiore, li vedo volare dalla finestra, meno male. Lì mi sono salvato.

D: Il 25 aprile come te lo ricordi?

R: Il 25 Aprile poi era una festa, perché oramai la guerra era finita, gioia, qualche piccolo divertimento, era normalissimo.

D: Voi siete entrati a Novara, però?

R: Sì. Dopo è arrivato l’ordine, io per 2 o 3 serate ho dormito con una famiglia privata, dopo il 25 aprile. Due notti mi sembra. Poi è arrivato l’ordine, ho caricato il camion e abbiamo dormito in una caserma a Novara, al 29 mi sembra, siamo saliti su un treno e siamo venuti alla grandissima manifestazione di Milano.

Io però, ti dico la verità, quando sono arrivato in stazione al posto di stare insieme a tutti gli altri, lo sai cosa ho fatto? Mi sono preso il tranvai, la gioia è stata quella, sono venuto a casa. Quando sono sceso, arrivato in piazza, perché io abitavo in quella che chiamavano la piazzetta, quasi in centro, vedo mio padre con mezzo toscanino in bocca, e io non sapevo quello che era successo a Nova, che c’erano state le sparatorie ed i morti. Allora io nella contentezza, mi è venuto in mente di sparare 4 colpi, con lo Sten, perché mio padre era là, indifferente, che si fumava il sigaro. Allora come mi ha visto, dopo 10 minuti arriva Luigi Erba, mi ha detto, “Sì, sei arrivato, pienamente d’accordo, la gioia di essere arrivato, però non dovevi fare quello che hai fatto perché è successo così e così, la gente è ancora spaventata, abbiamo avuto 3 morti…”, o 4 mi sembra, quella del Poldelmengo e 2 civili, minimo. Ecco, ma io cosa ne sapevo? Allora diciamo così sono tornato ancora in Valsesia, mi hanno dato il mio diploma, era verso il 10 maggio, tornai a casa, e purtroppo il lavoro non c’era più. Bisognava ricostruire la Breda Campovolo, e tutti si erano dati da fare per ricostruirla con picche, pale, carriole. Io ho lavorato una quindicina di giorni, poi è arrivato il capo del personale, mi guarda e mi dice: “Tu sei così e così?” “Sì”. Mi ha detto: “Guarda vedo che non è il tuo mestiere, lo fai perché lo fanno tutti gli altri, però in attesa che venga ricostruito il nuovo capannone, se vuoi, io sono amico del comandante della piazza di Como, vai su e per un po’ rimani nella polizia partigiana. Già c’era Luigi Erba, era andato su già 4 o 5 giorni prima, allora a metà o alla fine di giugno, no a metà giugno, sono partito e sono andato là, ho presentato il diploma che mi avevano dato in Valsesia e una cosa e l’altra. “Sì, sì”, mi ha detto, “allora dimmi adesso qui ci sono due posti dove andare. Vuoi andare alla caserma dove sono tutti gli altri, ma visto chi sei, io preferirei che tu rimanessi alla caserma delle finanze, perché lì abbiamo diversi prigionieri fascisti pericolosi, che non abbiamo potuto metterli nel carcere di Sant’Antonino. E siccome tu ci dai la massima fiducia perché lì abbiamo bisogno di gente sicura”. “Sì, ho risposto, per me va bene”.

Lì ho fatto 4 mesi, nella polizia partigiana, fino alla fine di novembre. Ma dopo quando sono venuto via, io non è che ho chiesto il diploma, i documenti, li ho lasciati là e basta.

De Bastiani Argentina

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni

D: Nata?

R: Nata a Cesiomaggiore il 4.11.1927, provincia di Belluno.

D: Argentina, com’è stata la tua scelta di aderire alle formazioni?

R: La mia scelta è stata che l’8 settembre sono entrati i tedeschi in Feltre. Da lì i soldati che erano militari lì sono andati in montagna. Lì si sono formate le formazioni partigiane.

Mio padre che è sempre stato un antifascista ha aderito a queste cose anche perché quando c’era Pippo che buttava giù le armi, i vestiti, il latte condensato, lui aiutava le persone che erano non in montagna, in paese, a nascondere le armi.

Poi i partigiani si sono fermati in Pedavena, Monte Grappa, ma io ero su Pedavena, non sul Monte Grappa.

Un bel giorno sono passati a casa mia, dovevano andare alla Feltrina di Feltre a far saltare questo piccolo stabilimento.

Mio padre ha fatto da mangiare a questi partigiani, una quindicina di partigiani che sono passati di lì.

Io lì ho conosciuto il comandante della Brigata Gramsci che si chiamava Bruno. Il suo nome è Brunetti Davide.

Da lì ho incominciato a fare la staffetta. Andavo a Feltre a vedere il movimento dei tedeschi. Andavo in montagna a portare dei bigliettini che il Comitato di Liberazione giù…

D: Dicevi, andavi su in montagna…

R: Andavo su in montagna a portare i bigliettini e a portare anche qualche cosa da mangiare perché su non ne avevano tanta. Con me c’erano anche tante altre staffette che facevano il mio stesso lavoro.

Però il primo tempo sono stata in piano col Comitato di Liberazione, si andava a Feltre a portare gli avvisi che dovevano portarci i soldi.

Poi si andava sulla Feltre-Belluno a fermare i tedeschi e a portargli via le armi.

È sempre stato così fin quando non mi hanno arrestato.

D: Ascolta, questi spostamenti con cosa li facevi?

R: In bicicletta.

D: Quanti chilometri facevi?

R: Non so, sono andata anche a Treviso, andata e ritorno in un giorno. Robe da non essere normali. Tant’è vero che mi sono fatta anche male perché andando in bicicletta c’erano le rotaie, la bicicletta è scivolata, però io dovevo andare per forza a Treviso.

Lì c’è stato anche un bombardamento mentre sono andata. Non sapevo che via prendere. Ho messo a posto il manubrio e sono andata e tornata.

D: Il tuo nome di battaglia?

R: Zara.

D: E quando te l’hanno dato? Chi te l’ha dato?

R: Subito i partigiani quando mi sono presentata al comandante.

D: Ma l’hai scelto tu o te l’hanno dato?

R: No, me l’hanno scelto loro.

D: Tu quanti anni avevi allora?

R: Allora avevo sedici anni.

D: Quando ti hanno arrestato?

R: Il primo novembre.

D: Del?

R: 1944, alle 2.00.

D: E dove ti hanno arrestato?

R: In casa di Sempronio che era un comandante di partigiani. Lì ero andata per prendere una carta d’identità di un comandante di un’altra brigata.

Io avevo la carta d’identità. Mentre eravamo lì, eravamo una quindicina, abbiamo sentito i tedeschi.

Allora sette sono riusciti a scappare. La Luigia, l’Amalia, la Piera, io più cinque o sei ci hanno portati via.

Tant’è vero che c’era un professore che si chiamava Pingo. Questo l’hanno legato ad un palo e lui gli ha detto di non picchiarlo che poteva essergli utile. Difatti ha fatto poi la spia.

Da lì mi hanno portato nella caserma degli alpini a Feltre.

D: C’erano sempre i tedeschi?

R: Sì, anche i fascisti, c’era dentro uno che è stato liberato dalle prigioni di Belluno, Baldenich, hanno liberato due russi e altri tre che dovevano essere fucilati.

Questo era dentro insieme a loro, era un delinquente, è andato con i partigiani e si chiamava Roccia.

Da lì poi lui s’è messo con i tedeschi e ha detto tutte le persone che conosceva. Tant’è vero che quando mi hanno chiamato per l’interrogatorio il 4 novembre c’era lui e mi ha detto: “Stai meglio adesso o quando ci hai fatto da mangiare?” subito me l’ha detto, però prima di arrivare all’interrogatorio quando mi hanno arrestato, la nipote di Sempronio che è una che è venuta poi a Bolzano con me si è messa a letto.

Io facevo finta di darle da bere. Nel frattempo ho inghiottito la carta d’identità, perché se mi prendevano con quella carta d’identità ero fucilata all’istante.

Però il comandante del gruppo di questi fascisti, tedeschi m’ha detto: “Tu piccola vai”. Invece questo Roccia ha detto: “No, lei non deve andare perché lei è una partigiana”. Capito? Allora…

D: Scusa, Zara, cosa volevano sapere da te?

R: Sapere i nomi dei partigiani, dove si trovavano, se erano armati, tutte queste cose.

D. Sotto interrogatorio.

R: Sotto interrogatorio, poi era il 4 novembre, il giorno del mio compleanno, mi hanno interrogato.

Però la sera prima è venuto in cella un tedesco, che poi era venuto anche a Bolzano con un cane così.

Si è rivolto a me e mi ha detto: “Tu sei una partigiana?” Ho detto: “No”. Tu sei una partigiana, io ho detto sempre no, lui mi ha dato quattro o cinque schiaffi e il giorno dopo mi ha portato lì.

In cella eravamo in sei con una branda sola.

D: Tutte donne?

R: No, avevano messo dentro un trentino militare per sentire cosa dicevamo noi e un altro comandante dei partigiani insieme a noi per vedere se gli parlavamo, però questo che si chiamava Cimati mi conosceva, ma non mi ha mai guardato. E io non ho guardato lui. Capito?

D: Lì fino a quando sei rimasta? Lì alle carceri.

R: A Feltre otto giorni. Il giorno 8 alle 2.00 di notte ci hanno portato via su un camion, ma non ero solo io, eravamo una ventina.

D: Oltre a te c’erano altre donne?

R: Uomini e donne. Ci hanno portato al Corpo d’Armata di Bolzano. Lì ci hanno tenuto tre giorni, poi ci hanno portato in campo.

D: Scusa, Zara, la strada che avete fatto di notte… Avete fatto la Valsugana?

R. Sì, la Valsugana.

D: E non vi siete fermati?

R: Mai.

D: Mai?

R: Mai.

D: Siete arrivati al corpo, lì ti hanno ancora interrogato?

R: No, lì no. Lì non mi hanno interrogato. Da lì poi non mi hanno più interrogato, altri sì, però io no.

D: Quindi ti hanno portato nel campo di Bolzano?

R: Di Bolzano.

D: Come ti ricordi l’ingresso nel Lager di Bolzano?

R: Mi ricordo che erano lì con i mitra appena dentro il cancello. Mi hanno portato dentro in una stanzetta. Lì mi hanno tolto i vestiti borghesi, mi hanno dato la tuta da militare con la croce dietro e il triangolino e mi hanno messo nel luogo dove c’era la Cicci.

D: Il triangolo di che colore era?

R: Il mio bianco e rosso.

D: E ti hanno dato anche il numero?

R: 5944.

D: Ti hanno tagliato i capelli?

R: No.

D: Non te li hanno tagliati?

R: No, non me li hanno tagliati.

D: La tua biancheria, hai potuto tenere qualcosa?

R: No, no, hanno portato via tutto loro. Noi avevamo su una camicia da militare, la divisa militare era, una mantella militare, gli zoccoli, però freddo da morire, perché senza maglie né niente, non c’era il riscaldamento dentro.

D: Nel blocco hai trovato altre persone, altre donne?

R: Nel blocco, non mi ricordo più quante eravamo, però ho incontrato Laura Ponti e Ada Bufalini che mi hanno fatto da mamma diciamo. Laura aveva dieci anni più di me, ne aveva ventisei, era del ’17 mi sembra Laura Corti.

Lì ho incominciato… Hanno chiamato i più giovani ad andare a lavorare. In un primo tempo sono andata in un ospedale militare a pulire patate e ad assistere i feriti tedeschi che c’erano dentro.

D: Sempre a Bolzano?

R: Sempre a Bolzano. Sarà stato un chilometro a piedi, andata e ritorno. Stavamo lì a pulire le patate. Andavamo a turno perché almeno si mangiavano le bucce.

D: Senza farvi vedere.

R: No, vedere, erano lì, dovevi buttarle via perché le buttavano ai maiali loro le bucce, ma noi eravamo peggio dei maiali.

Lì sono andata poco perché poi sono andata in un altro magazzino a mettere bottoni sulle divise militari.

Da lì sono andata poi vicino al campo dove c’era un magazzino che si spostava con attrezzi, tenaglie, martelli, cose varie, viti.

Lì sono rimasta poco. Lì abbiamo portato dentro del materiale per quel blocco che era vicino a noi, perché quando andavano via, perché non venivano più perquisiti quando partivano e noi avevamo avuto la fortuna di prendere questi attrezzi, tenaglie, martelli in modo che il primo vagone che è partito sono riusciti a scappare prima di arrivare al Brennero grazie a noi insomma.

Poi dopo non potevano più andare in Germania perché avevano bombardato la linea. Da lì poi sono andata in un altro posto dove sono andata con quello che sono scappata, col Sicilia, gli ho detto di scappare con me perché era uno delle SS.

Non mi ricordo più cosa facevamo in quel posto.

D: Sempre fuori del campo?

R: Sempre a piedi fuori del campo.

D: Ascolta, te li ricordi gli appelli nel campo?

R: No.

D: Al mattino non facevano l’appello?

R: Sempre, perché quando andavamo al Virgolo non so se cinque/sei volte facevano l’appello, perché lì in galleria potevi nasconderti benissimo, capisci?

Noi lì in galleria si lavorava dodici ore su dodici, da mezzogiorno a mezzanotte, da mezzanotte a mezzogiorno con un etto di pane e un po’ di sbobba con vermi dentro, quella roba lì.

D: Ascolta, quindi quando ti hanno chiamato per andare al Virgolo, dal campo vi portavano al Virgolo come?

R: In un primo tempo sì, andavamo a piedi. Poi dopo alcune notti si sono presentati dei partigiani che volevano liberarci. Allora hanno visto che la cosa non andava bene, ci hanno messo in una caserma vicino al Virgolo, eravamo a due passi come da qui al centro Bovisio.

D: C’erano anche gli uomini, altri deportati lì al Virgolo o solo voi donne?

R: No, quello di Limbiate era lì, c’erano di tutte le razze, eravamo in tanti a lavorare in questo stabilimento.

D: Cosa facevate?

R: Cuscinetti a sfera per una ditta di Imola, si chiamava la IMI

D: Lì al Virgolo cos’è successo? Tu sei stata tanto tempo lì al Virgolo?

R: Sì, sono stata finché sono scappata. Abbiamo fatto anche uno sciopero perché ci davano tre sigarette al giorno. Non avevi da mangiare… Una sigaretta si fumava in dieci. Lì ho cominciato a fumare.

Abbiamo fatto lo sciopero, è venuto il comandante del campo di concentramento, ci ha detto che poteva fucilarci tutti e noi gli abbiamo detto: “Siamo coscienti di quello che abbiamo fatto, però noi lavoriamo dodici ore”, sapevamo che questa ditta era l’unica che faceva cuscinetti a sfere, almeno dateci cinque sigarette al giorno, su dodici ore che lavoravi, era giusto che ci dessero questo.

Pane no, perché il pane non te lo dava nessuno, però il pane qualche cosa ce lo portavano dentro quelli di Ferrara della IMI. Sì, ci portavano dentro qualche cosa, qualche pezzettino di pane.

D: Dentro nella fabbrica, nella IMI, c’erano solo tedeschi a fare la guardia o anche i fascisti?

R: Quelli delle SS, tanto italiani che tedeschi, erano quelli delle SS che c’erano lì. Ma dentro, ce n’erano due all’entrata da una parte e due dall’altra. Passavano. Se vedevano che non lavoravi, venivano lì a farti il frustino sulle spalle. Io l’ho ricevuto tre volte.

D: Perché?

R: Perché non hai la forza di stare in piedi. Se le macchine non funzionano e dovevano funzionare, capisci? Come fai a stare in piedi?

D: Allora ti menavano?

R: sì, col frustino grosso così.

D: Ti hanno menato?

R: Tre volte. Però quella volta…Mi sono dimenticata di dire che sono andata fuori a bere dai miei genitori, c’era questo Sicilia, ritornando hanno chiesto chi era andata a bere l’aranciata al bar.

Io ho detto: “Sono stata io”, non potevo mettere a repentaglio le altre ragazze. Allora la Tigre ha incominciato a picchiarmi in faccia, anche due uomini tipo mio marito, sempre in faccia. Da lì sono andata dieci giorni in infermeria perché mi era uscito sangue dappertutto in faccia, poi avevo una faccia grossa così.

D: L’infermeria del campo?

R: Sì.

D: Quando arrivavano i tuoi genitori, cosa ti davano?

R: I miei genitori mi portavano su marmellata e latte condensato.

D: Poi?

R: La polenta una volta.

D: E lettere non te ne davano?

R: Sì. A Feltre oltre che per il rastrellamento eravamo in tanti arrestati. Nel rastrellamento sono stati 1.500. Poi tutti gli altri. C’era un camion di un industriale di Feltre che veniva su col camion, aveva un figlio anche lui lì.

Allora portavano su un po’ per tutti, si distribuiva fra di noi. Però sai quando tu sei lì non puoi dare niente a nessuno. Invece c’era gente che si nascondeva e faceva anche venire il nervoso.

Cosa ti costa dare un cucchiaio di latte condensato ad un’altra persona? Invece c’erano quelle che erano state arrestate con me che non davano niente a nessuno, tant’è vero che avevo rotto un po’ i rapporti.

D: Quindi ti davano le lettere da distribuire?

R: Distribuire, sì e quella volta che ho preso le botte, questo Sicilia con cui poi sono scappata, mi ha portato dentro lui le lettere nel blocco.

Poi volevano sapere chi era la guardia. Dovevo dirlo prima forse.

D: Non ha importanza.

R: Volevano sapere chi era la guardia che mi ha portato a bere l’aranciata. Ho detto: “Guardi, in tre sono venuti dentro, sono in tanti, non li riconosco. Può venire chiunque, ma non li riconosco. Ne ho approfittato ad andare a bere un’aranciata. Voi se foste stati al mio posto, non sareste andati? Però, dato che sono qui, non sono scappata, non ho fatto niente di male”.

Loro volevano sapere chi erano le guardie, ma non gliel’ho detto. No, tanto, oggi o domani ci avrebbero fatti fuori tutti. Si pensava che ci avrebbero uccisi in massa lì a Bolzano. C’era il forno crematorio anche lì, ultimamente hanno detto che c’era. Io non l’ho visto, però hanno detto che c’era.

D: Zara, quindi quella volta le lettere…

R: Le ha portate dentro lui in blocco.

D: Tu però le portavi anche fuori le lettere?

R: Sì, da Laura Ponti, le portavo al caporeparto della IMI, era Laura. In un foglietto così ci saranno state cento parole, però lei si fidava di noi, non ci perquisivano quando andavamo fuori, perché le lettere non sono mai state portate dentro da noi.

Quando noi eravamo in campo ci perquisivano.

D: Quando tornavate?

R: Sì, fuori no, ma dentro sì.

D: Nel tuo blocco avevate i letti a castello?

R: Sì, a quattro castelli.

D: In quanti dormivate per ogni ripiano?

R: Non so. So che c’erano quaranta prostitute.

D: Con voi?

R: Con noi, sì, venute da Genova, tutte malate. Infatti avevamo anche fatto un po’ di appello perché erano malate con noi. Noi eravamo politiche, non ne volevamo sapere di queste, perché loro non andavano a lavorare. Noi sì.

Ad esempio Laura Ponti lavorava in lavanderia. La Bufalini era in infermeria. Loro non potevano uscire perché erano pericolose.

D: Dentro nel blocco avevate i servizi igienici?

R: Sì, c’era il gabinetto e un rubinetto d’acqua per lavarsi la faccia, ma non per lavarsi sotto.

D: Le docce te le ricordi?

R: Erano fuori, andavamo dentro una trentina alla volta a fare la doccia. Lì è stata la prima volta che sono andata a fare la doccia. Vedermi lì nuda con tutte queste donne. Mi sono messa un affare addosso. Ho detto: “Qui ti fanno morire.”

Appena dopo due giorni che sono arrivata ho lavato le mie mutandine. Le ho messe sul reticolato, le ho tirate giù che erano nere di pidocchi, nere.

D: Ti ricordi se nel Lager di Bolzano c’era anche il blocco celle?

R: Sì, il blocco celle, poverine! Quella che ti ho detto che doveva scappare, si è confidata con la ragazza di uno delle SS e quando era il momento di scappare, sono arrivati quelli del campo e l’hanno portata via, l’hanno portata in cella e anche torturata.

D: Tu te lo ricordi quello?

R: Si sentivano le urla, perché le celle erano così, noi eravamo qui, quando ci facevano l’appello, c’erano i finestrini aperti, si sentivano le urla.

C’era una di Padova che ha buttato fuori i suoi ori tutti a pezzettini. Lì portavano dentro anche i bambini ebrei a picchiarli.

D: Il primo tentativo di fuga tuo?

R: Il primo tentativo di fuga è stato… De Luca si chiamava il comandante dei partigiani, lì aveva la moglie. Lei mi ha detto: “Vuoi scappare con me?” Ho detto: “Sì, sì”, perché io avevo sempre intenzione di scappare.

Allora mi dice: “Guarda che alle 2.00 di questa notte noi dobbiamo essere a un imbocco della galleria”.

Noi avevamo capito che era all’imbocco, all’entrata, invece era all’altro imbocco. Lì quelli della IMI ci hanno procurato mezzo litro di Vov, l’abbiamo bevuto tutto.

Alle 2.00 di notte hanno cominciato: “I banditi, i banditi. I partigiani, i partigiani”. Noi che eravamo messe con i vestiti borghesi, perché i miei genitori poi mi hanno portato su ancora dei vestiti borghesi, abbiamo appena fatto in tempo a toglierci i vestiti, a metterci la tuta.

“Banditi, banditi”. Però c’era un macchinario a quell’imbocco della galleria, c’era un prigioniero che faceva andare questo macchinario. Hanno interrogato lui. Questo marito di questa gli ha chiesto il mio nome. Emma si chiamava lei. Sono venuti subito a cercarci.

Notare che lui ha disarmato una guardia, per tre giorni, sicché qui era un sottopassaggio, noi si passava di qui, per tre giorni lui è rimasto lì sul marciapiede mentre noi passavamo.

C’era questa guardia che era un cecoslovacco, non l’ha mai fatto arrestare. Lui per tre giorni ha cercato di far sì che sua moglie potesse scappare.

Infatti, lei si è tinta i capelli, si è nascosta mentre stavano sorvegliando la galleria in un cassetto della scrivania. Ci saranno stati trecento militari fuori. Lei cosa ha fatto? È passata fuori assieme ai borghesi. Ha avuto una forza grande, grande, però sono venuti a cercare me.

Lì mi hanno picchiato un po’, mi hanno detto: “Tu devi sapere dov’è”. Io non so, non so, non mi hanno fatto niente, però ero sorvegliata giorno e notte, con chi parlavo e cosa dicevo. Per un po’ di tempo, poi mi hanno lasciata libera. Libera, nel senso che non mi sorvegliavano più.

D: Zara, quando vi hanno spostato dal Lager di Bolzano e vi hanno messo in questa caserma vicino al Virgolo, voi facevate quante ore al giorno di lavoro?

R: Dodici.

D: Al mattino e dodici di notte?

R: Sì, si partiva da mezzogiorno a mezzanotte, da mezzanotte a mezzogiorno.

D: E quando vi fermavate per mangiare?

R: Fuori, nella galleria.

D: E cosa vi davano da mangiare?

R: Ci davano un etto di pane. Al mattino ci davano un po’ di caffè sporco di orzo senza pane né niente. Il pasto maggiore era una tazza di sbobba con dentro il pane raffermo, gli avanzi del pane e dell’orzo e i vermi che galleggiavano.

D: Questo a mezzogiorno?

R: Che fosse stato mezzogiorno o mezzanotte, era il pasto maggiore questo.

D: E poi?

R: La sera un po’ di brodo e basta.

D: E basta?

R: Basta. Non si poteva stare in piedi.

D: Lì in questa caserma dove dormivate voi? Sempre sui letti a castello?

R: No, eravamo tutti nelle brande. Sì, lì si stava bene a dormire, solo che il giorno di Pasqua noi ci siamo affacciate alla finestra e loro continuavano a spararci su da basso perché non volevano che noi ci affacciassimo neanche alla finestra.

D: Il giorno di Pasqua di che anno? Del ’45?

R: Del ’45, sì. Io sono scappata, non mi ricordo più se il 22 o il 23 di aprile.

D: Eri dentro ancora al Virgolo?

R: Sì, sempre al Virgolo.

D: Come hai fatto a scappare quella volta? Poi non sei scappata da sola?

R: No, sono scappata con tre donne, una di Imola, la Gina, la Ester di Vercelli e sette uomini.

Al cambio di guardia ho detto al Sicilia: “Adesso dammi il mitra perché adesso è ora di andare. Guarda, se vuoi venire con me, gli ho detto io, tu sai che finita la guerra, perché la guerra finisce, tu verrai messo in prigione, se vuoi venire con me, ho detto, io ti salverò, dirò quello che hai fatto tu”.

“Io ho fiducia in te perché ho conosciuto anche i tuoi genitori, però preferisco stare a Bolzano perché ho la fidanzata qua”.

Da lì subito fuori c’erano i partigiani e ci hanno accompagnato, noi tre donne in una stanza quasi vicina al Virgolo e gli uomini li hanno portati alla Lancia.

Da lì loro sono partiti a destinazione. Invece sono venuti a prendermi dopo tre giorni. Ho lasciato lì la Gina e la Ester, non so più come sono andate a finire.

Io so che sono venuti a prendermi con una macchina nera, mi ricordo e mi hanno portato in un negozio di scarpe. Avevo già un documento falso che venivo da Innsbruck.

Sono stata lì un po’. Da lì arrivava un camion dell’alimentazione di Merano con dentro un altro prigioniero che aveva rotto le braccia, sotto il sedile dove ero seduta io c’era questo qui.

Niente, mentre stavo per salire sul camion sono passati due delle SS, gli aguzzini del campo. Non sapevo se andar su nel camion o consegnarmi.

Mi sono decisa ad andare su, mi hanno dato un pastrano nero. Loro mi avrebbero riconosciuto, sì, perché era quello che mi aveva fatto prendere le botte.

Da lì mi hanno portato a Feltre e sono andata proprio nel covo degli assassini. Uno, non mi ricordo più come si chiamava, questo era un fascista che ha fatto portar via tanti partigiani.

Tant’è vero che è stato processato, ha preso venticinque anni, dopo neanche un anno è stato liberato, è andato a finire in Argentina.

D: Tu sei andata a testimoniare?

R: Sono andata a testimoniare perché uno di santa Giustina, era un partigiano, mi ha detto: “Senti, Zara, se tu riesci a portare a casa la pelle, dì ai miei genitori che chi mi ha fatto arrestare è un tizio”. Adesso non mi ricordo più come si chiamava.

Difatti quando c’è stato il processo, c’era Meneghelli, direttore del manicomio di Feltre, che è stato portato a Mestre. Questo qui li ha portati a Mestre. Lui era un ex comandante. Quel comandante dei partigiani che era dentro in cella con me che poi è riuscito a scappare, li hanno portati a Mestre.

Arrivati a Mestre, dentro c’erano già i tedeschi e in prigione c’era lui che è andato a testimoniare, questo tizio dove io mi sono fermata a testimoniare, che lui era un partigiano, che è andato poi a morire a Mauthausen negli ultimi giorni.

D: Era con te nel campo di Bolzano?

R: Sì.

D: Poi hanno fatto il Transport a Mauthausen?

R: Sì, perché il blocco che c’era vicino a noi era il blocco dove c’erano i provvisori. Dopo due o tre giorni partivano. Fin quando la ferrovia funzionava, poi c’erano i camion che li portavano avanti e indietro.

D: Del Lager ancora cosa ti ricordi? C’era il muro di cinta con il filo spinato attorno?

R: Sì, tant’è vero che uno ha tentato di scappare, sua madre l’ha visto impigliato nei fili, nel filo spinato.

D: C’erano le garitte con le guardie?

R: Sì.

D: Queste te le ricordi?

R: Sì. Mi ricordo dove c’era il comando, dove c’erano le celle, dove ci portavano a lavarci la faccia, perché non tutte potevano lavarsi la faccia dentro lì, dove facevamo il bagno in trenta/quaranta persone.

D: Sempre dentro nel campo ti ricordi se quando tu eri nel campo c’erano anche dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Si, infatti io dal Corpo d’Armata ad andare al campo ero assieme a un prete. Ho detto alle mie compagne di sventura, “Qui adesso ci portano a uccidere”, abbiamo pensato, perché dal Corpo d’Armata ci hanno portato, era lunga dal Corpo d’Armata ad andare dove c’era il campo, fuori per queste strade di campagna.

Abbiamo detto: “Ci portano ad uccidere”. Quando ti prendono, sei sicura che fai una brutta fine. Uno non spera più di vivere. Quando uno cerca di scappare, allora sì, ci riesce, ma sai che se va male ti fanno fuori, questo era il detto.

D: E questo sacerdote era uno di che parti?

R: Non lo so.

D: Non te lo ricordi?

R: No, perché noi una volta che eravamo dentro, le donne da una parte e gli uomini dall’altra.

D: Ma questo sacerdote che era assieme a voi era anche lui deportato però?

R: Sì, un deportato anche lui. Ce n’erano diversi dentro.

D: Dei bambini l’hai già detto. Di donne eravate in tante?

R: Adesso non mi ricordo quante, ma un due/trecento sì. Quaranta/cinquanta erano delle prostitute. Il resto eravamo tutte di noi.

D: Questo nel tuo blocco.

R: Sì, non soltanto politiche, anche quelle di rastrellamento, eravamo tutte assieme come donne.

Ho lasciato fuori una cosa, che nel blocco vicino a noi avevano fatto una galleria a mano, mancava mezzo metro per scappare.

Il capo blocco che era un bolzanino ha avvisato e lì sono stati portati fuori. Noi siamo state la vigilia di Natale, la notte di Natale in piedi fuori del campo, perché portavano fuori questi prigionieri, ogni dieci frustati, buttavano addosso un secchio d’acqua e rinvenivano.

Avevano detto “Siamo stati noi”, invece tutti avevano fatto il lavoro e quel disgraziato di bolzanino ha fatto questa cosa.

Poi abbiamo saputo che dal campo guardando c’era un castello in alto, li portavano lì a fucilare. Quelli che hanno picchiato, li hanno fucilati, così abbiamo saputo.

Perché ci hanno lasciate fuori? Perché abbiamo tolto i mattoni per dare da mangiare a loro. Loro non ci hanno dato niente. Noi siamo state con metà mangiare per darlo a loro.

A noi per castigo ci hanno fatto star fuori del campo.

D: All’appello.

R: All’appello. Giorno e notte in piedi. Se cadevi, erano lì col frustino a dartele addosso.

D: Una bella notte di Natale!

R: Oh, sì.

D: L’albero di Natale non è stato fatto?

R: L’albero di Natale con quei poveri che erano lì appesi.

D: Zara, ti ricordi quando è venuto il vescovo di Belluno dentro nel campo a celebrare messa?

R: Sì, me lo ricordo, ho anche il santino.

D: Ma tu sei andata a sentire la messa?

R: Sì, sono andata a sentire la messa, soltanto che, ti ho detto, io sapevo tramite i partigiani che i partigiani di Belluno avrebbero dato un golfino per tutti noi bellunesi, però lui ha detto: “A chi non fa la comunione non do il golfino”.

Io ho detto: “Qui non si deve venire a fare queste cose. Tu non devi guardare chi ha un’idea diversa dalla tua. Dato che lui fa queste cose, io non faccio la comunione”.

D: E non hai preso il golfino.

R: No.

D: Faceva freddo però.

R: Faceva freddo con niente da mangiare, figurati te, altro che freddo. Avevamo una copertina grossa così e sotto avevamo il crine, questi castelli che poi hanno tutte … Quando ti alzavi la mattina eri più rotta che altro.

D: Zara, per una ragazza di sedici anni, diciassette anni, l’esperienza del campo di concentramento cosa vuol dire?

R: Vuol dire che impari tante cose, amare un po’ il prossimo che oggi non c’è più. Impari a soffrire, impari anche a soffrire per sopravvivere.

Non ti so spiegare cosa si prova con tutta sincerità. È una cosa che non so spiegarmelo, non so proprio spiegarmelo.

So che quando sono tornata e ho visto tante persone che erano contro noi, contro noi partigiani, avevano il fazzoletto rosso, mi sono messa a piangere. Io ho detto: “Forse non ne è valsa la pena del nostro sacrificio”. Lo giuro.

Fra questi c’era uno, io ho saputo, che è lui che è andato dai tedeschi a dire che la mia famiglia era rossa e che io ero partigiana.

D: E’ stato lui a fare la spia?

R: Sì, tant’è vero che mio padre finita la guerra è andato, gli ha sputato in faccia e gli ha detto: “Se moriva mia figlia, tu a quest’ora non ci saresti più stato”.

Però lui non ha reagito, no.

D: Zara, prima tu dicevi che la prima volta che hai fatto la doccia lì al campo sei rimasta un po’ scioccata perché nuda, assieme ad altre trenta donne…

R: Io avevo vergogna a vedermi in sottoveste con mio padre. Una volta era così.

D: Quel pudore, cosa voleva dire nel campo perdere il pudore?

R: Non so, io mi sarei lasciata ammazzare piuttosto che andare lì. E’ stata per me una cosa più forte di quando mi hanno picchiata.

D: Un’umiliazione più forte?

R: Sì, più forte, perché io fino a che è morto mio padre, adesso è un discorso diverso, ho ottantatré anni, gli ho sempre dato del voi.

Per me che con mio padre avevo una vergogna di parlare, di farmi vedere solo in sottoveste e trovarmi lì nuda così, con donne di tutte le età.

Ce n’era una poverina di venti anni che aveva un gran bel seno, si chiamava Piera e mi ha detto: “Mamma, a cosa devo assistere. Anche questo ci fanno fare?” Lei non voleva spogliarsi. L’hanno picchiata perché non voleva spogliarsi. Anche lei ha detto queste cose.

Io posso dire che oltre alle botte non mi hanno fatto nient’altro. Le botte sì, ma nient’altro mi hanno fatto. Hanno tentato qualche cosa? No.

C’era questo ucraino, quello che mi picchiava, forse io gli piacevo, ma io tutt’altro che star lì a fargli il sorriso. Erano cattivi, erano proprio cattivi.

D: Ti consideri fortunata?

R: Sì, di essere tornata sì, però avrei preferito morire lì.

Sì, perché quando ho visto le persone che veramente ci odiavano perché noi portavamo da mangiare ai partigiani e poi vedermeli col fazzoletto rosso, è stata una cosa brutta, brutta, brutta.

Tu devi pensare che io per tre mesi dovevo mettermi i guanti perché mi graffiavo dappertutto, perché dicevo “Adesso mi picchiano, adesso mi torturano, adesso mi ammazzano”. Per tre mesi una vita così ho fatto.

D: Questo dopo che sei scappata?

R: Sì, quando sono tornata a casa.

D: Dopo la Liberazione?

R: Sì. Ma vedere queste persone proprio… Noi abbiamo avuto anche degli inglesi, abbiamo portato da mangiare anche a degli inglesi, questi sono venuti in Italia dopo finita la guerra.

D: Questo a casa però.

R: Sì, a casa.

D: Prima di essere arrestata?

R: Sì, nel… Prima, prima di essere arrestata, sì. C’era mio fratello che era, lui ha quattro anni meno di me, aveva tredici anni, lui e un altro mio cugino andavano in montagna a portare da mangiare a questi inglesi, erano scappati a Bologna e si erano rifugiati lì.

Cinque erano insieme a noi partigiani, gli altri, questi non hanno voluto andare dai partigiani, però vivevano in paese così, senza riguardo per noi, vedevano e non interessava niente. Diciamo anche questo, che noi abbiamo rischiato la vita più di una volta per loro, perché loro si esponevano, andavano in giro e sapevano… Capito?

Mio padre è stato tre ore nella mangiatoia della mucca.

D: Nascosto?

R: Sì. Perché l’avevano cercato per portarlo via. Mia madre al muro e mio fratello e mio padre nella mangiatoia della mucca.

Il giorno in cui io sono andata a Bolzano, loro sono andati lì a fare rastrellamento a casa mia. Capito?

Tante persone anche oggi. Sai cosa avevano detto? Che mi avevano portato a Bolzano perché ero incinta. La cattiveria delle persone. Hanno detto che mi avevano portato a Bolzano perché ero incinta. Non sapevo neanche cosa voleva dire avere un bambino!

D: Questo passaggio. Tu dicevi che a Pasqua c’è stata la messa nel campo, però a Pasqua quando vi affacciavate dalla finestra…

R: Sparavano su.

D: Ma sempre lì nel campo questo?

R: No, lì vicino al Virgolo, nella caserma.

D: Perché non dovevate guardare fuori della finestra?

R: No, non dovevamo guardare fuori della finestra.

D: Per vedere il paesaggio.

R: Non dovevamo, anche se era Pasqua, non dovevamo guardare fuori. Poi c’era quella Tigre lì che viaggiava continuamente con un cane grosso così, oltre ad avere paura di lei avevamo paura del cane.

D: Oltre a queste tue amiche, quella di Imola, quella di Vercelli, la Laura di Milano e la Bufalini, ti ricordi altri deportati? Anche uomini?

R: No, di uomini non mi ricordo.

D: Il Tarvisio non te lo ricordi?

R: No, perché anche se lui lavorava al Virgolo, gli uomini da una parte e anche quando eravamo a fare l’appello, gli uomini davanti, noi dietro, ma non eravamo insieme. Non c’era contatto tra uomini e donne. Non ci lasciavano il contatto.

D: Questo Virgolo in sostanza in che cosa consisteva?

R: Una galleria.

D: Una galleria per fare una strada?

R: No, qui passa l’Isarco e la ferrovia che va al Brennero, qui c’è una galleria con tre crocefissi in alto e dentro lì c’era questo stabilimento.

D: Lo stabilimento dentro la galleria.

R: Sì.

Dovevano tracciare una strada, hanno fatto questa galleria e dentro lì hanno messo questa fabbrica. Adesso è la strada che si fa per andare al Brennero, passi sotto il Virgolo, passi dentro la galleria del Virgolo. È una strada. Prima invece avevano messo dentro questa fabbrica.

D: Come mai in tutti questi anni a Bovisio non c’è mai stata l’occasione per parlare ai ragazzi delle scuole?

R: Perché nessuno mi ha mai interpellato, perché nessuno a Bovisio sapeva che io sono stata in campo di concentramento.

D: Perché non l’hai detto tu?

R: No, a nessuno. Perché io venuta qui sono andata a lavorare, avevo i figli da mantenere, farli studiare, non avevo certo tempo di andare in giro. Anche perché io appena venuta qui sono andata alla Snia, avevo ventisette anni.

D: Alla Snia di Varedo?

R: Di Varedo. Sono andata tramite i sindacati, non mi ricordo più. Ero andata a Milano, all’ANPI, mi avevano fatto il certificato che ero stata partigiana e avrebbero dovuto assumermi. Mi hanno fatto la visita e tutto. Il giorno in cui dovevo presentarmi per andare a lavorare mi hanno detto che ero troppo vecchia a ventisette anni e io non ho mai avuto aiuto da nessuno, a parte che io non ho chiesto niente a nessuno, però io non ho mai avuto niente da nessuno.

D: Zara, dopo il Lager, dopo la liberazione, tu hai mai avuto paura di questa tua esperienza che avevi fatto? Di questa tua esperienza del Lager?

R: No. Io non avevo paura, ero diventata forte. Diciamo la verità, sei bambina a sedici anni, si è bambini. Vai davanti al pericolo senza renderti conto che c’è il pericolo, perché andando a fare la staffetta io non sapevo niente cosa voleva dire, però era il mio istinto di andare, non per far vedere alla gente, per il mio desiderio di poter aiutare.

Ti dirò di più, finita la guerra, quando c’è stata la ritirata dei tedeschi, sono venuti nella montagna, qui c’è il mio paese, qui una piccola montagna. Io sono andata a portare del pane ai tedeschi e c’erano due che erano a Bolzano della Wermacht e mi hanno riconosciuto.

Mi hanno detto: “Noi ti abbiamo trattata male e tu vieni a portarci questo?” “Sì, perché io so cosa vuol dire essere prigionieri”. Ho portato le lamette, sapone e del pane, due cesti di pane. Mi sono fatta aiutare da mio fratello, però loro si sono meravigliati che io avessi fatto quel gesto.

Io so cosa vuol dire essere prigionieri. Tu hai un’idea, io ne ho un’altra, però siamo sempre prigionieri.

Ma non ho avuto aiuto da nessuno.

Nulli Mariuccia e Rosetta

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: C’era una canzone che voi cantavate nel campo?

Mariuccia: Sì, c’era una canzone che era il rifacimento di una canzone di moda. Il rifacimento delle parole.

Rosetta: L’aveva fatta Funaro, lei non ha mai sentito parlare di Funaro? Era un… aveva delle orchestre.

D: Importanti?

Rosetta: Importantissime.

D: Ed era anche lui un deportato lì con voi?

Rosetta: Sì, era un ebreo.

Mariuccia: Sì, è partito in ottobre, in mutande.

Rosetta: No, in novembre, forse.

Mariuccia: Sì, insomma, una delle prime partenze, completamente in mutande.

Rosetta: E allora noi con Funaro, con grande ira delle guardie, lui Funaro si nascondeva nella nostra cella, ti ricordi? Veniva e si nascondeva in modo che lo avvisavamo quando c’era una guardia, lui si metteva dietro un castello e stava lì ad aspettare, e poi noi lì delle celle ad un certo punto ci mettevamo insieme, lui ci dirigeva e cantavamo la canzoncina.

D: E com’era questa canzone, ve la ricordate?

Rosetta: Sì, sì.

Mariuccia: Era una canzone che nella realtà diceva: “Tutto passa e si scorda, tutto deve finir, è partito il mio amore” qualcosa di simile.

Rosetta: E invece la parodia era: “Tutto passa e si scorda, tutto deve finir, se verrà l’armistizio, ce ne andremo di qui”. Della tuta con croce, un pacchetto farem”

D: Va avanti, però!

Mariuccia e Rosetta: Ed ai repubblichini, volentier la darem. Proveranno la sveglia, delle cinque al mattin, proveranno il buiolo, proveranno il frustin. Non ve n’è più di tedeschi, fame non avrem più, scorderemo l’appello, se torniamo laggiù. Fine.

D: Non vi hanno mai scoperte a cantare?

Mariuccia: Sì, ci picchiavano nella cella col calcio del fucile.

Rosetta: Ma guardi che questa era una roba da bambini, eh? Lei ci fa fare…

Mariuccia: Ma la cantavano tutti.

D: Non è una cosa da bambini, aveva un significato. Era molto eversivo dentro lì.

Mariuccia: Sì, però, era molto eversivo, però se lei si mette in un posto con tremila o quattromila persone che vanno in giro canticchiando così, magari in cinque o sei, poi quando arriva la guardia tedesca smettono, cosa vuol fare? Non era proibito né ridere né canticchiare. Se uno aveva la forza di farlo. E poi comunque si cantava sottovoce.

Rosetta: Aveva un profondo significato. Poi loro forse non capivano.

Mariuccia: Non è che si facessero i cori.

Rosetta: No, ma Mari, non proprio sottovoce perché cantavamo in dieci, dodici persone, e quelli che non potevano uscire dalla cella cantavano dal buco, dallo spioncino.

D: Quindi si era diffusa subito questa canzone?

Mariuccia: Sì, ma era una canzone praticamente molto in voga in Italia, allora. Io le parole della canzone reale non le ricordo, però è facile trovarle.

Rosetta: E penso che l’avesse scritta lo stesso, l’avesse composta lo stesso Funari.

Mariuccia: Funaro? Può darsi.

Rosetta: Ho detto Funari? Per l’amor di Dio, mi correggo: Funaro.

D: Ma ditemi un po’, sorelle, come mai voi siete finite in Via Resia, a Bolzano, quando, perché?

Rosetta: Siamo finite a Bolzano, perché mio marito, che era stato arrestato a Genova dalla Gestapo, faceva parte di una missione….

D: Suo marito è stato arrestato a Genova?

Rosetta: Sì, a Genova, dove stava lavorando con altri che facevano parte di questa missione alleata, e poi dopo aver passato un giorno nella casa di questo studente era stato trasportato nelle celle sotterrane della Gestapo di Verona.

D: Quindi da Genova a Verona.

Rosetta: Sì, alla Gestapo di Verona. E lì proprio per una fortuna incredibile, inspiegabile, mentre lo facevano lavorare per scaricare delle carte che i tedeschi stavano ammassando perché cominciavano a partire, Firenze non era stata occupata allora, gli alleati erano poco sopra Roma ma erano ancora abbastanza lontani. Comunque quel giorno, lui che non avrebbe dovuto assolutamente uscire dalla cella, per uno sbaglio del maresciallo che faceva servizio, è uscito e lo hanno mandato in un garage lì vicino alle celle a scaricare un camion. Lui ha aperto una porta, ha visto che c’era un finestrino, ha visto che il salto era di circa due metri e mezzo o tre metri, si è buttato ed è scappato.

D: Da Verona?

Rosetta: Sì, lui è scappato l’11 settembre.

D: Del ’44?

Rosetta: Del ’44 e la mattina del 12 settembre, alle cinque, sono venuti nella casa di campagna di mio padre, che si chiama “Il Ronco”, sono venuti, è venuto un tenente della Gestapo che mi pare, me lo hanno detto quelli della Digos, si chiamava Martin Engmann, insieme con altri soldati, quanti soldati saranno stati? Tre o quattro.

Mariuccia: Tu stai parlando del Ronco? C’era uno che si chiamava Otto, io di Martin Engmann non so niente.

Rosetta: Il tenente si chiamava Martin Engmann.

Mariuccia: Che è venuto al Ronco?

Rosetta: Sì.

Mariuccia: Comunque lui si è presentato, era un capitano che si chiamava Otto.

Rosetta: No, non era, ah, c’era anche un capitano?

Mariuccia: C’era un capitano che si chiamava Otto, quello me lo ricordo come fosse vero oggi, e ti spiego anche perché. Tu puoi dire di no, ma io questa volta insisto. Perché poi quando io sono ritornata alla SS di Brescia, il capitano Otto, che io credevo si chiamasse Otto, non mi ha mica fatto vedere la carta d’identità. Non si è neanche presentato. Mi ha detto, mi ha chiesto come si stava a Bolzano. E io, in presenza di lui e di quello che era seduto dietro al tavolo, che noi credevamo fosse Leo, ma non si sa chi fosse…

Rosetta: Ma dove, qui a Brescia?

Mariuccia: A Brescia, gli ho detto: “Si stava benissimo”. E loro mi hanno guardato un po’ stupiti, però quel capitano Otto, come mi ha visto entrare nel comando delle SS di Brescia mi è venuto incontro, sorridendo e quasi contento perché mi vedeva lì ancora in carne e ossa, penso. E sono sicura che si chiamava Otto, perché l’ho scritto in due o tre appunti che ho preso.

Rosetta: Di nome o di cognome?

Mariuccia: Lui si è presentato come Otto, dopo poi che si chiamasse Martin Engmann io non lo so. Era chiamato Otto, tu sai benissimo che le persone hanno dei nomi e poi hanno dei nomignoli, diciamo. Ecco, questo sono sicura. Che poi fosse Martin Engmann forse quelli della Digos lo avranno poi appurato in seguito. Lì da noi lui si è presentato come capitano Otto e le dico anche perché: perché mio padre cercava d’ammansirlo, perché inizialmente era piuttosto arrabbiato e gli offriva la colazione, gli offriva, così lui si è seduto a mangiare, ha detto che si chiamava Otto, immagino fosse il nome, il prenome, insomma ha fatto colazione, si è ammansito, poi siamo andati via, si può dire in rapporti cordiali, ecco.

Rosetta: Sì, ci hanno internato.

D: Ah, vi hanno preso subito lì al Ronco?

Mariuccia: Aveva l’espressione di uno fortemente disturbato dal compito che gli avevano dato, questa è la mia impressione, e non l’ho più dimenticata. È un’impressione.

D: Quindi sono venuti il giorno dopo, praticamente?

Rosetta: La mattina alle cinque, quattro e mezza o cinque, ho sentito dei passi pesanti, sono andata alla finestra e ho visto che giù nel prato davanti a casa e sul terrazzo c’erano, al primo momento ho pensato che fossero i soldati della Todt che lavoravano lì di fronte, poco lontano. Ma poi ho guardato, ho visto che avevano i gambali rigidi e ho detto: “No, qui è tutta un’altra categoria di soldati”. Allora ci siamo alzati, siamo scesi, loro hanno cercato subito il bambino perché io l’avevo lasciato su e lo avevo coperto. Pensando che era meglio se non lo vedevano; invece loro mi hanno chiesto se ero la signora Bonomelli, ho detto di sì. “Dov’è il bambino?” Io non ho risposto niente, e loro mi hanno fatto tornare di sopra e hanno scoperchiato, io ero in una stanza, in un lettino c’era mio figlio e nell’altro io, loro hanno scoperchiato lo hanno visto e lui che era già stato piuttosto scioccato per altre circostanze, era stato scioccato perché avevano sparato a suo nonno con lui in braccio. E lui era stato ferito di striscio, nel vedere questi in divisa è diventato un pezzo di ferro, e poi, niente, ci hanno incolonnati e a piedi da lì siamo andati in piazza a Iseo, vero? Poi siamo andati su in municipio, ti ricordi Mariuccia?

Mariuccia: Sì, sì quello mi ricordo molto bene.

D: In casa chi si trovava in quel momento?

Rosetta: In casa c’era mio padre, mia madre, mia sorella, mia suocera, mio figlio ed io.

Mariuccia: E i contadini che abitavano lì, nella stessa casa, in un settore, sa? Era una cascina praticamente di campagna. In una metà ci stavamo noi a fare le vacanze nell’altra metà abitavano i contadini.

D: E vi hanno presi tutti?

Mariuccia: Tutti.

D: L’accusa qual era? Vi hanno presi perché?

Rosetta: Ah, non ci hanno detto niente. Assolutamente. Anzi, noi eravamo molto preoccupati, perché non sapevamo assolutamente il motivo per cui ci avessero preso. E mentre camminavamo a piedi, e stavamo andando in paese, all’altezza del cimitero d’Iseo, io ho visto che dalla parte opposta della strada venivano due donne.

Mariuccia: Le Tanzi, erano.

Rosetta: Le ho guardate, e ho detto a qualcuno che stava vicino a me, non so se a te o a mio padre, “Ma quelle sono le sorelle di Tanzi.” Quell’amico di mio marito e di mio cognato che era andato con loro quando loro avevano passato il fronte. Allora è successo qualcosa. Allora ho chiesto a questo, Otto dice lei, io pensavo un tenente ma insomma, ho chiesto a questo Otto di lasciarmi salutare quelle signore perché erano le mie cugine. Lui mi ha detto: “Sì, sì”. Ha fatto fermare il drappello perché eravamo, saremmo state dieci o dodici persone.

Mariuccia: Se non lo avessimo ammansito, non faceva una cosa così.

Rosetta: “Mi lasci salutare le mie cugine”, allora sono andata da loro e ho chiesto “Ma cosa è successo?” e dicono: “Siamo arrivate tardi, è stato il treno che non è partito al momento giusto, perché noi avremmo dovuto essere qui prima delle cinque, e invece il treno è arrivato in ritardo”. “Ma cosa è successo?” “Ma, Bruno e Paride sono scappati dalla Gestapo a Verona e Paride non sa dove sia andato a finire Bruno. Perché uno dei due si è sbagliato sull’accordo che avevano preso al momento” e allora dice “È venuto subito da noi a piedi da Verona e quando lui è arrivato noi siamo partite perché lui ha detto di andare ad avvisare tutti i Nulli, mia madre, mia cognata, che si nascondano, che scappino. E invece siamo arrivate tardi”. Così abbiamo saputo perché ci avevano prese.

D: Dopodiché, da Iseo, dove vi hanno condotte?

Rosetta: Da Iseo ci hanno condotte nelle celle sotterrane della Gestapo. Abbiamo fatto una breve fermata qui dove c’era il maresciallo Leo.

Mariuccia: Prima ci hanno portate nella sede del comune d’Iseo.

Rosetta: Sì, ma prima di andare.

Mariuccia: Questo non so perché. E mi ricordo che era giorno di mercato, c’erano le macchine, le Volkswagen tedesche in piazza, e non c’era nessuno in piazza. Tutta la gente era nascosta sotto i portici, ci hanno fatto fermare lì e noi abbiamo chiesto, sempre a questo capitano, se ci permetteva di andare a prendere qualche abito, perché era settembre, faceva ancora caldo, avevamo gli zoccoletti a casa, perché mio padre ha detto: “Qui sarà una faccenda lunga, cercate di portare qualche vestito”. Io e lei siamo andate a casa, che abitavamo poco lontano, abbiamo raccolto qualche straccio da metterci e siamo tornate lì in comune. Nel frattempo una delle mie zie è venuta a chiamare mia madre ed ha chiesto il permesso d’accompagnarla a salutare sua madre che era morente. È poi morta due ore dopo. Allora in mezzo a due col fucile…

Rosetta: Anch’io sono andata con la mamma.

Mariuccia: Sei andata anche tu? Io non mi ricordo.

Rosetta: Sì, con la mamma e penso sono andata io con Ennio.

Mariuccia: A salutare questa donna che stava morendo di polmonite.

Rosetta: Comunque lì dal municipio dopo siamo andate alla casa in paese, la nostra casa, di quando eravamo ragazze.

Mariuccia: Io e lei da sole.

Rosetta: Sì, siamo andate lì.

Mariuccia: Poi siamo andate a Brescia, dove c’era questo Leo che non sanno se è Leo o un altro, o si chiamasse in un altro modo.

Rosetta: Il quale si è comportato in un modo così, veramente, assurdo. Io non lo avevo mai visto. Siamo entrate, sono entrata io e tenevo per mano il bambino, poi è entrata dietro di me mia suocera e poi loro. Lui è andato lì vicino a mia suocera e ha chiesto: “Bonomelli?” E lei si è rivolta verso di me per dire: “Perché?” e pam! Le ha dato una sberla, te la ricordi?

Mariuccia: Sì.

Rosetta: Una sberla, ma proprio, e io ho reagito un po’, ho detto: “Ma cosa sta facendo, ma non ha fatto niente. Ma che cosa sta facendo?” “Ssst”, ha detto, “sedetevi tutti”.

Mariuccia: E ci hanno messi in una stanzetta. Ma io voglio tornare indietro a fare una considerazione, non so quanto valore possa avere. Che noi non eravamo degli illustri sconosciuti, diciamo, gente tranquilla che non si sa se esiste, perché mio padre era già stato arrestato una volta dai fascisti per attività partigiana, perché aiutava i partigiani ed organizzava anche un po’ la Resistenza della valle. Tant’è vero che mia sorella, che forniva i partigiani d’armi, era già in prigione a Brescia, qui, agli Spalti di San Marco, nel suo piccolo faceva qualcosa anche mia madre perché preparava i viveri, glieli faceva portare e la nostra casa era un po’ un viavai di gente di questo genere. Con questi precedenti e con la conoscenza precisa che avevano delle nostre opinioni nei loro riguardi, forse hanno preso ancora di più la palla al balzo per fare imbarcare tutta la famiglia, perché penso che se fossimo stati dei contadini tranquilli, che non avevano mai fatto niente, non si sarebbero neanche scomodati.

Rosetta: Veramente, lì nel campo di concentramento dove eravamo noi, c’erano tantissimi ostaggi, gente che era stata presa esclusivamente perché i loro figli erano andati ad arruolarsi o con i partigiani o con l’Esercito Italiano passando le linee, beh, comunque loro per venire a prenderci hanno scelto quel momento.

Mariuccia: Quella è stata senz’altro la causa determinante, ma anche in paese, noi non eravamo visti con grande giubilo, perché io le dico solo un particolare, per venire a prenderci in quel posto lì ci voleva uno che spiegava molto bene dove si doveva andare, e ripeto, se noi fossimo state persone ammanicate col potere o semplicemente persone tranquille, forse anche le autorità comunali di allora sarebbero state meno sollecite a dare una mano, questa è la mia opinione.

D: Mariuccia, quanti anni avevate voi allora?

Mariuccia: Io sono del ’22, allora avevo 22 anni.

D: E voi Rosetta?

Rosetta: Io sono del ’18, allora avevo 26 anni.

Mariuccia: Comunque dopo questo episodio mia sorella Agata, che era stata arrestata dai fascisti, ed era in prigione e aveva avuto il processo e la condanna a trent’anni per attività partigiana, è stata interrogata da Priebke e passata sotto la giurisdizione anche lei delle SS.

D: Era stata processata al Tribunale Speciale?

Rosetta: No, non era stata ancora, non lo hanno mai fatto il processo di Agata.

Mariuccia: Ma perché dici così?

Rosetta: No, non l’hanno mai fatto.

Mariuccia: L’hanno condannata a trent’anni, vuoi che la chiamiamo al telefono per domandarglielo?

Rosetta: Ma se diceva, coso, come si chiama quello là? Streparara.

Mariuccia: Quello che dice Streparara lascialo perdere, Streparara era un imbecille qualsiasi. Agata è stata condannata ad anni trenta di prigione.

D: Quindi vi hanno portate a Brescia?

Mariuccia: Sì, a Brescia

D: Nel comando delle SS?

Rosetta: Sì, al comando delle SS. Siamo state lì una mezz’ora, poi ci hanno ricaricato su due macchine e siamo andate alla Gestapo a Verona, il Palazzo dell’INA, in via di Porta Nuova, c’è tuttora. Lì sotto, nelle cantine avevano ricavato delle celle dove, se si staccava la rete dalla parete e si tirava giù, non ci si poteva più neanche muovere. Io ero in cella con il mio bambino, la Mariuccia era in cella con… no? Da sola? Mia suocera? Come dici, eri in cella con mia suocera? Tu?

Mariuccia: No, eravamo in cella uno per uno. Perché forse volevano che qualcuno di noi dicesse quel che sapeva, che poi non si sapeva niente.

Rosetta: Sì, assolutamente niente, e poi fra l’altro, questi agenti dell’Intelligence Force dell’8^ Armata Britannica avevano anche delle disposizioni, ed era questo: “Se voi siete presi od arrestati, voi dite esattamente come sta la situazione, cioè da dove partite, come siete organizzati perché”, dicevano, “è inutile fare gli eroi”. Loro intanto queste cose le sanno già benissimo. Voi diteglielo esattamente, tranquillamente. Quindi è per questo che è strano che loro continuassero a fare degli interrogatori anche a me, in quei due giorni che sono stata lì mi hanno chiamato non so quante volte per dirmi: “Ma lei lo sa dov’è suo marito?” “Ma cosa vuoi che sappia io dov’è mio marito” “Ma dove potrebbe nascondersi?” “Ma non lo so”.

D: Perché lui nel frattempo era scappato e non si sapeva dov’era? Voi non lo sapevate?

Rosetta: No, io l’ho saputo soltanto dopo che è finita la guerra.

D: Dopo questi due giorni di interrogatori, lì a Verona, cosa è successo?

Rosetta: Ci hanno caricato su una corriera insieme con altri detenuti che venivano da altre carceri di Verona.

Mariuccia: Ci hanno presi e messi sulla corriera. La corriera è partita e si è fermata alla prigione Degli Scalzi. Sono saliti venti o ventidue individui, tutti uomini, non so perché, qualcuno forse era lì proveniente ancora dal campo di Fossoli, qualcuno. Però, non so. Dopo di che siamo andati a Bolzano.

D: Ecco, ma vi avevano detto che vi avrebbero portati a Bolzano?

Mariuccia: Sì, perché la mattina, quando mi sono alzata e sono andata a lavarmi al bagno, alla fontanina, questo ufficiale, Tito? Quest’ufficiale che aveva presieduto tutti gli interrogatori e che insisteva con “Nicht rappresaglia, Nicht rappresaglia”, quello me lo ricordo molto bene, mi è venuto vicino e mi ha detto: “Niente buono campo di concentramento per donne e bambini, niente buono”

Rosetta: Sì, sì, l’ho sentito anch’io.

Mariuccia: Ma mi ha quasi fatto capire che lui avrebbe continuato ad interessarsi al nostro caso. Io non capivo perché, allora veramente non si capiva quasi niente di tutta questa storia. Perché, lei lo sa, forse non lo sa meglio di me, ma lo sa come me, che avvenivano arresti in tutti i modi strani. Avvenivano esecuzioni sommarie, a piacere, come era successo a suo suocero, avvenivano deportazioni di cui uno non si rendeva conto del perché venivano fatte, quindi uno accettava quello che gli capitava sulle spalle, in una specie di fatalismo, e con la speranza che non fosse poi così drammatica la cosa come si profilava. Comunque questa frase me la ricordo, “Niente buono campo di concentramento”. E io mi ricordo di aver pensato: “Sarà sempre meglio di una cella senza finestra”, ho pensato questo. Ignara del fatto che se questo Eisenstein non ci avesse fatto mettere il cartellino di ostaggi, ma si fosse incattivito e ci avesse fatto mettere quello dei prigionieri politici, noi partivamo per la Germania. Perché quando siamo entrati negli uffici del campo, dove ci ricevevano, c’erano lì parecchi tedeschi, e io allora non sapevo neanche chi erano. Ho l’impressione che questa situazione fosse stata voluta proprio dalla Gestapo di Verona. Perché la notte ci hanno messo nei blocchi delle celle, delle donne a Bolzano, e a notte alta, saranno state le undici, si è aperta la porta, i chiavistelli, è comparso questo Hans che io ho visto per la prima volta, e ha dato ordine, ci ha chiamato per numero, “Blocco celle” ha detto. Allora noi siamo scesi dai nostri panconi, che non ricordo più neanche se erano i terzi, i quinti, i terzi o i quarti, e gli siamo andati dietro. Siamo andati dietro a questo signore, ci ha aperto la porta delle celle appena costruite, ci ha messo in una cella tutti insieme.

D: Tutta la vostra famiglia?

Mariuccia: Tutta la famiglia. E c’era un mormorio, quello me lo ricordo, “Ma poverini, vanno nelle celle”, perché giorni prima, e qui lo vedo riportato, proprio da quelle celle lì erano stati portati fuori questi ventitré italiani che erano stati fucilati. Il giorno 12 settembre. E noi siamo arrivati il giorno 14, quindi le celle erano vuote, in una era rimasto il famoso capitano Barda, alias Enzo Sereni, e il giovane Vittorio Duca, figlio di quel Duca, non so il cognome, il nome proprio, che era stato ucciso.

Rosetta: Quando siamo andate noi alle celle c’era già il capitano Barda?

Mariuccia: Perbacco! C’era il capitano Barda, e Vittorio Duca, erano loro due in quella cella lì, dopo Vittorio Duca lo hanno passato capo blocco, nel blocco E, è andato via, ma è stato lì qualche giorno. Questo è quello che ricordo, molto esattamente.

D: Possiamo fare un pezzettino di passo indietro?

Mariuccia: Sì. Come vuole.

D: Da Verona siete partite in corriera?

Rosetta: Sì, con un pullman.

Mariuccia: Lei lo chiama pullman, era un autobus tutto sgangherato, bianco, era. Pullman di gran turismo!

D: Con il pullman e siete arrivate, c’eravate su voi, e poi quegli altri prigionieri che….

Rosetta: Eravamo circa una cinquantina, non voglio proprio ostinarmi sul numero preciso, ma mi sembra di aver contato e aver detto “Siamo in quarantasette”.

Mariuccia: Lì a Verona però eravamo saliti solo noi. Non ti ricordi? Che non c’era nessuno dalle celle di Verona che era salito.

Rosetta: Siamo saliti soltanto noi.

Mariuccia: Solo noi. Il pullman, il bus, chiamalo come vuoi, quella specie di carcassa bianca, ha girato per la città e si è fermato davanti alla prigione Degli Scalzi. Io, la prigione degli Scalzi la conoscevo attraverso don Chiot, quel famoso prete che confessava i condannati a morte e li comunicava, ed insieme all’ostia gli dava la sigaretta. È un personaggio famosissimo questo don Chiot, era noto perché in questa prigione lui aveva…

D: Com’è che faceva a nascondere?

Mariuccia: Questo è un fatto vero. Nascondeva la sigaretta in mano, in modo che i condannati andavano a fare la comunione e lui gli faceva scivolare la sigaretta da fumare, adesso non so in che modo, queste informazioni più precise le può prendere lì dalla procura di Verona o da associazioni partigiane di Verona. Mi ricordo che conoscevo la prigione Degli Scalzi attraverso quello che mi dicevano, già allora, attraverso le esperienze di quelli che sapevano, insomma. Per cui mi fece molto effetto questo portone, una casa antica, un portone in pietra, dentro si è spalancato e hanno fatto salire questa gente, in abiti civili. Si capiva che era gente che era lì da parecchio tempo, niente, questo mi ricordo.

D: E poi siete partite per Bolzano.

Mariuccia: Siamo partite per Bolzano.

Rosetta: Siamo andate a Bolzano.

D: Senza nessun altra fermata?

Mariuccia: Sì, a Rovereto ci siamo fermati. Abbiamo fatto una fermata a Rovereto, ci hanno fatti scendere dal pullman. Tutti. Per motivi anche igienici e lì ho saputo che avevano progettato la cattura, diciamo, delle guardie che c’erano sulla corriera. E la liberazione di tutti attraverso un colpo di mano, insomma, che non è stato attuato perché hanno visto che, mentre loro non se lo aspettavano, che c’erano delle donne ed un bambino, e per paura che nel conflitto, che ci sarebbe stato di sicuro, a fuoco, con i sorveglianti armati di mitra, succedesse, ci fossero delle vittime, donne e bambini, così siamo andati a Bolzano, dopo ci siamo fermati un’oretta.

D: Siete arrivati a Bolzano, più o meno a che ora? Ve lo ricordate?

Mariuccia: Io mi ricordo che erano verso le cinque di sera.

Rosetta: Sì.

D: E quando siete entrate in Via Resia vi hanno dato subito l’immatricolazione?

Mariuccia: Dunque, sì è spalancato questo cancello, siamo entrati con la corriera e ci hanno fatto scendere, poi qui io ho dei ricordi un po’…, mi ricordo che gli uomini li hanno portati da una parte e li hanno fatti rapare.

D: Subito?

Mariuccia: Penso subito, perché noi siamo entrate e non ci hanno rapato. Né me, né lei, né mio padre, perché come siamo entrati io ho visto subito questa gente con le tute blu, tutte rapate e mi ha fatto un effetto impressionante, proprio un’impressione, un colpo ho avuto nell’entrare, era un mondo diverso. Un mondo completamente diverso da quello a cui eravamo abituate, sia pure in mezzo alle vicende piuttosto drammatiche o complesse che si vedevano anche fuori dal Lager, se ne vedevano parecchie.

Rosetta: Ma mentre ancora eravamo nelle celle della Gestapo, lì a Verona, proprio la prima sera che siamo arrivati, io ero nella cella con Ennio, la cella si è aperta e c’erano due soldatesse tedesche ed una interprete. L’interprete mi ha detto che dovevo dare il bambino perché sarebbe stato portato in un posto più adatto, che non poteva stare lì. Allora io ho preso in braccio mio figlio e ho detto: “Ma no, sta qui, lo lasci qui.” “No, lo deve dare, deve lasciarlo andare”. Lui si era attaccato al mio collo, molto fortemente, però penso che senz’altro sarebbero riuscite a staccargli le braccia, non diceva niente e stringeva sempre di più, quella ho visto che si era veramente arrabbiata, e ha detto all’interprete di dirmi che se io non glielo davo lei me lo avrebbe strappato. In quel momento ho sentito i passi sulla scala a chiocciola ed è sceso un maresciallo che si chiamava Eisenstein.

Mariuccia: È quello che ci ha salvato, praticamente.

Rosetta: Quel maresciallo prussiano, dopo mi ha detto che era un maresciallo prussiano, ha detto a queste due di andarsene, mi ha detto: “Stare tranquilla, bambino insieme con lei”.

Mariuccia: E come, come lato umoristico le dirò che mio padre, mentre avveniva questa scena, che tutti definirebbero tragica, continuava a dire: “Te mologhe mai el gnaro”, cioè la incitava a non lasciarglielo. E forse senza questa insistenza, chi lo sa? Non sappiamo cosa sarebbe successo. Questa scena è durata, nel silenzio più totale, almeno dieci minuti.

Rosetta: Questo maresciallo mi ha detto, per la prima volta, perché poi me lo avrà ripetuto cento volte, mi ha detto: “Lei venire mio piccolo chalet Germania”, vero? “Lei e bambino, venire mio piccolo chalet in Germania”.

Mariuccia: Si vede che sperava di portarla fuori.

Rosetta: Sì, e allora io attribuivo questo al mio, non so, a qualcosa di non so, “Si vede che forse gli piaccio”, pensavo. E invece poi sono rimasta molto delusa, perché quando ho raccontato queste cose a mio marito, finita la guerra, lui mi ha detto: “Ah, il maresciallo prussiano, ma non lo sai che lavorava con gli inglesi?”

Mariuccia: Ma questo noi lo abbiamo immaginato, perché quando stavamo salendo tutti in fila, sul predellino della corriera, lui si è avvicinato a mio padre, ed in italiano ha detto: “Io questa sera mandare mio uomo a Firenze”. Noi eravamo tutti presi da questa vicenda, che ci portavano via, no? Al momento non ci abbiamo fatto caso, poi mio padre fa: “Ma a Firenze ci sono gli alleati”.

Rosetta: No, non c’erano ancora gli alleati. A Firenze gli alleati sono arrivati due o tre giorni prima di Natale.

Mariuccia: Beh, comunque “Io mandare mio uomo a Firenze” voleva dire che aveva dei contatti con gli alleati e che da Firenze qualcuno avrebbe… e allora lì abbiamo capito che c’era una situazione, che a noi sfuggiva, ma che era molto, molto più complessa di quanto si pensasse, ecco.

Rosetta: Sì, poi quella insistenza, “Venire mio piccolo chalet in Germania”.

Mariuccia: Questa qui “Stasera mandare mio uomo a Firenze” mio padre si è scervellato per tutto il viaggio. Comunque in settembre non erano ancora a Firenze, gli alleati.

D: Non me lo ricordo.

Rosetta: No, no, no.

Mariuccia: Nel settembre del ’44.

Rosetta: Roma è stata occupata nel giugno, il 20 giugno del 1944.

Mariuccia: Guarda che Roma è stata occupata nel ’43, Rosetta. È stato l’8 settembre.

Rosetta: Del ’44, è stata liberata nel ’44.

D: Liberata.

Rosetta: Roma è stata occupata dagli alleati il giugno 1944.

Mariuccia: Ah, sì, nel ’44.

Rosetta: L’8 settembre è stato nel ’43, allora c’erano gli italiani, e poi è stata occupata dai tedeschi.

D: Quindi l’ingresso di Via Resia, gli uomini sono stati messi, li hanno portati dall’altra parte.

Mariuccia: Non ho più guardato, confesso che non mi ricordo.

D: Il vostro gruppo, la vostra famiglia è rimasta tutta unita, diciamo.

Mariuccia: Sì.

D: L’immatricolazione ve l’hanno fatta subito?

Mariuccia: Subito, ci hanno dato il cartellino, io non mi ricordo però se mi hanno dato subito il cartellino. Questo non me lo ricordo.

Rosetta: Ma io credo che quando siamo arrivati la sera…

D: Neanche il numero?

Mariuccia: No, perché il cartellino ed il numero avevano, erano inscindibili. C’era il numero ed cartellino del colore X o Y. E probabilmente il cartellino ce l’hanno dato il giorno dopo. Perché se no non ci avrebbero messo nel blocco delle donne, se non c’era qualche cosa di…

Rosetta: Io mi ricordo che la prima notte che ho dormito a Bolzano avevo ancora il vestito che avevo quando ci hanno portati via.

Mariuccia: Sì. Il giorno dopo ci hanno dato…

Rosetta: Quindi quella sera lì loro a noi non ci hanno dato la tuta o altro, io non mi ricordo niente, mi ricordo però che sono venuti a prenderci al mattino e siamo andati al comando.

D: Il vostro babbo, è venuto anche lui con voi?

Mariuccia: Sì, quella notte lì, sì. Dopo lo hanno messo nella cella vicina, dove c’erano i cosiddetti prigionieri civili. Di nazionalità diversa, c’era lì uno di San Marino, per esempio, poi c’era un marocchino, poi c’era, ogni tanto, qualcheduno che stava lì magari due giorni, come Mike Bongiorno, che poi è andato via.

Rosetta: Io non l’ho visto.

D: A Bolzano, Mike Bongiorno?

Mariuccia: Sì, a Bolzano. E Mike Bongiorno è un illustre cafone. E adesso le spiego perché. Perché mio padre, che era un uomo molto aperto, aveva fatto amicizia con parecchie persone, tra le quali Virgilio Ferrari, alla liberazione lui, Virgilio Ferrari è diventato sindaco di Milano, e mio padre sindaco della liberazione ad Iseo.Allora lui gli ha scritto e si è congratulato, con questo dottor Virgilio Ferrari, e lui ha risposto. Come hanno fatto molti altri. Poi mio papà ha scritto anche a Mike Bongiorno, perché Mike Bongiorno aveva la dissenteria, ed i suoi compagni di cella lo aiutavano ad alzarsi e sedersi dal buiolo, ma dico, ma Mike Bongiorno non ha mai risposto, non ha detto: “Sì, mi ricordo che stavo male e mi avete aiutato”. Per dire la differenza tra le persone.

D: Poi vi hanno messo nel reparto celle, vi hanno fatto l’immatricolazione, vi hanno dato il triangolo, che era di che colore, il vostro?

Mariuccia: Verde.

D: Verde. Rosetta, il tuo numero te lo ricordi?

Rosetta: 4131.

D: Anche ad Ennio hanno dato un numero?

Rosetta: Sì, 4132.

Mariuccia: I triangoli sono questi. Quelli che sono riuscita a salvare.

Rosetta: Io avevo il 4131 ed Ennio il 4132, ecco.

D: Dove li mettevate questi?

Rosetta: Questi erano attaccati sulla tuta, sulla tuta blu con la croce di pittura ad olio dietro, così che da dietro era proprio come se si fosse in una specie di piccola corazza, perché resistesse ne avevano dato una quantità enorme.

D: Quindi vi hanno dato anche delle tute dopo, allora?

Rosetta: Sì, ci hanno dato una tuta e ci hanno portato via tutti gli abiti, abbiamo dovuto darli a loro gli abiti che avevamo, nostri, …

D: Tutto vi hanno portato via?

Rosetta: Sì, ci hanno portato via gli abiti, e…

Mariuccia: No, gli abiti non ce li hanno portati via.

Rosetta: Ma certamente Mariuccia, dopo io ti spiego.

Mariuccia: Io avevo il cappotto.

Rosetta: Dopo hanno dato qualcosa al bambino e poi hanno anche permesso che l’amico di mio padre portasse la roba che hanno mandato da Iseo al bambino perché il bambino non aveva una cosettina pesante, niente.

D: Quindi nella vostra cella c’era solamente la vostra famiglia? I componenti della vostra famiglia?

Rosetta: Sì, della nostra famiglia, eravamo in sei.

D: E tutto il giorno, cosa facevate lì a Bolzano?

Rosetta: Beh, i primi giorni, non so, non abbiamo fatto niente. Comunque io avevo chiesto alla Margherita, che era la prima moglie di Montanelli, una bella signora austriaca, che era incaricata di formare i gruppi di donne che andavano a lavorare. L’avevo pregata di mettermi negli elenchi perché lì non avrei saputo che cosa fare. E invece quando lei ha portato questo elenco al comando, il mio nome è stato cancellato. Hanno detto che io non potevo uscire a lavorare. Dovevo stare nel campo.

Mariuccia: Nessuno di noi poteva fare niente. Né io, né lei, né la signora Bonomelli, nessuno.

D: Quindi stavate nel campo tutto il giorno?

Rosetta: Sì, noi stavamo nel campo tutto il giorno, qualche volta…

D: Cioè, ma non tutto il giorno in cella?

Rosetta: No, potevamo… sì, ma non erano molto contenti se ci vedevano in giro. Noi ci andavamo, però stavamo un po’ attenti che in quei momenti non ci fossero vicino delle guardie.

Mariuccia: Guardi, nella prima cella c’era il capo campo.

Rosetta: Sì, nella prima cella c’era il capo campo.

Mariuccia: Ed il comandante Baccigaluppo della marina militare.

Rosetta: Ma dopo è andato via il comandante Baccigaluppo.

Mariuccia: È andato via dopo che sono andata via io, perché è sempre stato lì.

Rosetta: Ah, no, no, quando…

Mariuccia: Comunque era per spiegarle una cosa. Siccome lì c’era la sede del capo campo, aveva il diritto d’andare e venire a dirigere il campo, quindi il portone che dava sul cortile del Lager era sempre aperto di giorno. Veniva chiuso a chiave di notte. Come chiudevano a chiave di notte tutte le celle, ecco. Qualche volta non le chiudevano, ma per una pura negligenza, così qualche volta non la chiudevano. Ma nel novanta per cento dei casi chiudevano a chiave e si stava chiusi dentro. Fino a sera, si poteva anche parlare tra noi. Non so, c’erano dei giorni in cui chiudevano presto, degli altri in cui addirittura non chiudevano, questo non saprei dirle da che cosa…

D: Voi contatti però con gli altri deportati ne avete avuti?

Mariuccia: Moltissimi.

Rosetta: Sì, molti. Ma non con tutti insomma.

Mariuccia: Noi per esempio non potevamo mai andare, non avremmo potuto andare nei blocchi. Non ci siamo mai neanche azzardati ad andare nei blocchi degli uomini o nei blocchi delle donne. Io personalmente sapevo che era una cosa che non si poteva fare, ecco.

Rosetta: No, io sono andata due o tre volte nel blocco delle donne.

Mariuccia: Sì, ci sarai andata due o tre volte in sei, sette mesi, capirai.

Rosetta: Sì, sì, perché c’era uno lì, un nostro amico che lavorava nel reparto dell’elettricità e si era ammalato.

D: Lì a Bolzano?

Rosetta: Sì, lì a Bolzano. Ho visto, si chiamava Chiesa Federico. Era di Torino e la dottoressa Buffalini che era di Torino aveva mandato a chiamarmi e mi aveva detto: “Vai a trovare Chiesa che è ammalato, ha la febbre.” Allora io l’ho detto ad Hans, e lui mi ha permesso d’andare due minuti, mi ha detto: “Ti lascio andare due minuti, fai alla svelta”. Poi ci sono andata ancora altre volte, ma certo per pochi minuti perché non…

Mariuccia: Ecco, Pietro San, ecco un altro che mi ricordo. Me lo scrivo.

Rosetta: L’episodio bello che ricordo, non bello, insomma un episodio curioso, è la storia di mio figlio ed il fischietto. Un pomeriggio ho portato a spasso mio figlio intorno al campo.

D: Ma dentro al campo?

Rosetta: Sì, sì, dentro. Dentro. Poi quando stiamo per entrare nel corridoio delle celle, lui mi sfugge di mano e si mette a correre. “Fermati!” dico io, “Ma dove vai? Fermati! Guarda che adesso devi andare dentro, è tardi, fa freddo”. Lui invece d’ascoltarmi, continua a correre. Io sto un attimo a guardarlo e penso: “Beh, ritornerà. Farà il giro intorno all’edificio e poi verrà su dall’altro cortile dove fanno le adunate.” Nello stesso tempo sento un suono di fischietto, che era il suono classico che facevano le guardie quando c’era un’adunata. “Pfiii”, e poi dopo un momento, “Pfiii”, allora dico: “Ma Dio, quel bambino mi è scappato e adesso fischiano anche per un’adunata, bisogna che io vada a vedere che cosa è successo”.Intanto cominciavano ad uscire quelli che, non erano ancora tornati dal lavoro, ma quelli che lavoravano vicino, alcuni sono rientrati per dire: “Cosa succede? Sentiamo il fischio”. Insomma, si era fatta una bella folla di gente. Finalmente io sono riuscita ad acchiappare mio figlio, era lui che fischiava. Allora lì erano intervenute anche alcune guardie perché non capivano neppure loro che cosa stesse succedendo, allora io lo prendo e dico: “Dammi quel fischietto, ma che cosa ti viene in mente, ma hai visto che cosa hai fatto? Ma non sai adesso che cosa succederà? Vieni, andiamo nelle celle.” Allora lui si era reso conto che la cosa era veramente …, andiamo nella cella ed io dico: “Dammi il fischietto” “Non ce l’ho più” e faceva così con le mani. “Ma dove lo hai buttato?” “Non ce l’ho più”. Dopo dieci minuti è arrivato il maresciallo Haage con altri due tedeschi a volere il fischietto. Lui diceva “Non ce l’ho più. Non ce l’ho più”. Allora il maresciallo Haage è uscito ed ha ordinato di chiudere la cella. Te lo ricordi? Mio figlio si è messo ad urlare come un matto, “Scheisse, los”.

D: Era l’unico bimbo che c’era nel campo, di quell’età lì?

Rosetta: Sì, era l’unico bambino, penso che non erano molti i bambini ariani internati di quattro anni.

D: Ma quando siete arrivati voi, altri bambini non c’erano?

Rosetta: Sono passati alcuni, erano tutte bambine o bambini, quegli ebrei? Erano tre bambine.

Mariuccia: Sono state messe nella cella di fronte alla nostra con la mamma. Poi sono partite. Sono indicate anche nel libro che avete fatto voi. Le ho trovate indicate.

D: Quindi era l’unico bambino che c’era?

Rosetta: Era l’unico bambino, sì. E lì un accademico di Francia ha scritto per lui quella famosa poesia.

D: Un accademico di Francia che era deportato anche lui?

Rosetta: Sì, era un ebreo. Sì.

D: E ha dedicato questa poesia a Ennio?

Rosetta: Sì, carina, in francese logicamente.

D: Beh, certo.

Rosetta: Molto carina. Dopo la guerra siamo andate a cercarlo a Parigi.

D: E che cos’era quella riflessione lì, Mariuccia?

Mariuccia: Modestissima riflessione, dell’influenza che ha l’ambiente sulle persone, sui bambini. Mio nipote, che non aveva ancora cinque anni, s’era fatto, come modello, la figura del capo campo del Lager. Aveva voluto la fascia di capo campo ed era riuscito persino a rubare un fischietto per comandare le adunate, eccetera. Quello era il modello che lui aveva sotto gli occhi, il potere massimo che gli si presentava. Il massimo della felicità. Il capo campo oltre tutto andava fuori, faceva tutto quello che voleva ma soprattutto comandava, in quel luogo comandava.

D: Voi però dovevate comunque partecipare agli appelli?

Mariuccia: Noi non partecipavamo, a noi era proibito qualsiasi movimento che non fosse magari quello delle celle, a venti metri dalle celle. Tanto noi ci andavamo lo stesso, sa com’è? Si è anche un po’ incoscienti, e guardi, mio padre ha corso anche dei rischi, perché si affrettava sempre quando c’erano le partenze per farsi dare indirizzi, nomi, cose da scrivere alle famiglie. Si dava da fare in questo modo, tant’è vero che il maresciallo Haage lo ha picchiato per questo. Lo ha picchiato, gli ha dato due ceffoni perché aveva in mano un notes e scriveva quello che poteva, come poteva aiutare insomma, questi poveri disgraziati, lo faceva rischiando anche di suo. Rischiando la sua incolumità, perché lì non scherzavano, eh? Io sono sempre del parere che noi abbiamo evitato molti guai perché eravamo dei prigionieri speciali. La mia impressione è che noi fossimo un granellino dentro un ingranaggio bellico che era mille volte più grande di noi. Perché questo maresciallo Eisenstein che mandava il suo uomo a Firenze, forse si serviva di noi e ci proteggeva per avere in contro parte qualche cosa da parte degli alleati. Lei sa molto bene che il generale Wolff stava trattando la resa delle SS in Italia, no? All’insaputa di Hitler. Quindi si vede, nel patto tra gli alleati e le SS c’era anche quello di non fare rappresaglie e anzi di cessare le rappresaglie e magari di far vedere la buona volontà anche del corpo delle SS d’aiutare quelli che potevano essere aiutati. Questa è una cosa garantita, guardi. Ha visto poi l’articolo su Priebke? Dove c’è scritto che il tribunale aveva condannato mia sorella a trent’anni? Lo ha letto? Mi scusi. (Legge): Dopo quell’interrogatorio Agata Nulli non vide più Erich Priebke, dell’interrogatorio si parla sopra, ma il capitano delle SS si interessò ancora di lei, ed il 22 marzo 1945, poche settimane prima della liberazione, l’Hauptsturmführer scrisse dalla sede delle Gestapo di Brescia, in via Panoramica 10 al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato di Bergamo. La Nulli, diceva la missiva di Priebke scritta in tedesco, è confessa d’aver favorito i ribelli con alimenti e sigarette; inoltre ha distribuito foglietti caduti da aeroplani, il procedimento è stato trasmesso dalla Guardia Nazionale Repubblicana al Tribunale per il giudizio. Prego di comunicare, chiedeva Priebke, se la Nulli è stata processata ed a quale pena è stata condannata. Il tribunale le aveva inflitto trent’anni di carcere per favoreggiamento nei riguardi dei partigiani. A questa richiesta di Priebke il tribunale ha ufficialmente risposto che aveva avuto trent’anni di carcere per favoreggiamento dei partigiani. Quindi lei è stata processata e condannata a trent’anni, come appare da questa corrispondenza tra Priebke, che non è l’ultimo arrivato, e il tribunale di Bergamo. Quindi non mi pare una cosa da poco, però se noi fossimo state delle persone totalmente fuori dal gioco, avrebbero aspettato tre giorni a venire a prenderci, ecco. Per far dire che non eravamo totalmente fuori dal gioco, ho fatto presente che il papà era già stato arrestato dai fascisti, tu lo sai molto bene, in agosto, e l’Agata era già stata arrestata, era già a Brescia.

D: Però vostra sorella non è venuta nel campo?

Mariuccia: No, lei è sempre stata qui.

D: È sempre stata nelle carceri qui?

Mariuccia: Sì.

Rosetta: Sì.

Mariuccia: Loro hanno detto: “Prendiamoli tutti, così non c’è più nessuno fuori, non so”. Loro sono venuti ad arrestarci per quel fatto lì. È chiaro, poi ho anche aggiunto che siccome arrivare a quel posto lì non è tanto facile, le autorità comunali fasciste d’Iseo, hanno dato una mano. Se noi fossimo state persone qualsiasi, forse non s’interessavano neanche.

Rosetta: Probabilmente loro erano venuti per arrestare la moglie di Bonomelli ed il figlio, a prendere la moglie di Bonomelli ed il figlio di Bonomelli, siccome c’era lì dell’altra gente avranno detto: “Meglio che li portiamo via tutti, che sarà una cosa…”

Mariuccia: Sì, a me se mi lasciava a casa non mi faceva nessun dispetto.

Rosetta: Eh?

Mariuccia: Io non ci tengo ad avere titoli di martirio e d’eroismo, proprio non ci ho mai tenuto.

D: Ma dentro al campo, quando spiegavi che il babbo metteva in atto questa forma di solidarietà.

Mariuccia: Sì, poverino. Ma non ha letto le lettere di quei due ebrei sopravvissuti? Di quell’ebreo sopravvissuto? Quella è una testimonianza inequivocabile che quello che poteva fare là, lo faceva.

D: Avete trovato o conosciuto altre persone dentro nel campo?

Mariuccia: Madonna, io ne ho conosciute tantissime, di cui ho solo i nomi, ormai.

D: Tipo?

Mariuccia: Ma uno è questo Gurtler, poi l’elenco l’avevo dato alla signora, adesso l’ho lasciato a casa.

D: Ma così, a memoria?

Mariuccia: Mi ricordo Elmo Spreafico, quel Chiesa lì, Vittorio Duca, Ermando Sacchetta, tanti, guardi in questo momento mi sfuggono.

D: Con Vittorio Duca avevate stabilito un…

Mariuccia: Un vero rapporto di grande amicizia.

D: Che alla fine poi lui, che cosa ha fatto, vi ha dato?

Mariuccia: Io sono uscita prima, a lei ha dato, quando l’hanno mandata in Germania … e poi Vittorio Sereni, abbiamo conosciuto. Il capo comandante Baccigaluppo. I due fratelli Momigliano, Attilio ed Emilio Momigliano.

Rosetta: Vittorio Duca è arrivato, l’ultima partenza, perché dopo non è più partito nessuno.

Mariuccia: Altre persone di cui non ho conosciuto il nome ma che erano evidentemente persone di un’evidenza notevole, insomma persone di grande valore, professori universitari, studiosi, poi i nomi non me li ricordo più.

Rosetta: Abbiamo conosciuto don Gaggero, un prete di Bergamo, quello grande e magro.

Mariuccia: Don Vismara, don Berselli. Poi quando avevano ucciso il sig. Bonomelli, mio padre si è dato molto da fare, perché loro, i tedeschi, lo volevano seppellire nell’orto, lui è intervenuto e lo ha impedito.

D: Ma lì a Bolzano?

Mariuccia: No, qui a casa di mia sorella. Questo era antecedente.

D: Ecco Mariuccia, padre Gaggero, lui usciva dal campo?

Mariuccia: Andava a lavorare. Dopo io mi ricordo che ho scritto che non ero a conoscenza di un’attività clandestina d’aiuto ai deportati, non ero a conoscenza. Però so, da alcune vicende di don Gaggero, che lui era in contatto con qualcuno fuori che gli dava dei soldi e delle cose, per cui pigliava sempre, aveva preso un sacco di botte, era stato ridotto una palla, perché volevano fargli dire chi era che gli dava queste cose. E lui non lo ha mai detto. Io ricordo che ero molto ammirata dal suo comportamento, che passava, dopo lo hanno chiuso in cella, e lo facevano uscire e passava nel campo, io dallo spioncino lo vedevo passare con la faccia tutta livida e tutto zoppicante perché effettivamente era stato molto picchiato per quel motivo lì. Non saprei dirle altro perché non era molto opportuno andargli a parlare ad un certo punto.

D: Quindi c’erano anche sacerdoti dentro nel Lager?

Mariuccia: Eh, sì. Poi è entrato in prigione anche il parroco di Bolzano, che era quello che si diceva, si sapeva, che portava, non so se desse dei viveri o avesse dei contatti d’altro genere, o del denaro, non so. Non saprei. E io ricordo che mio papà rideva, perché diceva: “Tu vedrai, me lo diceva in dialetto, vedrai quanto tempo passerà prima che entri dentro anche quell’altro prete che gli dà i soldi”. Perché poi le cose si sapevano, in maniera trasversale, come dicono, si sapeva che don Gaggero usciva a lavorare, che c’era un prete che gli dava dei soldi da dare ai prigionieri, e si sapeva che anche quello là un bel giorno sarebbe entrato dentro, e difatti così è stato. Non so altro perché poi, ripeto con don Gaggero quando era in cella e veniva fuori a fare la passeggiata, non si poteva parlare.

Rosetta: Io don Gaggero l’ho visto dopo. A Genova. Apparteneva ad un ordine sacerdotale.

D: Erano i Filippini di Genova.

Rosetta: Erano i Filippini di Genova, ecco, io sono andata alla chiesa di San Lorenzo a Genova e l’ho incontrato.

D: Sì, ha anche subito un processo.

Mariuccia: E’ uscito dalla Chiesa, diciamo ufficiale, ed ha fondato un movimento che allora ha avuto anche molto seguito. Poi è scomparso.

D: Sì, sì, era stato a Praga, eh, ma è stato per due anni poi a Roma perché il Sant’Uffizio lo aveva processato.

Mariuccia: Sì, sì, ma era un tipo molto originale, non era un uomo comune.

D: Mi sembra che era anche vivace.

Mariuccia: Io lo avevo notato come una personalità spiccatissima e diversa da tutte. Forse era la personalità che mi ha colpito di più di tutti gli uomini che ho conosciuto nel campo.

D: Rosetta? Ah, no, sta prendendo un appunto. Se no si dimentica.

Rosetta: No, no. Mi dica.

D: Quindi avete conosciuto queste persone qui, contatti quindi all’interno del campo però, all’interno del Lager di Via Resia, c’era un movimento diciamo così, resistenziale? C’erano delle persone che si davano da fare, che aiutavano gli altri?

Mariuccia: Ah, questo sì.

Rosetta: Ma aiutavano in che senso?

D: In tutti i modi, magari anche conforto, perché stare in un Lager non penso che sia la cosa più bella di questo mondo. Cioè essere privati della propria personalità, per esempio, il fatto di non essere più una persona ma di essere un numero.

Rosetta: Io le dico sinceramente che ho assistito a certe scene di litigi proprio per delle cose, delle cattiverie.

Mariuccia: Beh, questo sì.

Rosetta: Di cose veramente, che mi sembrava che il senso della solidarietà non fosse per niente diffuso, ecco.

D: Ah, no?

Rosetta: No, no.

D: Cioè?

Rosetta: Sì, se uno aveva un pezzettino di pane e vedeva un altro in parte che stava crepando di fame, sarebbe stato molto difficile, perché comunque noi abbiamo vissuto un po’ fuori da quei giorni lì.

Mariuccia: Però le dirò anche che gli spazzini per esempio, che ad un certo punto erano quasi sempre ebrei, e ad un certo punto i capo cessi che erano i due fratelli Momigliano, desideravano ardentemente tutti di venire a fare gli spazzini nel nostro corridoio perché lì beccavano qualche cosa, gli si dava qualche cosa di quello che avanzava a noi o un goccio di caffè, poi se avevano bisogno d’aggiustare le mutande o qualche cosa di simile, la mia mamma, la signora Lina, si faceva quello che si poteva, insomma.

Rosetta: Anche la sottoscritta.

Mariuccia: Noi facevano quello che potevamo, potevamo fare molto poco, ma…

D: Lì c’era una donna?

Rosetta: Una iena, la chiamavamo la iena.

Mariuccia: E la Marge, dov’era la Marge? Io ho segnato nei miei appunti una certa Marge.

D: La iena? C’era la iena, la Tigre lì, no? E poi c’era anche un’italiana, piccolina, che era un capo baracca.

Rosetta: La capo blocco? Beh, ma la capo blocco era un’internata italiana.

Mariuccia: Io non me la ricordo.

D: No?

Rosetta: Anch’io non me la ricordo molto, io ricordo molto la Montanelli, perché ci s’incontrava.

Mariuccia: Sì, quella piccolina, ha ragione.

Rosetta: Quella piccolina.

Mariuccia: Mi farò venire dalla nebbia della memoria qualche …

D: Cicci, si chiamava.

Mariuccia e Rosetta: Ah, la Cicci, la Cicci.

Rosetta: Ma c’è ancora? Vive ancora?

D: Ed ha sposato il capo campo maschile.

Mariuccia: E chi era, Maltagliati?

D: No, Gigi Novello.

Rosetta: Ah, il Gigi Novello.

Mariuccia: Anche quel Novello lì me lo ricordo, io.

Rosetta: Gigi Novello, ah, è un amore che è sorto nel Lager?

D: A San Vittore, prima del Lager.

Mariuccia: Eh, ma Gigi Novello ha fatto il capo campo per pochissimo, io non l’ho mai visto capo campo, il Gigi.

Rosetta: Comunque, ma lei sa che da lì, dal Polizei Durchgangslager di Bozen, alla metà di marzo, sono state portate via diciannove donne perché erano incinta di quattro mesi?

Mariuccia: Robe da pazzi.

D: No, questa cosa non…

Rosetta: Questo mi ricordo, dunque li troverò, perché quel coso di appunti…

Mariuccia: Che fine abbiano fatto non si sa.

Rosetta: Hanno detto che le portavano in un ospedale a Merano.

D: Più o meno, il periodo quand’era, Rosetta? Quando è avvenuto, questo?

Rosetta: Questo deve essere avvenuto, era ancora marzo, deve essere stato, non so, poco prima o poco dopo la metà di marzo. A me hanno detto che erano in diciannove, facciamo anche fossero nove, però questo è veramente successo, io ne conoscevo tre o quattro di donne incinte ed una era la figlia di quella di Vicenza, ti ricordi quella signora anziana di Vicenza che era dentro con la figlia, anche loro come ostaggi?

Mariuccia: No. E quella di Piacenza, come si chiamava quella di Piacenza zoppa?

Rosetta: Ah, quella di Piacenza zoppa.

Mariuccia: Era un personaggio, che poi ha fatto carriera nel Partito Comunista.

Rosetta: Ma non avevate mai sentito questo, che c’erano le donne incinte?

D: No.

Rosetta: No, no, guardi, glielo assicuro proprio.

D: Non si sa che fine abbiano fatto?

Rosetta: Io so che queste donne sono uscite, hanno detto che sarebbero andate all’ospedale, ecco. E poi un giorno sono state portate all’ospedale, mi sembra perfino ai primi di marzo? Perché insomma faceva ancora freddo, qualcuna non stava bene, e così, dopo, di due sono sicura, perché me lo hanno detto loro che erano incinte e sono andate, una era questa, mi verrà in mente il nome del paese, lì delle vicinanze…

D: Voi vi ricordate un trasporto che dal campo sono partiti con un camion?

Mariuccia: Beh, ma partivano sempre con il camion.

D: Ah, sempre con il camion?

Mariuccia: Io li ho sempre visti con i camion.

Rosetta: Perché li portavano alla stazione poi quelli che partivano, no?

D: Ecco, lì invece dovevano partire con il trasporto della stazione, poi invece Pippo aveva bombardato, e allora lì non hanno fatto più il treno, e c’è questo camion con su delle persone, portate ammanettate e non si sa più che fine abbia fatto questo camion. E c’era anche un sacerdote su questo camion, che era anche lui claudicante, aveva una malformazione ad una…

Mariuccia: Un sacerdote?

D: Un sacerdote di Padova era.

Mariuccia: Non si ricorda il nome?

D: Sì, me lo ricordo sì.

Mariuccia: Il nome?

D: Don Placido, si chiamava.

Rosetta: Io non mi ricordo.

Mariuccia: E si ricorda in che data?

D: Lui è stato preso a Padova.

Mariuccia: In che data è stato questo camion? Perché noi vedevamo i camion partire, poi dopo non si sapeva se partivano o non partivano per la Germania.

D: Don Gian Antonio Cortese, si chiamava.

Mariuccia: Si sapeva solo che non erano partiti quando era interrotta la linea ferroviaria, dopo dove andassero i camion, perché tornavano indietro, … nel campo.

Rosetta: Questo senz’altro lo saprete anche voi, che poi lì in quel campo lì, verso la metà di marzo, non era più partito nessuno, eravamo dentro in 3.250, perché neppure con i camion potevano partire.

Mariuccia: Non potevano più partire.

Rosetta: La linea ferroviaria era interrotta, ed andare in giro con i camion così con su i prigionieri era pericoloso, eh?

Mariuccia: C’era un sacerdote zoppo, quello me lo ricordo io. Piccolo di statura.

D: Mariuccia, cos’è un Lager?

Mariuccia: Ah, santo cielo, mi fa una domanda molto difficile, perché il Lager comunemente è un posto dove uno va, chiuso dentro in mezzo al … non è più una persona, è un oggetto a disposizione di qualche d’uno d’altro, però soprattutto per me un Lager è una prigione psicologica, è l’annullamento della personalità, la privazione dei propri diritti, non dico i diritti del vivere, del mangiare, del dormire, ma dei diritti di essere se stessi. E di vedere gli altri essere persone.

D: Per una donna un Lager cos’è? Cos’è stato per una donna un Lager?

Mariuccia: Per me il Lager è la negazione della vita, siccome io la vita l’intendo non solo in senso materiale, prima di tutto è la negazione della vita in senso materiale e poi la negazione della vita in senso spirituale, totale proprio, e questa è la cosa secondo me più terribile, è quella dalla quale dobbiamo guardarci molto di più che da tutte le privazioni di tipo materiale. Sa poi, involontariamente si fa della retorica quando si parla di queste cose, perché sono argomenti pesanti, se uno non usa parole pesanti forse non viene neanche capito. E poi per me il Lager è anche una forma d’interiorità deviata. Mancanza d’amore della verità, mancanza d’amore della libertà, mancanza di consapevolezza, tutte queste cose, che ci possono non essere prima e succedere dopo, cioè venire dopo. Comunque il Lager è una cosa orrenda, diciamo. È proprio l’ombra del buio, come avete scritto voi nel vostro libro.

D: Vi ricordate in aprile la celebrazione della messa per la Pasqua, nel Lager?

Mariuccia: Io mi ricordo la celebrazione della messa, che si faceva sotto le ultime celle in fondo, nella vostra piantina sono ben indicate.

Rosetta: Sì, qualche volta hanno celebrato la messa.

Mariuccia: E mi ricordo, me lo ricordo perché ho scritto una lettera, nella quale descrivo questa celebrazione della messa, che è avvenuta così, noi eravamo andate là e c’era parecchia gente, perché la celebrazione della messa anche per uno che non è credente, in un Lager acquista un significato, un significato come dire di contatto umano fuori dalla prigione, fuori dall’imposizione, fuori dalla consuetudine negativa che ti comporta l’essere nel Lager. Eravamo in tanti, avevamo deciso di cantare, di cantare la messa. E invece nessuno è riuscito a cantare la messa perché si è visto come una specie d’emozione inibitrice che ha impedito alla gente, era poi la prima che si faceva, di cantata, poi le altre messe non le abbiamo cantate perché in quelle celle mettevano i prigionieri che poi venivano picchiati o torturati e molto spesso c’erano dei lamenti e delle urla che non facevano sentire neanche la celebrazione.

D: Come si chiamava il prete celebrante?

Mariuccia: Io non mi ricordo, me lo aveva detto lei, veniva da fuori, mi pare. Si chiamava Piola.

Rosetta: Lei ha chiesto della messa che hanno celebrato in aprile?

D: A Pasqua del ’45, c’è stata una funzione religiosa, sulla piazza dell’appello.

Mariuccia: La Pasqua, l’aprile del ’45? Io non c’ero.

Rosetta: Sì.

D: Vi ricordate?

Rosetta: Sì, me la ricordo. Sì, avevano fatto un altare che voltava, il celebrante voltava le spalle alle celle.

Mariuccia: Allora il rito era così.

Rosetta: Poi i particolari, ricordo vagamente.

D: Come facevate a sapere le informazioni dall’esterno, voi eravate al corrente d’informazioni dall’esterno?

Mariuccia e Rosetta: Sì, le chiedevamo a quelli che uscivano a lavorare.

D: E poi c’era, non so, una stampa clandestina dentro?

Mariuccia e Rosetta: Io non l’ho mai vista.

Mariuccia: Guardi, secondo me il motivo è che quello non era un Lager dove la gente si fermava, cioè era impossibile organizzare qualche cosa di consolidato, perché andavano e venivano, c’erano le partenze, e quando ormai non c’erano le partenze c’era una tale confusione di persone, ed anche un numero così eccessivo di persone che era impossibile insomma, secondo me, organizzare una cosa d’informazioni. Noi avevamo i nostri informatori privati, per esempio i falegnami, sapevamo quando c’era qualche morto perché venivano da mio papà e dicevano: signor Nulli, oggi abbiamo fatto cinque casse.

Rosetta: Palmiro, un falegname milanese, si chiamava Palmiro.

Mariuccia: Palmiro?

Rosetta: Sì.

Mariuccia: E veniva da mio padre e diceva “Signor Nulli, oggi cinque casse”. “Oggi tre casse”. Per questo che sappiamo che c’erano state o delle esecuzioni o delle morti naturali.

D: Ah, ecco, morti naturali, no, però?

Rosetta: No, ce ne sono state.

D: Anche morti naturali?

Mariuccia: Anche morti naturali, però.

Rosetta: Le due ebree delle celle che sono state fatte morire.

Mariuccia: Beh, ma quella non era una morte naturale, quella è stata un’esecuzione.

Rosetta: No, sono morte di broncopolmonite.

Mariuccia: Sì, va beh. Però ci sono state anche delle morti naturali, secondo me, gente vecchia, io non lo so, penso che ci fossero state, però le notizie delle casse si riferivano sempre a qualche prigioniero scomodo o che aveva dato dei problemi o che era lì per essere eliminato. C’erano perché mio padre, un giorno sì e un giorno no, riceveva la notizia dai falegnami che avevano fatto le casse. Sono sicurissima.

Rosetta: Ma questo d’un giorno sì e un giorno no, mi sembra un po’ esagerato.

Mariuccia: Loro venivano a dare le notizie, dopo fosse un giorno sì e uno no, o una settimana, non mi ricordo, so che venivano lì perché avevano confidenza.

Rosetta: E si vedevano anche le casse che uscivano fuori dalle celle, erano delle casse fatte di legno, una specie d’assi, ma non una parete completa, erano delle listarelle larghe, alte quattordici centimetri, e si vedevano, le portavano fuori dal Lager.

Mariuccia: Allora i falegnami le fabbricavano, dopo io non so dove andavano a seppellire queste gente.

Rosetta: E si vedevano, le portavano fuori dal Lager.

D: Dicevo questo perché, ad esempio in alcuni Lager abbiamo sentito che avevano organizzato per esempio Radio Scarpa no? Riuscivano a mettersi in contatto con la radio, avevano fatto una radio a galena, eccetera, a Bolzano questo non era successo?

Mariuccia: Io dico che il motivo è semplicemente questo, ed è anche più serio per il fatto che lì c’erano personalità della Resistenza che non rivelavano la loro vera identità, ed è giusto, quindi non si sarebbero di sicuro compromessi ad organizzare una Resistenza in un Lager; una Resistenza, diciamo un servizio di formazione, la chiami come vuole, gente che era già in bilico, che non voleva essere riconosciuta.

Rosetta: E poi al mattino quando uscivano queste squadre di lavoro guardi che il Lager si svuotava completamente, eh?

Mariuccia: Andavano tutti a lavorare.

Rosetta: Andavano fuori a lavorare nelle gallerie per fabbricare le bombe degli aerei, oppure le …

Mariuccia: Non so cosa facessero, facevano le traversine delle ferrovie.

Rosetta: Ed anche bombe, c’erano delle gallerie dove si facevano delle munizioni di vario genere, bombe a mano, questo lo dicevano quelli che andavano a lavorare, e quindi dalla mattina, perché poi a questi, a mezzogiorno, il rancio glielo portavano sui posti di lavoro. Alcune volte, in casi eccezionali, ma forse se c’era, non so, ogni tanto facevano un’adunata per qualche comunicazione, ma deve essere successo pochissime volte, comunque questa gente partiva alla mattina alle sei e mezza, sette e dopo ritornava alle quattro e mezza.

Mariuccia: Quello che non ricordo è se andavano a lavorare anche nei giorni in cui c’erano le partenze per la Germania. Quello non me lo ricordo.

Rosetta: No, nei giorni in cui c’erano le partenza per la Germania, non usciva nessuno.

D: Con che frequenza venivano fatte queste partenze per la Germania?

Mariuccia: Ah, io dico ogni quindici giorni, inizialmente.

Rosetta: Dieci, quindici giorni.

D: Cosa succedeva? Chiamavano i numeri?

Rosetta: Adunavano tutti e poi chiamavano.

Mariuccia: E poi al controllo, io non so come facevo ad essere lì, io ho visto come facevano ad organizzare la partenza. Loro facevano, schieravano tutti i prigionieri nel recinto, davanti al blocco delle donne, quello più vicino al cancello. C’era un tavolino, fuori dai reticolati, liberi così, c’era un tavolino come questo, qui c’era seduto uno con una penna, io adesso non ricordo se era un qualsiasi esecutore materiale, scribacchino. E qui c’era il maresciallo Haage. La persona seduta chiamava il numero, il numero chiamato usciva, si presentava davanti al tavolino con il suo fagotto, il maresciallo Haage gli dava due sberle e poi lo mandava dall’altra parte.

Rosetta: Venivano chiusi tutti, questi che partivano, in un blocco che veniva vuotato.

Mariuccia: Ma prima di partire li mettevano lì, li schieravano, li ho visti io.

D: Quindi uomini e donne.

Mariuccia: È chiaro che prima, per farli andare sul camion li dovevano pur far uscire dal blocco. E facevano questo appello, io non so che significato avesse, e mi ricordo che mi faceva un’impressione spaventosa la forza di quest’uomo che stava lì a dare duecento, centocinquanta, centosessanta sberle alla gente, ma deve avere una forza da leone, perché l’ho visto. Non è che l’ho visto tutte le volte, l’ho visto un paio di volte.

D: Uscivano a piedi dal campo?

Mariuccia: No, no, venivano caricati sui camion. Ed un altro particolare che le dico io, che ho visto con i miei occhi, le poche cose che ricordo, non sono per niente eroiche, le pedate nel sedere che davano agli ebrei per farli salire. Io pensavo, penso fossero ebrei, perché uno di quelli presi a calci nel culo si chiamava Levi. E suppongo che anche gli altri, che come lui venivano fatti salire sui camion a pedate, fossero ebrei, perché alcuni sapevo che erano ebrei, perché come dico, delle volte venivano lì nel nostro corridoio a dire il loro nome, mio papà prendeva il nome, a dire la loro famiglia, e così via dicendo. E questo Levi, uno piccolino così, aveva detto d’essere l’unico sopravvissuto, che i suoi familiari erano già stati deportati e non sapeva più dov’erano. E quello lì lo hanno fatto salire proprio a calci nel culo, sul camion, questo l’ho visto con i miei occhi.

D: Dentro nel campo poi c’erano delle officine, no? Si lavorava all’interno del campo.

Mariuccia: Sì, c’era la lavanderia, c’era la falegnameria, c’era il magazzino, non so se ci fosse l’officina meccanica, quello non me lo ricordo.

Rosetta: C’era tutto quello che si riferiva all’elettricità, dove si aggiustava, si facevano dei lavori per quelli della Gestapo, aggiustavano le loro radio, tutte le apparecchiature.

Mariuccia: Gli elettricisti. Credo ci fosse anche una specie di sartoria, o guardaroba, dove aggiustavano la roba.

Rosetta: Sì, c’era la sartoria, sì. Ho lavorato anch’io una settimana.

D: In sartoria?

Rosetta: Sì, dopo mi hanno proibito di farlo.

Mariuccia: Per fare qualche cosa, perché era micidiale non fare niente.

D: Certo.

Mariuccia: Adesso che hanno riaperto il processo Priebke sono venuti a cercare informazioni di tutti i tipi.

D: Da voi?

Mariuccia: Sì, perché pare che tutte queste vicende fossero in parte anche connesse con il caso Priebke.

D: Ho capito.

Mariuccia: Perché questo Priebke, secondo me, anche lui era un agente segreto alla fine. Erano tutti, diciamo, sospetti di connivenza con gli alleati, a loro premeva di salvare la pelle, di salvare il loro corpo dalle SS. Quindi bisogna orientarsi su questa mentalità.

D: Dicevo, Mariuccia, la liberazione quando è arrivata?

Mariuccia: Ma io sono stata scarcerata, mi hanno chiamata al comando, 4134, è venuto Haage in cella e mi ha detto: “Nulli Maria, nacht Verona”. Io ho detto “Cosa mi portano a Verona”, perché erano i primi di marzo, “cosa vado a fare a Verona?” Niente, mi hanno messa su un camion, questa è la mia, dopo la sua la racconterà lei, alle due del pomeriggio. Alle quattro di mattina siamo arrivate a Verona, ma io avevo capito, su quel tragitto lì, perché ci siamo fermati non so dove, in mezzo a due soldati, che c’era già un’aria di sfacelo. Si vede che loro avevano paura dei partigiani, non so, andavano, siamo arrivati alle quattro di mattina a Verona, ma non siamo entrati in città. Siamo stati molto lontano. Mi hanno fatto portare una cassetta di munizioni, e mi hanno fatto andare, io non ce la facevo, avevo la febbre, mi hanno fatto entrare in una specie d’ufficio, dove c’era un nanerottolo così, quelli dell’ultima ora, un giovincello, che ha cominciato a dirmi: “Partisan, partisan”. Io ho detto di no, “No partigiano, sono un ostaggio”. Ed ha cominciato a sfottermi perché io studiavo filosofia e mi diceva: “Solo Germania grande filosofia”. Mi ha fatto un effettaccio, poi niente, mi hanno mandata giù nelle celle e mi hanno lasciata lì. Non so, tre, quattro giorni, non diceva niente nessuno. Io chiedevo di questo Eisenstein e nessuno mi diceva niente, poi ad un certo punto hanno aperto la porta, io sono andata con una, il biglietto non ce l’ho più, con una scritta nella quale c’era che io dovevo presentarmi tutte le mattine alla SS di Brescia, dove c’era questo Leo, una cosa che per me era totalmente insensata, e cosa che io facevo tutti i giorni, perché mi premeva di stare tranquilla. Ecco, questa è stata la mia liberazione.

D: Mentre invece la vostra, Rosetta?

Rosetta: La nostra è avvenuta…

D: Quindi Mariuccia è partita.

Mariuccia: Io sono partita, ho qui due lettere che ho scritto a loro, ma che non sono mai arrivate.

D: Mariuccia è partita e voi vi siete trovati soli in cella?

Rosetta: Soli per modo di dire, perché eravamo ancora in cinque.

D:Della famiglia?

Rosetta: Sì, della famiglia.

D: Cioè non vi hanno dato motivazioni del perché Mariuccia era stata mandata a Verona?

Rosetta: No, no, mai. Niente.

Mariuccia: Che poi a me avevano detto che poi avrebbero liberato anche loro, presto, entro un mese, avrebbero liberato anche loro, mi dicevano così. Però mi chiedevano di collaborare, di dire se sapevo dove erano i Bonomelli, di andare nelle Ausiliarie, insomma mi facevano delle cose che non avevano senso, perché dopo un mese e mezzo è finita la guerra. Si preparavano il terreno per non farsi ammazzare, secondo me.

Rosetta: Dopo il 20 di aprile abbiamo visto che sul camminatoio intorno piazzavano delle mitragliette in più, chiedevamo a quelli che uscivano che cosa succedeva, “Ah, niente”, dicevano, “niente, noi vediamo sempre i tedeschi e qui ci sono sempre i tedeschi”. “Ma cosa dicono sui giornali?” “Ma”, dice, “dove andiamo a lavorare noi ci sono dei giornali tedeschi, ma non si sa niente. Dicono che resistono.” Verso il 23 o il 24 aprile non è più uscito nessuno a lavorare, più nessuno. Si faceva però sempre la solita adunata della mattina, la prima sirena, la seconda sirena, eccetera, però bisognava stare molto, ma molto chiusi, si poteva uscire solo un paio di volte, anch’io con il bambino non potevo andare in giro come facevo prima. Ci aprivano poco la porta in fondo alle celle, si poteva stare lì nel corridoio. Il 29 aprile era domenica, perché l’ho proprio scritto. Verso le quattro sentiamo che si apre la porta in fondo, passi un po’ pesanti, e si spalanca la porta della cella e c’è il maresciallo Haage e dietro due soldati, me lo ricordo benissimo perché uno aveva in mano sulle due braccia i vestiti, e l’altro aveva un secchiello dove c’erano dentro le nostre scarpe. Allora ci dicono di vestirci,l’interprete dice: “Vestitevi che andate al comando”. Lì nella cella di fronte alla nostra, non mi ricordo più chi c’era dentro, qualcuno che ha assistito dallo spioncino alla scena e ci diceva: “Non muovetevi, ma dove andate? Ma non sapete che vi fanno fuori? Non andate, non dovete uscire.” Comunque i soldati hanno aspettato, quando noi ci siamo rivestiti con le nostre cose, hanno preso le tute e ci hanno accompagnati al comando, e siamo andati su al comando, c’era il maresciallo Thito, siamo andati dentro ed ha fatto una carezza a mio figlio sulla guancia, lui tutto, è stato molto contento, e poi ci ha dato il foglio di scarcerazione a ciascuno di noi e ci hanno messo fuori dalla porta. Allora noi, insomma anche sollevati da un lato, perché dicevamo: “Va beh, ci hanno lasciato così, senza neanche una lira in tasca, senza sapere neanche dove siamo esattamente comunque adesso vedremo”. Noi eravamo convinti che andando per esempio a Bolzano avremmo trovato non so, i liberatori dell’Italia, ed invece ci siamo accorti che lì c’erano tutti tedeschi, tutti, tutto era ancora occupato.

Mariuccia: È per quello che vi hanno dato il foglio di scarcerazione.

Rosetta: Eh beh certo, però avevamo anche paura di far vedere quel foglio di scarcerazione nei quattro giorni che abbiamo impiegato per arrivare a casa, e caspita…

D: Con cosa siete arrivati a casa?

Rosetta: Con i mezzi un po’ di fortuna, mezzi di fortuna e parecchia strada a piedi, ti faccio vedere dov’è Mori?

Mariuccia: Sì, l’ho visto, ho guardato sulla cartina.

Rosetta: È a 12 chilometri da Riva.

D: Tra Rovereto e Riva del Garda, Mori.

Rosetta: Sì, tra Rovereto e Riva del Garda ma più vicino a Riva del Garda che a Rovereto.

Mariuccia: Ma non passa la ferrovia, da Mori, però.

D: Sì, passa.

Rosetta: Sì, passa.

Mariuccia: La ferrovia Verona – Brennero passa da Mori?

Rosetta: Anche la strada passa, andando in macchina vedi che c’è scritto Mori. Sì, anche sull’autostrada c’è l’uscita.

D: Quindi avete fatto tutto il viaggio…

Rosetta: Prima siamo andati all’Aprica, con l’idea di dire che forse là all’Aprica, alla Mendola, oh, mi scusi, alla Mendola, con l’idea che alla Mendola, pensavamo che dopo, allontanandoci dalla Mendola avremmo trovato il sistema per andare a casa. Invece lì alla Mendola abbiamo visto che non c’era niente da fare. A parte il fatto che mio padre non voleva neanche che io fermassi i camion con i tedeschi, perché diceva “No, non li devi fermare, non devi farti prendere su, non devi fare niente.”

Mariuccia: Eh, sì, aveva ragione.

Rosetta: Poi dalla Mendola siamo tornati a Bolzano, a Bolzano ci siamo incamminati verso Trento, appena uscita da Bolzano un camion tedesco era fermo e lì c’era un tedesco che parlava italiano, sì insomma parlava, allora io ho detto: “Non potrebbe portarci un pochino in giù che siamo qui”, eccetera, però mio padre mi diceva: “Non fargli vedere il foglio di scarcerazione, eh?” Allora lui ci ha caricati e ci ha portati ad una decina di chilometri da Trento. Poi siamo arrivati, intanto era venuta sera, lì ci siamo internati dentro e abbiamo dormito in un cascinale, ci hanno lasciati dormire in una specie di veranda semi vuota, ma un freddo dell’accidente, perché non avevamo neanche niente per coprirci. La mattina ci siamo alzati presto, e sempre all’interno, siamo andati verso Rovereto. È stato a quel punto che abbiamo visto che c’era, tutto il territorio intorno, dove non c’erano più soldati. I tedeschi non c’erano più. Abbiamo incontrato soltanto una pattuglia di tre persone ed era la cosiddetta terra di nessuno. Attraversato questo abbiamo dormito lì vicino a Rovereto in un monopolio, in una specie di fabbricato dove c’erano i monopoli, c’erano le sigarette, che non c’erano più, sale e quella roba lì. Lì c’era parecchia gente che dormiva, anzi qualcuno ci ha anche dato una copertina per coprire mio figlio e la mattina del giorno dopo da lì abbiamo camminato e siamo arrivati a Mori, e quindi eravamo al 3 di maggio. A Mori il prete ci ha permesso di dormire in una sacrestia, ma è stata una nottata terribile, perché si sentivano delle cannonate ininterrotte e poi verso le tre o le quattro di notte come uno scalpiccio continuo di piedi, perché questa chiesa è quella che si vede passando; c’è un campanile, lì a Mori, provi a guardare, lei vede una chiesa che adesso è stata ritinteggiata di bianco, e vicino c’è un piccolo fabbricato che era la sacrestia, allora mi sono alzata e ho visto che lì passavano i tedeschi, proprio come si vede nei film, con le giacche aperte, disarmati, e si stavano ritirando. Sono andati avanti, per parecchie ore, saranno state le tre, le quattro del mattino, poi verso le sei e mezza o le sette, ci siamo incamminati, abbiamo detto “Andiamo a Riva”, arrivati dopo un paio di chilometri da Mori invece non si poteva più passare, cioè si poteva passare ma bisognava andare a fare un giro, siamo rimasti lì. Ad un certo punto, dalla parte opposta di questo cratere che oramai era un cratere enorme, abbiamo visto due camionette americane. Allora questi hanno fatto, una è venuta giù perché era un cingolato, e l’altra invece ha fatto il giro e ho detto: “Basta, adesso non andiamo più a piedi”. Infatti sono venuti lì, e allora abbiamo tirato fuori i nostri fogli di scarcerazione, ma quei due bei ragazzi lì americani, hanno preso, sulla camionetta, mia madre, mia suocera e mio figlio, ed io e mio padre ci hanno lasciati lì e ci hanno dato il nome della caserma dove potevamo andare a rintracciare mia suocera, mia madre e mio figlio e se ne sono andati. Noi siamo arrivati a Riva verso l’una o le due del pomeriggio, a piedi, insieme a tutta l’altra gente.

D: Quando vi siete ritrovati, poi?

Rosetta: Al 4 maggio ad Iseo.

D: Ad Iseo?

Mariuccia: Eravamo io e mia sorella che era uscita al 25, mi pare.

D: Dalla prigione?

Mariuccia: Dalla prigione, eravamo andate su in campagna dove eravamo poi in quel posto là perché c’era un casotto ad Iseo e ci hanno detto di venire a casa che erano arrivati.

D: Invece tuo marito?

Rosetta: Mio marito lo hanno lasciato andare quando hanno firmato il trattato di pace.

D: Perché lo avevano riarrestato?

Rosetta: No, no, no, mio marito aveva passato le linee e si era ripresentato un’altra volta al suo comando.

D: Ah. Lui sapeva che eravate a Bolzano?

Rosetta: Sì, lo sapeva perché quando lui è andato nelle montagne, a Piacenza, si è rivolto ad un sacerdote che si chiamava Bonomelli. Questo sacerdote gli ha detto: “Vai in questa località, con questo biglietto, vedrai lì c’è una formazione partigiana e loro potranno metterti in contatto con il tuo comando”. Lui è andato lì, si sono messi in contatto con il comando ma il comando ha dato subito ordine di tenerlo chiuso. Perché, caspita…

Mariuccia: Poteva anche essere una spia. Ma è successo anche a me, sa? Ah, ecco, questa è una cosa che mi ero dimenticata.

D: Cioè?

Mariuccia: Io sono andata dalla Magda, quando sono uscita, treni non ce n’erano, sono stata lì una notte o due a dormire. Lei aveva un amico che era un socialista, e mi ha detto: “Come mai tu sei uscita? Fammi un favore, fammi una relazione.” Io ho fatto una relazione, e quello tergiversava. Insomma pensavano che io fossi uscita prima perché avevo aderito a qualche …

Rosetta: Ah, sì, certo.

Mariuccia: Un altro particolare che mi viene in mente, quando il maresciallo Haage è venuto a dire “Nacht Verona”, il capo campo, era Alfi, è venuto lì con dei bigliettini, ti ricordi?

Rosetta: Sì.

Mariuccia: E me li aveva fatti cucire nella cintura, perché la paura che avevano loro era che alla liberazione del campo li mitragliassero tutti. Allora lui mi detto: “Tu fai così, qui non si può avere contatti con nessuno, allora vai a Venezia, vai dal tale”, un tizio che si chiamava Battistella, “il quale ti indirizzerà”, non so poi perché avrei dovuto andare fino a Trieste, “dal direttore del manicomio di Trieste che è in contatto con …” Non so. Io diligentemente sono sfuggita ai controlli delle SS che poi dopo mi hanno mandata a chiamare, perché dicevo “Devo andare a fare un esame a Milano”, facevo finta di andare a Milano e con mezzi di fortuna sono andata a Venezia, con questi biglietti che dovevano essere recapitati a chi veniva poi a difendere qui, penso io, il campo. Tutte robe che si fanno da giovani perché non si pensa alla stupidità delle cose che si fanno, comunque io ho rischiato di mio perché sono saltata sui camion, ho preso i bombardamenti, sono andata a Venezia, lì mi sono trovata sola, senza soldi anch’io, non sapevo cosa fare, sono andata da questo Battistella il quale non ha voluto assolutamente saperne di ricevermi. E dopo, non so come, da Iseo, attraverso mia cognata Magda e mio cognato che lavoravano a Verona, nell’Ufficio Tecnico Erariale, mi hanno detto di tornare immediatamente perché quelli delle SS mi avevano cercata. E qui finisce la mia storia. Perché le persone a cui io a Trieste avrei dovuto consegnare quello che mi avevano messo dentro nella cintura erano state uccise tutte. Dopo io non ho più pensato d’andare a sentire com’era questa storia, ma mi sarebbe piaciuto sapere che fine avevano fatto questi personaggi.

Rosetta: E quel Battistella?

Mariuccia: E quel Battistella lì, antipatico, io non sono più andata a cercarlo. Perché se fossi andata a cercarlo gli avrei detto: “Ma lei è un imbecille, è un cretino.” Forse aveva paura. Dopo sempre lui, Alfi, mi ha dato un indirizzo di una certa signorina Boato, che mi avrebbe ospitato, io sono andata da questa Boato e ho detto: “Senta, mi manda il tal dei tali” “Ah no, no ma io…”. “Senta, io in strada non ci sto, io vengo a dormire a casa sua”. Sono andata lì e ho dormito due notti, e poi sono tornata a casa.

D: Questo a Verona?

Mariuccia: A Venezia, in questa casa, e poi io non potevo stare via tanto, perché mi cercavano, va beh, se non fossi più tornata non mi facevano niente, per carità, però loro erano là dentro, cosa ne so io? Che si mettono a fare i pazzi. E questa tizia aveva nascosto in casa suo fratello, mi verrebbe il gusto di sapere se quel Marco Boato che è un personaggio del parlamento, non so di che corrente, è imparentato con questa tizia qui, Marco Boato, si chiama.

D: Sì, sì, Boato.

Rosetta: Però è giovane, non può essere lui.

D: No, non è lui, lui è giovane.

Mariuccia: Sarà di quella famiglia lì?

D: Ah, può darsi.

Mariuccia: Guardi, adesso le faccio fare una risata. Abitavano a Venezia al Ponte delle Tette. Che io, ero una ragazzina, lì sperduta, e mi vergognavo a chiedere dov’era il Ponte delle Tette, adesso non si vergognerebbe più nessuno, ma allora ai miei tempi era così. E tutti, quando chiedevo il Ponte delle Tette, si spatasciavano dal ridere. E la situazione non era ridicola.

D: Certo.

Mariuccia: Non c’era niente da mangiare, non c’era niente da dormire. Non si sapeva come fare a campare. Questo Gian Antonio era di Milano?

D: Era un trentino, della Val di Non che però era al convento dei frati cappuccini di Milano, in che via, questo non me lo ricordo, ce l’ho scritto, però eh. Sant’Ambrogio, mi pare.

Mariuccia: All’interno, avevo disegnato il maresciallo Haage che faceva l’appello, perché mia sorella non si ricorda, forse perché lei stava nella cella, ma io con la curiosità di fare i disegni mi ero nascosta dietro gli angoli delle baracche, siccome godevo di una certa autonomia, essendo un prigioniero speciale come lei, non mi dicevano niente, però non mi avevano visto disegnare. Poi ho disegnato la punizione che hanno fatto ad un tizio che aveva rubato, al quale hanno legato le braccia dietro e gliele hanno rotte a legnate. Insomma avevo, guardi, saranno stati una ventina di schizzi di questo genere. E c’era una signorina inglese, che era l’istitutrice di casa Besana, quello dei panettoni, che mi insegnava un po’ l’inglese, veniva lì nella nostra cella.

D: Ma lì nel campo era?

Mariuccia: Sì, nel campo, era come prigioniera civile, inglese. Era ammiratissima di questi fogli, mi diceva di non perderli. Perché erano molto belli, poi ho fatto altri ritratti, alle persone alle quali poi li ho dati, una era questa Luciana Menici di cui non riesco a trovare l’indirizzo e uno era un certo Bianco.

D: Com’è la storia del sabbiolino, allora?

Mariuccia: Certo, siccome mio nipote piangeva sempre, quando chiudevano la cella ed andava avanti un’ora a dire “Aprimi, aprimi, aprimi” e poi si metteva a cantare, bisognava cantare. Allora io, anche perché di giorno non si sapeva cosa fare con questo bambino, facevo sempre i disegni delle fiabe. L’unico che mi era rimasto era questo disegno del nano sabbiolino, c’era un gran castello, ma era piccolissimo, grande come questo foglio, favoloso con tutte le stradine rotonde un ponte, e su questo ponte passava il nano sabbiolino, con il suo berretto a punta e la lanterna in mano, e il sacchetto della sabbia, lui guardando questo disegno, si divertiva e si quietava. Poi avevo fatto altri disegni che sono andati persi, sempre per il mio nipotino li facevo. Ma quelli che mi dispiace di più sono i disegni delle adunate, delle partenze, perché quelli erano veramente. Mi ricordo che ne ho fatto uno una volta, con il maresciallo Haage con il frustino dietro, gli stivali e avevo fatto il sedere quadratissimo, proprio sembrava un quadro cubista, con questo culo grosso, tutto dritto, quello me lo ricordo ancora. Li facevo con la matita o con la penna, ma purtroppo io non li ho più. Mi è rimasto questo.

D: Che cos’è quello?

Mariuccia: Questa era la cella dove eravamo, fatta là. Dopo, siccome vedevo che si stava cancellando, perché la matita è molto delicata, c’era una mostra intitolata “Il convivio”, aveva come tema il convivio. Ho detto, pensa, ti faccio vedere io il convivio. Allora ho fatto, un paio d’anni fa, ho preso questo disegno e da questo ho tratto quell’incisione che è lì, e l’ho intitolato: “Natale nel Lager”, più bel convivio di quello.

D: Prima, Mariuccia, raccontavi un episodio molto importante di don Berselli, che veniva nella vostra cella.

Rosetta: A grattarsi il formaggio sulla zuppa.

Mariuccia: Se la mangiava solo, solo, non ha mai dato un cucchiaio neanche al ragazzino.

D: Neanche?

Mariuccia: Mi ero fatto un’idea negativa di questo don Berselli, però adesso che sono più vecchia, diciamo che sono vecchia, capisco che l’essere umano è così prevalentemente, e se uno vuole sopravvivere deve essere così.

D: Ti ricordi anche di don Vismara?

Mariuccia: Di don Vismara mi ricordo poco, perché era uno che parlava poco, era una persona sempre depressa, non aveva niente da dire. A mia impressione non comunicava insomma, mentre don Berselli era un uomo intelligente che comunicava, don Gaggero lo stesso, don Vismara era proprio un prete, non so come dire, può darsi che fosse anche intelligente, nel senso che in quei posti lì è meglio parlare poco, delle volte una parola detta in più.

D: Mariuccia, che cos’è che ti ha aiutato a sopravvivere all’interno del Lager?

Mariuccia: Ma sa, da giovani si hanno delle risorse spirituali e psicologiche pazzesche, che mi ha aiutato a sopravvivere era la convinzione che tutte le cose finiscono, e che se avessi avuto pazienza sarebbe finita anche quella lì. Poi mi ha aiutato a sopravvivere il sentirmi, guardi che questo è un concetto che può sembrare, come dire, romantico. Il sentirmi parte di un tutto che era coinvolto in una grande tragedia, e quasi quasi stavo meglio lì, di quando sono uscita. Perché quando sono uscita mi sono trovata così sbandata, sola, con questi fascisti che mi correvano dietro a tutte le ore, avevo sempre due fascisti davanti alla casa che mi sorvegliavano. Volevo dire che avevo perso il mio essere ingranaggio, il mio essere piccola rotella in un ingranaggio, che faceva, che macinava un qualche cosa e di cui io facevo parte. E di cui avevo anche una parte non puramente passiva, perché fa questa faccia?

D: Perché occorre essere molto saldi nelle proprie convinzioni.

Mariuccia: Le dirò che per me il Lager è stata una sofferenza morale pesantissima, perché io di notte avevo delle forme d’angoscia che non dipendevano dal fatto che io avevo paura o avevo fame, ma dall’incapacità che avevo di rendermi conto del perché succedessero queste cose, del perché una persona venisse presa, portata in Germania, presa a calci mentre saliva su un camion, usciva proprio fuori da una mia capacità di comprensione umana quello che vedevo.

D: Cioè non c’era nessuna spiegazione logica, razionale.

Mariuccia: No. E non c’è neanche adesso. Non l’ho mai trovata.

D: Infatti.

Mariuccia: E poi l’angoscia, perché io avevo anche un ragazzo, col quale ero molto affezionata, che sua madre lo aveva obbligato ad arruolarsi nella Monte Rosa, e lui si era fatto mandare in Piemonte, sulle vette, se lei conoscerà mio marito vedrà che uomo è, ha capito? E lui era disperato perché ha capito che io ero nel Lager e cercava di fare di tutto per farmi uscire, ha capito? Beh, questa è un’altra cosa, poi dopo io non sapevo niente di dove era lui, cioè sapevo che era là, che non faceva per carità i rastrellamenti, era stato mandato a costruire, alla guerra contro i francesi, mi dica lei il senso. Quindi c’era anche questa assoluta mancanza d’un senso nelle cose che vedevo fare, perché, mi dica la verità? Ha senso prendere la gente, caricarla sui camion, mandarla in Germania, ha un senso impiegare energie pazzesche per tenere tutta questa gente nei Lager? Anche da un punto di vista pratico non ha senso. Se loro non avessero sprecato tutte le loro energie in questa costruzione abnorme, impiegato uomini, armi, forse forse riuscivano a fare meglio la guerra, penso io. Addirittura da un punto di vista pratico, secondo me era una cosa cretina.

D: Beh, ma lì dovevano eliminarli tutti, eh? E l’unico modo per eliminarli era …

Mariuccia: Ma è questo che non ha senso.

D: Lo so che non ha senso. Però il loro progetto, la loro ideologia era quella lì.

Mariuccia: Sì, l’ho letta, ho letto la storia del Terzo Reich e l’Ordine Nuovo di Hitler. Dopo, quello che non capisco, è che ci fossero, anche nel comunismo ci fosse questa, guardi, io le dico subito che non sono una comunista, non lo sono e non lo sarò mai perché purtroppo il mio spirito è più anarcoide. Io mi definisco liberale ma forse sono più anarcoide che liberale, poi una mia convinzione di tipo più profondo m’impedisce d’accettare qualsiasi ideologia che minacci la libertà, anche di pensiero. Preferisco il disordine, la confusione, la difficoltà del vivere, l’errore a qualsiasi cornice che mi obbliga a vedere la verità che mi vogliono far vedere gli altri. Questo è il mio modo di pensare.

D: Ritornando un attimo ai disegni del Lager, la documentazione che voi siete riuscite a portare via, portare fuori è, oltre a quell’originale lì, il testo…

Mariuccia: Alcune lettere che ho scritto al mio moroso e che lui ha conservato, e che sono anche abbastanza interessanti perché parlano di queste cose di cui ho parlato io adesso. Naturalmente non si poteva scrivere quello che si vedeva, però s’intravede l’atmosfera di questo campo, si intravede molto bene. E poi questi disegni, il rigaudon, poi ho questa lettera che hanno scritto gli ebrei a mio padre.

D: Gli ebrei hanno scritto questa lettera al babbo?

Mariuccia: Questo tizio era un ebreo di Genova, perché finita la guerra, dopo mio padre si è dato da fare per rintracciare quelli che aveva conosciuto. Questa lettera, scritta da questo ebreo di Genova, lei legga. Qui parla di molti che sono partiti da Bolzano. Dice: “Non so se la presente la raggiungerà, ma l’invio ugualmente per dare loro mie nuove. Dopo la mia partenza avvenuta, come loro si ricorderanno, il 14 dicembre ’44, credo di essere l’unico superstite di quella spedizione di ebrei, tutti gli altri, da quanto ho potuto sapere, sono periti a Flossenbürg ed altrove. Io ho percorso un ben duro calvario a Flossenbürg, Hersbruck e Dachau portando in spalla macigni e tronchi d’albero, facendo una fame nera. Sono tornato il 4 luglio in Italia dove ho ritrovato la famiglia al completo, ossia la mamma ed il mio maggior fratello con moglie e figli che poterono nascondersi e non ebbero noie. Athos Polacco, a Bolzano nella squadra dei gabinetti, è perito a Hersbruck di tifo e diarrea sanguinosa. Mentre gli altri li lasciai tutti a Flossenbürg dove furono visti ancora in vita il 23 gennaio. Pare che anche la mamma di Athos e sua sorella Iride siano perite. Altri dicono che sono illesi, altri ancora a Fürstenberg, vicino a Berlino, ma notizie precise non ce ne sono. Quanto a me ho avuto parecchie fortune, soprattutto quella di stare a lungo nell’infermeria a causa del congelamento dei piedi. Non solo, ma di esserci potuto entrare ed esserci stato molto lungo ed intanto è avvenuta la liberazione. […] Non mi dilungo in altri particolari perché sono tutti orribili, a raccontarli tutti ci vorrebbe un romanzo. Ora sono di nuovo con la mamma e ieri sera essa ha voluto festeggiare con speciale rassegna di vivande la data anniversario della mia partenza per la Germania. Chissà che cosa saprà fare ancora il 4 luglio del ’46, data del mio arrivo. Vi saluto e sto bene, come condizioni generali, ma il piede sinistro mi dà ancora parecchie noie, il medico dice che sono cose lunghe ma alla fine guarirà. Il piede destro invece, che pure era congelato, mi ci hanno amputato il terzo dito, in quell’infermeria che non capivo bene se fosse una stalla o un bordello. Sarò ben lieto se vorranno darmi loro notizie, ho saputo che qualcuno che era a Bolzano con loro è stato liberato a Natale insieme con quel musicista tedesco alto come una cattedrale e grosso in relazione […]”.

D: Mariuccia, questa lettera qui, questo Paolo, l’ha scritta al vostro babbo per l’aiuto?

Mariuccia: Per l’aiuto che aveva dato …. Anche in questa lettera ci sono delle cose pazzesche. “Ho ricevuto la di lei graditissima lettera del 7 corrente e la ringrazio, con vivo piacere ho appreso che loro tutti sono in ottima condizione di salute e hanno ripreso la solita vita. Ho letto con interesse tutto ciò che ella mi scrisse, ma quando avrà tempo e volontà la prego pure d’informarmi delle circostanze nelle quali fu liberato il campo di Bolzano. Che ne fu di Hans e di Werner? Dove sono andati a finire quei figli di cani d’ucraini? È vero che il maresciallo Haage è stato impiccato dagli internati? E dove finì quella sua famosa moglie, quella grassa impiegata del comando? Intanto posso dirle che si è salvato Stefano Vela, il calzolaio napoletano che lavorava a Bolzano nella calzoleria e che fu inviato in Germania in seguito, pare ai dissidi col capo calzolaio. Fu a Flossenbürg e vi arrivò pochi giorni dopo la mia partenza e vi conobbe Fontanella e tutta la compagnia. E’ tornato a Genova, molto malandato in salute e ora si è assai rimesso. Però ci ha rimesso i denti, buttatigli giù a pugni dalle SS del campo. Quel tal giudice piemontese di cui lei accenna, Emilio Sacerdote, che si spacciava per Emilio Dote, l’ho lasciato a Flossenbürg e altro non so. Quasi tutti i parenti di quei disgraziati mi hanno scritto chiedendo notizie dei loro cari, ma non certo quelli del predetto sacerdote. Per quanto riguarda Danilo Panciatici, temo forte che sia perito. La vigilia di Natale del ’44 eravamo tutti quanti, gli ebrei italiani, i più validi, in un punto del cortile del campo ed eravamo occupati a impilare baracche smontate agli ordini dell’ingegner Lowenthal che funzionava in certo senso da Vorarbeiter. Mentre io ero da una parte del cortile vennero delle SS, prelevarono Dante e Italo Momigliano, l’ingegner Italia, l’ingegner Schoenberg, Viro Endrec, Curiel, Sauro Ascoli, Danilo Panciatici e li portarono via. Ho saputo che l’ingegner Italia ed i due Momigliano risultano deceduti dagli archivi di Flossenbürg, ma degli altri non so nulla. Io mi salvai da quella spedizione perché non mi videro. Ciò che mi meraviglia è che manchino pure notizie di Lowenthal, in quanto a Flossenbürg era riuscito a farsi aiutare dai capi del blocco e gli avevano levato il nastro giallo da ebreo e lo avevano mandato niente meno che a controllare la locale fabbrica di aeroplani Messerschmitt. Quanto a me, Iocas, a Flossenbürg ero riuscito a lavorare in sartoria, lavoro assai ambito perché retribuito con viveri supplementari. Quando arrivai a Milano seppi di sicuro che allora, il 5 luglio, ancora non vi erano nuove. Jovel Liss e quell’altro turco poco simpatico e bigotto erano riusciti a far entrare dei pezzetti d’oro nel campo e a Flossenbürg con quel sistema si era procurato un incarico, non so quale, al famigerato blocco dei morti dove venivano inviati gli incurabili, i vecchi, i minorati ai quali veniva fatta fare una cura intensiva di calci nel petto e altrove, nonché a sei ore giornaliere di gelo bavarese fuori baracca. Il capo blocco era il più ricco di tutti, potendo contare su venticinque, trenta morti giornalieri aveva a disposizione venticinque, trenta minestre in più al giorno, venticinque, trenta pezzi di pane e margarina in più al giorno che commerciati con gli altri blocchi gli davano un benessere particolare. La ringrazio tanto per le sue frasi cortesi ma non fui io ad afferrare la fortuna, fu lei stessa che si sbracciò ad afferrare me con una serie di casi e coincidenze una meglio combinata dell’altra”. Dopo dice che sarebbe venuto a trovarci, invece non è venuto, e poi fa un’offerta commerciale. Mio padre faceva il conciapelli, e dice che vende, “Vendiamo un fottio d’olio di pesce in alcune concerie, ne avremo dell’altro, se l’offerta le interessa mi avverta, possiamo disporre anche di altri prodotti chimici. Lascio di scrivere per non farla tanto lunga, che ci sarebbe materia per un romanzo intero, ricorda fra i genovesi Emilio Terreni, quello così grande e grosso ed il commendatore Roberto Lepetit, sono periti tutti e due in Germania. Tanti cordialissimi saluti a lei e famiglia”. Paolo Weisser.

D: È sempre lui, è sempre Paolo?

Mariuccia: Sempre lo stesso. Perché mio padre poi ha risposto, ha chiesto, e purtroppo di queste lettere ce n’erano tante, sono andate perse quando è morto mio padre, perché io non ho avuto l’accortezza di fare subito lo spoglio di tutto quello che c’era in casa. Ho fatto lo spoglio ma molte cose, ero sola, ho impiegato tre mesi a mettere a posto le carte. Molte cose mi sono sfuggite. Comunque sono interessanti, vero?

D: Parecchio interessanti. Sono documenti importantissimi.

D: Quelli sono documenti, non sono fantasie. Questi Momigliano…

Mariuccia: Erano i cugini del famoso Momigliano.

D: Ma loro sono originari di dove?

Mariuccia: Io credo di Torino.

D: Perché Arnaldo Momigliano è di Caraglio, provincia di Cuneo, lo storico.

Mariuccia: Erano cugini diritti dello storico Momigliano.

D: Allora sono piemontesi, insomma.

Mariuccia: Io li ho conosciuti perché erano capo cessi, e siccome si avvicinavano spesso alle nostre celle, perché gli si dava qualcosa, poi scambiando le parole, scambiando discorso, ci si conosceva, si capiva che erano persone con le quali era possibile avere un contatto un po’ umano, diciamo, ci si erano affezionati molto.

D: Poi avete recuperato la poesia del francese dedicata a Ennio?

Mariuccia: Sì, che mi dispiace non avere più il testo della canzone dei prigionieri che aveva scritto Gurtler. E l’aveva scritta, mi aveva promesso che me l’avrebbe data, io non ricordo guardi, penso che non ci fosse perché se no l’avrei conservata come ho conservato questa.

D: Poi c’è il diario.

Mariuccia: Il diario di Vittorio Duca. Vittorio Duca, quando io sono uscita, mi ha accompagnato sulla porta della cella e mi ha detto: “Ti raccomando Mariuccia, vai a casa e datti da fare per la Resistenza, guarda che bisogna fare qualcosa.” E infatti io così ho fatto, e ho cercato poi di fare quello che potevo fare, rifornivo i partigiani di cartucce, perché oramai mia sorella era in prigione, andavo a prenderle al poligono di tiro, e dopo, si chiamava Boccacci, Leone Boccacci, il 25 aprile nei pressi del poligono transitava una camionetta di tedeschi, con su due tedeschi. Hanno alzato le mani perché hanno visto della gente armata, facendo segno che si arrendevano. Uno di quegli imbecilli, mai sufficientemente classificati come tali, del 25 aprile con i fazzoletti della liberazione, hanno sparato ad uno e lo hanno ucciso, l’altro ha preso la camionetta e l’ha girata ed è andato via. Dopo un’ora sono arrivati lì in un drappello e hanno facilitato tutti quelli che c’erano nel poligono, sedici persone, c’era anche un ragazzo di quattordici anni, una ragazza di quattordici anni che era mia amica, perché si andava lì a fare gli allenamenti, si andava lì a sparare. Per dire le cose che succedevano. E questo tizio che durante tutta la Resistenza aveva procurato cartucce sottobanco, che si andavano a prendere là in bicicletta e si mettevano nello zaino e si portavano fuori ad Iseo, che poi venivano a prenderle dal monte, lì alla nostra casa, ecco perché dicevo che eravamo già noti come rompiscatole diciamo. Io non ho fatto niente per carità, zero, però c’era questa situazione.

D: Mariuccia, dopo il Lager, in questi anni dopo il Lager, cosa è rimasto dentro di voi di quell’esperienza? Cioè vi è costata, durante la vita, nel ristabilire i rapporti, per esempio con gli amici a Iseo, con i conoscenti, con altri?

Mariuccia: Guardi, c’è stato un periodo in cui avevo un certo fastidio a parlare con gente che sapevo che era d’idee piuttosto di destra, diciamo, fasciste. Perché io ho constatato che la mentalità fascista, non è perché uno sia fascista, ma è proprio la rotella del cervello che fa essere fascista uno anche se è comunista o se repubblicano. Perché è una specie di volontà di sopraffazione, di mancanza di senso critico, di atteggiamento autoritario. Questa è la mentalità fascista, il non voler ascoltare le ragioni altrui, d’aver in mano la verità, io la penso così. Poi la prima cosa che ci ha afferrato è il ritmo del vivere che dovevamo riprendere e che avevamo tralasciato. Io per esempio avevo fatto cinque o sei esami in tutto all’università; la mia preoccupazione è stata quella, in due anni ho finito dodici, tredici esami d’università di filosofia, quindi avevo sempre la testa sui libri e non mi sono neanche…, e poi ci si interessava un po’ della vita politica. Mio padre era un vecchio liberale, era stato ai tempi di Giolitti, un giolittiano anti, come si dice? Contro l’entrata in guerra insomma, neutralista, sa che allora c’erano. Poi ci siamo messi a fare anche lo sport e credo che uno psicologo direbbe che c’era la volontà di rimuovere quest’esperienza che in fondo poi è stata un’esperienza breve, profonda fin che vuole, però era stata un’esperienza breve non ci aveva costretti, eravamo sopravvissuti. Prima cosa che io ho detto, noi siamo degli esseri fortunati, questo ho pensato. Abbiamo avuto questa esperienza ma siamo persone felici, perché siamo venuti a casa integri, non ci hanno picchiato, non ci hanno ammazzato, ci hanno privato d’un paio d’anni di vita, ma adesso noi ce la riprendiamo. Questo era il discorso che si faceva. Poi c’era un certo ottimismo verso la costruzione di una nuova società, che era quella che ci aveva un po’ sostenuto, perché nella mia famiglia noi abbiamo sempre ricevuto un’educazione di tipo liberale. Noi la dittatura da ragazzi la guardavamo con simpatia perché eravamo un po’ scemi, mettevamo la camicetta, andavamo a fare l’adunata, ma in casa ci davano degli imbecilli. “Voi non sapete che cosa vuol dire vivere in un regime di libertà. Questa è dittatura”. Mio padre quelle cose lì ce le aveva spiegate. Poi dopo invece un po’ alla volta ho capito che erano imbecilli i fascisti ma erano imbecilli anche gli antifascisti. Cioè che la stupidità si divideva in parti uguali nell’umanità. Anche se si tenta di costruire una società democratica e libera ci sono sempre delle cose che io non capisco e che perlomeno non rispondono a quello che io pensavo fosse una società democratica e libera. E come dico dopo c’è stato anche un periodo, non vorrei dire una stupidaggine, in cui quasi la gente non voleva sentir parlare di queste cose. E la gente non ne vuole sentir parlare neanche adesso. La gente non vuole essere disturbata, vuole mangiare, bere, dormire e fare il week-end, possibilmente rimanere ignorante perché se uno non è ignorante affina anche la sensibilità e quindi è esposto di più ai colpi di fortuna come diceva Dante. Quello che ho notato io è che eravamo come degli estranei. Non entravamo, io non sono mai entrata nella società a pieno ritmo, mi sono sempre sentito un po’ diversa, mi scusi, sarà una forma di presunzione.

D: Ma oltre a sentirsi diversa…

Mariuccia: Sarà anche per il mio carattere, intendiamoci, non perché sia stata nel Lager, perché forse sarei stata la stessa cosa. Io per esempio certe forme d’insensibilità verso le cose che si vedono non riesco a capirle, mi danno fastidio. Una cosa che mi emoziona e agli altri non dice niente, ce ne sono moltissime di cose, io m’interesso, mi emoziono, mi agito per questo o per quello, benché sia già una vecchia, voglio dire, non ho perso la capacità d’indignarmi, la capacità di ammirare … Appena usciti, a casa abbiamo ripreso a vivere come tutti, no? Non siamo andati a cercare, non so, a dire “Noi siamo gli eroi, noi siamo i martiri”, perché non è neanche vero tra l’altro, perché quando uno salva la sua pelle viene fuori un po’ intero, che eroismo è? Però quello che, forse è una cosa curiosa quella che le racconto, che è emblematica. Io ho fatto l’esame di latino con un professore severissimo, era un luminare della lingua, il professor Castiglioni, nientemeno che autore. Vado dentro, tutti avevano una paura matta perché bocciava di brutto, io avevo questa specie di sicurezza che mi veniva un po’ dal fatto che avevo fatto lo sport, e avevo il senso sportivo anche della sconfitta, e un po’ dal fatto che avevo sulle spalle delle esperienze, di fronte alle quali l’esame di latino, sì, era una cosa preoccupante, ma non drammatica. Allora vado dentro, ho fatto bene tutto il mio esame, e lui mi fa leggere un brano di Seneca. Io l’ho letto e tradotto correttamente, mi guarda e mi fa: “Signorina, la potenza del latino lei non sa neanche dove sta di casa”. Io ho fatto un pensiero, non so se si può dire, internamente un turpiloquio, ho detto: “Va a farti friggere te e la tua potenza del latino, perché a me in questo momento non me ne frega niente”. Ero uscita dal Lager da sei o sette mesi. Ed un’altra volta, durante una lezione di filosofia teoretica, era sorta una discussione, e io non riuscivo più a capirla la filosofia teoretica, una discussione tra il professore ed il suo assistente, il quale si domandava se, adesso io non ricordo se si trattasse di Leibniz o dell’Idealismo, se in quel caso, di quell’espressione che lui aveva appena illustrato, l’io si ipostatizzava. Questa frase mi ha fatto male, “Ma come”, dico, “questi qui stanno a pensare se l’io si ipostatizza e ci sono milioni di cadaveri sepolti sotto terra. E io ho visto Armando Sacchetta senza gamba, Vittorio Duca che è morto a Buchenwald, mio fratello che è precipitato in mare, è morto in mare, sei milioni di ebrei gassati, tutta l’Europa per aria, dicevo, le mamme con i bambini che non sapevano come fare ad entrare nella camera a gas…”, ho fatto tutto una carrellata. Che l’io si ipostatizzasse come dicevano loro, per me è stato un motivo d’aprire uno scenario spaventoso e di farmi rifiutare l’io che si ipostatizza. Poi ho fatto lo stesso i miei esami, benissimo, ho preso un bellissimo voto. Ecco, che lei mi ha chiesto cos’è stato il dopo Lager. Sono stati tutti questi episodi.

D: Ecco, ma gli amici, pesava molto il fatto di essere stata nel Lager?

Mariuccia: Ma no, guardi che noi abbiamo avuto degli amici, io ho visto anche la strage dei miei amici che sono andati in guerra, ne abbiamo persi molti. E’ quello che le ho già detto prima, ho avuto la sensazione di una frattura, di un mondo che prima era così e poi non poteva più essere così. Perché noi poi ci siamo sempre portati in mente anche il dolore per queste persone scomparse, questa gente che era giovane come noi e che è morta mentre noi eravamo vivi, ecco, c’è poco da dire. Certo che il mondo non è più stato come prima, non perché siamo stati nel Lager, ma per quello che è successo. Non poteva più essere uguale.

D: Dopo il Lager, non può più essere uguale?

Mariuccia: No, non si poteva più pensare, fare poesia, fare pittura, fare musica, fare filosofia allo stesso modo.

D: Questo è un pezzo che dice Adorno, eh?

Mariuccia: Può darsi che sia anche detto da Adorno. Salvo poi recuperare i vecchi valori in una maniera diversa, inserirli in una maniera diversa nella società, non so come spiegarmi, non più come pura e semplice cultura ma come supporto per la fondazione di un mondo un po’ meno circondato da filo spinato, io non sono mai stata capace d’odiare. Non ho odiato mai nessuno. Una cosa che mi ha insegnato ad odiare è stato il Lager, io posso dire che ho imparato a odiare nel Lager. Io ho imparato a odiare i tedeschi, ho imparato a odiare i torturatori, gli ucraini, i violenti. Ho imparato a odiare lì, perché non sopportavo la crudeltà che vedevo esercitare. Questa è una cosa che nasceva dal mio carattere. L’odio verso la crudeltà, il senso di compassione che forse è anche una cosa che mi sminuisce come persona, mi impoverisce. Io credo che non sia vero, però. Però io nel Lager ho imparato a odiare. Non sono più stata capace di non odiare le cose che secondo me non erano giuste. E quindi quando anche adesso vedo un atto di violenza gratuita, anche un atto di violenza verso un animale, un comportamento disumano verso qualcuno, verso qualche cosa, io mi emoziono, mi imbestialisco, e intervengo. Tanto che mio marito mi dice, “Ma stai calma, ma cosa fai? Ma no, ma stai zitta”. “Ma come devo stare zitta? Non sai che il mondo va male perché tutti stanno zitti? Se tutti parlassero e dicessero quando è il momento giusto”. Mi è venuta in mente una riflessione molto profonda che fa il Manzoni nel suo romanzo, quando parla dell’uomo perseguitato e dice che il persecutore è doppiamente colpevole, perché perseguita un altro e suscita nel perseguitato dei sentimenti di odio.

Longhi don Daniele

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Don Daniele, cosa è un Lager per lei?

R: Un Lager, per me? Quello che era in passato era appunto un luogo di penitenza, di soddisfazione, di riparazione. Ma adesso i Lager sono nella storia, sono nella memoria di noi e nella memoria di quelli che come voi se ne occupano, perché non si dimentichi il passato e perché il passato possa essere anche una guida, un sostentamento spirituale per l’avvenire, se non per noi che oramai siamo anziani, almeno per le generazioni che ci seguono e capiscano che sia finita con queste guerre, sia finita con queste rivalità ecco, diversamente tutto il mondo diventa un Lager. Tutto il mondo, non soltanto gli ambienti che voi conoscete a memoria, meglio di me. Tutto il mondo finisce se non c’è la pace, il mondo finisce per diventare un Lager che durerà sempre. Se mi riferisco alle ultime parole del Papa recitate e proclamate con forza proprio in questi giorni nel Nicaragua e in Venezuela “Finalmente basta con la guerra, che non si ripeta”; queste sono le parole del Papa. Ed ecco, confidiamo che questo sia un auspicio per questi pochi anni, fino a quando non andremo, voi certamente entrerete nel nuovo millennio, e allora che queste parole siano un auspicio lungo almeno per tutto il secondo millennio.

D: Cosa avvenne, Don Daniele, il 19 dicembre del 1944?

R: A me? Il terzo arresto che ho avuto. È andata com’è andata, ero lì, basta, chiuso, me lo ricordo bene. Sono stato arrestato. Ai tempi di Andrea Gaggero, poveretto, quando l’ho visto venire giù dalla soffitta del quinto piano, tutto insanguinato tutto rovinato, eravamo d’accordo nel dire: “Guarda che se succede qualcosa tu cavatela, di che la colpa è mia e che tu non c’entri” e allora io ho dovuto fare il fintone e ho detto “Io questo qui non lo ho mai conosciuto”, ma non è giovato a niente perché mi hanno portato via e basta. Dopo ci siamo rivisti con Gaggero, poveretto è morto anche lui, ci siamo rivisti in cella per diverso tempo, e poi la sua memoria è finita, e se me lo ricordo proprio il 19 dicembre ’44. Tre arresti. Tutti mi dicevano: “Perché non sei scappato?” Io ne ho portato via qualcheduno, nascosto, appena c’è stato un accenno, un prete, Don Giacinto Carbonari, che era a Bolzano, era di notte con il treno merci, l’ho portato a Padova, dopo sono tornato indietro, sono tornato altre volte giù a rivederlo ecco lui, lui se n’è andato. Altri, l’ingegnere Saul ecc… tutta gente che ha preferito andare, ma allora io ero quasi giovanissimo e avevo soltanto l’entusiasmo davanti, avevo in testa i fratelli Bandiera, Antonio Scesa di Milano. Quando lo portavano i tedeschi allora, ma i tedeschi di Maria Teresa, quella gente là, gli Asburgo che avevano occupato il lombardo veneto, ecco avevo in mente Antonio Scesa durante il percorso per andare verso il suo calvario, è passato davanti a casa sua, voi lo sapete, e li hanno detto, “Vuoi qui?” e lui ha detto: “No, no, tirem innanz”.

Quindi io avevo queste idee e questi entusiasmi giovanili, oggi non sarei più in grado di comportarmi in quella forma, ma allora, sì. Allora sì perché tanto dicevo: “Tanto a Bolzano mi dedicheranno una piazza o una via o una scuola” Ecco, si era un po’ invaghiti, o imbevuti non so, di gloria passeggera, ecco. Ecco il perché per me quel 19 lì era la conclusione ecco.

D: È stato arrestato da chi?

R: Sono stato arrestato due volte, sempre dal medesimo, era un alto altesino, ma io non ricordo più, un piccoletto, ma non mi ricordo più i nomi. Il primo arresto c’è stato quando ero nella zona industriale, a Bolzano sempre, il secondo arresto, mi pare il 15 dicembre, poi il 19 il terzo, forse era meglio scappare ma Don Guido è rimasto, diceva: “Stiamo qua noi”. Altri sono andati via, diceva: “Restiamo qua noi due, a Bolzano alla zona industriale bisogna rimanere, ci sono le famiglie disperate, tutto l’insieme”. E allora sono rimasto volentieri anche, anche in ossequio al mio ministero sacerdotale, ero cappellano della zona industriale.

D: Per aiutare quanti erano già dentro nel Lager di Bolzano, voi come vi siete organizzati per procurarvi il cibo da portare poi dentro?

R: Noi abbiamo avuto molti soldi da Milano, dal cardinale Schuster, molti soldi, ci mandavano le banconote, mi pare che fossero da 500 lire, o da 5 lire non mi ricordo più, ma a rotoli. Quindi bisognava tagliarli, uscivano dalla zecca direttamente e noi li si tagliava e c’erano tutti quei soldi. Il cassiere era Don Guido Pedrotti, soldi per il sostentamento delle famiglie e anche dei prigionieri, li prendevamo specialmente da questa fonte. Immaginate che ad un certo momento, io ero appena tornato da Roma in quel periodo, e io non lo so non esagero ma alcune centinaia di donne, mamme, spose, fidanzate, sorelle, quindi in prevalenza donne, venivano giù dall’ambiente di Carpi, di Fossoli dove era il campo di concentramento, sapendo che i loro cari erano deportati a Bolzano e venivano su. Quindi era un afflusso giornaliero, con tutti i mezzi, treni, mezzi pubblici, mezzi privati, arrivavano e finivano per venire lì da noi due. Lasciavano anche soldi, lasciavano lettere da consegnare, ricordi e tutto un insieme di cose e quindi come sede eravamo lì, in via Torino e ci si dava da fare utilizzando anche queste forme assistenziali, proprio in aiuto, a conforto di questa gente che veniva a trovare i propri cari.

Dopo li vedevamo nel corteo, chiamiamolo corteo, anche se è una parola piuttosto elevata questa, il gruppo che usciva tutte le mattine rientrava nel mezzogiorno, usciva di nuovo, erano tutti prigionieri nostri, ma file anche di 200, 300 persone che andavano al lavoro e quindi lungo questo percorso si aveva il coraggio di avvicinarne qualcuno, domandare: “Chi è il tale? Dove trovo il tal altro?” Come sul posto del lavoro, specialmente sotto la galleria del Virgolo, ai margini di Bolzano, al di là del fiume Isarco e c’era la maniera di avvicinarli perché lavoravano dentro in questi ambienti, come lavoravano anche per le pulizie, per la manutenzione, proprio negli ambienti delle SS che avevano occupato per esempio il Corpo di Armata. L

Lì c’erano i vari Gaggero, lì abbiamo trovato Gaggero e gli abbiamo dato il primo rotolo di soldi e poi alla sera lui è rientrato come sempre, ma o c’era una spia o chissà, non sappiamo, comunque appena lui è entrato è stato perquisito e hanno trovato i soldi, e quindi è andato di mezzo per primo Don Guido Pedrotti e dopo il sottoscritto.

D: Dopo l’arresto cosa avvenne?

R: Dopo il terzo arresto? Intanto ci hanno tenuti là quella mattina, nello scantinato del Corpo di Armata di Bolzano e poi, sempre tutti, saremmo stati là almeno una ventina, tutti con la faccia rivolta al muro in piedi tutta la mattina fino a quando dopo a gruppetti di tre o quattro con le macchine ci hanno portati giù in campo di concentramento. Per me, non so per gli altri, ma per me hanno usato una vettura lussuosa, veramente lussuosa. Mi ricordo che era foderata di rosso dentro, forse per non creare sospetti o per evitare incidenti o ribellioni della gente, a me hanno portato giù con questa macchina. Appena dentro alla baracchetta, era una vera casa di mattoni, ecco, allo sportello, è lì a domandarmi i dati. Tutti i miei dati, dove, quando ero nato, dove vivevo ecc… e poi questo è stato una tribolazione per me, quando mi hanno domandato chi erano i miei parenti più vicini. E ho dovuto fare il nome della mia mamma. Quello è stato per me il momento che non dimenticherò, mai. Ho dovuto dare il nome e l’indirizzo della mia mamma, il motivo voi lo sapete, che cercavano appunto non delle vittime ma almeno dei capri espiatori, in caso che noi fossimo fuggiti o fosse successo qualche cosa, e allora loro si rivalevano sui parenti, la mia mamma, non gliel’ho mai detto poveretta, perché ho sempre avuto paura, d’altra parte quello ho dovuto dire. Allora da quel momento sempre con la mia veste da prete e con il mio colletto di allora che si usava, lo sapete no, allora via, blocco celle. Mi hanno buttato lì quelle due striscette, il numero 7459, e mi hanno perquisito, mi hanno lasciato l’orologio, è stato il mio grande amico e compagno, se no non sapevo come passava il tempo e ho avuto l’orologio, da tasca però, quello mio, quindi è stato per me un amico che mi ha aiutato, in quelle condizioni dovevamo sempre tenere la fisionomia nostra, quindi ognuno il proprio vestito appunto in caso di confronti con altri operatori di libertà, partigiani e così via, allora nel confronto dovevano confermare: “Sì questo lo conosco, questo non lo conosco”, quindi per confronti praticamente e mi è rimasto l’abito mio, la veste.

Anche il giorno quando, se ricordo bene, deve essere stato forse il 25 di febbraio, ci hanno incolonnati e ci hanno portato al treno, tra gli stabilimenti della zona industriale, e lì sul treno era di domenica, e non so se eravamo una ottantina dentro un carrozzone bestiame, ma io mi ricorderò sempre questo episodio.

Qui i prigionieri mi vedevano forse qualche volta passeggiare in fila come i bambini dell’asilo fuori dal blocco celle è lì sul vagone del treno ricordo che hanno detto: “Ma qui ci deve essere un prete con noi” e allora io rispondo: “Sì, sono io, sono il parroco della zona industriale, io prego per voi, voi pregate per me è vi do la benedizione a voi e a tutti i vostri cari”. Era molto commovente, c’è stato un momento di silenzio assoluto quando ho detto queste parole. Dopodichè c’era un vecchietto, ma io ho perso i nomi oramai, c’era un vecchietto anche lui prigioniero, di Belluno, il quale aveva un bel sacchetto pieno di pane, di pezzi di pane e lo ha distribuito a tutti, fino a che ce ne era di questo pane, e allora abbiamo detto: “Ma adesso lei rimane senza”, e lui dice: “Ma tanto non ne abbiamo bisogno” “Perché no?” Perché dice, ma questo è storico: “Noi non saremo deportati in Germania”, “Ma come? Siamo sul treno chiuso, bloccato, piombato, che cosa avverrà?” “Niente, ci riporteranno al nostro posto, al campo di concentramento di Bolzano, noi non andremo in Germania”. Questo è storico, peccato che non posso dire il nome perché non me lo ricordo più, ecco i due episodi. Quindi alla sera del giorno dopo, quindi di lunedì sera, eravamo a febbraio e quindi la notte è arrivata presto come sempre, e ci hanno riportati. Quella era una bella occasione per me, siccome abbiamo attraversato a piedi, come potevamo farlo, perché ce ne erano diversi dei nostri che venivano sostenuti dai propri compagni perché non potevano neanche camminare, e abbiamo attraversato la zona industriale che io conoscevo palmo a palmo, quella sarebbe stata una bella occasione per me di infilarmi in qualsiasi ambiente, cioè negli stabilimenti della zona industriale. Non l’ho fatto, e sono tornato in carcere. E abbiamo tirato avanti fino al 30 di aprile.

D: Ma quando è stato messo nel blocco celle, in quanti eravate nel blocco celle, e poi perché lei è stato messo nel blocco celle?

R: Il blocco celle, tutto sommato, non lo so se erano 19 o 20 celle, adesso non mi ricordo più, so che sono andato dentro, chiuso, e basta. Sono sempre rimasto là, questo fino il 25 gennaio forse, finalmente mi hanno levato da quella cella dove ero solo, isolato e mi hanno portato sempre nel blocco celle nella parte sud. E’ lì che ci siamo incontrati anche con Don Gaggero dopo, e quindi ero insieme ad un gruppo, 3 o 4 dentro, siamo rimasti per un certo periodo, non so quanto, siamo rimasti anche in 14 in una sola cella. C’era il posto per uno, eravamo in 14 persone e ci si alternava per riposarsi, un’ora stavano in piedi loro, un altra volta buttati giù noi, 14 persone. Quindi è roba da morire anche asfissiati, senza più ossigeno, e quella era la cella di un grande partigiano, Arnaldo Colleselli, era preside del liceo classico di Belluno. Adesso è morto però, prima era parlamentare europeo, dopo ho sentito che è scomparso, e così abbiamo continuato la nostra vita.

D: Don Daniele, l’alimentazione in che cosa consisteva quando era nel campo?

R: Dunque davano a mezzogiorno una brodaglia, era sempre quella, praticamente si beveva perché non c’era dentro altro e davano un panino, con la forma di questo recipiente qui, questo portacenere, ecco, così grande era la pagnotta che era fatta con farina di orzo ma certamente anche con la paglia, paglia tagliata, sminuzzata, l’avevamo vista, vera paglia. Lì però io commettevo giorno per giorno una imprudenza, cioè invece di mangiarmela tutta questa pagnotta come facevano gli altri, niente io me ne tenevo lì metà, perché dicevo: “In caso mi venga uno svenimento che abbia qualche cosa da mettere in bocca”, quindi per me era una tribolazione, ero disteso sul letto a castello, e il pane lo mettevo lì, tutta notte sentivo il profumo di quel pane, era una tribolazione per me, però dovevo resistere e non mangiarlo per paura di rimanere senza.

D: Per un sacerdote essere dentro il Lager cosa voleva dire? Voi potevate celebrare?

R: Neanche a parlarne, no. Mai celebrato. Mai. È escluso. Io non ho mai celebrato dentro. È venuto a suo tempo, nel periodo di Pasqua del ’45, è venuto da Belluno, da Feltre mi pare, era monsignor Bortignon, l’ho rivisto dopo la guerra, lui ha celebrato fuori, nel campo all’aperto, e noi attraverso quella bocca di lupo, quella finestra ascoltavamo. Mi ricordo che ha detto: “Coraggio che anche il sacrificio di Cristo pareva vano e sorpassato e invece da quel sacrificio del calvario è nata la Chiesa e tutto l’intero movimento cristiano e cattolico”. Questo mi ricordo. So che il clero di Bolzano ha insistito presso questo monsignore, diceva: “Guardi che abbiamo dentro un sacerdote che era il cappellano della zona industriale, a noi interesserebbe che potesse riprendere il suo ministero, veda se può avvicinarlo”. Nel blocco celle c’erano molti della sua diocesi ma non lo hanno lasciato entrare. Abbiamo seguito la messa all’aperto ma mai noi, non c’è stata nessuna volta che abbiamo potuto celebrarla, insomma eravamo diversi preti dentro, ma la messa neanche a parlarne, no, mai.

Io non ho mai chiesto e poi chiedere per sentirsi o per essere colpiti magari con uno schiaffone. La botta che ho preso qua io, da Schiffer… Aveva un anello, ho detto di no, mi hanno fatto una domanda dell’interrogatorio, era il giorno dopo Natale del ’44, il pugno che mi ha dato qua, era qui e “Boom”, io ho fatto così, l’interprete tedesco della Val Gardena dice: “Non si muova”, io mi sono ribellato, quindi il trattamento era non certamente umano, era meglio tacere. Come quella volta, accanto alla mia cella c’era l’onorevole Colleselli, lo ho detto prima, gli ho detto: “Cerca se trovi un pezzetto di sigaretta o qualcosa, dai da bravo dammi”, io ne avevo in tasca, ma dopo nel giro di pochi giorni sono andate e ricordo che siamo riusciti quella sera tardi a congiungere la mia cella con la sua, c’era il pavimento, pochi centimetri più alto perché entrasse l’aria, c’era la porta, ebbene abbiamo preso la cintura mia e la sua e l’abbiamo messa fuori sul piccolo corridoio, lui ha agganciato la sua cintura dei calzoni alla mia e ha attaccato dentro una cicca così, di sigaretta, e allora piano piano, tanto c’era un freddo enorme, si è irrigidita anche, è stato facile tirare piano piano fino a che io ho raggiunto la cicca e allora lui ha ripreso la sua cintura, io la mia e qualche minuto dopo è entrato dentro il comandante del Lager, il maresciallo Haage insieme a quello della Val di Non, come si chiamava? Che era dentro custode, le verrà il nome, ci pensi un poco.

D: Novello?

R: No, Novello no, era quell’altro, io ho ancora tutta la sua corrispondenza a casa, insomma sono venuti dentro con il nervo di bue, prima hanno tirato fuori dalla cella Colleselli poveretto, lo hanno bastonato fino a quando hanno voluto e poi hanno chiuso e hanno aperto la mia cella, fuori, là sono stato io, ho tirato fuori la cicca e gliel’ho fatta vedere. Loro pensavano che fossero biglietti magari che ci mandavamo, io sono rimasto là, visto questa cicca brutta e consumata il comandante Haage so che mi ha salutato così: “Schwein” che vuole dire “porco”, “Schwein” e giù, qui di dietro sul collo, mi è venuto un collo grosso così, e qui mi ricordo la botta che ho preso, e ha aggiunto anche “Sau ” vuol dire “troia” quindi “porco” e “troia” e mi hanno bastonato ancora, dopo basta, chiuso la porta, dentro, silenzio assoluto tutta la notte.

La mattina dopo arrivano i nostri falegnami e con una tavola a tutte le celle hanno ostruito questo passaggio di aria, hanno messo lì così, come un piedistallo, hanno ostruito il buco da dove entrava l’aria, noi due abbiamo taciuto ma la colpa era nostra, era inutile perché pensavano appunto che di notte si lavorasse a trasportare biglietti o qualche cosa. Quindi chiuso anche quell’incidente. Quello è stato proprio provocato da me e dall’onorevole Colleselli.

D: Il 3 maggio, Don Daniele cosa avvenne?

R: Avvenne questo, allora il 3 maggio appena uscito fuori io, il 30 aprile lei sa meglio la data, quando sono uscito fuori al pomeriggio, alla stessa ora quando si è suicidato Hitler, lì è avvenuto l’ultimo massacro da parte delle SS perché ne hanno presi non so se erano 32, erano 32 mi pare e li hanno massacrati. Dopo abbiamo messo una lapide anche lì sull’angolo della cinta della Lancia, lì sull’angolo davanti alla Montecatini ci deve essere una lapide, quella l’ho inaugurata io, a ricordare questi che sono stati massacrati.

Dopo siamo tornati nella normalità, morti questi gli altri si sono dispersi e quindi abbiamo istituito quello che è stato il Governo del Comune di Bolzano, in attesa poi della forma democratica per la nomina del responsabile del Comune e ci siamo radunati come poi ogni settimana ci si radunava sempre per problemi. Io ho avuto come compito, non so se glielo ho detto altre volte, sono stato nominato Assessore all’Assistenza e alla Scuola e ho nominato io il primo Provveditore agli Studi, che era preside in un liceo di Merano e quindi ha accettato e sono andato a prenderlo su in Val di Fiemme e gli abbiamo fatto la proposta: “Guardi mi hanno indicato che lei potrebbe essere adatto” e tutto l’insieme, lui ha accettato e quindi io ho avuto questo incarico che è durato diversi mesi.

Dopo io sono tornato nella mia zona industriale a fare il prete e il Comune è andato un po’ per conto suo. Ci siamo trovati lì nella sede, come si chiama quel palazzo di fronte al monumento alla Vittoria, il Palazzo della Provincia?

D: Palazzo INA?

R: INA, ecco, lì ci si trovava per quello che riguardava l’andamento del Comune, mi hanno inghirlandato diverse volte, avevo le porte aperte in questura, dappertutto, quanti francesi del governo di Pétain, quanti erano lì a Bolzano e io li proteggevo, li difendevo anche in questura, “Ma no questo lasciatelo libero, lasciatelo vivere” ne ho avuto parecchi, non so quanto tempo è durata questa forma assistenziale. A questi di Pétain in modo particolare, e poi anche due degli ex comandanti del campo di concentramento, che venivano da me. Uno poi, mi verrà il nome, molto conosciuto allora, mi ricordo che è venuto da me a chiedermi protezione, perché non so se è stato processato, non mi ricordo, e gli ho detto: “Ti metto a posto io”. Prima di arrivare a Bolzano, dov’è quel paese, c’è una valle che va dentro.

D: Val Gardena?

R: Prima di Chiusa, c’è una valle andando verso nord sulla sinistra che va dentro, in fondo c’è un castello anche, ecco lì c’era una colonia venuta su da Bologna in cui c’era un gruppetto di ragazzi, lo ho messo lì. “Stai tranquillo che ti terranno nascosto”. Lui è vissuto lì, mi ricordo che poi ho partecipato anche al suo processo, quindi anche quello è venuto da me.

Sapevano che io male non potevo farne, anche perché avevo il mio ministero quindi non avrei fatto del male. Sono venuti dopo a chiedere a me aiuto e protezione specialmente davanti alla questura, dove in questura c’era un maggiore, già delle SS, ma qualche anno prima è diventato amico degli italiani, era della questura e questo maggiore aveva l’incarico di rintracciare un po’ i vari comandanti delle SS e processarli. Quante volte mi ha fatto vedere tutti i verbali di gente che aveva trovato, aveva trovato a Essen in Germania, aveva trovato nientemeno che il maggiore Schiffer, “E come lo ha trovato?” “L’ho trovato sul viale della Stazione ferroviaria, ho visto uno che veniva con due valigie, l’ho riconosciuto subito, mi sono avvicinato, si è fermato e ha messo giù le valigie”. Ha detto: “Prendimi”. È stato arrestato da lui, portato via, poi che sappia io.

D: Torniamo al Lager. Entrato le hanno fatto l’immatricolazione, quindi è iniziata la spersonalizzazione della persona

Ecco, vi chiamavano per numero, no?

R: Sì, matricola tale, matricola tal altra.

D: Quindi lei veniva chiamato con il suo numero di matricola?

R: 7459

D: Poi aveva anche un triangolo rosso lei?

R: Certo, tutti noi. C’era il pezzettino qua.

D: Che lei ha conservato ancora.

R: È sotto, è qui.

D: Dopo lo vediamo.

R: Il triangolo rosso.

D: Triangolo rosso perché poi c’erano diversi tipi di triangolo?

R: Certo, c’era il triangolo rosso per i politici, noi, giallo era per gli ebrei, per esempio, e per gli ostaggi c’era un altro triangolo, non ricordo il colore.

D: Lei diceva Don Daniele che il suo abito, la sua veste gliel’hanno lasciata.

R: Sempre, come hanno lasciato gli abiti degli altri, intatti come sono stati arrestati.

D: Quindi non è che glieli hanno tolti.

R: No, per niente.

D: Però lì con il numero di matricola che le hanno attribuito, lì è iniziata proprio la spersonalizzazione della persona.

R: A un certo momento sì, eh.

D: Quindi il Lager era anche l’inizio della spersonalizzazione della persona, avvilirla il più possibile, e anche attraverso forme di violenza.

R: Beh, lasciamo stare la violenza.

D: Don Daniele, dentro nel campo, nel Lager la gente che c’era, c’erano uomini, donne, anziani, bambini anche? Si ricorda anche di bambini?

R: Certo. Mi ricordo uno, avevo tutti i nomi in testa una volta, lui veniva molto spesso, una volta due alla settimana sotto le finestre, ma non dalla parte dell’interno del campo, ma tra il recinto e il blocco celle, quel ragazzetto lì, ebreo, passava sotto a darci notizie: “La radio ha detto questo”.

D: Vi informava, vi teneva informati.

R: Era un bambino così, avrà avuto undici anni penso.

D: Poi diceva che nel Lager c’erano anche altri sacerdoti.

R: Sì, ma si succedevano, andavano, non è che ci incontravamo noi, insieme. Mano a mano che c’era il convoglio che partiva ogni tre settimane, ogni ventun giorni partiva sempre un treno carico fra le settecento, ottocento persone e andavano verso la Germania.

D: Nei campi di sterminio?

R: Nei campi di sterminio.

D: In Austria, Germania?

R: Dove, noi non lo sapevamo dove.

D: Ecco, questo voi non lo sapevate?

R: Si sapeva che andavano via.

D: Ma all’interno del campo i deportati erano addetti anche a dei lavori, facevano dei lavori?

R: Tutti erano, sì, il blocco A e il blocco B, per esempio erano tutti lavoratori, che venivano la mattina in fila, io ho detto corteo ma insomma in fila andavano ai posti di lavoro. C’era uno stabilimento vero e proprio di meccanica dove c’era l’ingegner Bertinetto, erano là sotto il Virgolo, vero? Nella galleria grande, li assorbiva dentro qualche centinaio di questi operai, specializzati, perché si presentavano come specializzati.

D: Che lei ricordi, Don Daniele, all’interno del Lager di Bolzano sono avvenute anche delle uccisioni, delle forme violente molto forti?

R: Abbiamo avuto quei due ragazzi là, mi pare quando è venuto il vescovo, quello che dicevo prima il monsignor Bortignon, lì c’era uno di questi ragazzi che aveva tentato la fuga, due erano, quei due sono stati uccisi, tutti e due, se mi ricordo lì, avevano la loro cella e dopo noi ci hanno radunati tutti fuori all’ingresso del blocco celle e una donna, una donnaccia là, che parlava abbastanza bene il tedesco, ha detto però una frase che forse i tedeschi non hanno capito, dunque, “Il comandante dice che da qui in avanti se ci sarà un tentativo di fuga, quello viene ucciso”. Ed ha anche aggiunto queste parole: “Bada adesso, quelli che hanno il coltello in mano sono loro”, così, me le ricordo ancora queste parole. Basta, ci hanno avvertiti, guardate che c’è la pena di morte immediata. Per chiunque. I due ragazzi hanno tirato avanti fino a che hanno potuto, era il giorno che era venuto a celebrare il vescovo di Belluno e Feltre, quello, e poi abbiamo avuto quella altra, quella ebrea, eh i nomi, mi pare che avevo fatto i nomi a suo tempo, questa signora, poveretta, allora, eravamo alla fine, sarà stato non so marzo o aprile, c’era l’ingegner che era direttore allora del Centro Turistico a Bolzano, Marcello Caminiti, so che lui ha conversato molto dalla sua cella con questa donna che è sopravvissuta una giornata e mezza praticamente, perché ogni tanto, intanto era nuda, e ogni tanto entravano dentro con la pompa dell’acqua, gelata, si capisce, è vissuta un giorno e mezzo praticamente. Questi tre me li ricordo perfettamente, più abbiamo avuti morti il nostro Magni Longon vero? È stato ucciso la sera dell’ultimo dell’anno, e poi io successivamente sono andato proprio in questura e all’anagrafe a fare cambiare la data che avevano messo sulla lapide … la notte dal 31 al 1 gennaio del 1945, lì avevano scambiato la data, quindi sono già quattro i morti, in più, quella però non c’entra con il campo di concentramento, il conte Manci di Trento, però lui non ha visto il campo di concentramento, lui è rimasto dentro sempre, che sappia io, nell’ambiente là, nelle celle del Corpo di Armata, e poi durante un interrogatorio ha fatto il salto e si è buttato giù, è morto il conte. Qui c’è una grande via davanti alla chiesa nostra, c’è una via dedicata al conte Gian Antonio Manci. Ho conosciuto le figlie perché nelle commemorazioni che abbiamo fatto una delle figlie ha sposato il rettore magnifico dell’Università di Trento quindi le ho conosciute in quel senso li, ma lui si è buttato giù, io ho fatto il funerale suo a Bolzano, alla chiesa di Cristo Re e ho arrischiato a dire che è morto martire, ma non sono andato avanti perché effettivamente si è suicidato, ma quello che non ho fatto io lo ha fatto il vescovo ausiliare di Trento Monsignor Rauzi a Trento, nel Duomo, dove hanno fatto il funerale, ma parlo mesi dopo che era morto. Lui però ha detto chiaro e tondo: “Questo è un martirio” cioè martirio di amore, quando uno come il naufrago che si afferra su un tronco di legno in mare, sono in due allora stanno per essere inghiottiti, uno però rinuncia per amore dell’altro, quell’altro può essere sostenuto da questo tronco e quindi è la stessa cosa che ha fatto il conte Manci il quale piuttosto che tradire, perché non è stato fatto un nome da lui eh, non è uscito un nome da lui, niente. Poteva fare il nome mio, il nome dell’ingegnere Saule e di tutta quella gente lì. Ha preferito suicidarsi per non compromettere gli altri.

D: Don Daniele, all’interno del Lager di Bolzano si ricorda qualche episodio ulteriore di solidarietà umana tra i deportati?

R: Tra i deportati tanto non ci si conosceva più da partito a partito, che era un partito solo, il partito della libertà e dell’amicizia, quindi non c’erano più comunisti, democristiani, socialisti queste erano cose superate, quindi tra di noi c’era questa piena armonia e solidarietà. Chiunque si sarebbe prestato per agevolare fughe e tutto l’insieme.

D: Si ricorda se c’erano anche delle religiose all’interno del Lager di Bolzano?

R: No, c’erano proprio nell’ambiente dove abitavo io in via Torino, lì c’era un asilo infantile con delle suore. Quelle avevano la radio clandestina che era in collegamento con Londra, quelle erano le suore che io poi ho rivisto ma adesso non so più, la loro sede è a Venezia, non ho più avuto rapporti con loro. Ma che siano state in campo di concentramento questo non mi risulta.

D: Un’ultima cosa, Don Daniele, il 19 dicembre ’44 siete stato arrestato per la terza volta, il 28 dicembre invece che data è?

R: Ah, il 28!

D: Era già stato stabilito il 28 dicembre?

R: Sì, ma l’ho saputo dopo io.

D: Ma che cos’era?

R: Niente, la mia fucilazione.

D: Perché, Don Daniele?

R: Grazie, perché ero membro del Comitato clandestino di Liberazione.

D: Quindi dovevate essere fucilato voi?

R: Ma certo, quella mattina là. Ero anche disinvolto da quel lato lì, ma io l’ho saputo successivamente, non ricordo quando. Tra le altre cose il 28 è la festa dei santi innocenti nella Chiesa. Quella era la data della mia morte. E invece sono ancora qua.

Messina Francesco

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Francesco Messina nato a Pistoia il 24 gennaio 1926, sono stato arrestato il 9 giugno 1944 a Montemurlo, un paese vicino a Pistoia, dalle SS italiane.

Ci hanno portati al Comando SS di Firenze in via Bolognese dove siamo rimasti per tutto quel giorno, di lì alle Carceri di Firenze, le Murate, dove siamo rimasti tre o quattro giorni, di lì a Fossoli di Carpi, Modena.

D: Scusa, Franco: vi hanno arrestati a Montemurlo, perché?

R: C’era stata la scoperta di una radio clandestina, Radio Cora in piazza D’Azeglio a Firenze, vi era stata una delazione per cui avevano arrestato tutti quelli che erano lì, qualcuno (inutile fare i nomi) parlò e portò le SS dove eravamo noi a Montemurlo.

D: Tu facevi parte di una formazione partigiana?

R: Sì, andavo e venivo.

D: A Montemurlo avevate il vostro ….

R: Sì, c’era il Comando.

D: Vi ha arrestato la SS tedesca, in quanti vi hanno arrestato?

R: Cinque, due erano soldati italiani del sud, radiotelegrafisti e furono fucilati a metà giugno, i nomi che sapevo io erano Gallo e Panerai, ma non credo fossero i nomi veri.

D: Non sei mai stato interrogato?

R: Sì, sì!

D: Dove?

R: Al Comando SS.

D: A Firenze?

R: A Firenze in via Bolognese ma un interrogatorio abbastanza buono, sapevano già tutto.

D: Dopo quanti giorni ti hanno portato a Fossoli?

R: Tre o quattro giorni.

D: Sempre voi cinque o anche altri?

R: I due li fucilarono quasi subito.

D: A Fossoli in quanti vi hanno portato?

R: In tre.

D: Con cosa vi hanno portato?

R: In pullman.

D: Sei arrivato a Fossoli quando, se ti ricordi?

R: Direi a metà giugno del 1944. A Fossoli sono rimasto abbastanza a lungo fino al 21 luglio del 1944, di lì a Bolzano.

D: Restiamo un attimo a Fossoli, ti hanno immatricolato? Ricordi il tuo numero?

R: Sì, 1695!

D: Ricordi in che baracca eri?

R: Ero al 21°

D: Cosa facevate a Fossoli, lavoravate?

R: Poco, pochissimo, c’era da fare qualche lavoretto, spianare il campo ma si stava bene ….

D: Ricordi se nel campo di Fossoli hai incontrato dei religiosi anche loro deportati?

R: Sì, don Camillo che era di Bormio o di Livigno, poi don Angeli di Livorno, poi vi era uno grosso grosso che era il parroco di Correggio in Emilia. Ero a Fossoli quando ci fu la fucilazione dei 70 (si dice poi che erano 68) …

D: Come è avvenuta quella selezione, te la ricordi?

R: Benissimo! Una sera all’appello chiamano una lista di nomi, soprattutto immaginavamo noi che andavano in un altro campo, cosa che era logica.

Alla mattina si seppe che li avevano fucilati, si seppe in una maniera fortuita e fortunosa perché le donne del campo videro che una donna del campo aveva non so se un foulard che sapevano bene apparteneva a uno di loro, siccome questa donna era l’amica, l’amante, l’interprete spia di un tedesco italiano, parlava francese, tedesco, la bacchettarono bene bene e seppero tutto quello che dovevano sapere. Il comandante del campo disse che erano stati fucilati al Poligono di Carpi dove già correva voce nel campo che gli ebrei delle baracche, ebrei misti, non sapevano se considerarli ebrei o no, erano stati, qualcuno diceva, a scavare una fossa al Poligono di Carpi il che faceva capire il resto.

Conoscevo uno di questi ebrei, mi disse “Siamo andati a scaricare dei mobili”, non poteva fare diversamente, in ogni caso si seppe, mi pare avvenne il 12 luglio.

D: Quando eri deportato a Fossoli potevi comunicare con l’esterno del campo con i tuoi genitori, ricevevi pacchi o lettere?

R: Sì, una lettera la potevi scrivere ma non ci fu nemmeno il tempo.

Dopo nove giorni, il 21, la sera rileggono un altro elenco di nomi e questa volta vi ero anch’io per andare in un altro campo, non si sapeva se era vero o se era un campo come l’altro.

Si partì, questa volta su dei camion, ci portarono fino al Po dove si aspettò un barcone che venne dall’altra parte e si arrivò verso Mantova, lì con altri camion ci portarono a Bolzano.

D: Come ti ricordi l’ingresso a Bolzano?

R: Piccolo, brutto, mentre Fossoli era bellino nel suo genere di campo di concentramento, lì c’erano queste due baraccone, non c’erano nemmeno i pagliericci, proprio il primo trasporto che arrivò a Bolzano, dentro vi erano dei militi fascisti prigionieri, non ho mai saputo il perché, non abbiamo mai avuto contatti salvo che il capo baracca ci fu assegnato tra questi signori, dicevano che fossero dei fascisti dissidenti, ricordo che avevano un contegno molto militaresco, divise da milizia, marcavano a passo e bersaglieresco, un po’ il militarismo straccione che usava a quei tempi.

D: Ricordi il blocco che numero era?

R: No, perché non avevano ancora i numeri!

D: Il tuo numero di matricola lo ricordi?

R: Rimase quello lì perché ancora non era organizzato Bolzano, fu dopo che fu trasferito il comando del campo di Fossoli, ripeto, fummo il primo trasporto che arrivò e che partì.

D: Vi erano anche delle donne?

R: Quando c’ero io no, dopo so che ci sono state, eravamo un centinaio da Fossoli più i fascisti che abbiamo citato prima.

D: Questo capo baracca chi era?

R: Un fascista.

D: Non ricordi il nome?

R: Assolutamente no, non stava nemmeno con noi, noi non stavamo con lui data la sua origine, non era proprio il tipo adatto, mentre a Fossoli il capo baracca era eletto da noi.

D: Dei tuoi amici di Fossoli in quanti sono venuti in trasporto con te a Bolzano?

R: Un centinaio.

D: Ricordi il nome di qualcuno?

R: Sì! Luperini, Malagodi, tutti morti! Ve ne erano molti, venivamo tutti dallo stesso campo.

D: Lì siete rimasti quanto tempo?

R: Dieci, quindici giorni!

D: Eravate impiegati a fare che cosa?

R: Portare i pezzi di baracche per costruire il campo per gli altri, so che Bolzano divenne un campo abbastanza importante.

D: Non hai potuto più comunicare con casa?

R: No, no.

D: Dopo quindici giorni che cosa è successo?

R: Ci hanno messo su dei vagoni e ci hanno portato a Mauthausen.

D: Dal campo di Bolzano vi hanno messo su dei vagoni dove?

R: Credo alla stazione di Gries, non ricordo che fosse una stazione vera con dei passeggeri, probabilmente, era una specie di scalo merci.

D: Nel trasporto in quanti eravate?

R: Eravamo in 120, 130, è passato molto tempo!

D: Più o meno quanto è durato il viaggio?

R: Siamo partiti nel pomeriggio e siamo arrivati la sera a Mauthausen dove si entrava sempre di notte, se arrivavi di mattina rimanevi ad aspettare che fosse notte perché così non vi era gente per le strade, alle 9 o alle 10 aprirono e cominciarono i guai perché fino ad allora non dico fosse una villeggiatura ma quasi e la lunga marcia fino al campo, l’ingresso nel campo e la sosta fino alla mattina al muro del pianto, dove c’erano le docce, quelle vere, non quelle simulate a camera a gas. Era estate, peggio per quelli che ci capitavano d’inverno dove la gente moriva di freddo, doccia, vestiti non con le divise regolamentari a strisce ma con stracci, alcuni erano abiti borghesi, altri divise militare, io avevo un paio di pantaloni rossi militari, forse francesi del tempo di Napoleone, e lì si entrò nei blocchi di quarantena che non era una quarantena sanitaria ma attitudinale, per insegnarci come dovevamo comportarci e lì ci rimasi un mesetto tra una baracca e l’altra.

D: Ricordi le baracche quali erano?

R: Mi sembra che la prima fu la 16. Era la prima che si trovava entrando perché vi era un altro campo della quarantena, poi la 17 e poi per pochi giorni alla 18 che era quella dalla quale poi partimmo vestiti con la divisa, il numero, il mio era 82437. Il triangolo rosso, IT, (si diceva che avevamo la targa), il numero sul petto a sinistra, il numero sulla gamba destra e una cosina di latta attaccata al polso, non lo tatuavano come avveniva nei campi, se si scappava già vi era la pettinatura strana con la striscia rasa, bastava questo per essere ….

D: Cosa ricordi di questo mese di Mauthausen?

R: Abbastanza male, i giorni erano brutti e le notti brutte come i giorni. I giorni erano brutti perché si lavorava generalmente alla cava, 186 scalini senza scarpe, in mutande oppure con questi strani vestiti che avevamo ma niente zoccoli, con le pietre sulle spalle, su e giù, su con la pietra giù senza pietra.

Di notte si dormiva in quattro, vi erano i pagliericci stesi a terra, in quattro per ogni pagliericcio messi piede contro bocca, bocca contro piede, ma eravamo tutti sporchi per cui non aveva importanza.

D: Poi è venuto un altro trasporto con una selezione?

R: No, hanno chiamato un certo numero di persone, ricordo che gli italiani erano solo 7, 8, gli altri ebrei, polacchi, russi, francesi, jugoslavi, greci, e in treno, vagoni non carri bestiame, da Mauthausen a Linz c’è poca distanza. Più che Linz era un sobborgo industriale di Linz e arrivammo al campo che era un po’ meglio di Mauthausen nel senso che dormivamo in due per letto, poi per lungo tempo rimasi solo, avevo il letto, la cuccetta tutta per me e lì rimasi fino al 5 maggio.

D: Questo era Linz III?

R: Linz III, il campo di Linz I era stato distrutto da un bombardamento poco tempo prima che arrivammo noi a Linz III con molti morti e molti compagni miei venivano da Linz I.

D: A Linz III eri impiegato a fare che cosa?

R: Ero impiegato a fare lavori prima di essere assegnato a un lavoro fisso che era a una fabbrica di carri armati che si chiamava ……… per essere esatti la mia fabbrica era ………. Poi ve ne erano altre.

Quando i bombardamenti si intensificarono molte volte non si lavorava in fabbrica e si andava a trovare le bombe, a scavare le buche dove vi erano le bombe inesplose ma non sapevamo se non scoppiavano più o se erano a scoppio ritardato in modo da rendere accessibile, naturalmente, venivano poi gli artificieri tedeschi che pensavano a disinnescare.

D: Il campo Linz III era molto grande, vi erano molte baracche?

R: Saranno state 20 baracche dove si abitava, poi vi erano le altre, cucina ecc. ma dove c’era l’acqua ci si lavava, poi l’acqua non ci fu più per cui non ci lavammo più, siccome i bagni erano una cosa … bisognava spogliarsi in baracca, andare nudi al bagno che era abbastanza lontano nella neve con il freddo, poi un pochino di acqua calda, acqua ghiacciata poi senza asciugarsi tornare in baracca bagnati e rivestirsi, per cui meglio sporco che lavato in quel modo.

Dove abitavamo noi una ventina di baracche, ogni baracca era composta da due Stube, camerate, con in mezzo l’appartamento del capo baracca, vice capo baracca, capo Stube ecc.

D: Eravate in tanti come deportati?

R: Circa seimila!

D: Italiani?

R: Forse trecento.

D: Ricordi il nome di qualcuno?

R: Ricordo quello che ho detto prima Piccoli, Mugnaini, Cerchiai, penso che siano morti a parte il primo che se non è morto proprio ora, speriamo di no, ma gli altri penso per età, non so se sono ancora vivi. Poi vi era Otto Popper, austriaco di Vienna ma era stato preso in Italia a Milano, quindi, era targato IT, italiano, ebbe ancora fortuna ma poi sfortuna. Non so se interessa ma Popper era una bravissima persona, un caro amico, era quello con cui dividevamo il letto, i primi giorni quando andammo all’appello disse “A me sembra che insieme al vice capo campo ho giocato a poker a Vienna”. Quando ci fu il comando per lasciare il piazzale dell’appello si avvicinò a lui e disse il suo nome non andando direttamente da lui; l’altro si voltò si riconobbero e diventò il segretario del blocco, quello che segnava tanti morti, tanti arrivati, tanti presenti all’appello, dopo poco si ammalò, non so di che cosa e morì. Per essere lì fece la morte migliore che poteva fare, probabilmente, se fosse stato curato meglio se la sarebbe cavata, era giovane, una quarantina d’anni.

D: I posti lavoro rispetto al campo erano molto distanti?

R: Il mio era abbastanza vicino, andando piano dieci minuti un quarto d’ora ci si arrivava.

D: Vi erano anche dei civili?

R: Sì, vi erano i Meister che erano civili, il mio era lussemburghese volontario e poi vi erano molti IMI, non sapendo che nome dare ai prigionieri italiani militari, prigionieri di guerra non erano, civili non erano per cui avevano sulla divisa IMI, Internato Militare Italiano, in tedesco si scrive lo stesso.

Ricordo uno con il quale ci si parlava in tedesco perché era al CRAN, era un paranco che scorre su dei binari e quando doveva caricare dei pezzi ci si parlava in tedesco urlando, un giorno lo vidi scendere dalla scaletta in divisa e gli dissi, era la vigilia di Natale, “Buon Natale paese” e ci si riconobbe e fu quello che venne, dopo che eravamo stati liberati, al campo a cercarmi e mi disse se volevo andare al campo suo che mi avrebbe ospitato con altri italiani, c’era da mangiare, perché lì dove ero io non c’era più niente da mangiare, eravamo liberi ma non sapevamo che cosa fare, viveri non ve ne erano, aspettavamo che gli americani ci portassero qualche cosa ma non ci portarono nulla perché erano occupati a fare la guerra. Il nostro comando del campo che era formato da spagnoli, russi, fra l’altro lo spagnolo era un mio amico, andammo con questo italiano che si chiamava Rosito di Foggia, e chiesi se mi faceva uscire. Rispose: “Per ora non facciamo uscire perché vogliamo responsabilmente che qualcuno si prenda cura di voi, di noi, se poi non si vede nessuno vi si lascia andare via tutti”, così avvenne, nessuno venne, andammo via per i fatti nostri e finì lì.

D: Scusa, Franco, quante ore lavoravate?

R: Dodici ore, la nostra giornata era dalle 6 alle 6, turno di giorno e turno di notte. Naturalmente alle 6 dovevamo essere già sul posto di lavoro, quindi, credo che fosse alle 4,30 perché fra appelli, andarci, alla sera finiva alle 6 con l’intervallo per il lunch a mezzogiorno o a mezzanotte per cui erano 12 ore di presenza perché anche il lunch avveniva in piedi, era quasi lavoro anche quello.

D: Voi eravate addetti alla produzione bellica?

R: Carri armati Tigre.

D: Tu eri addetto in particolare a che cosa?

R: Con una squadra, di italiano vi ero solo io, Emile che era francese, Ivan russo, tre polacchi, e un ebreo polacco. Il lavoro era revisione cioè contare i buchi, non era un lavoro pesante ma vi era molto freddo, era più che altro la presenza. Quando vi furono i bombardamenti diventò molto più pesante perché c’era da sgomberare le macerie e andare ad isolare le bombe cadute.

D: Nella fabbrica vi erano anche delle donne?

R: No, non nella mia, eravamo in massima parte deportati, poi una quindicina di IMI e i Meister che erano tedeschi, il signore di cui parlavo prima era lussemburghese, quindi, equiparato ai tedeschi.

D: Il momento della liberazione te lo ricordi?

R: Lo ricordo male perché stavo molto male. In un primo momento avevano detto che dovevano trasferire il campo a Ebensee che essendo tra le montagne sarebbe stato occupato dopo, anche questa è una mania dei tedeschi: da Auschwitz li portavano a Mauthausen, in quel momento mi ero fatto male ad un dito lavorando ed ero nella baracca 14 che era quella di quelli momentanei invalidi. Dovendo fare questo sgombero fecero una selezione che consisteva nel fatto che sfilavano davanti ad un caporale della sanità e lui ci chiedeva “Puoi marciare?”, ovviamente risposi di sì, mi rimisero in blocco nella mia baracca per marciare su Ebensee, cosa che non è mai avvenuta.

Questo trasporto sarebbe stato a piedi e non fu fatto, non so per quale motivo, tanto che tornai alla baracca 14 con il mio ditone rotto.

Fanno un’altra selezione con la domanda “Puoi marciare?” … va detto che a parte il dito rotto ero in una condizione da non reggermi in piedi. Rispondo di sì e lui fu di parere diverso per cui mi rimise nel blocco 14. Devo dire che nella prima selezione quelli che non potevano marciare li fecero morire di fame nella baracca 14, senza ammazzarli, quindi, quando tornai nella baracca 14 la sgomberammo da tutti i cadaveri che c’erano e li abbiamo portati in una camera dove il camion li portava a Mauthausen, lì non c’era né camera a gas né crematorio, era un piccolo campo. Venne poi un contrordine, il governatore di Linz voleva strade sgombre per via del traffico militare e dei profughi, non ci credo perché eravamo seimila ma per buona fortuna cambiarono idea, ci misero tutti in fila, malati e sani, per muoverci e non sapevamo dove. Ci portarono nelle vicinanze di Linz, un paio d’ore di marcia, a una grande caverna sulla montagna vicino a Linz non più scortati dalle SS, ma scortati da vecchi, sdentati, ricordo che siccome erano senza denti la crosta del pane non la potevano mangiare e ricordo uno, figlio di cane, che aveva visto che stavo aspettando che la buttasse via e allora pestò bene bene questa crosta perché non la mangiassi io.

I russi che erano i più forti, i più numerosi con gli spagnoli che erano pochi ma organizzati molto bene si rifiutarono di entrare nelle baracche pensando che fossero minate.

Non capivo più nulla, ero in uno stato pre-comatoso, dopo qualche ora ci riportarono al campo, in fila scortati da questi vecchi territoriali. Ricordo che quando fummo nelle vicinanze del campo, spagnoli e russi, il piccolo comando che si erano preparati prima, presero i fucili a questi signori che non chiedevano di meglio che tornarsene a casa propria perché era gente di lì e tornammo al campo da liberi, tornammo al campo perché non avevamo altri posti dove andare e ricordo che andai nella mia cuccetta e che sentii sparare a lungo.

D: Questo quando avvenne?

R: La sera del 5 maggio, alla mattina andammo in questa strada alla caverna, qualche ora lì e poi era già scuro.

D: Gli alleati quando sono arrivati?

R: Gli alleati non li ho mai visti, ma non gliene faccio una colpa, evidentemente, erano occupati in altre cose perché come dicevo prima questo comando aveva chiuso il campo per consegnarci in maniera organizzata e responsabile e poi ci sparpagliammo, ognuno andò per conto suo e io andai in questo campo di ex militari italiani che era lì vicino, il campo 34, dove stetti per qualche giorno, ma stavo molto male e mi dissero di andare nelle vicinanze di Linz in un paese dove c’era un ospedale militare e il comandante era un ufficiale italiano, era un campo americano per cui noi italiani avremmo potuto sperare in un trattamento migliore. Mi ci portarono in macchina, una macchina rubata sul posto, e rimasi lì, eravamo rimasti solo italiani e jugoslavi, prigionieri di guerra, della breve guerra del 1941 perché gli americani l’hanno fatta a casa, gli inglesi e i francesi anche, i russi anche se non erano molto contenti di andarci perché so che poi, siccome erano vivi e questo puzzava di collaborazionismo, si erano battuti come potevano, la zona russa era vicinissima a dove eravamo noi, li avevano restituiti per cui si stava benissimo, eravamo in pochi. Fui curato e poi tornai a casa, a Bolzano.

A Bolzano andai all’ospedale civile, di lì venne una commissione svizzera che avevano organizzato a Malles, in Val Venosta vicinissimo al confine svizzero, un ospedale svizzero con personale svizzero, medicinali svizzeri, il cibo arrivava dalla Svizzera tutto a carico loro e stetti lì per una quindicina di giorni.

Di lì di nuovo a Bolzano all’ospedale civile e da Bolzano a Milano, da Milano a Torino e continuavo a stare male, sempre all’ospedale, per farla breve tornai a casa nell’agosto del 1946, avevo bisogno di cure.

D: Un anno dopo la liberazione!

R: Sì, un anno dopo!

Scala Remo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono SCALA REMO sono nato a Verona il 24 ottobre 1924 e alla bella età di 18 anni sono stato chiamato presso il Regio esercito perché eravamo in guerra ovviamente contro la Grecia, contro l’Albania, contro la Russia,  i paesi balcanici poi in definitiva.  Eravamo già alleati del terzo Reich. Essendo stato chiamato alle armi nell’agosto del ’43, ho dovuto presentarmi alla caserma di Belluno presso il Genio marconisti. Sennonché essendomi presentato il 23 di agosto, mi sembra che questa fosse la data, erano momenti in cui la situazione politico-militare italiana era piuttosto nebulosa; era una situazione che non seguivamo ma di cui ne subivamo le conseguenze. Presso la caserma del Genio di Belluno sono rimasto per una decina di giorni, 23 agosto, 31 agosto sono otto giorni, direi 10,12,14 giorni in questo lasso di tempo avrebbero voluto istruirmi per adoperarmi poi in Grecia come marconista. Infatti il primo scaglione della mia classe, mentre io andavo alla Caserma del genio, partiva per la Grecia, avremmo dovuto poi sostituirli successivamente oppure in altri campi comunque.  L’8 settembre i fatti naturalmente hanno sconvolto tutte le tradizioni militari e ognuno di noi ha scelto la libertà, ovviamente come è stato possibile, essendo Belluno discretamente vicino ai luoghi in cui io abitavo, prima degli eventi bellici, ho potuto rientrare in casa perché i miei abitavano a Lozzo, in una frazione di Lozzo Atestino della provincia di Padova.  A quel punto si presentava il dilemma di quale era la scelta da fare e per la verità non eravamo manco educati a fare una scelta, perché a 18 anni io che provenivo dalle scuole, non avevo esperienze politiche, abitavo in un paese di 3/4 mila abitanti,  prevalentemente agricolo e pertanto senza formazioni culturali specifiche, avrei potuto fare una scelta che era quella di nascondere la testa nella sabbia, tanto è vero che molti dei miei compagni di giochi di allora erano propensi a nascondersi nelle campagne.  Ho avuto la fortuna che mia sorella che abitava allora a Torino ed era in contatto ovviamente con l’élite di Torino, quella che ha potuto poi creare le premesse per il seguito delle scelte di una parte del popolo italiano, è venuta a trovarmi e mi ha consigliato e io ho  aderito ben volentieri mi ha consigliato di seguirla qui nel Piemonte. Nel Piemonte si erano formati già degli aggregati. Perché, essendosi sciolta la IV Armata di stanza in Francia, comandata dal generale Vercellino, molti dei nostri soldati alpini, a piedi o con altri mezzi avevano valicato le Alpi e si erano attestati nel cuneese. Perché molti avevano origini venete, altri avevano origini siciliane, del meridione, per cui non potevano ovviamente portarsi immediatamente nelle loro case e attestandosi lì con armi e bagagli hanno creato dei nuclei, nuclei che sono stati – per nostra fortuna – raccolti da eminenti persone politiche con origini di giustizia e di libertà, provenienti anche da formazioni politiche comuniste o comunque di altre estrazioni. Nel caso mio il Duccio Galimberti che allora era avvocato a Cuneo, aveva ovviamente si era buttato allo sbaraglio, tanto è vero che sulla piazza di Cuneo, lui aveva arringato la folla invitandola ovviamente alla ribellione; comunque lui e altri hanno organizzato in un modo embrionale le prime formazioni. Io al primo ottobre sono andato a formare una formazione, guidata dal capitano Cosa – deceduto di recente -, dal tenente Bertoldo di Vicenza, da un sergente dell’esercito, no ho saltato il quinto, poi c’era addirittura un marinaio con noi e poi c’ero io.  Ero la mascotte, perché ero il più giovane di tutti, per cui diciamo che ero guardato con un occhio privilegiato se vogliamo, se non altro perché tutti mi erano superiori, superiori di esperienza oltretutto. Per cui siamo stati i primi cinque a formare questo aggregato, però noi cinque siamo quelli che abbiamo preso le armi che la IV armata abbandonava via via che si allontanava dalle Alpi e creare dei depositi. Abbiamo cominciato a ricevere a ingrossarci tanto che siamo arrivati ad una formazione di inizialmente di 70 / 80 persone, avevamo tre camion con i quali andavamo nei consorzi a rifornirci di mezzi che poi dovevamo dare alla stessa popolazione che in quel momento non poteva essere rifornita direttamente, perché queste formazioni che erano nate in Val Beggio, a Boves, a …, nel moretanese in genere, ovviamente erano condizionate dalle forze nazifasciste che erano di stanza a Cuneo. Infatti quando noi volevamo fare determinate azioni rompevano il posto di blocco che c’era a Furio, facevamo gli affari nostri e tornavamo a casa, questo era possibile agli albori perché l’entusiasmo nostro e c’era anche l’apatia della parte avversa, non certo dei tedeschi, perché i tedeschi arrivavano quando naturalmente noi disturbavamo i loro interessi. Infatti una delle prime azioni è stata quella all’aeroporto di Mondovì, quando abbiamo portato via 80 fusti di benzina, abbiamo distrutto quattro apparecchi di poco conto, penso apparecchi di avvistamento, era qualcosa che andava bene in quelle località.  Indubbiamente Boves,  Pedraglio, Certosa di Pesio, cominciavano ad assumere delle formazioni militari piuttosto preoccupanti perché certe azioni le facevamo unendoci bande con bande, infatti i nomi che ricorrono del cuneese sono il tenente Aceto, il tenente Dunchi, quello che è stato impiccato in Corso Vinzaglio a cui è stato intitolato l’organizzazione a cui ho aderito io, adesso, da sempre; l’hanno impiccato lì, comunque mi sfugge il nome, è la mia memoria che è piuttosto labile nel tempo, è ovvio che naturalmente questo si verifica più facilmente.  Comunque arriviamo alla Pasqua del ’44 ci hanno attaccato due divisioni tedesche con carri armati cannoncini 88, con l’aviazione per l’avvistamento e ci hanno squassato. Io sono scappato, io comandavo un distaccamento, abbiamo sparato fino a che abbiamo avuto munizioni, poi ci siamo ritirati.

D: Dove è avvenuto questo Remo?

R: Nella Val Pesio, in alta Val Pesio. Infatti io che comandavo un distaccamento che non doveva essere attaccato, perché nel mio distaccamento c’ero io e c’era Piero Bertoldo, ed eravamo lui del 22 faceva parte della IV armata con Vercellino, io invece ero nuovo di zecca e mi ero fatto le ossa nelle varie azioni che avevamo intrapreso e subìto per la verità, anche. Siccome il …era uno spazio di traffico tra la Val Pesio e la Val Ellero, perché noi avevamo il dominio della Val Pesio, della Val Ellero, della Val Corsaglia, della Val Casotto, fino a lì. E il mio distaccamento presidiava la Val Ellero e la Val Pesio, invece cosa è successo? Che gli ucraini che erano, quando c’è stato l’attacco di Pasqua da parte dei tedeschi, i tedeschi avevano come elementi di rottura gli ucraini o i russi, almeno così dall’aspetto così era interpretato da noi; la Val Pesio è la continuazione, la Val Pesio è un fondovalle inizia una strada un ex strada militare che non so per quale ragione era stata costruita a suo tempo, probabilmente perché in alto c’erano dei campi di addestramento per alpini per artiglieria alpina, e comunque mentre… Giasmadona…che era appendice di Vallata che partiva dalla Val Pesio si protendeva verso la Val Ellero che era parallela alla Val Pesio, tanto per creare figuratamente le condizioni, lo spartitraffico in cui ero io quando ero stato mandato lì, mi avevano detto “devi andare lì” e mi hanno dato tutto quello che era possibile avere, troverai una malga che usano i malgari d’estate. Siamo arrivati lì e non c’era nessuna malga, non c’era perché era coperta di neve, allora abbiamo fatto un buco lì di due metri di profondità e siamo entrati, lì poi tagliando dei rami di pino abbiamo creato delle posizioni sopraelevate perché sul pavimento scorreva l’acqua naturalmente prodotta dalla neve che si scioglieva. A lato di Giasmadona che era ad angolo retto con la… c’è il Vallone Cavallo. I tedeschi si erano attestati alla Certosa del Pesio, che era una vecchia, una bella costruzione per la verità, e avevano i … avevano salito, erano risaliti il Vallone cavallo, e sono arrivati dove ci trovavamo noi e sono arrivati, presumo verso la mezzanotte. Noi ci siamo accorti e avevamo in postazione un mitragliatore, avevamo una mitragliatrice con un raffreddamento ad acqua, avevamo anche un… e comunque abbiamo sparato, ma si fa presto a consumare le poche munizioni di cui eravamo in possesso. Premetto che noi avevamo con noi sei ragazzi che erano infermi per congelamento, per dolori reumatici, erano per la verità, almeno quattro erano siciliani, per cui non abituati a quelle temperature, allora siccome al di sotto del Giasmadona c’era un altro distaccamento, comandato da un maresciallo, allora avevo fatto allontanare sei dei miei, e li avevo fati fluire presso l’altro distaccamento, perché avevano più possibilità quelli. Siamo arrivati in quattro abbiamo sparacchiato  quanto ci è stato possibile, e poi ho fatto allontanare siamo rimasti in postazione io e Piero Bertoldo, si sono allontanati poco prima gli altri due, l’ultimo colpo che ci hanno sparato ce l’hanno sparato con la pistola. Abbiamo intravisto delle ombre, noi siamo scesi verso l’altro distaccamento, perché poi di lì potevamo congiungerci con il comando, sennonché avevamo almeno due metri di neve, si infilava una gamba e con le mani si tirava fuori la gamba per portare l’altra più avanti, comunque siamo arrivati all’altro distaccamento che era già stato abbandonato perché era in piena offensiva, e siamo arrivati io e Piero Bertoldo in mezzo ai boschi, i pini erano tutti forati dalle pallottole erano. Mi ricordo che eravamo nel cuore della notte, eravamo fermi ed è passata una pattuglia dei tedeschi a cento metri da noi, loro chiacchieravano tranquillamente, siccome avevano già conquistato il comando, il comando si era ritirato verso la Bisalta, che era la montagna più alta lì, erano padroni della zona.  Comunque il mattino dopo noi siamo arrivati a livello della Val Pesio, abbiamo, c’era un carro armato che transitava avanti e indietro, che faceva naturalmente da pattuglia, abbiamo aspettato che ci avesse superato, abbiamo attraversato il Desio, il fiume Desio e siamo passati dall’altra parte, l’altra parte era stata conquistata e controllata precedentemente perché era una collina abbastanza dolce per cui… … … comunque siamo riusciti a uscire dal cerchio, ci siamo poi incamminati verso Alba, perché ad Alba c’era una grossa formazione e per arrivare lì ad Alba abbiamo dovuto ovviamente trovarci con altri piccoli gruppi che comunque erano alle dipendenze di questa grossa formazione, le quali ci hanno ospitato ci hanno rifornito di denaro e di mezzi. E io e Bertoldo siamo andati a casa nostra. Siamo arrivati a casa nostra qualche giorno, poi è arrivata mia sorella, mi ha riportato a Torino, sono stato aggregato alle formazioni del comando regionale, e in questa formazione cittadina ho fatto alcune azioni con alcuni che però via via queste formazioni si sono assottigliate perché il comandante del mio gruppo è stato arrestato ad esempio; successivamente io che abitavo in una certa via di Torino dove aveva accesso anche a volte Duccio Galimberti, però ci spostavamo per mangiare o per dormire in altre abitazioni, io in uno di questi spostamenti sono capitato in Via Pizzecchi 36, mi hanno preso e sono andato a finire alle Nuove. 

D: Ecco, chi ti ha arrestato?

R: Mi ha arrestato la Questura. Faccio un passo indietro ma molto breve. La mia dotazione era: documenti falsi, avevo un bilingue tedesco che mi dava l’accesso a servirmi di tutti i mezzi mobili, treno, aereo, qualsiasi mezzo, nell’esercizio delle mie funzioni; appartenevo alla questura di Brescia e avevo un tesserino regolamentare a tutti gli effetti; avevo altri documenti, ero armato perché ero un questurino ovviamente in missione a Torino e nel contempo avevo anche una lettera che il Comitato di Liberazione mi aveva affidato che avrei dovuto consegnare mi sembra di ricordare nel pomeriggio. E quella è stata personalmente quella che mi ha messo in difficoltà. Perché evidentemente sono stato seguito o sono stato denunciato, faccio tutte delle ipotesi Sono stato arrestato da dei poliziotti, dalla Questura.

D: Quando questo?

R: Se ricordo bene o il 7 o il 17 luglio del ’44.

D: Ti hanno portato alle carceri Nuove?

R: No, immediatamente mi hanno portato nel Commissariato che stava dietro, dove in quel momento io avevo stabilito il mio domicilio, non ufficiale ovviamente, dove andavo a mangiare e a dormire, per la verità non c’ero ancora andato una volta perché era il primo giorno che mi portavo lì, perché avevamo un appuntamento lì.  Sennonché quando mi hanno portato al Commissariato, la prima cosa è quella che mi hanno preso la pistola, mi hanno preso i  documenti e mi hanno preso la lettera, ovviamente mi hanno messo subito in una cella e mi hanno lasciato lì. I telefoni avranno cominciato a ronzare perché nel tardo pomeriggio mi hanno preso e mi hanno portato alla Questura in Corso Vinzaglio. Lì ho subìto un primo interrogatorio. Dopo questo primi interrogatorio, non ricordo se è stato lo stesso giorno nella notte o il giorno immediatamente successivo, sono stato portato alle Carceri le Nuove che si trovano a Torino in corso Vittorio Emanuele 127.  E lì sono stato aggregato al primo braccio tedesco. Perché c’erano, tutti i carceri hanno dei bracci, sembra che sia l’architettura con cui sono stati ideati a suo tempo.  E lì mi sono fermato, mi sembra, un paio di mesi. Quasi giornalmente venivo preso e portato all’Albergo Nazionale in Piazza San Carlo, e lì a volte a schiaffoni a volte con belle maniere, perché i due sistemi si, insomma evidentemente fanno parte di una casistica……

D: Scusa, lì all’albergo che dici te, cosa c’era, era sede di che cosa?

R: La sede delle SS tedesca.  Infatti tutte le inquisizioni sono state fatte lì, perché invece le brigate nere avevano sede in tutt’altra zona della città che era in Via Asti… io non sono mai stato lì.  Nei primi tempi miei io ho detto sono stato aggregato al braccio tedesco, non è vero il primo tempo ero…, al… molto probabilmente in forza non tanto della Questura, quanto probabilmente delle brigate. Cioè non sapevano bene se io dovevo essere utilizzato dalle brigate nere o dalle SS e sono stato messo nelle cantine che non hanno la luce del giorno, tanto è vero che le lampadine erano accese giorno e notte, però il trattamento era… però per portarmi all’albergo Nazionale comunque mi prelevavano di lì. Evidentemente dopodiché ho assunto una identità specifica e allora sono stato mandato alla cella mi sembra 50/52 del primo braccio tedesco. La cella aveva le dimensioni di tre metri per due, inizialmente ero solo, successivamente hanno, hanno messo con me un partigiano della Valsesia, successivamente hanno aggiunto un terzo membro in questo albergo mio, che era uno di Bardonecchia. E in ultimo hanno messo il dottor Veroi che era il direttore del Banco di Roma, il quale abitava allora all’albergo che c’è in Via Carlo Alberto, che c’è tutt’ora, un albergo di seconda categoria comunque, avevano fatto una retata preso tutti quanti e li avevano…  A questo punto hanno aggiunto un ragazzo tedesco di 16/17 anni, che abitava ad Ivrea con la madre. Siccome in quel momento, in quell’epoca doveva essere stato emanato un editto in Germania che tutti i tedeschi civili dovevano rientrare in patria, nel timore che questo ragazzo non rientrasse l’hanno preso e l’hanno messo in cella con me. Parlava perfettamente l’italiano, era un piacere per me conversare con lui, perché io 18 anni e lui 17, 16/17, eravamo coetanei, comunque mi ha insegnato molte cose, mi ha dato i primi rudimenti di tedesco, mi ha detto cosa vuol dire …… oppure altre cose. Poi, probabilmente constatato, che ero più utile in Germania che rimanere in prigione lì, nonostante tutti i giorni facessero gli appelli per andare a prelevare degli ostaggi da utilizzare a memento per la popolazione, ovviamente, sono partito di lì unitamente a due pullman e siamo andati a Milano; abbiamo prelevato delle altre persone, e siamo andati a Bolzano.

D: Questo quando?

R: Direi i primi giorni di settembre, perché se io sono stato arrestato il 7 luglio, ho trascorso …alle Nuove, luglio agosto due mesi, i primi giorni di settembre.

D: Nel campo di Bolzano quindi ti hanno messo dove?

R: Nel campo di Bolzano mi hanno messo insieme a tutti gli altri, nel capannone, ovviamente, però io a Bolzano mi sono fermato quattro o cinque giorni, direi una settimana sola. Perché probabilmente c’era un trasporto che avrebbe, cioè giornalmente c’erano in atto dei trasporti. Faccio solo una breve pausa. Quando ero su in montagna nella Val Pesio, con noi avevamo un capitano inglese che lui si faceva chiamare Ciro Cavallino, ed era uno del controspionaggio inglese ed era stato paracadutato con la radio per farci avere i lanci.  Quando io ero alle Nuove, un giorno siccome tutte le sere ci affacciavamo alle sbarre e da cella a cella si chiacchierava, ho sentito la voce di un tizio che per me era nota. E l’ho chiamato e gli ho detto “mio Ciro” perché lui diceva che era genovese, allora anziché dire “Ciro Cavallino”, mio Ciro alla genovese, e lui mi ha detto “e tu chi sei?” e io ho detto “io sono il piccolo alpino, quello che tu hai definito piccolo alpino. Ci siamo comunque ritrovati, lui era stato arrestato con la radio a Mondovì, io ero stato, avevo avuto altre vicende, e comunque ci siamo ritrovati a Bolzano. Dovevamo scappare da Bolzano, però scappare da Bolzano era discretamente facile, ma la Valtellina era nominata perché tutti i contadini che riuscivano a prendere uno di noi avrebbe beneficiato di una certa … Lui è partito per Auschwitz e non è più tornato. Io successivamente sono partito per Dachau. Avremmo potuto scappare, perché bastava togliere le assi dei vagoni bestiame ed era forse fattibile, però c’avevano ammonito che per ognuno che scappava sette ne avrebbero ammazzati, e direi che nessuno ha tentato di scappare. Comunque sono arrivato a Dachau.

D: Erano i primi di ottobre, se ti ricordi?

R: No direi ancora settembre, settembre perché io a Bolzano sono rimasto una settimana, non di più. In una settimana a me mi hanno portato due volte a Gargazzone, e mi sembra che ci sia un paese con quel nome, a raccogliere le mele. Per cui sono stato una settimana, un paio di volte a raccogliere mele e un paio di volte a caricarmi dei fasci di legno da portare da un posto all’altro, solo per tenerci occupati ovviamente. E’ un sistema valido in tutti i campi di concentramento. Naturalmente anche in quelli inglesi comunque, almeno il cinema ce ne dà …

D: Ti ricordi se col tuo trasporto c’erano anche dei religiosi con te?

R: Con me da Torino noi siamo partiti, sono partito con padre Girotti e un domenicano, che era un continuatore di una critica, più che di una critica di un qualcosa sulla Bibbia, ed era un uomo molto illuminato, era stato molto in Palestina, molto nell’estremo oriente, doveva conoscere molto bene le lingue, e con me c’era poi anche Padre Girotti. C’era un sacerdote leggermente più vecchio di me, ma che comunque era un uomo veramente dedito alle cure delle sue anime, al di là di qual era la confessione e la colorazione politica.

D: Scusa hai detto Padre Girotti e quell’altro? erano due o uno i sacerdoti?

R. No, due.

D: Don Angelo?

R: Sì, ma il cognome?

D: Dalmasso. E sono partiti con te anche da Bolzano?

R: Sì tutti e due, tutti e due sono partiti con me e siamo arrivati a Dachau. E a Dachau ovviamente siamo arrivati in questo megacomplesso Dachau e un altro nel 1933, Dachau che è il primo campo di concentramento tedesco nato unicamente perché per i sommovimenti socialistoidi, oltre credo che quelli degli ebrei, diciamo, siano stati successivi perché il mio capo campo del mio blocco era dentro, era 11 anni che era dentro, era dentro nel 33, ed era un tedesco. Era un tedesco, ed era dentro perché, a detta sua, perché era un socialista. A Dachau inizialmente siamo stati messi nei blocchi chiusi perché era molto organizzato Dachau. Dachau immaginatevi un campo immenso nel quale conviveva un campo da football, convivevano le docce, e poi c’era tutto un reparto che diviso da viali fiancheggiati da alberati, da cipressi. A destra e a sinistra c’erano blocchi chiusi e blocchi aperti, blocchi dei ciechi e blocchi dei sacerdoti, c’erano i blocchi, c’erano i … dei blocchi particolari che in questo momento non mi sovviene qual è la definizione che potrei dare. Io ero in un blocco chiuso, blocco chiuso perché avrei dovuto, nelle teorie, stare lì 40 giorni, dopo di che visto che non ero contagioso avrei dovuto essere immesso nei lavori comuni. Invece non è vero. Padre Girotti e Don Dalmasso invece sono andati a finire ad alimentare il blocco dei sacerdoti. Dietro il mio blocco chiuso c’era il blocco dei ciechi. A Dachau io sono stato prelevato, assieme a molti altri, venivamo prelevati alle tre di notte perché c’era la solita conta che durava da un’ora a due ore, venivo portato a Dachau, a Monaco di Baviera, per mettere a posto i pilari evidentemente, perché avevano subito dei bombardamenti o altro genere di infortuni.

D: Il tuo numero di immatricolazione di Dachau te lo ricordi?

R: Ce l’ho a casa.

D: Però ti hanno immatricolato?

R: Certo, certo, io ce li ho tutti e due i numeri, uno più alto e uno più basso, perché ovviamente il secondo probabilmente quello chiuso, comunque te lo posso comunicare per telefono quello, eventualmente se lo puoi inserire. E’ un numero di 6 cifre comunque quello di Dachau. Però … che comunque non sono mai stato uno sprovveduto, ho sempre cercato di proclamare, per quanto è possibile, la mia vita, Dachau comunque era una prospettiva che era quantomai dolorosa e difficile, e non mi consentiva delle possibilità. A Dachau si poteva scappare, ma molti di quelli che erano scappati erano rientrati e portavano sulla schiena un grosso cerchio rosso per cui evidentemente non era una strada da seguire. Nel frattempo evidentemente si era creata la necessità da parte delle formazioni tedesche, dell’intelligenza tedesca, di attivare delle fabbriche per alimentare la guerra. Per cui cercavano degli operai specializzati per appunto popolare queste fabbriche. Cercavano un po’ di tutto. Io siccome eravamo alle soglie dell’inverno, ovviamente l’inverno nelle condizioni che avevo, gli indumenti che era una giacca di canapa, una camicia che doveva essere, provenire dall’Ungheria perché era tutta istoriata, era splendida, ma era trasparente, pantaloni e una specie di paletot, il paletot era la stessa giacca leggermente più lunga. Le prospettive comunque, l’alimentazione era quella che … Diciamo che in quelle condizioni io potevo sopravvivere ancora per qualche mese perché provenivo già da un ambiente che mi aveva alimentato, mi aveva riempito fisicamente, mi aveva consentito di sopportare anche disagi. Comunque io … Mi sono messo in lista per andare ad unirmi a questo gruppo. Mi hanno chiesto qual era la mia specializzazione, io avevo detto che ero un collaudatore della Fiat, che conoscevo il …, il dico metro, … conoscevo un po’ tutte le strumentazioni, il che non è vero, le ho scoperte dopo … E loro, per carità, sapendo che provenivo dalla Fiat era vangelo il mio. E assieme con me è partito un altro col quale sono sempre, c’era un mulatto che è sempre stato assieme con me, Dino Miniti si chiama. Comunque il trasporto era diretto a Buchenwald, però le necessità, tutti i grossi campi di concentramento, Auschwitz, Buchenwald, Dachau, e non lo so quanti altri, Ravensbrück, avevano dei sottocampi che venivano utilizzati nei modi più svariati, vuoi perché c’era una sovrappopolazione, e allora per esempio a Dachau correvo il rischio di andare ad Allach, ad Allach era morto il tenente Franco, che era il comandante della … Per cui diciamo che andando in fabbrica è vero che avrei reso più difficoltoso la fine di questa guerra, però diciamo che tutto sommato, io una parte l’avevo fatta, la seconda parte me la sarei gestita per conto mio, per cui avrei potuto collaborare o tentare anche qualcosa d’altro.

Comunque siamo stati portati a Bad Gandersheim, che è un sottocampo di Buchenwald. A Bad Gandersheim c’era una fabbrica che probabilmente era stata abbandonata per la semplice fatto che la popolazione attiva era stata mandata in Russia.

D: Scusa, quindi a Buchenwald non ti hanno portato in quel trasporto lì? E ti hanno immatricolato nel sottocampo?

R: Certo. Arrivati a Bad Gandersheim ci hanno ricoverati nella chiesa sconsacrata, perché il campo non c’era. Allora abbiamo creato il campo, le baracche, abbiamo creato, l’abbiamo circondato col filo spinato, con l’alta tensione, coi vari trespoli dove le guardie ci controllavano giorno e notte, e nell’ambito del campo era inserita anche la fabbrica.  Niente, io ho preso posto al collaudo dei pezzi, la fabbrica produceva aeroplani, i caccia. Nel tempo che sono rimasto lì ne abbiamo costruito uno, non ne è uscito nessuno. Nel frattempo, anche perché la Russia avanzava, infatti dietro al mio banco di lavoro c’erano dei carsuoli che avevano delle dimensioni di 3 metri per 2, ed erano le masserizie dei tedeschi, dei tecnici tedeschi che erano in Polonia o oltre Polonia, e che arretrando rimandavano alle loro origini le loro cose. Tanto è vero che io ho tolto un’asse da questo e ho trovato delle carte geografiche che ho potuto dare a un cecoslovacco il quale è scappato. Lui conosceva la lingua tedesca abbastanza bene.

D: Il trasporto da Dachau a questo sottocampo di Buchenwald, ti ricordi quando più o meno è avvenuto? Prima dell’inverno? Prima di Natale o dopo Natale?

R: prima di Natale, direi che è avvenuto nei primi giorni, nella prima decade o quindicina di ottobre.

D: Quindi appena arrivato tu a Dachau in sostanza

R: A Dachau io ci sono stato 15-20 giorni, forse anche 20 giorni, sono andato cinque o sei volte a Monaco di Baviera a lavorare, e poi basta.

D: Ti ricordi invece ritornando in questo sottocampo di Buchenwald, dicevi costruivate degli apparecchi voi, degli aeroplani, ti ricordi per che ditta?

R: Io ho sempre detto che è la Messerschmitt, però una dottoressa di Berlino che è venuta ad intervistarmi, e che io ho …., mi ha detto che non era la Messerschmitt, non era neanche la Yunker, era un altro nome molto probabilmente il governo tedesco, come il governo italiano, dava mandato alla Fiat la quale Fiat poi passava, diciamo, certe competenze ad altre. Comunque il nome è diverso.

D: E tu sei rimasto lì sempre in questo sottocampo di Buchenwald?

R: Sempre nel sottocampo di Buchenwald, inizialmente abbiamo fatto questi aeroplani,  in un secondo tempo abbiamo creato ……, era un imbuto alto direi cinque-sei metri, ma proprio ad imbuto, ed è rimasto tale. Il terzo aggiornamento di produzione sono state zappe, vanghe, tridenti e cose del genere. Comunque il tutto è rimasto dentro perché le ferrovie tedesche non avevano possibilità di spostamenti, perché i bombardamenti erano tali infatti a volte io ho osservato che c’erano delle incursioni che duravano per delle ore, oscuravano il sole, c’era una grossa ombra sul terreno. Per cui, ecco perché la fabbrica ha prodotto senza essere d’aiuto.

D: Remo eravate in tanti in questo sottocampo qui di deportati?

R: In questo sottocampo faccio un calcolo a memoria, c’era un blocco italiano, un blocco di russi, un blocco di francesi, un blocco di polacchi, un blocco eterogeneo, e direi che per ogni blocco potevano esserci, sei blocchi diciamo e non cinque, sei blocchi un 500 persone. Forse anche di più.

D: E lì sei rimasto, in questo sottocampo sei rimasto fino a quando?

R: Siamo rimasti fino all’incirca alle soglie della Pasqua del ‘45, che non so in che mese sia caduta. Premetto che gli ultimi giorni ci è stata fatta una ricca offerta da parte del comandante del campo, ha detto chi di noi vuol vestire la divisa tedesca avremmo potuto avere gioie, denaro e oltretutto, ma invece qual era la voce di sottofondo? che ci avrebbero incatenato alle mitragliatrici perché eravamo tutti militari validi, eravamo.  Faccio una premessa che nel campo avevamo un Revier, cioè un ospedale, un’infermeria. Io sono stato ammalato, sono svenuto in fabbrica, febbre a 40, mi portano in infermeria e il medico dell’infermeria era uno spagnolo, il quale aveva fatto la guerra contro Franco. Poi ha vinto Franco e lui è passato in Francia. E’ stato preso dai tedeschi quando hanno conquistato la Francia e l’hanno portato lì. Gli ultimi tre giorni del campo c’è stata fatta prima l’offerta di vestire la divisa, successivamente il comandante del campo ha detto che ci avrebbe spostato perché stavano avanzando inglesi, francesi e americani. E noi ci trovavamo in un cul de sac, come si dice. Pertanto chi era in condizioni di camminare sarebbe stato, avrebbe fatto parte della colonna, chi non era in condizioni di camminare sarebbe stato aiutato, caricato su dei carri. Molti hanno aderito, alcuni hanno aderito a questa seconda offerta, possibilità, e mentre noi ci siamo rivolti eravamo in un buon rapporto col medico, andiamo dal medico gli diciamo “cosa dobbiamo scegliere?” e lui ci ha risposto “marchez, marchez, marchez”, tre volte ce lo ha detto. Noi ce ne siamo andati via, il mattino dopo verso l’alba, verso le 4 del mattino, mi sono andato per andare a quella specie di toilette che era poi una fossa con una specie di panca da una parte e dall’altra, ci si accomodava come si poteva lì, e nel frattempo hanno raggruppato quello che avevano aderito ad essere … Dietro il campo c’era un boschetto un po’ più in alto, li hanno portati lì, avevano piazzato le mitragliatrici, non se ne è salvato uno. E lì ce ne saranno rimasti poco poco una cinquantina. Poi ci hanno intruppato, siamo partiti. Prima di partire hanno impiccato un prigioniero, perché doveva aver commesso qualcosa che non era gradito ai tedeschi. Probabilmente era un ammonimento, perché quello era palese, invece l’assassinio nel bosco era qualcosa di occulto, e pertanto non otteneva lo stesso effetto. Ci hanno portato via, ci siamo incamminati, non lo so in quale direzione ovviamente, doveva esserci un’apertura ovviamente ad un certo, e il primo giorno, la prima sera, ovviamente siamo partiti, non ci hanno dato né alimenti né nulla, ognuno di noi ha portato tutti i propri bagagli. Ci hanno fatto accomodare in una chiesa, cristiana, cattolica, apostolica. Infatti le pie donne ci hanno aperto la porta, siamo entrati, hanno chiuso a chiave. Faccio la premessa che abbiamo, siamo andati, prima di partire siamo andati nelle cucine e nei magazzini, e tutto ciò che abbiamo potuto arraffare lo abbiamo arraffato. E molti di noi, io compreso, abbiamo preso delle patate, ma delle patate di quelle che mangiano i ragazzi, mi sfugge il nome comunque. Le abbiamo mangiate, non avremmo dovuto. Comunque entrati in questa chiesa con noi c’era un gruppo di polacchi, i quali si sono avvicinati … e hanno suonato l’Ave Maria. Le lacrime, sembrava il Mississipi sembrava. Dopo di che ovviamente tutti avevamo la dissenteria, non potevamo, non c’era una toilette, ci siamo accomodati per quanto, il mattino dopo, dopo questo oltraggio da parte nostra ovviamente le pie donne che hanno inveito, con ragione sotto un certo aspetto perché abbiamo sconsacrato qualcosa che era un mito da guardare col massimo del rispetto, ma nel contempo avrebbero dovuto provvedere in qualche modo. Comunque la punizione per quello che avevamo commesso, ne hanno scelto un certo numero e chi li sceglieva il comandante. Faccio un passo indietro: il comandante del campo non ha scortato la colonna, la colonna era guidata da un sergente polacco delle SS, una vera figura del militare classico per tradizione, il quale aveva il compito di scegliere chi di noi era sacrificabile. Dopo di che c’erano i soliti due russi dietro alla colonna, i quali avevano unicamente il compito naturalmente di non far soffrire per quanto era possibile, e poi la mentina era quella che mascherava e annullava in parte, perché non poteva annullare tutto quanto. Tutto questo si è verificato per nove giorni, e per nove giorni la colonna che è partita, perché abbiamo formato varie colonne, la mia colonna che eravamo 1.500 in partenza, ho detto 1.500 mentre prima parlavo di un cinquecento, probabilmente non so quale dei due sia il valore esatto, ma comunque ammettendo che fossimo anche un cinquecento, io ero ad un certo momento, dopo che sono scappato tre volte, l’ultima volta ero il 35° vivo.

D: E di questi quanti italiani Remo?

R: C’era uno di Roma, direi che eravamo equidistanti, forse eravamo 5-6 italiani, 5-6 francesi, qualche polacco, c’erano degli ungheresi, c’erano dei cecoslovacchi, c’era tutta l’Europa.

D: Remo tu sei scappato dove più o meno, ti ricordi?

R: Sono scappato, oso dire, la prima volta sono scappato forse al terzo giorno di marcia, sono scappato perché io non avevo futuro perché i vestimenti, i pantaloni e la giacca di canapa nel camminare strusciavano sulla pelle e mi avevano scoperto le ossa delle ginocchia. Nel contempo, siccome io ero partito con gli zoccoli olandesi, erano zoccoli non adatti al mio piede cosa succedeva.. che  un po’ strusciavo in avanti e un po’ invece  a seconda del terreno. E mi sono rovinato totalmente i piedi. Un mio compagno di Milano mi ha prestato le sue scarpe, disgraziatamente nel tallone c’era un chiodo che si è infilato nel mio tallone. Comunque il medico spagnolo mi ha medicato, mi ha messo le garze di carta, che sono durate lo spazio non di una notte lo spazio di un paio d’ore, perché l’umore del liquido che usciva dalle ginocchia e dai piedi ovviamente … Comunque al terzo giorno ho detto “tanto per andare oltre”, si era creata l’opportunità, mi era sembrato che eravamo già diminuiti di numero, mi sembra che ci fosse una certa forma di lassismo da parte delle SS tedesche che erano tutti molto anziani per la verità, perché i giovani erano sui fronti, sui vari fronti. E io e Minetti di Torino ci siamo allontanati in una sosta. Avremo fatto 300 metri, un ragazzino che poteva avere 8-11 anni non di più, con un fucile, un … che era più lungo di lui, ci ha fermato, ci ha portato in paese perché evidentemente c’era stata la segnalazione, e i tedeschi avevano ovviamente schierato dei vigilanti.

D: Scusa Remo, tu quindi la tua Liberazione tu sei scappato per liberarti?

R: Mi sono liberato.

Banterla Arturo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Arturo Banterla.

Sono stato arrestato dalle Brigate Nere e mi hanno portato alla Caserma del Teatro romano, dove torturavano per far parlare e per far dire anche quello che non si sapeva.

Vi ho passato un periodo di pochi giorni, poi mi hanno trasferito alle SS in Corso Porta Nuova.

In Corso Porta Nuova mi hanno interrogato le SS; quindi mi hanno portato al Forte San Leonardo.

Dal Forte San Leonardo dopo pochi giorni mi hanno caricato su un camion con tanti altri, e ci hanno portato nel Lager di Bolzano. Tutto questo in sintesi …

A Bolzano siamo stati nel blocco E; a quanto ho capito lì c’era dentro di tutto, non erano mica tutti politici.

Il nostro blocco era chiuso, era un campo dentro nel campo, era un blocco circondato e chiuso da reticolati. Dietro al nostro blocco c’erano anche le donne, e ci divideva una parete.

E’ successo – per quel che mi ricordo – che ad un certo punto alcuni deportati stavano scavando una buca nel terreno per uscire, per scappare fuori. Ma il giorno di Natale, il 25 dicembre 1944, uno che si diceva fosse il capo-campo, e che era un colonnello dell’esercito a sua volta prigioniero, ha fatto la spia. Allora ci hanno tenuto fuori tutto il giorno sulla piazza dell’appello, al freddo, senza mangiare: dalle nostre fila dovevano uscire i colpevoli, e due o tre sono in effetti usciti; mi sembra che abbiano fatto una brutta fine, qualcuno lo hanno attaccato a un palo …

Tutta la faccenda non l’ho mica vista, e non ricordo granché della fine che ha fatto, credo che però l’abbiano fatta brutta, la fine. Da lì, a gennaio, c’è stato il trasporto per Mauthausen.

D: Scusa Arturo, ti ricordi quando sei stato arrestato?

R: A dicembre ero a Bolzano, quindi sarà stato settembre.

D: Settembre 1944?

R: Sì.

DOMANDA: Quanti anni avevi?

R: Fai il conto: sono del 1923, quindi avevo 21 anni e mezzo.

D: Tu facevi parte di qualche movimento resistenziale?

R: Sì, facevo parte della missione militare RYE.

D: Ci puoi spiegare che tipo di missione era?

R: Era una missione di sabotaggio e spionaggio di comunicazioni; ne sapevamo poco. Eravamo introdotti nei forti con documentazioni, e dovevamo fornire armi possibilmente ai partigiani, favorendoli; ci siamo introdotti nei forti con documenti, abbiamo fatto la guardia ai forti. Ci siamo anche sparati, con i fascisti, qualche volta, ma dico che è andata bene. Poi c’è stata una spia, che ha fregato me.

Sempre di Verona parliamo: nel forte S. Procolo c’erano munizioni e armi che servivano ai partigiani. Portarle fuori non era mica facile, perché la guardia sulle porte era fascista. Cercavamo il momento buono per agire: uno solo di noi era dentro, 3 / 4 di noi eravamo armati come loro; te lo immagini? Da fuori riuscimmo a fare entrare anche dei carrettini, pensa un po’, e li abbiamo portati fuori.

Una notte – mi viene in mente parlandone ora – siamo usciti, con me c’era un certo Giovannino, che era tornato dalla Russia; era uno scalmanato, non aveva paura di nessuno. Aveva una pistola, come la mia, calibro 9. Ci hanno sorpresi a portare il carrettino che altri dovevano prendere in consegna e portare fuori: alle spalle c’erano due ufficiali tedeschi. Ero davanti, Giovannino era un po’ dietro, mi disse: “Tu cammina piano, fai finta di niente”; e io dietro, facendo finta di niente… fino a che l’ufficiale tedesco che era lì vicino si avvicinò un po’ troppo al mio amico: il mio amico si girò improvvisamente, lo prese, lo buttò a terra e gli sparò. L’altro ufficiale scappò, noi abbiamo consegnato il carrettino e siamo rientrati. Non sapevamo dove fosse finito l’ufficiale, non so come abbiano fatto a portare via il morto, non sappiamo niente, neanche che fosse morto sapevo. Giovannino non perdonava nessuno.

Con un altro carro ci siamo invece imbattuti nella pattuglia fascista, ed abbiamo fatto un piccolo conflitto a fuoco: il mio amico è rimasto ferito ad un polpaccio ed io sono riuscito a portarlo fuori dal combattimento in spalla, riuscendo a salvare entrambi in qualche modo.

D: Arturo, RYE cosa significa?

R: Sono domande a cui è difficile rispondere, prima di tutto perché anche fra noi non ci conoscevamo. Le botte che ho preso dai fascisti, meno ne ho prese dalle SS, erano terribili, i fascisti erano peggio, fra fratelli eravamo peggio; volevano sapere quello che io non sapevo. Le domande erano: chi comandava? chi era il comandante che dirigeva le operazioni? Era proprio il maresciallo che comandava il forte, hai capito? ma noi non sapevamo che era lui a dare gli ordini, non sapevamo niente. Quando uno ci chiedeva: “Ma chi era che comandava le cose?” rispondevo: “E che ne so io, non conosco nessun nome”.

Non sapevo mai con chi collaborassi, noi dovevamo fare delle cose, portare materiali ed informazione, li portavamo e basta; avevamo i lasciapassare, era tutto in regola.

Poi un giorno, quando mi hanno arrestato, ho mostrato i miei documenti; mi dice: “Li teniamo noi, tu devi venire a fare un controllo”. Erano le Brigate Nere, e sono stati fortunati perché era la prima volta che mi fidavo ad andar dentro in un ambiente, era un bar e volevo bere un bicchier di vino, porca la miseria, non lo avessi mai fatto. C’era la spia … ho sentito le armi puntate alle spalle; era ben difficile che mi girassi, pensa se mi avessero trovato la pistola, che avevo in tasca. Erano tanto cretini, quella era una massa di ignoranti, non ce n’era di furbi; Mussolini era giornalista e sapeva qualcosa.

Lì sono stato arrestato e mi hanno portato proprio al Teatro Romano, e sono passato attraverso Umana.

Sono andato al processo come accusato ma avevo con me la pistola: ero in carcere con la pistola ancora in tasca!!  Loro sono stati stupidi, ma il problema per me era di liberarmi della pistola, ed era un problemissimo.

Sennonché telefonarono a mia madre che ero lì, e lei mi portò qualcosa da mangiare, dello zucchero; io l’ho rifiutato, poi ho chiamato la guardia ed ho infilato la pistola dentro la roba che mi ha portato e me ne sono liberato.

D: Come venivate reclutati voi della RYE?

R: A dir la verità non lo sappiamo; ci siamo trovati lì, e siamo stati quasi costretti. All’8 settembre ero in marina ad Ancona, poi ero venuto a casa, e il comandante ci ha lasciati liberi dicendoci: “Abbiamo fatto prima la resistenza contro i tedeschi, ma poiché a terra ci hanno abbandonato tutti, dividiamo quello che c’è sulla nave tra chi vuole andare a casa”, cioè i pochi soldi che c’erano. Eravamo sul “Savoia”, sulla nave reale, che era armata pochissimo. Ci disse: “Io vado in Bassa Italia, a Gallipoli, parto con la nave”; la nave poi è stata affondata appena fuori dal porto dai tedeschi, io ho fatto bene a tornare a casa.

Arrivato a casa c’è poi stata la mobilitazione, hanno fatto il governo fantoccio, hanno fatto quel famoso governo. Porca la miseria, una volta mi hanno beccato sotto casa: andavo a casa perché andavo a sentire Radio Londra. Poi avevo anche un’altra casa; un giorno ho trovato un tedesco, un tedesco che raccontava della Grande Guerra; era un anziano, diceva di essere stato con Cadorna, e raccontava della guerra. Siamo entrati in confidenza; mi dice: “Tu ascolti Radio Londra?”. Allora parlavo abbastanza bene il tedesco – adesso l’ho dimenticato – mi dice: “Sappimi dire qualcosa, di come va questa guerra”.  Avevo paura, ma mi disse: “Non preoccuparti finché io sono là fuori”; era un maresciallo della Wehrmacht non della SS, dunque di conseguenza quando finivo di sentire la radio lui voleva sapere le ultime notizie. Gli dico: “Guarda che va male per voialtri, guarda che è finita!”. Aveva più paura di me, era spaventato perché aveva famiglia, ed anche figli militari; era anziano.

Io giravo per la città dappertutto, con tutti i documenti regolari, con i timbri tedeschi; non so dove andavano a farli, però li trovavano.

D: Comunque non ricordi come siete stati reclutati per entrare nella RYE?

R: No, non lo saprei neanche io.

D: La vostra zona operativa era solo qui a Verona?

R: Sì, noi operavamo in città, a Verona.

D: Oltre alla RYE, c’erano altri gruppi con i quali eravate in contatto?

R: E’ possibile, ma noi non sapevamo un bel niente, non sapevamo con chi fossimo. Quando incontravamo qualcuno … per la miseria! incontro una persona alla quale devo consegnare delle cose e penso solo: “Quella persona mi vedrà”. In realtà quella persona non la conoscevo; una volta finito non sapevo niente, neanche cosa ci fosse dentro le cose da consegnare, tra l’altro. Nessuno ci diceva niente.

D: Hai parlato di Umana.

R: Umana si chiamava, Umana era il suo nome.

D: Chi era?

R: Era uno della Bassa Italia: era il carceriere del Teatro Romano, quello che dopo la guerra è stato condannato a morte dalla Corte d’Assise di Verona. Ho ricevuto un sacco di raccomandazioni a casa mia; c’era una fila di gente, tra cui preti, tutti sono venuti lì per salvare la vita a questo uomo, ma cosa potevo fare io?

Il problema mio era questo: abitavo in un quartiere nel quale tre miei amici che sono venuti con me sono morti a Mauthausen; i loro genitori dicevano: “Mica perdonerai? Lo sai che noi ci abbiamo rimesso il figlio?”. Io vedevo un uomo finito, vedevo un uomo che ormai moriva da solo, non riuscivo a condannarlo, non riuscivo. Comunque ho detto la verità nel modo più assoluto. Il giudice mi disse: “Cosa ti ha fatto Umana?” “Per la verità non mi ha fatto niente, a me non ha fatto proprio niente, non mi ha neanche toccato; mi ha accompagnato in prigione e mi ci ha chiuso”. Se gli avessi detto che mi aveva salvato perché mi ha portato fuori la pistola … lui neanche se ne era accorto. Mi ha quasi salvato, ma ad ogni buon conto. Dalla pena di morte con questa storia è passato all’ergastolo, che è già qualcosa; qualcosa ero riuscito a fare. Poi sono venuti i suoi parenti a ringraziare. Io dissi: “Non ho fatto niente, non ho detto altro che la verità” e basta, non ho detto altro.

D: Arturo, adesso iniziamo il discorso della tua deportazione. Qui a Verona, oltre agli interrogatori, hai subìto torture?

R: Sì, abbastanza.

D: Dove e da parte di chi?

R: Dai fascisti soprattutto: botte. Ti facevano una domanda e non ti facevano dare la risposta perché ti davano come minimo un pugno in bocca, ti sbattevano per terra; non riuscivi a parlare, non ti lasciavano rispondere. Al contrario, le SS, che pure erano tremende …  Ricordo che

sono stato interrogato dal maggiore, era di una gentilezza squisita: “Se non lo sai non me lo dici, ma io ti credo”, mi diceva sempre così. Ti veniva vicino in un modo tale da voler farti parlare senza picchiare, con modi gentili ed educati. Ti offriva la sigaretta e diceva: “Tranquillo, vedrai che andrà tutto bene, tu non c’entri per niente, a quanto ho capito io, cosa vuoi”. Questo sistema i fascisti non ce l’avevano.

Le SS mi hanno chiuso in una cella da un metro per mezzo metro, non si poteva neanche star distesi, comunque. Lì siamo stati per una ventina di giorni.

D: Questo accadeva al Teatro Romano?

R: No, questo nelle prigioni delle SS; al Teatro Romano ci sono stato per pochi giorni.

D: Dov’era il comando della SS?

R: La sede delle SS era nel Palazzo delle Assicurazioni in Corso Porta Nuova, nei sotterranei.

D: Da lì ti hanno preso una bella mattina; eri da solo o c’erano altre persone con te?

R: Quando mi hanno preso ero solo, le altre persone le ho trovate dentro; gli altri miei amici sono stati presi nei giorni successivi; ne hanno preso 1 o 2 alla volta, perché i fascisti avevano coraggio solo quando erano in tanti. Non li vedevo fare quel lavoro, erano forti solo se erano in tanti; quando uno scappava i fascisti avevano paura se erano in pochi. Io solo e loro in tanti, allora erano i padroni. Questo è il fatto.

D: Tu sei partito per Bolzano dal Palazzo dell’INA?

R: No, dal Palazzo dell’INA sono stato trasferito al Forte San Leonardo.

D: Quindi è dal Forte San Leonardo che ti hanno portato a Bolzano?

R: Sì.

D: Con cosa ti hanno portato?

R: Col camion sono venuto a Verona insieme con quelli che erano là; qui a Verona abbiamo trovato altri due camion pieni di gente, e siamo partiti insieme.  Prima di arrivare a Bolzano un camion si è rotto; tutti e tre i camion erano fermi sulla strada ed era quasi notte. Ci trasferirono da un camion all’altro; scendevamo a due a due; ogni tanto invece qualcuno passava sotto il camion.  Loro intanto continuavano a chiamare.  Quando toccava a me non son potuto più andar là sotto perché ormai non c’era più posto. Allora noi siamo partiti e loro sono rimasti a terra sotto il camion rotto, e così sono scappati. Gran parte li hanno poi ripresi sulle montagne del Trentino, perché erano soli, non erano stati aiutati da nessuno. Quella era una brutta zona per farsi aiutare, meglio sarebbe stato qui a Verona.

Siamo arrivati a Bolzano; ci mettono dentro al blocco E; non lo conoscevo, era la prima prigionia che facevo lì dentro.

D: Vi hanno spogliato?

R: No, a Bolzano no.

D: Vi hanno dato numero e triangolo?

R: A Bolzano no, perché era considerato un campo di smistamento; era un campo di passaggio per i campi di sterminio. Nei campi di sterminio creavano posto giornalmente: ammazzavano 100 persone e 100 deportati erano pronti da portare dentro. Nei campi di sterminio hanno eliminato tante persone, è quello il fatto.

D: Eri l’unico del tuo gruppo della RYE nel Lager di Bolzano?

R: No, ero con tutti i miei amici; il fatto brutto è che sono morti tutti.

D: Ti ricordi quanto tempo sei rimasto nel Lager di Bolzano?

R: Sono partito nel gennaio 1945, quindi ero là un po’ prima di Natale: sarà stato fra novembre e dicembre, un mese circa.

D: Ricordi qualche nome dei tuoi compagni della RYE che erano nel Lager di Bolzano con te?

R:  Ricordo i nomi di quelli morti; un certo Bragantin di Giovanni, Predoni Attilio, Marani Enrico, tutti morti. Poi c’era un altro di cui ora mi sfugge il nome; la vedova abita proprio vicino a me, lui è morto a Flossenbürg.

D: Nel corso della tua permanenza nel Lager di Bolzano ricordi se vi erano anche dei religiosi?

R: Certo, un prete c’era.

D: Te ne ricordi il nome?

R: No, l’ho sentito nominare tante volte ma ho poca memoria in questo momento; in questi ultimi anni ho perso quasi tutta la memoria. Non riesco più a ricordare, ho tanti vuoti. Comunque questo prete lo ricordo perché usciva dal campo, andava a fare la messa, non so dove; entrava ed usciva, continuava a dire “preghiamo”. Ma cosa vuoi pregare?  Dovevamo lottare con le cimici là dentro, facevamo la guerra con le cimici.

D: Era un prete veronese o di altre zone?

R: Non lo so.

D: Provo a farti dei nomi: padre Piola ti dice nulla?

R: Io non l’ho mai saputo come si chiamava quel prete.

D: Era un deportato anche lui?

R: Era deportato anche lui, è finito a Mauthausen con me; ma è morto, l’ho visto morire là io.

D: Di Bolzano non ti ricordi qualcosa in più? Cosa facevate tutto il giorno dentro il blocco?

R: Stavamo sempre chiusi dentro, a parte il fatto accaduto in quel giorno di Natale, quando ci hanno fatto stare in piedi invece che mangiare il pranzo di Natale fuori al freddo.

D: Arturo, ricordi se potevi scrivere o ricevere lettere o pacchi a Bolzano?

R: Io ho fatto una lettera, dicevano che i pacchi ce li avrebbero dati, ma io non ho mai ricevuto pacchi, perché li mangiavano loro, quello è il fatto. Ho scritto e ho chiesto, e ho ancora una lettera che ho portato qui oggi. Sulle lettere si doveva scrivere poco, quello che volevano loro; non potevamo mica dire quello che volevamo noi! Prima di partire siamo riusciti a contattare le donne, che erano dall’altra parte dell’asse che divideva i due blocchi; si poteva parlare, si sentiva dalle fessure il parlare delle donne. Siccome le donne avevano probabilmente più libertà di noi, non so se erano come noi o no, ci hanno procurato degli attrezzi per la fuga, ci hanno dato delle seghette e delle pinze. Avevamo della roba che pian piano le donne ci hanno passato. Siamo riusciti a salire sul treno con questa roba, poi abbiamo tentato di aprire lo sportello ma – fatalità! – sul vagone dove mi trovavo c’era anche il prete, e non voleva che si facesse la fuga, mentre invece noi speravamo di riuscire ad aprire un buco.  Sul vagone c’era una guardia dietro ed una davanti. E quando il treno arrivava a qualche curva e poi rallentava si poteva saltare, se va va, ma non c’era altro da fare. Sennonché ad un certo punto il treno si ferma, proprio quando avevamo quasi aperto il buco, mamma mia ragazzi! avevano dei cani, sono venuti, hanno perquisito i vagoni, sono arrivati lì, hanno aperto perché era già tagliato tutto. Sono venuti dentro con i fucili. Botte da orbi! Lì ho avuto una fortuna sfacciata ad essere stato dietro, mentre i primi erano davanti; posso dire che in quell’occasione il prete si è fatto avanti. Parlava benissimo il tedesco; è andato davanti alla guardia, si è preso la responsabilità, garantendo che non sarebbe successo più. Noi consegnammo gli attrezzi; portarono via tutti gli attrezzi che avevamo per la fuga, capito?

Basta, siamo arrivati fino a Linz, poi siamo scesi dai vagoni a Mauthausen, abbiamo fatto qualche bel chilometro a piedi in mezzo alla neve.

Siamo arrivati nel campo … Ne ho fatti tre di campi io; non sapevo neanche dove andavo a finire, là non si sapeva niente, non si sapeva neanche il nome della gente con cui eri assieme. Io mi domando come certa gente può aver fatto 10 / 12 mesi là dentro, non lo so; o facevano i kapo o erano impiegati in ufficio, perché in quei campi lì non si può mica stare; passare tre mesi era già un successo, tre mesi in un campo del genere significano che uno era molto forte. Resistevo perché nella mia vita ho sempre sofferto; ero anche un po’ abituato a soffrire, perché la mia vita è così; sono rimasto orfano troppo giovane, allora di conseguenza ho dovuto arrangiarmi, vivere, guadagnarmi il pane fin da piccolo, non avevo tempo neanche di andare a scuola, io. Pertanto ero un po’ abituato alle sofferenze, e le sopportavo un po’ meglio degli altri.

Arriviamo alla spoliazione: siamo arrivati in mezzo alla piazza dell’appello, tutti nel piazzale, tutti in fila, tutti là: “Spogliarsi!” Io credo che ci fossero 20 gradi sotto zero quel giorno. Spogliarsi tutti quanti, là in mezzo al piazzale! Là ci sono stati i primi morti. Mi ricordo di due uno che mi ha detto che faceva l’orologiaio a Verona, ma non li conoscevo. Sono morti dal freddo, era gente delicata.

Dovevi aspettare di arrivare al tuo turno poi facevi la rasatura e la doccia fredda. La rasatura era totale, totale, compreso la riga, la riga da qua a qua (in testa), dal di dietro. Poi ci hanno dato degli stracci, perché non c’erano più divise quando siamo arrivati noi, quelli con le righe; ci hanno dato stracci di morti, che venivano smessi e restavano lì. Ti ritagliavano sul dietro della giacca un quadretto, ci mettevano sopra 4 righe; il numero di matricola qua (sul petto), lì (sulla gamba) ed uno sul polso, di lamierino. A me l’hanno dato di lamierino legato con filo di ferro. Ci chiamavano solo con quel numero.

Ecco perché si poteva morire spesso: per chi non capiva bene il tedesco erano guai. Chiamavano il numero ma lo chiamavano in tedesco, hai voglia te! A quelli che avevo vicino lo ripetevo io, ma quelli più distanti non rispondevano. Ecco il guaio, e se non rispondevi erano guai; se cadevi eri morto, ti ammazzavano, era proibito cadere per terra, e se non cadevi ti gettavano per terra. Comunque, passata quella cosa …

D: Ricordi il tuo numero di Mauthausen?

R: 115.356; devo averlo in tasca comunque.

D: E in tedesco come fa?

R: 115 mila dunque, aspetta che non mi ricordo adesso … einhundertfünfzehn-dreihundertsechs-undfünfzig. E’ giusto?

D: Ti hanno mandato nel Wascheraum?

R:No, ci hanno fatto la doccia lì, e dopo ci hanno mandato in una baracca, dove non c’erano brande, non c’era niente, tutti per terra. Stavamo tutti se messi di fianco, per terra. Dunque, hai voglia te!

I primi giorni ci avevano messo in quelle condizioni e, puoi figurarti, quando di notte passavano per … il problema era quello. Allora ogni tanto, per allargare, passavano col frustino e chi era colpito doveva uscire. E quelli non li vedevi più, li trovavi poi … in attesa del forno crematorio. Ho preso tante pacche, tutte col frustino, non mi sono mai mosso, ho fatto finta … Lì bisogna imparare a salvarsi, là il cervello era mobilitato solo per salvare la vita e basta. Dopo che lì ho fatto un po’ di giorni, hanno fatto posto e ci hanno messo in una baracca un po’ più larga; c’erano delle brande, eravamo in 6 per materasso, dico sul materasso da uno in 6, l’uno sopra l’altro; da sopra, non parliamo, veniva giù l’orina, perché il pericolo era quello … no, non a Mauthausen.

Da Mauthausen mi hanno mandato via dopo una settimana, sono andato in un campo più piccolo che non sapevo dove fosse. Non so dov’era perché non sapevo niente di niente, non ti dicevano niente, e mi hanno fatto lavorare in una montagna, dove facevano pezzi d’aeroplano.

Siccome facevo il saldatore mi hanno fatto saldare gli alettoni degli apparecchi. Ma poi non ho fatto tante saldature, non potevi farne tante potevi farle perché era un pericolo perché … ti fucilano, perché quegli alettoni lì, se cedevano, l’aereo precipitava …

D: Arturo, il nome di questo sottocampo lo ricordi?

R: No, non sapevo neanche dove fosse. Invece quell’altro sì, lo ricordo: era Gusen 2. Quando sono venuto via da là non sono più tornato a Mauthausen, sono andato nel sottocampo di Mauthausen, sono andato a Gusen 2.

D: Prima di andare a Gusen 2 ti hanno mandato in un altro sottocampo?

R: Sì dove ho detto che dovevo saldare gli alettoni degli aerei.

D: E come si chiama questo sottocampo?

R: Questo non lo so, non ne ho mai avuto idea, non sapevo neanche dove fosse, perché avevo fatto le strade tutte di notte. Non avevamo mai visto niente. Là vedevo solo la galleria sotto la montagna, non sapevo neanche dov’ero io, là.

D: Eri con altri italiani?

R: In quel campo lì no, ero il solo italiano. Ero insieme coi russi, pensa come ci capivamo bene! Ci si capiva che era una meraviglia coi russi! Neanche una parola, beh, insomma, pazienza. Lì abbiamo trascorso una ventina di giorni, non molto; non si stava neanche male, eravamo in pochi.

Poi siamo rientrati a Gusen 2, lì cominciò la tragedia. Purtroppo lì siamo finiti. Entrando abbiamo visto la prima baracca dove c’erano degli ebrei, quasi tutti ebrei, le donne, mamma mia! Tutte squartate, ho visto delle cose che io non … roba impressionante, vedere le donne incinte che le tagliavano per vedere … si son viste delle cose che fanno ribrezzo al solo pensarci. Il medico mi ricordo che mi ha detto quando siamo usciti: “Arturo non raccontarlo a nessuno, non ti crederanno.”

Io non posso credere alla gente perché le belve sono più umane, almeno verso i loro figli o fratelli, ma scherziamo! lì eravamo peggio delle belve. Per quello che riguarda me, li avrei ammazzati tutti i tedeschi, tutti dal primo all’ultimo, dal bambino al grande, perché quando si passava per la strada, passavi un pezzo di strada dove c’era il pubblico, e ti sputavano addosso, ti buttavano la mezza sigaretta lì davanti. Se facevi per prenderla te la pestava e ti sputava addosso, se era un civile; se era una guardia, hai voglia! alla fine ti bastonava e basta, ti dava col fucile.

Quando siamo arrivati a Gusen 2 ci hanno dato la baracca con le brande; erano tre file, adesso non ricordo esattamente, eravamo in sei su un materassino da una persona, tre di qua e tre di là.

Dovevi avere la fortuna che qualcuno morisse, perché se qualcuno moriva durante la notte lo buttavi giù dal letto e stavi più largo. “Morte tua vita mia” dicevano; a quel punto lì non c’era più niente da fare.

C’è un episodio che ricordo: all’ora di mangiare, allora eravamo dentro nella galleria, portavano anche marmitte, ma non so cosa ci fosse dentro; c’era una specie di brodaglia scura, nera, c’era della roba dentro, e c’era un certo Morra di Milano. Disse: “Se vai a casa, saluta i miei”, perché lui stava morendo, stava morendo stava morendo. Insomma è spirato lì, e io avevo in mano la sua scodella per mangiare; visto che è morto lui l’ho mangiata io, cosa potevo fare? mica la buttavo via.  Poi c’era anche un ragazzo lì, un ragazzo russo, avrà avuto 13 anni, piangeva sempre, aveva sempre fame; gli dicevo: “Ma io cosa posso fare? io non posso darti niente”. Allora quello che racimolavo …

Avevo trovato un tedesco, questo non l’ho mica raccontato; era un invalido della Grande Guerra, l’ho convinto un giorno a portarmi delle bucce di patata; gli dissi: “Non voglio niente, solo che quelle che butta via tua moglie invece che nell’immondizia portale qua” “Mi ammazzano – dice – non lo posso fare”. Aveva paura anche lui, una paura tremenda. Finché un giorno mi fa un segno; c’era un banco con gli attrezzi, mi fa cenno di guardare e lui se ne va, fa il giro. Io vado là e trovo patate, bucce di patata erano. Tra l’altro anche un po’ grossette, però crude. Allora bisogna provvedere perché mangiarle crude così è un problema. Mi sono preso una ciotola dove c’era l’olio per ungere le macchine, ho versato l’olio, ho messo dell’acqua dentro; però per scaldare non avevo niente, ma avevo la corrente elettrica lì, avevo da attaccare la corrente. Cosa ho fatto? Siccome mi sono sempre arrangiato anche per l’elettricità, ho pensato: “Se provoco un corto circuito in acqua, scaldo l’acqua”. L’ho fatto, ho preso due lame, le ho unite – ne avevamo finché volevamo – le ho messe vicine, isolate in testa, i due capi con i due poli, le ho messe nell’acqua, una volta mi è saltata la valvola e una volta no, ha tenuto: bolliva che era un piacere, l’acqua!

Allora ho detto al ragazzo: “Continua!” Se la guardia vede il vapore, hai voglia tu! Siamo rovinati. Dopo una mezz’oretta che bolliva le abbiamo tirate fuori. Poi hanno portato il famoso rancio, abbiamo riempito la scodella con quelle, abbiamo aggiunto mezza io e mezza lui, abbiamo fatto la pancia piena. Poi ci siamo riempiti di acqua per finirlo perché lì c’era, nella galleria, una specie di rubinetto che continuava a mandare acqua, ma c’era scritto: “Acqua non potabile, proibito bere”, quando invece noi avevamo sete, fame e sete.

Per riempire la pancia quando ci passavo davanti mettevo la bocca sotto e mi riempivo la pancia. Allora dicevo: “Se devo morire muoio, ma almeno bevo!” Non mi ha mai fatto male l’acqua, stavo bene quando avevo piena la pancia, avevo sempre fame. Un po’ d’erba magari la trovavi da mangiare qua e là e qualcos’altro facevi.

Quando rientravamo la sera il problema era che, non so gli altri, ma io non riuscivo più a tenere niente, il corpo non teneva più né l’orina né niente; avevi bisogno di andare alla latrina e la latrina non era mica nella baracca. Era fuori in piazza, si doveva traversare il piazzale. Attraversare il cortile era un problema perché c’erano le guardie che si divertivano a sparare ai birilli, e camminavi in mezzo alla neve. Dunque dovevi stare attento che non ci fosse la guardia e passare al momento giusto. Sennonché quando avevi bisogno della latrina, prima di arrivarci avevi già fatto tutto per strada e ti restava tutto addosso. Addirittura avevamo una branda sopra di noi, e quelli sopra facevano tutto sul materasso, e sotto pioveva. Quella era la vita che si faceva lì.

D: Tu parli di Gusen 2 e di una galleria. Gusen 2 è il campo vicino a Gusen 1, dove c’erano le tue baracche?

R: Gusen 1 e Gusen 2 erano vicini.

D: E la galleria dove lavoravate era vicino alla baracca?

R: No no no, c’era molta strada da fare.

D: Prendevate un trenino?

R: Un trenino, sì.

D: Andavate a Sankt Georgen?

R: Non lo so dove: si finiva sotto la montagna e poi si andava a piedi, non so.

D: E lì cosa costruivate?

R: Io lavoravo ad una saldatrice, continuavo a saldare le stesse cose; non sapevo neanche a cosa servissero; cercavo qualche cosa per fuggire, volevo costruirmi una pinza per tagliare i reticolati, erano con l’alta tensione.

Avevo promesso di resistere ai miei amici che erano con me e che sono morti. Loro non volevano, dicevano: “Non ce la facciamo più!”. Avevano piaghe sulle gambe, anch’io le avevo, e gli stracci facevano pus; ci pulivamo con stracci unti che trovavamo per terra, non avevamo altro.

Se vai in infermeria sei morto. Sai cosa faceva l’infermeria? Quando uno andava là dentro, dopo un giorno gli chiedevano: “Sei guarito?” “No” “Allora domani viene il medico, vai di là, ti fanno l’iniezione e in due giorni sei guarito e non hai più niente.” Infatti guariva subito perché poi andava in forno crematorio e non parlava più. Gli facevano l’iniezione e dopo un’ora erano morti, erano già guariti quelli: i miei amici purtroppo hanno fatto quella fine, sono morti.

D: Ci puoi raccontare una tua giornata? Partivate da Gusen 2, prendevate il trenino, arrivavate vicino alla galleria, e poi proseguivate a piedi; erano grandi queste gallerie?

R: Io ne conoscevo una o due, cioè quel poco che potevo girare, perché dovevi avere tanta forza per girare. Con la scusa che magari mi occorrevano degli elettrodi, andavo a cercarli nel fondo della galleria; continuavo a camminare, andavo a cercare dove non c’erano, tanto per vedere se trovavo qualche amico, anche solo per poter parlare. E’ brutto non poter parlare con nessuno; c’erano un sacco di lingue là, francesi, spagnoli, c’erano tutte le nazionalità là dentro. Italiani ne trovavi pochi; se avessi trovato un italiano mi avrebbe fatto molto piacere parlarci assieme; poteva essere un po’ di consolazione. Invece non ce n’era dove ero io; mi hanno messo in una squadra che chiamavano “la bea fia”: erano tutti russi. Poi sono venuti una decina di italiani che hanno messo con noi. Lì ci hanno fatto fare un lavoro in un luogo che adesso non ricordo; mi hanno levato da lì e mi hanno messo in un’altra galleria, e si mangiava per conto nostro, tra l’altro. Per tutto questo gruppo mandavano una marmitta, che era tutta per noi. Questo gruppo di russi aveva un capo; io non sapevo come chiamarlo, lo chiamavo Molotov. “Ehi, Molotov, vieni qua!”, allora dice lui: “Io sono la maggioranza, io distribuisco il mangiare”, con la guardia lì. Questo succedeva perché era tutto brodo e poca roba dentro, tutta sul fondo; quando noi italiani andavamo là pescava il brodo, quando arrivavano gli amici suoi pescava sul fondo. Una volta, due, tre, poi gli dissi: “Senti amico, guarda che qua siamo nelle stesse condizioni, così non andiamo mica bene.” Sennonché la guardia ci vide discutere e cosa successe? Venne lì e chiese: “Cosa succede?” “Qualcosa non quadra,” dico “vede, questa è tutta acqua”. La vede, poi fortunatamente … mise giù il mestolo. Fece piegare il capo dei russi e gli diede 25 frustate. “Allora da domani tu distribuire rancio, ma attenzione fai la stessa fine se fai …”.

Siamo tutti uguali, se vediamo un italiano cerchiamo di aiutarlo di più. Se riuscivo, la mia gabella era sempre la migliore comunque, perché ovviamente ero l’ultimo e pescavo il fondo, anche se c’era il rischio di restar senza.

D: Con voi in galleria c’erano anche dei civili a lavorare?

R: Io non li ho mai visti, forse da altre parti può anche darsi, ma io non ne ho mai visti di civili; ho sempre visto guardie militari e prigionieri che lavoravano.

D: Non c’erano neanche capi officina, Meister?

R: No no no no, i capi officina li conoscevo, li ho avuti nel 1941. C’ero già stato nel 1940 io in Germania a lavorare, e a quel tempo li ho avuti, conoscevo ingegneri, conoscevo tutti, ho conosciuto anche della brava gente come si trova come dappertutto, ma lì dentro brava gente non ce n’era proprio.

D: Quando parlavi di donne hai parlato di un medico che t’ha detto: “Non raccontare a nessuno”; era il medico del Revier?

R: No, erano in due: c’era un medico russo ed uno americano, quando sono venuto a curarmi all’ospedale, dopo la Liberazione.

D: Dove eri al momento della Liberazione?

R: Ero a Gusen 2. Me lo sentivo nel corpo che c’era qualcosa che non andava; vedevo ormai gli aerei che passavano a filo del campo e non sparavano un colpo, sul campo non hanno mai sparato, mai lanciato una bomba, nonostante bombardassero dappertutto.

Lì, cosa hanno fatto i tedeschi? Quando venivano i bombardamenti ci facevano uscire dal campo e ci facevano andar fuori 100 metri nel campo libero, in piedi, come se i piloti fossero fessi e non potessero segnalarci con il ricognitore agli aerei dietro. Non abbiamo mai preso una bomba dagli aerei alleati, mai un colpo è arrivato nel campo, mai assolutamente niente.

Gli ultimi giorni vedevo i tedeschi che continuavano a parlottare, non riuscivo a capire, allora ho chiesto a Molotov: “Come la capisci questa cosa?” e lui ha risposto: “Se finisce ti levo gli occhi e te li faccio mangiare”, poiché aveva ricevuto 25 bastonate.

Eravamo vicini, vedevo che le guardie cominciavano a non picchiare più, però c’era il pericolo che ci ammazzassero tutti prima di andar via; non credevamo che arrivasse così rapidamente la Croce Rossa. La Croce Rossa è arrivata per prima nel campo, ha raccomandato di star tutti fermi nelle baracche, di non muoversi, parlando in tutte le lingue.

Poi è venuta dentro tutta la truppa, hanno disarmato le guardie che così non hanno fatto in tempo ad uccidere più nessuno …  tanto si moriva da soli, perché quando gli americani hanno detto che eravamo liberi ci hanno anche detto di restare nel campo, in attesa dei soccorsi; dovevamo però prima lasciar passare le truppe di occupazione, perché l’assistenza è dietro, mica davanti.

Sembrava un manicomio nel campo, tutti quanti correvano dove c’era il rifornimento di generi alimentari; c’era burro, c’era un po’ di tutto là dentro. Fortunatamente non ho perso il cervello, lo avevo ancora, se riuscivo ancora a tenerlo; non ho preso niente, sono rimasto come ero. Di quelli c’è stata una moria; sono morti quasi la metà, in che modo? mangiando, per l’assalto ai viveri, tutti quanti dentro a mangiare, a mangiare; gli altri invece morivano per la diarrea. Non capisco come ho fatto ad arrivare all’ospedale, qua sono nel vuoto. Mi sono trovato all’ospedale ma era già passato un mese dalla ferita; io non sapevo niente, un mese dopo ero ancora all’ospedale. Quando ho potuto vedere, prendevo il latte che mi davano con una specie di succhiotto. Ho sentito ciò che un maggiore medico americano ed un medico russo dicevano: “Questo ragazzo ce la fa; questo no. Facevano la selezione, loro. Quello di fianco a me era tubercoloso ma mi bevevo la sua roba, roba da matti!

D: La Liberazione la ricordi così. E il ritorno come lo ricordi?

R: Quello è stato peggio, per ignoranza mia, tra l’altro.

Mi sono dimenticato di dire che nell’ultimo periodo si era arrivati al punto in cui c’era un’apatia … ormai non sentivi più niente, non ti interessava che battessero o non battessero. Ho avuto la lezione una volta che ho rischiato fortemente la vita, perché mi hanno bastonato per cosa non ricordo. Ogni stupidaggine bastava per prendere le botte. Passando, ho urtato col braccio una guardia, e mi ha dato 25 frustrate, per un affare del genere. Dopo mi disse: “Tu devi morire perché sei un fascista”. Ero a terra e ho radunato in un attimo l’orgoglio e tutte le forze che avevo, mi sono raddrizzato e mi sono messo faccia a faccia con lui. Gli ho detto: “Non ripetere più quello che hai detto, nel tuo interesse ammazzati subito ma non passarmi più davanti, altrimenti, pur con le mie poche forze, ti distruggerò”. Non ha avuto neanche il coraggio di replicare, mi ha lasciato stare. Ho detto soltanto: “Non ripetere più quella frase”. Non m’ha neanche toccato, credevo di aver finito con quel discorso.

Tornando all’ospedale, quando ero in grado di camminare, ma non ancora di mangiare, perché mangiavo appena appena un po’ di brodo – mi ci sono voluti anni prima di cominciare a mangiare, ho impiegato un bel po’ di tempo anche a casa per riuscire a mangiare, perché rigettavo tutto, l’intestino non teneva più niente – allora, quando cominciai a camminare, feci la spedizione per l’Italia.

Prima c’era il programma “Dammi la nota”: avevano preso i nomi dei superstiti che trasmettevano poi per radio, e mi hanno dichiarato disperso. Invece avevo dato la giusta posizione a quelli della radio ma c’era una confusione tremenda. C’erano i treni che caricavano ogni tanto un gruppo di persone che andava in Italia, verso il Brennero. Un giorno esco dall’ospedale, cammino, cominciavo a fare le passeggiate intorno all’ospedale; lì vicino c’era a 50-60 metri il binario della ferrovia; i treni passavano di lì, si fermavano e ricaricavano i prigionieri da portare in Italia. Avevano un sacchettino con dello zucchero che avevano dato loro per fare il viaggio, delle cose da mettere in bocca. Io non avevo niente perché non ero neanche sulla lista dei partenti per l’Italia, assolutamente no. Cosa ho fatto? Ho visto il treno fermo e ho chiesto: “Scusate, dove andate, in Italia?” “Sì, stiamo andando in Italia”, allora dico: “Posso salire anch’io?” “Sali”. Senza dir niente a nessuno prendo il treno. Quando sono arrivato al Brennero, gli altri mangiavano quello che avevano io non avevo niente, ero tanto debole che credevo di morire proprio. Allora dopo un po’ mi hanno dato qualcosa e sono arrivato fino a Bolzano. A Bolzano il guaio era che c’era la quarantena da fare, io non la volevo mica fare; volevo andare a casa, volevo andare a casa.

Il fatto è che invece a Bolzano c’era una confusione che non si poteva neanche camminare, neanche rientrare nel campo. C’era un baraccone, c’era della gente che scriveva a macchina. Con un altoparlante hanno gridato forte: “Quelli provenienti dai campi di sterminio KZ devono passare davanti a tutti”. Allora sono passato avanti, mi hanno fatto un biglietto che non mi è stato né timbrato né firmato; mi hanno chiesto la provenienza, hanno scritto tutte quelle cose lì, da dove vengo e da dove non vengo. Poi mi hanno detto di aspettare, mi hanno dato un panino imbottito ma … chi lo mangiava un panino imbottito, in quelle condizioni?

Vengo fuori, mi mettono in coda, e un signore dice: “Di dove sei? di Verona?” “Sì” “Vuoi venire a Verona?” “Magari! sto aspettando qua, devo fare la quarantena” “Vieni qua, sali, sali”. Aveva la macchina, salgo, parte e via … ospite. Me ne vado da Bolzano e arrivo a Verona.

Capuozzo Raffaele

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Capuozzo Raffaele, nato a Milano il 24.5.24.

D: Perchè sei stato arrestato?

R: Ancora oggi non lo so. Comunque penso che la causa sia stata che ero stato sospettato di far parte del primo Comitato di Liberazione di Verona, quando invece non c’entravo niente.

I guai miei si riferiscono al fatto che nel 1943 accompagnavo a Verona l’avvocato Carlo Caldera e l’avvocato Antonio Alberti, residenti sul Lago di Garda, e mio padre, funzionario di pubblica sicurezza. Venivamo a  Verona, io guidavo una 1100 con le bombole di metano; li portavo a Verona alla mattina e li riprendevo alla sera. L’appuntamento per tutti era alle ore 17.00 vicino all’Arena, di fronte al famoso Bar Cillario, frequentato dalla Verona bene, dai fascisti, dai capi. Lì li caricavo e si tornava a Pacengo.

Della scoperta del primo Comitato di Liberazione, di cui facevano parte i nomi che ho indicato, io non sapevo niente. Mi presero tre soldati della SS e mi portarono in corso già Vittorio Emanuele, al numero civico 11, al Palazzo dell’INA. Là in quel periodo aveva sede il comando delle SS in Italia del famoso generale Harster.

All’entrata 15 o 16 uomini mi diedero chi un pugno, chi una sberla. Mi hanno portato in cortile, dove c’erano i garages. Nei garages c’erano le celle; entrai in cella e trovai un personaggio che diceva di chiamarsi Borgoncini Luca, era ex colonnello dell’esercito e comandante dell’Accademia di Modena; penso facesse parte dei famosi servizi segreti dell’esercito. Era un uomo meraviglioso che il tempo mi ha fatto conoscere molto bene; era il cugino del famoso monsignor Borgoncini, nunzio apostolico firmatario dei famosi Patti del Laterano.

Io in quel periodo ero a Verona, fuggito da Bolzano l’8 settembre (1943), dove ero al  IV Genio Alpino.

L’8 settembre (1943) alla mattina eravamo tutti sul greto del fiume Talvera; dopo tre giorni riuscii ad allontanarmi dal Talvera perché una crocerossina mi disse: “Dì che hai l’angina”. Mi portarono fuori; il capo disse: “Perché viene fuori questo?” “Ha l’angina”, e per i tedeschi angina significava malattia infettiva. Mi portarono due / tre giorni all’ospedale civile di Bolzano. Rimasi all’ospedale di Bolzano, quando si seppe che sarebbe arrivata la Gendarmerie, come la chiamavano, per fare un controllo degli ammalati; sospettavano che vi fossero anche dei non malati. Un certo professor Casanova, che era un primario, mi diede allora un paio di pantaloni e una camicia; riuscii a scappare. Andai a piedi fino a Ora, perché la linea da Ora a Bolzano era stata sinistrata dal bombardamento del 3 settembre 1943. Sono arrivato a Verona durante il coprifuoco dove sono riuscito ad avere un documento che mi esentava dall’essere reclutato per lavori durante i bombardamenti.

R: Mi arrestarono l’11 maggio (1944) alle 5 e mezzo della sera, e mi portarono al palazzo dell’INA, dove rimasi tre mesi. Non erano convinti o non si rendevano conto che io non sapevo niente, e mi chiedevano chi era il primo Comitato di Liberazione.

In quel momento sapevo che esistevano solo il rosso e il nero, io ero fascista. Chi mi spiegò un po’ di comunismo fu il famoso Roveda, primo sindaco di Torino, a causa del quale morirono tre ragazzi veronesi.

D: Dopo tre mesi trascorsi nel palazzo dell’INA, cosa successe?

R: Una notte, alle 11 di sera, ci portarono in stazione a Porta Nuova, ci caricarono su un carro e mi portarono a Bolzano. Questo tra la fine settembre ed i primi di ottobre.

D: Su un carro ferroviario?

R: Su un carro ferroviario.

D: In quanti eravate più o meno?

R:  Eravamo circa una sessantina dentro questo carro. Rimanemmo sino al mattino sul vagone, poi ci scaricarono a Bolzano e su un camion ci portarono al campo di concentramento.

D: Ricordi qualche compagno che era con te su questo carro?

R: C’era un certo Renato Bianco di Thiene, era alto quasi due metri. C’era un certo Giuseppe Zampieri, detto Il paia, morto durante la marcia della morte. Poi c’era don Aldrighetti, l’arciprete di Soave, e il dottor Garriba, allora pretore di Soave. C’era un altro prete mantovano che si chiamava don Berselli, una persona squisita. Rimanemmo a Bolzano, non posso dire per quanti giorni; so che in ottobre, il 22 o 23, arrivammo a [Dachau].

D: Del Lager di Bolzano cosa ricordi?

R: A Bolzano non avevo nessuna matricola, chi aveva le matricole era destinato a rimanere lì.

Arrivando a Bolzano ho trovato degli amici che erano passati dalle celle di Corso Vittorio Emanuele. Per esempio un certo Gianni Ferraiolo, che era stato paracadutato dagli americani come spia; là poi seppi che c’era e mangiavamo assieme il rancio che ci davano, il comandante della corazzata Littoria, quella famosa corazzata di cui tutti parlavamo perché era rimasta bloccata a Taranto o a Brindisi, non mi ricordo dove. C’era anche lui, era un ammiraglio, una persona squisita, piccoletto ma vedevi che era un ammiraglio. Lì si parlava del più e del meno, facevamo i bollettini di guerra così, tanto per dire, perché le notizie erano frammentarie, non c’era una comunicazione diretta. C’era qualcuno che, uscendo a lavorare, sentiva il cittadino, poi tornava a dire: “Ho sentito, non ho sentito”, erano tutte voci di riporto.  Così ognuno faceva le sue supposizioni, ma io a 20 anni supposizioni ne avevo poche da fare, ascoltavo, anche perché non avevo altro da fare. Da lì ci portarono in stazione, ci caricarono sui vagoni; eravamo più di 30, anche 70 per vagone. Mi ricordo il freddo, faceva freddo, perché ci hanno lasciato tutta la notte a Bolzano prima di partire; probabilmente attendevano delle tradotte. Arrivammo a Monaco, cioè a Dachau. Lì iniziò il mio primo numero di matricola; se me lo chiedi in italiano non lo so, te lo posso dire in tedesco perché era, dunque: il 113 mila, una cosa del genere, non me lo ricordo bene però è documentato. Quello di Buchenwald invece lo ricordo bene perché è stato l’ultimo: devo studiarlo per dirlo in italiano perché lo sentivo sempre in tedesco e così l’ho memorizzato. Arrivammo a Dachau, ci fu l’appello. Il giorno del mio arrivo arrivarono gruppi dall’Italia, dalla Francia, dalla Jugoslavia, eravamo circa 3 / 4 mila sul piazzale. Lì arrivammo con i nostri abiti borghesi, ci misero in fila, ci spogliarono completamente nudi e in fila, ci tolsero l’anello, io avevo un anello, la collanina, l’orologio; ci misero in fila per andare alla disinfezione.

Il bello della disinfezione, cos’era? Un prigioniero, arrivato prima di noi, con la macchinetta ci pelava dappertutto, la testa, sotto, dappertutto; più avanti ce n’era un altro con un sacchetto di sapone in polvere: ce ne dava una manciata, entravamo in stanzoni enormi dove c’erano dei tubi da cui usciva acqua, facevamo la nostra doccia. All’uscita dalla doccia c’erano dei tavoloni enormi con sopra pantaloni, giacche e zoccoli olandesi: ognuno si prendeva la giacca e il pantalone – le mutande non erano più in uso, le canottiere non c’erano – e arrivammo. Poi ci diedero un triangolo da appendere qua con scritto “italiano” e il numero di matricola che era 113mila e qualcosa. Poi ci fu l’adunata di noi tutti in divisa; quello che mi fece più impressione è che durante questo inquadramento venne il Lagerältester a dire: “Questi vanno ai vari blocchi, distribuiteli”.

D: Stavi parlando del capo del Lager?

R: Sì, il capo-Lager venne con l’elenco e chiamò fuori Samuel Barda, capitano paracadutista inglese. Parlò in tedesco, non so cosa dicesse. Cominciò a sferrargli pugni sulla faccia, e questo capitano, sarà stato un metro e 55, non si mosse, rimase sull’attenti imperterrito come se gli facessero delle carezze. Poi ebbe un mancamento, stava per cadere, ma si rialzò e ritornò nella fila. Io venni inviato al blocco 24; con me c’erano don Berselli, don Aldrighetti, il giudice Garriba, altri veronesi, e Renato Bianco. Le adunate si svolgevano alla mattina alle 6, bel tempo o pioggia: ci mettevano in fila tra le due baracche 23 e 24; eravamo tutti in fila sotto l’acqua ad aspettare che venisse il comando a farci la conta. Quando arrivava davanti al cancello il capo di togliersi il cappello, poi quando era finito ci lasciavano sotto l’acqua, e per scaldarci ci ammassavamo, continuavamo a girare su noi stessi in modo che ogni 10 minuti si veniva fuori poi si rientrava, ci si riscaldava. Molte volte avveniva che alla mattina mancasse qualcuno, allora si doveva ricontare. Poi il capo-baracca della camerata diceva: “Ci sono uno o due morti dentro”; faceva il controllo nella baracca e contava i morti.

Il campo era nato per avere o il singolo o i castelletti da tre ognuno nel proprio posto, ma noi eravamo arrivati al punto che eravamo in sei in due lettini anziché in tre, e forse era meglio perché, non avendo da coprirci, stavamo stretti e uniti, e stavamo al caldo. Dopo tante volte si usciva per andare a lavorare; venivano, sceglievano, prendevano per portare a  pulire il campo con la carriola, sempre scortati dal Lagerpolizei. Il Lagerpolizei non era un prigioniero politico o un prigioniero militare avevamo anche dei militari che non erano politici, ma aveva la giacca con le lettere KG sulla schiena, c’era il KG, che voleva dire Kriegsgefangener cioè prigioniero di guerra. Invece noi eravamo zebrati, e dopo la faccenda di Badoglio, per sfregio ci fecero la famosa riga in mezzo alla testa; sembravano dei rospi, affamati, magri; questo era fatto solo agli italiani per ricordare il periodo di Badoglio. Dopo il tradimento di Badoglio ci fecero questa riga in mezzo, larga due centimetri, sul resto della testa c’era un po’ di peluria, mentre lì eravamo proprio a zero.

D: Parlaci dei kapo.

R: I kapo erano delinquenti comuni tedeschi: ladri, contrabbandieri, rapinatori, condannati per reati comuni. Al posto di cinque anni di carcere facevano fare loro due anni e mezzo di campo di concentramento come kapo. Davano loro la fascia ma vestivano in borghese; loro erano in borghese e vestivano la loro fascia nera con la scritta bianca: solo la lettera K.

D: Sei rimasto sempre  nel blocco 24?

R: Sempre. E’ il blocco dove era morta la famosa principessa di Bulgaria, Mafalda; correva voce che, non so in quale blocco, ci fosse anche il figlio di Stalin, ma noi non lo abbiamo visto.

D: Stiamo parlando ancora di Dachau: hai trovato altri italiani?

R: Eh mamma mia, ce n’era un’infinità di italiani, quando ci scaricavano dai vagoni. Arrivavamo col vagone ferroviario dentro Dachau, perché in Dachau arrivavano i treni. E dietro i reticolati, dietro le reti metalliche abbiamo sentiti un’infinità di: “Ciao, sei italiano?”; dopo, i contatti venivano interrotti. Con me c’era l’avvocato Ruggero Jenna, discriminato da Mussolini come ebreo.

D: Durante il tuo periodo di Dachau sei uscito dal campo per lavorare?

R: Sì, ci hanno portato 3 / 4 volte a Monaco dopo i bombardamenti per togliere le macerie sulla ferrovia.

D: Di fronte alla tua baracca, la 24, c’erano la 26 e la 28; ricordi chi c’era in quelle baracche?

R:  La baracca non era singola, era un corridoio di baracche; le due baracche erano unite ma ognuna aveva il suo ingresso: c’era una camerata a destra e una a sinistra. Ogni baracca aveva dentro due camerate; c’era un piccolo ingresso che divideva le due baracche, e lì, in quell’ingresso, dormiva il capo-baracca, cioè il Blockältester.

D: Cosa avevate in baracca?

R: C’era la fila dei lettini, diciamo dei castelletti di legno; ognuno di noi aveva il suo posto, che non era per un singolo ma che ogni giorno diventava per più persone perché continuamente arrivavano nuovi deportati e li inserivano dove c’era la possibilità.

D: Avevate armadietti?

R: Quali armadietti? Non era mica il Grand Hotel! Parliamo di Dachau! non c’erano armadietti! Si dormiva col vestito che avevamo addosso perché il pigiama non ce l’hanno mai portato…

D: Prima dicevi che all’interno delle baracche qualcuno moriva; questi morti dove venivano portati?

R: Al crematorio, ai forni. Vicino ai forni c’era anche una grossa baracca, che aveva la sembianza di una stalla, di un ippodromo, diciamo di un baraccone; in mezzo si camminava su della paglia. Quando uno non ce la faceva più andava a dormire là ed era tranquillo perché non lavorava più; là passava uno che gli dava il mestolo di brodaglia. Però quando moriva lo mettevano su un carrello e lo portavano ai forni. E là c’era tutta questa fila di forni, li attaccavano con i fili di ferro, li buttavano dentro, uscivano i fili vuoti dalla parte di là. Questi erano i forni.

D: I forni però erano al di fuori del campo.

R:  Adesso non so capire esattamente; sono stato 3 / 4 anni fa a vedere il mio nome in archivio.

Ora è tutta un’altra cosa perché le baracche non ci sono più, ci sono quattro pali, e l’unica baracca visitabile è il “Grand Hotel”, cioè la baracca dei Lagerpolizei. Non è una baracca come le nostre; quella era bella luminosa, spaziosa, la nostra era la classica baracca. Adesso hanno messo al posto delle baracche, nel viale dove erano le baracche, dei pali neri, dei travi, su due colonnine di cemento, e non hanno conservato niente.

Poi dicono Revier, ma non era lì perché, entrando sul piazzale, c’era un promontorio, una baracca, con un medico spagnolo prigioniero, che chiamavano Revier, cioè infermeria. Chi aveva bisogno andava, e quelli che andavano cosa facevano?  Davano loro un cucchiaio di ittiolo, perché le malattie che scoppiavano lì erano foruncoli, specialmente sul collo; avevano la carta oleata, non ti davano delle bende, ma un pezzetto di garza con un cucchiaio di ittiolo, che sembra lucido di scarpe marrone; te lo mettevi sopra questi foruncoli. Scoppiavano foruncoli, dissenterie,  ma malattie in quel periodo non ne ho mai viste, non c’erano.

D: Dopo, dove ti hanno portato?

R:  A Buchenwald.

D: Con cosa ti hanno portato?

R:  Col treno fino a Erfurt.

D: Quando ti hanno portato a Buchenwald?     

R:  Ai primi di novembre 1944.

D: Quando sei arrivato a Buchenwald, altra spoliazione, altra immatricolazione?

R:  Sì. Da lì siamo partiti come un distaccamento di una sessantina di uomini; ho perso di vista tutti, don Aldrighetti, il povero Ruggero Jenna, tutti. E siamo andati a finire a Bad Gandersheim, un paesino con un promontorio in una ex chiesa. Ci buttarono dentro lì. Non c’erano né castelletti, niente, c’era solamente paglia per terra. L’unico sgabuzzino ce l’avevano i due kapo, prigionieri anche loro, e il Lagerältester cioè il capo-Lager di questo gruppo. Dormivamo nella chiesa, e lavoravamo alla costruzione delle carlinghe di aerei per il famoso bombardiere notturno Heinkel. Nel frattempo, un altro gruppo di prigionieri, a fianco dello stabilimento, creò un campo di concentramento con le sue baracche. Così ci tolsero dalla chiesa e ci misero nelle baracche.

In una baracca c’era il comando tedesco, dove dormivano i tedeschi; due baracche a nord, vicino ad una ferrovia, erano le nostre baracche. Ci alzavamo la mattina alle 6 per il famoso antreten, andavamo in fabbrica a lavorare, e la sera alle 5 ci riportavano al campo e ci davano da mangiare. Un mestolo di acqua e rape con una fetta di pane, cioè un pane diviso in cinque.

D: Quando sei partito per Buchenwald, don Aldrighetti, Jenna e gli altri sono rimasti a Dachau?

R:  Sono rimasti là, non ho più saputo niente di loro. Don Aldrighetti però è sopravvissuto, è tornato in Italia a fare l’arciprete a Soave, mentre invece credo che il povero Garriba morisse in campo di concentramento.

D: Anche don Berselli è ritornato.

R:  Sì, lo vedrei molto volentieri.

D: Poi è mancato. Loro sono rimasti a Dachau?

R:  Sì, perché quando noi partimmo per andare a Buchenwald chiesero degli operai specializzati in fresatura. Allora un certo Plinio Panciroli, veronese, che era cameriere al ristorante “Girelli” in corso Vittorio Emanuele, e Giuseppe Zampieri, detto Il paia perché era lungo e magro, mi dissero: “Bocia, vieni con noialtri”, loro conoscevano queste cose. Io dico: “Non son mica bon” “Ghe penso mi, vien via con me!” e lo segui. E andammo a Buchenwald.

D: A Buchenwald siete rimasti poco.

R:  Poco, sí. Dopo 15 / 20 giorni ci trasferirono in un sottocampo del campo di Buchenwald che era il campo di Bad Gandersheim.

D: Vicino a quale città era?

R:  Bad Gandersheim è nella zona di Halberstadt. Lo so perché dopo l’evacuazione del campo, attraversammo a piedi molti paesi vicini. Loro non volevano abbandonare i campi per l’esperienza fatta nei Paesi che vennero occupati dagli americani o dai russi: lasciando infatti libero il campo e facendo uscire i prigionieri, questi andavano nelle case e facevano piazza pulita. Allora la loro idea fu di tenerci sempre in gruppo e di farci camminare, affinché all’ultimo momento ci prendessero gli americani o gli inglesi. Partimmo da Bad Gandersheim e facemmo una strada. Ora non la ricordo con ordine, però so che passammo paesi che mi sono rimasti in mente: Vernigerode, Aschersleben, abbiate pazienza per i nomi che posso storpiare, non voglio offendere nessuno. Comunque era la zona intorno all’Elba. Arrivammo a Halberstadt in periferia, alla sera. Eravamo accampati senza tende e senza niente in un prato enorme, i tedeschi erano attorno di guardia. Di giorno camminavamo e c’erano dei prigionieri che tiravano carretti con tutto il bagaglio dei tedeschi; ogni tanto si vedeva che qualcuno si toglieva la divisa e si metteva in borghese.

A un bel momento, una mattina ci svegliammo, quando arrivò il chiaro potemmo vedere – credo che dormire fosse relativo – che non c’era più nessun tedesco, erano spariti. Io e altri due di cui adesso mi sfugge il nome, non so se è un certo Zanardelli di Brescia, ricordo che ci incamminammo alla chetichella e ci infilammo in una stalla.  Ci nascondemmo dietro alle balle di paglia, per vedere cosa succedeva. Nel pomeriggio alle 4 sentimmo dei carri armati venire avanti; dico: “Arrivano i tedeschi!” ma ad un bel momento vidi che il carro armato aveva la stella col cerchio, erano alleati.

Sopra il carro armato c’erano soldati inglesi e ciprioti che parlavano l’italiano. Allora, visto che erano americani, siamo venuti fuori: noi eravamo con la divisa a righe, non potevamo dire: “Siamo dei signori di passaggio”. Ci videro, ci diedero della cioccolata, ci fecero salire sul carro e arrivammo a Halberstadt.

Halberstadt era già una cittadina organizzata, ci presero in consegna e ci portarono in fondo al viale più grosso di Halberstadt, dove c’era una fabbrica, la Junkers. La strada si chiamava Adolf Hitler Strasse.

Ci portarono in questa fabbrica; nelle baracche dietro c’erano i prigionieri che lavoravano. A quel punto venne qualcuno, ci disse: “State qua, mettetevi calmi, tranquilli, verrà la Croce Rossa ad aiutarvi, a vestirvi”. Ci hanno dato delle cose, e rimanemmo in attesa che le autorità competenti si organizzassero per poter far partire ognuno per la propria residenza. C’era il gruppo di italiani, erano quasi tutti genovesi. Dopo c’erano i russi, i polacchi, gli slavi, ognuno aveva il suo settore; eravamo lì in attesa in rientrare. Arrivò l’ordine che c’era una tradotta che veniva verso l’Italia e ci  caricarono sul treno, che era molto piccolo, ed era sempre un carri di merci. Arrivammo a Innsbruck, ci misero in quarantena. Poi venne la Commissione Pontificia e con un camioncino da Bolzano venimmo fino a Verona. Arrivati a Verona io sono andato direttamente a casa e ho trovato i miei.

D: Ritornando ancora a Buchenwald, dicevi di esservi rimasto 15 giorni.

R:  Sí, 15 / 20 giorni.

D: Ricordi se all’interno del campo hai visto donne o ragazzetti?

R:  Quello era pieno, quello era pieno, c’era il reparto donne e il reparto ragazzi. Per esempio si diceva a Dachau che c’era la famosa Ilse Koch mi pare, che era l’amante del comandante del campo. La Koch aveva la mania dei tatuaggi. Era una iena, perché quando vedeva una bella schiena di tatuaggi li segnalava e i kapo, quando questo veniva ammazzato, gli toglievano la pelle, con cui lei si faceva fare le abat-jours. Ripeto questo si diceva ma io non l’ho visto perché io non ho tatuaggi. Il numero sul polso non era regola obbligatoria “Tu fatti questo”, ognuno se lo faceva per non dimenticare. Tanti dicevano “Fatti fare un tatuaggio” perché erano bravissimi a farlo, facevano disegni meravigliosi. Però questo poteva comportare delle conseguenze.

D: Dopo Buchenwald sei andato nel sottocampo. Con voi a lavorare in fabbrica c’erano anche dei civili?

R: Civili tedeschi, per Dio! c’erano. Io avevo, forse per la mia mania di pulizia, un tovagliolo con cui mi lavavo. Mi misero a fare un lavoro di precisione, che consisteva nel modellare, con delle dime e con una macchina che faceva le curve, curve in metallo dural, una specie di alluminio, per le carlinghe degli aerei; nelle varie forme della carlinga c’erano dei pezzetti che venivano incastrati. La macchina era un po’ particolare: aveva due ganasce a pressa, e infilandovi questa striscia piano piano dava la sagoma che doveva combaciare con la sagoma in legno. Allora il capo dei civili tedeschi veniva e vedeva che era fatto bene. Quando veniva controllava e, qualche volta di nascosto, mi metteva sempre un pezzetto di pane. Loro alla mattina alle 10 avevano il Brotzeit cioè il tempo del pane. Gli chiesi del sale, e un giorno mi portò un cartoccetto di sale, perché non mangiavo niente di quello che trovavo; tanti sono morti non perché li hanno ammazzati i tedeschi, ma perché mangiavano tutto quello che trovavano e morivano di dissenteria.

Io invece raccoglievo le ortiche, quando andavamo fuori e passavamo nei campi, le strappavo; ecco perché ero, diciamo, un po’ rovinato, perché le nascondevo sotto la giacca. Alla mattina in fabbrica con un barattolo di conserva le davo a quello dei forni, me le bollivano, me le cuocevano, e poi io alla sera me le toglievo dall’acqua, le facevo scolare, e al giorno dopo con il sale me le mangiavo. Io sono stato un grande mangiatore di ortiche. Ma non perché sapessi che facevano bene, sapevo che non era una pianta velenosa; ne avevo il terrore, infatti le bollivo e le mangiavo, e il tedesco mi dava il sale. Mi diceva: “Fertig Salz?” e il giorno dopo mi portava un sacchettino di carta con un po’ di sale.

D: Poi l’evacuazione e tu hai partecipato ad una marcia della morte.

R:  Mi è arrivata una carta dal Deuxieme Bureau francese, che conservo tuttora, in cui mi chiedono in quali punti erano seppelliti i morti, avendo io fatto parte di quella marcia. Le strade erano quelle che erano, durante la marcia eravamo per cinque in fila e si marciava. In quel periodo l’esercito era in rotta e bisognava lasciare a loro il passo. Il comandante decise di metterci per tre, e naturalmente la fila si allungò e la scorta divenne insufficiente. Allora decisero che i primi 20 in testa, non appena avessero visto un bosco, sarebbero entrati con le pale a fare le buche; il capo, quando aveva il segnale, contava gli ultimi 30 dalla coda, e mentre tutti marciavano, a un bel momento 30 sparivano, si sentivano le raffiche e lì venivano seppelliti.

Indicai sulla carta i punti al Deuxieme Bureau  ma per saperlo esattamente bastava vedere dove c’era un gruppo di pioppi o di piante di piccolo bosco: lì c’erano senz’altro.

D: Secondo il tuo ricordo, quanti ne sono stati uccisi?

R:  Ogni 3 / 4 ore ne “partivano” una ventina. Eravamo in 3.000, messi in fila per tre: è una bella coda! perciò tante volte ci siamo accorti verso la fine di stare attenti a non far parte né del gruppo di testa né del gruppo di coda, per la lotta della sopravvivenza. Da mangiare ce ne davano solo quando arrivavamo alla sera e ci raggruppavano in questo piazzale, in questo campo, ci davano la fetta di pane. Stop.

D: Quanto tempo è durata questa marcia?

R:  Ah è durata … Non potrei dirlo con certezza; ho dormito all’aperto 7 / 8 notti, adesso non lo so esattamente, però ci sono tutte le date della partenza dal campo di Bad Gardersheim.

D: 55 anni dopo tu ancora non sai perché sei stato deportato.

R:  La storia si è risolta perché la mia faccenda non era complicata: senza saperlo trasportavo i fondatori del primo Comitato di Liberazione di Verona, che era composto dall’avvocato Tommasi, il conte Tedeschini, Todeschi, era quel piccoletto, l’avvocato Carlo Caldera, grande socialista, il grande democristiano Antonio Alberti, che è stato presidente del Senato, e poi dopo altri. L’ho saputo dopo, tanto è vero che durante la prigionia  mia lì passavano tutti prima di essere smistati o al Forte Procolo o agli Scalzi; io facevo l’iniezione a un certo Polito, questore di Roma, quello che arrestò Mussolini, che era in galera con me. Gli facevo l’iniezione perché soffriva di sciatica, e aveva la scatoletta con quella siringa di vetro. Però non eravamo più nei garages, perché dopo la fuga durante un bombardamento, sotto proprio dove erano le cantine fecero costruire due file di celle piccole, singole. Allora dalla mia cella alla sua gli facevo l’iniezione, e mi diceva come dovevo fare, io le facevo, non era carne mia, comunque spingevo e facevo l’iniezione. Questo era Saverio Polito, questore di Roma, l’uomo che arrestò Mussolini.