Longhi don Daniele

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Don Daniele, cosa è un Lager per lei?

R: Un Lager, per me? Quello che era in passato era appunto un luogo di penitenza, di soddisfazione, di riparazione. Ma adesso i Lager sono nella storia, sono nella memoria di noi e nella memoria di quelli che come voi se ne occupano, perché non si dimentichi il passato e perché il passato possa essere anche una guida, un sostentamento spirituale per l’avvenire, se non per noi che oramai siamo anziani, almeno per le generazioni che ci seguono e capiscano che sia finita con queste guerre, sia finita con queste rivalità ecco, diversamente tutto il mondo diventa un Lager. Tutto il mondo, non soltanto gli ambienti che voi conoscete a memoria, meglio di me. Tutto il mondo finisce se non c’è la pace, il mondo finisce per diventare un Lager che durerà sempre. Se mi riferisco alle ultime parole del Papa recitate e proclamate con forza proprio in questi giorni nel Nicaragua e in Venezuela “Finalmente basta con la guerra, che non si ripeta”; queste sono le parole del Papa. Ed ecco, confidiamo che questo sia un auspicio per questi pochi anni, fino a quando non andremo, voi certamente entrerete nel nuovo millennio, e allora che queste parole siano un auspicio lungo almeno per tutto il secondo millennio.

D: Cosa avvenne, Don Daniele, il 19 dicembre del 1944?

R: A me? Il terzo arresto che ho avuto. È andata com’è andata, ero lì, basta, chiuso, me lo ricordo bene. Sono stato arrestato. Ai tempi di Andrea Gaggero, poveretto, quando l’ho visto venire giù dalla soffitta del quinto piano, tutto insanguinato tutto rovinato, eravamo d’accordo nel dire: “Guarda che se succede qualcosa tu cavatela, di che la colpa è mia e che tu non c’entri” e allora io ho dovuto fare il fintone e ho detto “Io questo qui non lo ho mai conosciuto”, ma non è giovato a niente perché mi hanno portato via e basta. Dopo ci siamo rivisti con Gaggero, poveretto è morto anche lui, ci siamo rivisti in cella per diverso tempo, e poi la sua memoria è finita, e se me lo ricordo proprio il 19 dicembre ’44. Tre arresti. Tutti mi dicevano: “Perché non sei scappato?” Io ne ho portato via qualcheduno, nascosto, appena c’è stato un accenno, un prete, Don Giacinto Carbonari, che era a Bolzano, era di notte con il treno merci, l’ho portato a Padova, dopo sono tornato indietro, sono tornato altre volte giù a rivederlo ecco lui, lui se n’è andato. Altri, l’ingegnere Saul ecc… tutta gente che ha preferito andare, ma allora io ero quasi giovanissimo e avevo soltanto l’entusiasmo davanti, avevo in testa i fratelli Bandiera, Antonio Scesa di Milano. Quando lo portavano i tedeschi allora, ma i tedeschi di Maria Teresa, quella gente là, gli Asburgo che avevano occupato il lombardo veneto, ecco avevo in mente Antonio Scesa durante il percorso per andare verso il suo calvario, è passato davanti a casa sua, voi lo sapete, e li hanno detto, “Vuoi qui?” e lui ha detto: “No, no, tirem innanz”.

Quindi io avevo queste idee e questi entusiasmi giovanili, oggi non sarei più in grado di comportarmi in quella forma, ma allora, sì. Allora sì perché tanto dicevo: “Tanto a Bolzano mi dedicheranno una piazza o una via o una scuola” Ecco, si era un po’ invaghiti, o imbevuti non so, di gloria passeggera, ecco. Ecco il perché per me quel 19 lì era la conclusione ecco.

D: È stato arrestato da chi?

R: Sono stato arrestato due volte, sempre dal medesimo, era un alto altesino, ma io non ricordo più, un piccoletto, ma non mi ricordo più i nomi. Il primo arresto c’è stato quando ero nella zona industriale, a Bolzano sempre, il secondo arresto, mi pare il 15 dicembre, poi il 19 il terzo, forse era meglio scappare ma Don Guido è rimasto, diceva: “Stiamo qua noi”. Altri sono andati via, diceva: “Restiamo qua noi due, a Bolzano alla zona industriale bisogna rimanere, ci sono le famiglie disperate, tutto l’insieme”. E allora sono rimasto volentieri anche, anche in ossequio al mio ministero sacerdotale, ero cappellano della zona industriale.

D: Per aiutare quanti erano già dentro nel Lager di Bolzano, voi come vi siete organizzati per procurarvi il cibo da portare poi dentro?

R: Noi abbiamo avuto molti soldi da Milano, dal cardinale Schuster, molti soldi, ci mandavano le banconote, mi pare che fossero da 500 lire, o da 5 lire non mi ricordo più, ma a rotoli. Quindi bisognava tagliarli, uscivano dalla zecca direttamente e noi li si tagliava e c’erano tutti quei soldi. Il cassiere era Don Guido Pedrotti, soldi per il sostentamento delle famiglie e anche dei prigionieri, li prendevamo specialmente da questa fonte. Immaginate che ad un certo momento, io ero appena tornato da Roma in quel periodo, e io non lo so non esagero ma alcune centinaia di donne, mamme, spose, fidanzate, sorelle, quindi in prevalenza donne, venivano giù dall’ambiente di Carpi, di Fossoli dove era il campo di concentramento, sapendo che i loro cari erano deportati a Bolzano e venivano su. Quindi era un afflusso giornaliero, con tutti i mezzi, treni, mezzi pubblici, mezzi privati, arrivavano e finivano per venire lì da noi due. Lasciavano anche soldi, lasciavano lettere da consegnare, ricordi e tutto un insieme di cose e quindi come sede eravamo lì, in via Torino e ci si dava da fare utilizzando anche queste forme assistenziali, proprio in aiuto, a conforto di questa gente che veniva a trovare i propri cari.

Dopo li vedevamo nel corteo, chiamiamolo corteo, anche se è una parola piuttosto elevata questa, il gruppo che usciva tutte le mattine rientrava nel mezzogiorno, usciva di nuovo, erano tutti prigionieri nostri, ma file anche di 200, 300 persone che andavano al lavoro e quindi lungo questo percorso si aveva il coraggio di avvicinarne qualcuno, domandare: “Chi è il tale? Dove trovo il tal altro?” Come sul posto del lavoro, specialmente sotto la galleria del Virgolo, ai margini di Bolzano, al di là del fiume Isarco e c’era la maniera di avvicinarli perché lavoravano dentro in questi ambienti, come lavoravano anche per le pulizie, per la manutenzione, proprio negli ambienti delle SS che avevano occupato per esempio il Corpo di Armata. L

Lì c’erano i vari Gaggero, lì abbiamo trovato Gaggero e gli abbiamo dato il primo rotolo di soldi e poi alla sera lui è rientrato come sempre, ma o c’era una spia o chissà, non sappiamo, comunque appena lui è entrato è stato perquisito e hanno trovato i soldi, e quindi è andato di mezzo per primo Don Guido Pedrotti e dopo il sottoscritto.

D: Dopo l’arresto cosa avvenne?

R: Dopo il terzo arresto? Intanto ci hanno tenuti là quella mattina, nello scantinato del Corpo di Armata di Bolzano e poi, sempre tutti, saremmo stati là almeno una ventina, tutti con la faccia rivolta al muro in piedi tutta la mattina fino a quando dopo a gruppetti di tre o quattro con le macchine ci hanno portati giù in campo di concentramento. Per me, non so per gli altri, ma per me hanno usato una vettura lussuosa, veramente lussuosa. Mi ricordo che era foderata di rosso dentro, forse per non creare sospetti o per evitare incidenti o ribellioni della gente, a me hanno portato giù con questa macchina. Appena dentro alla baracchetta, era una vera casa di mattoni, ecco, allo sportello, è lì a domandarmi i dati. Tutti i miei dati, dove, quando ero nato, dove vivevo ecc… e poi questo è stato una tribolazione per me, quando mi hanno domandato chi erano i miei parenti più vicini. E ho dovuto fare il nome della mia mamma. Quello è stato per me il momento che non dimenticherò, mai. Ho dovuto dare il nome e l’indirizzo della mia mamma, il motivo voi lo sapete, che cercavano appunto non delle vittime ma almeno dei capri espiatori, in caso che noi fossimo fuggiti o fosse successo qualche cosa, e allora loro si rivalevano sui parenti, la mia mamma, non gliel’ho mai detto poveretta, perché ho sempre avuto paura, d’altra parte quello ho dovuto dire. Allora da quel momento sempre con la mia veste da prete e con il mio colletto di allora che si usava, lo sapete no, allora via, blocco celle. Mi hanno buttato lì quelle due striscette, il numero 7459, e mi hanno perquisito, mi hanno lasciato l’orologio, è stato il mio grande amico e compagno, se no non sapevo come passava il tempo e ho avuto l’orologio, da tasca però, quello mio, quindi è stato per me un amico che mi ha aiutato, in quelle condizioni dovevamo sempre tenere la fisionomia nostra, quindi ognuno il proprio vestito appunto in caso di confronti con altri operatori di libertà, partigiani e così via, allora nel confronto dovevano confermare: “Sì questo lo conosco, questo non lo conosco”, quindi per confronti praticamente e mi è rimasto l’abito mio, la veste.

Anche il giorno quando, se ricordo bene, deve essere stato forse il 25 di febbraio, ci hanno incolonnati e ci hanno portato al treno, tra gli stabilimenti della zona industriale, e lì sul treno era di domenica, e non so se eravamo una ottantina dentro un carrozzone bestiame, ma io mi ricorderò sempre questo episodio.

Qui i prigionieri mi vedevano forse qualche volta passeggiare in fila come i bambini dell’asilo fuori dal blocco celle è lì sul vagone del treno ricordo che hanno detto: “Ma qui ci deve essere un prete con noi” e allora io rispondo: “Sì, sono io, sono il parroco della zona industriale, io prego per voi, voi pregate per me è vi do la benedizione a voi e a tutti i vostri cari”. Era molto commovente, c’è stato un momento di silenzio assoluto quando ho detto queste parole. Dopodichè c’era un vecchietto, ma io ho perso i nomi oramai, c’era un vecchietto anche lui prigioniero, di Belluno, il quale aveva un bel sacchetto pieno di pane, di pezzi di pane e lo ha distribuito a tutti, fino a che ce ne era di questo pane, e allora abbiamo detto: “Ma adesso lei rimane senza”, e lui dice: “Ma tanto non ne abbiamo bisogno” “Perché no?” Perché dice, ma questo è storico: “Noi non saremo deportati in Germania”, “Ma come? Siamo sul treno chiuso, bloccato, piombato, che cosa avverrà?” “Niente, ci riporteranno al nostro posto, al campo di concentramento di Bolzano, noi non andremo in Germania”. Questo è storico, peccato che non posso dire il nome perché non me lo ricordo più, ecco i due episodi. Quindi alla sera del giorno dopo, quindi di lunedì sera, eravamo a febbraio e quindi la notte è arrivata presto come sempre, e ci hanno riportati. Quella era una bella occasione per me, siccome abbiamo attraversato a piedi, come potevamo farlo, perché ce ne erano diversi dei nostri che venivano sostenuti dai propri compagni perché non potevano neanche camminare, e abbiamo attraversato la zona industriale che io conoscevo palmo a palmo, quella sarebbe stata una bella occasione per me di infilarmi in qualsiasi ambiente, cioè negli stabilimenti della zona industriale. Non l’ho fatto, e sono tornato in carcere. E abbiamo tirato avanti fino al 30 di aprile.

D: Ma quando è stato messo nel blocco celle, in quanti eravate nel blocco celle, e poi perché lei è stato messo nel blocco celle?

R: Il blocco celle, tutto sommato, non lo so se erano 19 o 20 celle, adesso non mi ricordo più, so che sono andato dentro, chiuso, e basta. Sono sempre rimasto là, questo fino il 25 gennaio forse, finalmente mi hanno levato da quella cella dove ero solo, isolato e mi hanno portato sempre nel blocco celle nella parte sud. E’ lì che ci siamo incontrati anche con Don Gaggero dopo, e quindi ero insieme ad un gruppo, 3 o 4 dentro, siamo rimasti per un certo periodo, non so quanto, siamo rimasti anche in 14 in una sola cella. C’era il posto per uno, eravamo in 14 persone e ci si alternava per riposarsi, un’ora stavano in piedi loro, un altra volta buttati giù noi, 14 persone. Quindi è roba da morire anche asfissiati, senza più ossigeno, e quella era la cella di un grande partigiano, Arnaldo Colleselli, era preside del liceo classico di Belluno. Adesso è morto però, prima era parlamentare europeo, dopo ho sentito che è scomparso, e così abbiamo continuato la nostra vita.

D: Don Daniele, l’alimentazione in che cosa consisteva quando era nel campo?

R: Dunque davano a mezzogiorno una brodaglia, era sempre quella, praticamente si beveva perché non c’era dentro altro e davano un panino, con la forma di questo recipiente qui, questo portacenere, ecco, così grande era la pagnotta che era fatta con farina di orzo ma certamente anche con la paglia, paglia tagliata, sminuzzata, l’avevamo vista, vera paglia. Lì però io commettevo giorno per giorno una imprudenza, cioè invece di mangiarmela tutta questa pagnotta come facevano gli altri, niente io me ne tenevo lì metà, perché dicevo: “In caso mi venga uno svenimento che abbia qualche cosa da mettere in bocca”, quindi per me era una tribolazione, ero disteso sul letto a castello, e il pane lo mettevo lì, tutta notte sentivo il profumo di quel pane, era una tribolazione per me, però dovevo resistere e non mangiarlo per paura di rimanere senza.

D: Per un sacerdote essere dentro il Lager cosa voleva dire? Voi potevate celebrare?

R: Neanche a parlarne, no. Mai celebrato. Mai. È escluso. Io non ho mai celebrato dentro. È venuto a suo tempo, nel periodo di Pasqua del ’45, è venuto da Belluno, da Feltre mi pare, era monsignor Bortignon, l’ho rivisto dopo la guerra, lui ha celebrato fuori, nel campo all’aperto, e noi attraverso quella bocca di lupo, quella finestra ascoltavamo. Mi ricordo che ha detto: “Coraggio che anche il sacrificio di Cristo pareva vano e sorpassato e invece da quel sacrificio del calvario è nata la Chiesa e tutto l’intero movimento cristiano e cattolico”. Questo mi ricordo. So che il clero di Bolzano ha insistito presso questo monsignore, diceva: “Guardi che abbiamo dentro un sacerdote che era il cappellano della zona industriale, a noi interesserebbe che potesse riprendere il suo ministero, veda se può avvicinarlo”. Nel blocco celle c’erano molti della sua diocesi ma non lo hanno lasciato entrare. Abbiamo seguito la messa all’aperto ma mai noi, non c’è stata nessuna volta che abbiamo potuto celebrarla, insomma eravamo diversi preti dentro, ma la messa neanche a parlarne, no, mai.

Io non ho mai chiesto e poi chiedere per sentirsi o per essere colpiti magari con uno schiaffone. La botta che ho preso qua io, da Schiffer… Aveva un anello, ho detto di no, mi hanno fatto una domanda dell’interrogatorio, era il giorno dopo Natale del ’44, il pugno che mi ha dato qua, era qui e “Boom”, io ho fatto così, l’interprete tedesco della Val Gardena dice: “Non si muova”, io mi sono ribellato, quindi il trattamento era non certamente umano, era meglio tacere. Come quella volta, accanto alla mia cella c’era l’onorevole Colleselli, lo ho detto prima, gli ho detto: “Cerca se trovi un pezzetto di sigaretta o qualcosa, dai da bravo dammi”, io ne avevo in tasca, ma dopo nel giro di pochi giorni sono andate e ricordo che siamo riusciti quella sera tardi a congiungere la mia cella con la sua, c’era il pavimento, pochi centimetri più alto perché entrasse l’aria, c’era la porta, ebbene abbiamo preso la cintura mia e la sua e l’abbiamo messa fuori sul piccolo corridoio, lui ha agganciato la sua cintura dei calzoni alla mia e ha attaccato dentro una cicca così, di sigaretta, e allora piano piano, tanto c’era un freddo enorme, si è irrigidita anche, è stato facile tirare piano piano fino a che io ho raggiunto la cicca e allora lui ha ripreso la sua cintura, io la mia e qualche minuto dopo è entrato dentro il comandante del Lager, il maresciallo Haage insieme a quello della Val di Non, come si chiamava? Che era dentro custode, le verrà il nome, ci pensi un poco.

D: Novello?

R: No, Novello no, era quell’altro, io ho ancora tutta la sua corrispondenza a casa, insomma sono venuti dentro con il nervo di bue, prima hanno tirato fuori dalla cella Colleselli poveretto, lo hanno bastonato fino a quando hanno voluto e poi hanno chiuso e hanno aperto la mia cella, fuori, là sono stato io, ho tirato fuori la cicca e gliel’ho fatta vedere. Loro pensavano che fossero biglietti magari che ci mandavamo, io sono rimasto là, visto questa cicca brutta e consumata il comandante Haage so che mi ha salutato così: “Schwein” che vuole dire “porco”, “Schwein” e giù, qui di dietro sul collo, mi è venuto un collo grosso così, e qui mi ricordo la botta che ho preso, e ha aggiunto anche “Sau ” vuol dire “troia” quindi “porco” e “troia” e mi hanno bastonato ancora, dopo basta, chiuso la porta, dentro, silenzio assoluto tutta la notte.

La mattina dopo arrivano i nostri falegnami e con una tavola a tutte le celle hanno ostruito questo passaggio di aria, hanno messo lì così, come un piedistallo, hanno ostruito il buco da dove entrava l’aria, noi due abbiamo taciuto ma la colpa era nostra, era inutile perché pensavano appunto che di notte si lavorasse a trasportare biglietti o qualche cosa. Quindi chiuso anche quell’incidente. Quello è stato proprio provocato da me e dall’onorevole Colleselli.

D: Il 3 maggio, Don Daniele cosa avvenne?

R: Avvenne questo, allora il 3 maggio appena uscito fuori io, il 30 aprile lei sa meglio la data, quando sono uscito fuori al pomeriggio, alla stessa ora quando si è suicidato Hitler, lì è avvenuto l’ultimo massacro da parte delle SS perché ne hanno presi non so se erano 32, erano 32 mi pare e li hanno massacrati. Dopo abbiamo messo una lapide anche lì sull’angolo della cinta della Lancia, lì sull’angolo davanti alla Montecatini ci deve essere una lapide, quella l’ho inaugurata io, a ricordare questi che sono stati massacrati.

Dopo siamo tornati nella normalità, morti questi gli altri si sono dispersi e quindi abbiamo istituito quello che è stato il Governo del Comune di Bolzano, in attesa poi della forma democratica per la nomina del responsabile del Comune e ci siamo radunati come poi ogni settimana ci si radunava sempre per problemi. Io ho avuto come compito, non so se glielo ho detto altre volte, sono stato nominato Assessore all’Assistenza e alla Scuola e ho nominato io il primo Provveditore agli Studi, che era preside in un liceo di Merano e quindi ha accettato e sono andato a prenderlo su in Val di Fiemme e gli abbiamo fatto la proposta: “Guardi mi hanno indicato che lei potrebbe essere adatto” e tutto l’insieme, lui ha accettato e quindi io ho avuto questo incarico che è durato diversi mesi.

Dopo io sono tornato nella mia zona industriale a fare il prete e il Comune è andato un po’ per conto suo. Ci siamo trovati lì nella sede, come si chiama quel palazzo di fronte al monumento alla Vittoria, il Palazzo della Provincia?

D: Palazzo INA?

R: INA, ecco, lì ci si trovava per quello che riguardava l’andamento del Comune, mi hanno inghirlandato diverse volte, avevo le porte aperte in questura, dappertutto, quanti francesi del governo di Pétain, quanti erano lì a Bolzano e io li proteggevo, li difendevo anche in questura, “Ma no questo lasciatelo libero, lasciatelo vivere” ne ho avuto parecchi, non so quanto tempo è durata questa forma assistenziale. A questi di Pétain in modo particolare, e poi anche due degli ex comandanti del campo di concentramento, che venivano da me. Uno poi, mi verrà il nome, molto conosciuto allora, mi ricordo che è venuto da me a chiedermi protezione, perché non so se è stato processato, non mi ricordo, e gli ho detto: “Ti metto a posto io”. Prima di arrivare a Bolzano, dov’è quel paese, c’è una valle che va dentro.

D: Val Gardena?

R: Prima di Chiusa, c’è una valle andando verso nord sulla sinistra che va dentro, in fondo c’è un castello anche, ecco lì c’era una colonia venuta su da Bologna in cui c’era un gruppetto di ragazzi, lo ho messo lì. “Stai tranquillo che ti terranno nascosto”. Lui è vissuto lì, mi ricordo che poi ho partecipato anche al suo processo, quindi anche quello è venuto da me.

Sapevano che io male non potevo farne, anche perché avevo il mio ministero quindi non avrei fatto del male. Sono venuti dopo a chiedere a me aiuto e protezione specialmente davanti alla questura, dove in questura c’era un maggiore, già delle SS, ma qualche anno prima è diventato amico degli italiani, era della questura e questo maggiore aveva l’incarico di rintracciare un po’ i vari comandanti delle SS e processarli. Quante volte mi ha fatto vedere tutti i verbali di gente che aveva trovato, aveva trovato a Essen in Germania, aveva trovato nientemeno che il maggiore Schiffer, “E come lo ha trovato?” “L’ho trovato sul viale della Stazione ferroviaria, ho visto uno che veniva con due valigie, l’ho riconosciuto subito, mi sono avvicinato, si è fermato e ha messo giù le valigie”. Ha detto: “Prendimi”. È stato arrestato da lui, portato via, poi che sappia io.

D: Torniamo al Lager. Entrato le hanno fatto l’immatricolazione, quindi è iniziata la spersonalizzazione della persona

Ecco, vi chiamavano per numero, no?

R: Sì, matricola tale, matricola tal altra.

D: Quindi lei veniva chiamato con il suo numero di matricola?

R: 7459

D: Poi aveva anche un triangolo rosso lei?

R: Certo, tutti noi. C’era il pezzettino qua.

D: Che lei ha conservato ancora.

R: È sotto, è qui.

D: Dopo lo vediamo.

R: Il triangolo rosso.

D: Triangolo rosso perché poi c’erano diversi tipi di triangolo?

R: Certo, c’era il triangolo rosso per i politici, noi, giallo era per gli ebrei, per esempio, e per gli ostaggi c’era un altro triangolo, non ricordo il colore.

D: Lei diceva Don Daniele che il suo abito, la sua veste gliel’hanno lasciata.

R: Sempre, come hanno lasciato gli abiti degli altri, intatti come sono stati arrestati.

D: Quindi non è che glieli hanno tolti.

R: No, per niente.

D: Però lì con il numero di matricola che le hanno attribuito, lì è iniziata proprio la spersonalizzazione della persona.

R: A un certo momento sì, eh.

D: Quindi il Lager era anche l’inizio della spersonalizzazione della persona, avvilirla il più possibile, e anche attraverso forme di violenza.

R: Beh, lasciamo stare la violenza.

D: Don Daniele, dentro nel campo, nel Lager la gente che c’era, c’erano uomini, donne, anziani, bambini anche? Si ricorda anche di bambini?

R: Certo. Mi ricordo uno, avevo tutti i nomi in testa una volta, lui veniva molto spesso, una volta due alla settimana sotto le finestre, ma non dalla parte dell’interno del campo, ma tra il recinto e il blocco celle, quel ragazzetto lì, ebreo, passava sotto a darci notizie: “La radio ha detto questo”.

D: Vi informava, vi teneva informati.

R: Era un bambino così, avrà avuto undici anni penso.

D: Poi diceva che nel Lager c’erano anche altri sacerdoti.

R: Sì, ma si succedevano, andavano, non è che ci incontravamo noi, insieme. Mano a mano che c’era il convoglio che partiva ogni tre settimane, ogni ventun giorni partiva sempre un treno carico fra le settecento, ottocento persone e andavano verso la Germania.

D: Nei campi di sterminio?

R: Nei campi di sterminio.

D: In Austria, Germania?

R: Dove, noi non lo sapevamo dove.

D: Ecco, questo voi non lo sapevate?

R: Si sapeva che andavano via.

D: Ma all’interno del campo i deportati erano addetti anche a dei lavori, facevano dei lavori?

R: Tutti erano, sì, il blocco A e il blocco B, per esempio erano tutti lavoratori, che venivano la mattina in fila, io ho detto corteo ma insomma in fila andavano ai posti di lavoro. C’era uno stabilimento vero e proprio di meccanica dove c’era l’ingegner Bertinetto, erano là sotto il Virgolo, vero? Nella galleria grande, li assorbiva dentro qualche centinaio di questi operai, specializzati, perché si presentavano come specializzati.

D: Che lei ricordi, Don Daniele, all’interno del Lager di Bolzano sono avvenute anche delle uccisioni, delle forme violente molto forti?

R: Abbiamo avuto quei due ragazzi là, mi pare quando è venuto il vescovo, quello che dicevo prima il monsignor Bortignon, lì c’era uno di questi ragazzi che aveva tentato la fuga, due erano, quei due sono stati uccisi, tutti e due, se mi ricordo lì, avevano la loro cella e dopo noi ci hanno radunati tutti fuori all’ingresso del blocco celle e una donna, una donnaccia là, che parlava abbastanza bene il tedesco, ha detto però una frase che forse i tedeschi non hanno capito, dunque, “Il comandante dice che da qui in avanti se ci sarà un tentativo di fuga, quello viene ucciso”. Ed ha anche aggiunto queste parole: “Bada adesso, quelli che hanno il coltello in mano sono loro”, così, me le ricordo ancora queste parole. Basta, ci hanno avvertiti, guardate che c’è la pena di morte immediata. Per chiunque. I due ragazzi hanno tirato avanti fino a che hanno potuto, era il giorno che era venuto a celebrare il vescovo di Belluno e Feltre, quello, e poi abbiamo avuto quella altra, quella ebrea, eh i nomi, mi pare che avevo fatto i nomi a suo tempo, questa signora, poveretta, allora, eravamo alla fine, sarà stato non so marzo o aprile, c’era l’ingegner che era direttore allora del Centro Turistico a Bolzano, Marcello Caminiti, so che lui ha conversato molto dalla sua cella con questa donna che è sopravvissuta una giornata e mezza praticamente, perché ogni tanto, intanto era nuda, e ogni tanto entravano dentro con la pompa dell’acqua, gelata, si capisce, è vissuta un giorno e mezzo praticamente. Questi tre me li ricordo perfettamente, più abbiamo avuti morti il nostro Magni Longon vero? È stato ucciso la sera dell’ultimo dell’anno, e poi io successivamente sono andato proprio in questura e all’anagrafe a fare cambiare la data che avevano messo sulla lapide … la notte dal 31 al 1 gennaio del 1945, lì avevano scambiato la data, quindi sono già quattro i morti, in più, quella però non c’entra con il campo di concentramento, il conte Manci di Trento, però lui non ha visto il campo di concentramento, lui è rimasto dentro sempre, che sappia io, nell’ambiente là, nelle celle del Corpo di Armata, e poi durante un interrogatorio ha fatto il salto e si è buttato giù, è morto il conte. Qui c’è una grande via davanti alla chiesa nostra, c’è una via dedicata al conte Gian Antonio Manci. Ho conosciuto le figlie perché nelle commemorazioni che abbiamo fatto una delle figlie ha sposato il rettore magnifico dell’Università di Trento quindi le ho conosciute in quel senso li, ma lui si è buttato giù, io ho fatto il funerale suo a Bolzano, alla chiesa di Cristo Re e ho arrischiato a dire che è morto martire, ma non sono andato avanti perché effettivamente si è suicidato, ma quello che non ho fatto io lo ha fatto il vescovo ausiliare di Trento Monsignor Rauzi a Trento, nel Duomo, dove hanno fatto il funerale, ma parlo mesi dopo che era morto. Lui però ha detto chiaro e tondo: “Questo è un martirio” cioè martirio di amore, quando uno come il naufrago che si afferra su un tronco di legno in mare, sono in due allora stanno per essere inghiottiti, uno però rinuncia per amore dell’altro, quell’altro può essere sostenuto da questo tronco e quindi è la stessa cosa che ha fatto il conte Manci il quale piuttosto che tradire, perché non è stato fatto un nome da lui eh, non è uscito un nome da lui, niente. Poteva fare il nome mio, il nome dell’ingegnere Saule e di tutta quella gente lì. Ha preferito suicidarsi per non compromettere gli altri.

D: Don Daniele, all’interno del Lager di Bolzano si ricorda qualche episodio ulteriore di solidarietà umana tra i deportati?

R: Tra i deportati tanto non ci si conosceva più da partito a partito, che era un partito solo, il partito della libertà e dell’amicizia, quindi non c’erano più comunisti, democristiani, socialisti queste erano cose superate, quindi tra di noi c’era questa piena armonia e solidarietà. Chiunque si sarebbe prestato per agevolare fughe e tutto l’insieme.

D: Si ricorda se c’erano anche delle religiose all’interno del Lager di Bolzano?

R: No, c’erano proprio nell’ambiente dove abitavo io in via Torino, lì c’era un asilo infantile con delle suore. Quelle avevano la radio clandestina che era in collegamento con Londra, quelle erano le suore che io poi ho rivisto ma adesso non so più, la loro sede è a Venezia, non ho più avuto rapporti con loro. Ma che siano state in campo di concentramento questo non mi risulta.

D: Un’ultima cosa, Don Daniele, il 19 dicembre ’44 siete stato arrestato per la terza volta, il 28 dicembre invece che data è?

R: Ah, il 28!

D: Era già stato stabilito il 28 dicembre?

R: Sì, ma l’ho saputo dopo io.

D: Ma che cos’era?

R: Niente, la mia fucilazione.

D: Perché, Don Daniele?

R: Grazie, perché ero membro del Comitato clandestino di Liberazione.

D: Quindi dovevate essere fucilato voi?

R: Ma certo, quella mattina là. Ero anche disinvolto da quel lato lì, ma io l’ho saputo successivamente, non ricordo quando. Tra le altre cose il 28 è la festa dei santi innocenti nella Chiesa. Quella era la data della mia morte. E invece sono ancora qua.

Messina Francesco

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Francesco Messina nato a Pistoia il 24 gennaio 1926, sono stato arrestato il 9 giugno 1944 a Montemurlo, un paese vicino a Pistoia, dalle SS italiane.

Ci hanno portati al Comando SS di Firenze in via Bolognese dove siamo rimasti per tutto quel giorno, di lì alle Carceri di Firenze, le Murate, dove siamo rimasti tre o quattro giorni, di lì a Fossoli di Carpi, Modena.

D: Scusa, Franco: vi hanno arrestati a Montemurlo, perché?

R: C’era stata la scoperta di una radio clandestina, Radio Cora in piazza D’Azeglio a Firenze, vi era stata una delazione per cui avevano arrestato tutti quelli che erano lì, qualcuno (inutile fare i nomi) parlò e portò le SS dove eravamo noi a Montemurlo.

D: Tu facevi parte di una formazione partigiana?

R: Sì, andavo e venivo.

D: A Montemurlo avevate il vostro ….

R: Sì, c’era il Comando.

D: Vi ha arrestato la SS tedesca, in quanti vi hanno arrestato?

R: Cinque, due erano soldati italiani del sud, radiotelegrafisti e furono fucilati a metà giugno, i nomi che sapevo io erano Gallo e Panerai, ma non credo fossero i nomi veri.

D: Non sei mai stato interrogato?

R: Sì, sì!

D: Dove?

R: Al Comando SS.

D: A Firenze?

R: A Firenze in via Bolognese ma un interrogatorio abbastanza buono, sapevano già tutto.

D: Dopo quanti giorni ti hanno portato a Fossoli?

R: Tre o quattro giorni.

D: Sempre voi cinque o anche altri?

R: I due li fucilarono quasi subito.

D: A Fossoli in quanti vi hanno portato?

R: In tre.

D: Con cosa vi hanno portato?

R: In pullman.

D: Sei arrivato a Fossoli quando, se ti ricordi?

R: Direi a metà giugno del 1944. A Fossoli sono rimasto abbastanza a lungo fino al 21 luglio del 1944, di lì a Bolzano.

D: Restiamo un attimo a Fossoli, ti hanno immatricolato? Ricordi il tuo numero?

R: Sì, 1695!

D: Ricordi in che baracca eri?

R: Ero al 21°

D: Cosa facevate a Fossoli, lavoravate?

R: Poco, pochissimo, c’era da fare qualche lavoretto, spianare il campo ma si stava bene ….

D: Ricordi se nel campo di Fossoli hai incontrato dei religiosi anche loro deportati?

R: Sì, don Camillo che era di Bormio o di Livigno, poi don Angeli di Livorno, poi vi era uno grosso grosso che era il parroco di Correggio in Emilia. Ero a Fossoli quando ci fu la fucilazione dei 70 (si dice poi che erano 68) …

D: Come è avvenuta quella selezione, te la ricordi?

R: Benissimo! Una sera all’appello chiamano una lista di nomi, soprattutto immaginavamo noi che andavano in un altro campo, cosa che era logica.

Alla mattina si seppe che li avevano fucilati, si seppe in una maniera fortuita e fortunosa perché le donne del campo videro che una donna del campo aveva non so se un foulard che sapevano bene apparteneva a uno di loro, siccome questa donna era l’amica, l’amante, l’interprete spia di un tedesco italiano, parlava francese, tedesco, la bacchettarono bene bene e seppero tutto quello che dovevano sapere. Il comandante del campo disse che erano stati fucilati al Poligono di Carpi dove già correva voce nel campo che gli ebrei delle baracche, ebrei misti, non sapevano se considerarli ebrei o no, erano stati, qualcuno diceva, a scavare una fossa al Poligono di Carpi il che faceva capire il resto.

Conoscevo uno di questi ebrei, mi disse “Siamo andati a scaricare dei mobili”, non poteva fare diversamente, in ogni caso si seppe, mi pare avvenne il 12 luglio.

D: Quando eri deportato a Fossoli potevi comunicare con l’esterno del campo con i tuoi genitori, ricevevi pacchi o lettere?

R: Sì, una lettera la potevi scrivere ma non ci fu nemmeno il tempo.

Dopo nove giorni, il 21, la sera rileggono un altro elenco di nomi e questa volta vi ero anch’io per andare in un altro campo, non si sapeva se era vero o se era un campo come l’altro.

Si partì, questa volta su dei camion, ci portarono fino al Po dove si aspettò un barcone che venne dall’altra parte e si arrivò verso Mantova, lì con altri camion ci portarono a Bolzano.

D: Come ti ricordi l’ingresso a Bolzano?

R: Piccolo, brutto, mentre Fossoli era bellino nel suo genere di campo di concentramento, lì c’erano queste due baraccone, non c’erano nemmeno i pagliericci, proprio il primo trasporto che arrivò a Bolzano, dentro vi erano dei militi fascisti prigionieri, non ho mai saputo il perché, non abbiamo mai avuto contatti salvo che il capo baracca ci fu assegnato tra questi signori, dicevano che fossero dei fascisti dissidenti, ricordo che avevano un contegno molto militaresco, divise da milizia, marcavano a passo e bersaglieresco, un po’ il militarismo straccione che usava a quei tempi.

D: Ricordi il blocco che numero era?

R: No, perché non avevano ancora i numeri!

D: Il tuo numero di matricola lo ricordi?

R: Rimase quello lì perché ancora non era organizzato Bolzano, fu dopo che fu trasferito il comando del campo di Fossoli, ripeto, fummo il primo trasporto che arrivò e che partì.

D: Vi erano anche delle donne?

R: Quando c’ero io no, dopo so che ci sono state, eravamo un centinaio da Fossoli più i fascisti che abbiamo citato prima.

D: Questo capo baracca chi era?

R: Un fascista.

D: Non ricordi il nome?

R: Assolutamente no, non stava nemmeno con noi, noi non stavamo con lui data la sua origine, non era proprio il tipo adatto, mentre a Fossoli il capo baracca era eletto da noi.

D: Dei tuoi amici di Fossoli in quanti sono venuti in trasporto con te a Bolzano?

R: Un centinaio.

D: Ricordi il nome di qualcuno?

R: Sì! Luperini, Malagodi, tutti morti! Ve ne erano molti, venivamo tutti dallo stesso campo.

D: Lì siete rimasti quanto tempo?

R: Dieci, quindici giorni!

D: Eravate impiegati a fare che cosa?

R: Portare i pezzi di baracche per costruire il campo per gli altri, so che Bolzano divenne un campo abbastanza importante.

D: Non hai potuto più comunicare con casa?

R: No, no.

D: Dopo quindici giorni che cosa è successo?

R: Ci hanno messo su dei vagoni e ci hanno portato a Mauthausen.

D: Dal campo di Bolzano vi hanno messo su dei vagoni dove?

R: Credo alla stazione di Gries, non ricordo che fosse una stazione vera con dei passeggeri, probabilmente, era una specie di scalo merci.

D: Nel trasporto in quanti eravate?

R: Eravamo in 120, 130, è passato molto tempo!

D: Più o meno quanto è durato il viaggio?

R: Siamo partiti nel pomeriggio e siamo arrivati la sera a Mauthausen dove si entrava sempre di notte, se arrivavi di mattina rimanevi ad aspettare che fosse notte perché così non vi era gente per le strade, alle 9 o alle 10 aprirono e cominciarono i guai perché fino ad allora non dico fosse una villeggiatura ma quasi e la lunga marcia fino al campo, l’ingresso nel campo e la sosta fino alla mattina al muro del pianto, dove c’erano le docce, quelle vere, non quelle simulate a camera a gas. Era estate, peggio per quelli che ci capitavano d’inverno dove la gente moriva di freddo, doccia, vestiti non con le divise regolamentari a strisce ma con stracci, alcuni erano abiti borghesi, altri divise militare, io avevo un paio di pantaloni rossi militari, forse francesi del tempo di Napoleone, e lì si entrò nei blocchi di quarantena che non era una quarantena sanitaria ma attitudinale, per insegnarci come dovevamo comportarci e lì ci rimasi un mesetto tra una baracca e l’altra.

D: Ricordi le baracche quali erano?

R: Mi sembra che la prima fu la 16. Era la prima che si trovava entrando perché vi era un altro campo della quarantena, poi la 17 e poi per pochi giorni alla 18 che era quella dalla quale poi partimmo vestiti con la divisa, il numero, il mio era 82437. Il triangolo rosso, IT, (si diceva che avevamo la targa), il numero sul petto a sinistra, il numero sulla gamba destra e una cosina di latta attaccata al polso, non lo tatuavano come avveniva nei campi, se si scappava già vi era la pettinatura strana con la striscia rasa, bastava questo per essere ….

D: Cosa ricordi di questo mese di Mauthausen?

R: Abbastanza male, i giorni erano brutti e le notti brutte come i giorni. I giorni erano brutti perché si lavorava generalmente alla cava, 186 scalini senza scarpe, in mutande oppure con questi strani vestiti che avevamo ma niente zoccoli, con le pietre sulle spalle, su e giù, su con la pietra giù senza pietra.

Di notte si dormiva in quattro, vi erano i pagliericci stesi a terra, in quattro per ogni pagliericcio messi piede contro bocca, bocca contro piede, ma eravamo tutti sporchi per cui non aveva importanza.

D: Poi è venuto un altro trasporto con una selezione?

R: No, hanno chiamato un certo numero di persone, ricordo che gli italiani erano solo 7, 8, gli altri ebrei, polacchi, russi, francesi, jugoslavi, greci, e in treno, vagoni non carri bestiame, da Mauthausen a Linz c’è poca distanza. Più che Linz era un sobborgo industriale di Linz e arrivammo al campo che era un po’ meglio di Mauthausen nel senso che dormivamo in due per letto, poi per lungo tempo rimasi solo, avevo il letto, la cuccetta tutta per me e lì rimasi fino al 5 maggio.

D: Questo era Linz III?

R: Linz III, il campo di Linz I era stato distrutto da un bombardamento poco tempo prima che arrivammo noi a Linz III con molti morti e molti compagni miei venivano da Linz I.

D: A Linz III eri impiegato a fare che cosa?

R: Ero impiegato a fare lavori prima di essere assegnato a un lavoro fisso che era a una fabbrica di carri armati che si chiamava ……… per essere esatti la mia fabbrica era ………. Poi ve ne erano altre.

Quando i bombardamenti si intensificarono molte volte non si lavorava in fabbrica e si andava a trovare le bombe, a scavare le buche dove vi erano le bombe inesplose ma non sapevamo se non scoppiavano più o se erano a scoppio ritardato in modo da rendere accessibile, naturalmente, venivano poi gli artificieri tedeschi che pensavano a disinnescare.

D: Il campo Linz III era molto grande, vi erano molte baracche?

R: Saranno state 20 baracche dove si abitava, poi vi erano le altre, cucina ecc. ma dove c’era l’acqua ci si lavava, poi l’acqua non ci fu più per cui non ci lavammo più, siccome i bagni erano una cosa … bisognava spogliarsi in baracca, andare nudi al bagno che era abbastanza lontano nella neve con il freddo, poi un pochino di acqua calda, acqua ghiacciata poi senza asciugarsi tornare in baracca bagnati e rivestirsi, per cui meglio sporco che lavato in quel modo.

Dove abitavamo noi una ventina di baracche, ogni baracca era composta da due Stube, camerate, con in mezzo l’appartamento del capo baracca, vice capo baracca, capo Stube ecc.

D: Eravate in tanti come deportati?

R: Circa seimila!

D: Italiani?

R: Forse trecento.

D: Ricordi il nome di qualcuno?

R: Ricordo quello che ho detto prima Piccoli, Mugnaini, Cerchiai, penso che siano morti a parte il primo che se non è morto proprio ora, speriamo di no, ma gli altri penso per età, non so se sono ancora vivi. Poi vi era Otto Popper, austriaco di Vienna ma era stato preso in Italia a Milano, quindi, era targato IT, italiano, ebbe ancora fortuna ma poi sfortuna. Non so se interessa ma Popper era una bravissima persona, un caro amico, era quello con cui dividevamo il letto, i primi giorni quando andammo all’appello disse “A me sembra che insieme al vice capo campo ho giocato a poker a Vienna”. Quando ci fu il comando per lasciare il piazzale dell’appello si avvicinò a lui e disse il suo nome non andando direttamente da lui; l’altro si voltò si riconobbero e diventò il segretario del blocco, quello che segnava tanti morti, tanti arrivati, tanti presenti all’appello, dopo poco si ammalò, non so di che cosa e morì. Per essere lì fece la morte migliore che poteva fare, probabilmente, se fosse stato curato meglio se la sarebbe cavata, era giovane, una quarantina d’anni.

D: I posti lavoro rispetto al campo erano molto distanti?

R: Il mio era abbastanza vicino, andando piano dieci minuti un quarto d’ora ci si arrivava.

D: Vi erano anche dei civili?

R: Sì, vi erano i Meister che erano civili, il mio era lussemburghese volontario e poi vi erano molti IMI, non sapendo che nome dare ai prigionieri italiani militari, prigionieri di guerra non erano, civili non erano per cui avevano sulla divisa IMI, Internato Militare Italiano, in tedesco si scrive lo stesso.

Ricordo uno con il quale ci si parlava in tedesco perché era al CRAN, era un paranco che scorre su dei binari e quando doveva caricare dei pezzi ci si parlava in tedesco urlando, un giorno lo vidi scendere dalla scaletta in divisa e gli dissi, era la vigilia di Natale, “Buon Natale paese” e ci si riconobbe e fu quello che venne, dopo che eravamo stati liberati, al campo a cercarmi e mi disse se volevo andare al campo suo che mi avrebbe ospitato con altri italiani, c’era da mangiare, perché lì dove ero io non c’era più niente da mangiare, eravamo liberi ma non sapevamo che cosa fare, viveri non ve ne erano, aspettavamo che gli americani ci portassero qualche cosa ma non ci portarono nulla perché erano occupati a fare la guerra. Il nostro comando del campo che era formato da spagnoli, russi, fra l’altro lo spagnolo era un mio amico, andammo con questo italiano che si chiamava Rosito di Foggia, e chiesi se mi faceva uscire. Rispose: “Per ora non facciamo uscire perché vogliamo responsabilmente che qualcuno si prenda cura di voi, di noi, se poi non si vede nessuno vi si lascia andare via tutti”, così avvenne, nessuno venne, andammo via per i fatti nostri e finì lì.

D: Scusa, Franco, quante ore lavoravate?

R: Dodici ore, la nostra giornata era dalle 6 alle 6, turno di giorno e turno di notte. Naturalmente alle 6 dovevamo essere già sul posto di lavoro, quindi, credo che fosse alle 4,30 perché fra appelli, andarci, alla sera finiva alle 6 con l’intervallo per il lunch a mezzogiorno o a mezzanotte per cui erano 12 ore di presenza perché anche il lunch avveniva in piedi, era quasi lavoro anche quello.

D: Voi eravate addetti alla produzione bellica?

R: Carri armati Tigre.

D: Tu eri addetto in particolare a che cosa?

R: Con una squadra, di italiano vi ero solo io, Emile che era francese, Ivan russo, tre polacchi, e un ebreo polacco. Il lavoro era revisione cioè contare i buchi, non era un lavoro pesante ma vi era molto freddo, era più che altro la presenza. Quando vi furono i bombardamenti diventò molto più pesante perché c’era da sgomberare le macerie e andare ad isolare le bombe cadute.

D: Nella fabbrica vi erano anche delle donne?

R: No, non nella mia, eravamo in massima parte deportati, poi una quindicina di IMI e i Meister che erano tedeschi, il signore di cui parlavo prima era lussemburghese, quindi, equiparato ai tedeschi.

D: Il momento della liberazione te lo ricordi?

R: Lo ricordo male perché stavo molto male. In un primo momento avevano detto che dovevano trasferire il campo a Ebensee che essendo tra le montagne sarebbe stato occupato dopo, anche questa è una mania dei tedeschi: da Auschwitz li portavano a Mauthausen, in quel momento mi ero fatto male ad un dito lavorando ed ero nella baracca 14 che era quella di quelli momentanei invalidi. Dovendo fare questo sgombero fecero una selezione che consisteva nel fatto che sfilavano davanti ad un caporale della sanità e lui ci chiedeva “Puoi marciare?”, ovviamente risposi di sì, mi rimisero in blocco nella mia baracca per marciare su Ebensee, cosa che non è mai avvenuta.

Questo trasporto sarebbe stato a piedi e non fu fatto, non so per quale motivo, tanto che tornai alla baracca 14 con il mio ditone rotto.

Fanno un’altra selezione con la domanda “Puoi marciare?” … va detto che a parte il dito rotto ero in una condizione da non reggermi in piedi. Rispondo di sì e lui fu di parere diverso per cui mi rimise nel blocco 14. Devo dire che nella prima selezione quelli che non potevano marciare li fecero morire di fame nella baracca 14, senza ammazzarli, quindi, quando tornai nella baracca 14 la sgomberammo da tutti i cadaveri che c’erano e li abbiamo portati in una camera dove il camion li portava a Mauthausen, lì non c’era né camera a gas né crematorio, era un piccolo campo. Venne poi un contrordine, il governatore di Linz voleva strade sgombre per via del traffico militare e dei profughi, non ci credo perché eravamo seimila ma per buona fortuna cambiarono idea, ci misero tutti in fila, malati e sani, per muoverci e non sapevamo dove. Ci portarono nelle vicinanze di Linz, un paio d’ore di marcia, a una grande caverna sulla montagna vicino a Linz non più scortati dalle SS, ma scortati da vecchi, sdentati, ricordo che siccome erano senza denti la crosta del pane non la potevano mangiare e ricordo uno, figlio di cane, che aveva visto che stavo aspettando che la buttasse via e allora pestò bene bene questa crosta perché non la mangiassi io.

I russi che erano i più forti, i più numerosi con gli spagnoli che erano pochi ma organizzati molto bene si rifiutarono di entrare nelle baracche pensando che fossero minate.

Non capivo più nulla, ero in uno stato pre-comatoso, dopo qualche ora ci riportarono al campo, in fila scortati da questi vecchi territoriali. Ricordo che quando fummo nelle vicinanze del campo, spagnoli e russi, il piccolo comando che si erano preparati prima, presero i fucili a questi signori che non chiedevano di meglio che tornarsene a casa propria perché era gente di lì e tornammo al campo da liberi, tornammo al campo perché non avevamo altri posti dove andare e ricordo che andai nella mia cuccetta e che sentii sparare a lungo.

D: Questo quando avvenne?

R: La sera del 5 maggio, alla mattina andammo in questa strada alla caverna, qualche ora lì e poi era già scuro.

D: Gli alleati quando sono arrivati?

R: Gli alleati non li ho mai visti, ma non gliene faccio una colpa, evidentemente, erano occupati in altre cose perché come dicevo prima questo comando aveva chiuso il campo per consegnarci in maniera organizzata e responsabile e poi ci sparpagliammo, ognuno andò per conto suo e io andai in questo campo di ex militari italiani che era lì vicino, il campo 34, dove stetti per qualche giorno, ma stavo molto male e mi dissero di andare nelle vicinanze di Linz in un paese dove c’era un ospedale militare e il comandante era un ufficiale italiano, era un campo americano per cui noi italiani avremmo potuto sperare in un trattamento migliore. Mi ci portarono in macchina, una macchina rubata sul posto, e rimasi lì, eravamo rimasti solo italiani e jugoslavi, prigionieri di guerra, della breve guerra del 1941 perché gli americani l’hanno fatta a casa, gli inglesi e i francesi anche, i russi anche se non erano molto contenti di andarci perché so che poi, siccome erano vivi e questo puzzava di collaborazionismo, si erano battuti come potevano, la zona russa era vicinissima a dove eravamo noi, li avevano restituiti per cui si stava benissimo, eravamo in pochi. Fui curato e poi tornai a casa, a Bolzano.

A Bolzano andai all’ospedale civile, di lì venne una commissione svizzera che avevano organizzato a Malles, in Val Venosta vicinissimo al confine svizzero, un ospedale svizzero con personale svizzero, medicinali svizzeri, il cibo arrivava dalla Svizzera tutto a carico loro e stetti lì per una quindicina di giorni.

Di lì di nuovo a Bolzano all’ospedale civile e da Bolzano a Milano, da Milano a Torino e continuavo a stare male, sempre all’ospedale, per farla breve tornai a casa nell’agosto del 1946, avevo bisogno di cure.

D: Un anno dopo la liberazione!

R: Sì, un anno dopo!

Scala Remo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono SCALA REMO sono nato a Verona il 24 ottobre 1924 e alla bella età di 18 anni sono stato chiamato presso il Regio esercito perché eravamo in guerra ovviamente contro la Grecia, contro l’Albania, contro la Russia,  i paesi balcanici poi in definitiva.  Eravamo già alleati del terzo Reich. Essendo stato chiamato alle armi nell’agosto del ’43, ho dovuto presentarmi alla caserma di Belluno presso il Genio marconisti. Sennonché essendomi presentato il 23 di agosto, mi sembra che questa fosse la data, erano momenti in cui la situazione politico-militare italiana era piuttosto nebulosa; era una situazione che non seguivamo ma di cui ne subivamo le conseguenze. Presso la caserma del Genio di Belluno sono rimasto per una decina di giorni, 23 agosto, 31 agosto sono otto giorni, direi 10,12,14 giorni in questo lasso di tempo avrebbero voluto istruirmi per adoperarmi poi in Grecia come marconista. Infatti il primo scaglione della mia classe, mentre io andavo alla Caserma del genio, partiva per la Grecia, avremmo dovuto poi sostituirli successivamente oppure in altri campi comunque.  L’8 settembre i fatti naturalmente hanno sconvolto tutte le tradizioni militari e ognuno di noi ha scelto la libertà, ovviamente come è stato possibile, essendo Belluno discretamente vicino ai luoghi in cui io abitavo, prima degli eventi bellici, ho potuto rientrare in casa perché i miei abitavano a Lozzo, in una frazione di Lozzo Atestino della provincia di Padova.  A quel punto si presentava il dilemma di quale era la scelta da fare e per la verità non eravamo manco educati a fare una scelta, perché a 18 anni io che provenivo dalle scuole, non avevo esperienze politiche, abitavo in un paese di 3/4 mila abitanti,  prevalentemente agricolo e pertanto senza formazioni culturali specifiche, avrei potuto fare una scelta che era quella di nascondere la testa nella sabbia, tanto è vero che molti dei miei compagni di giochi di allora erano propensi a nascondersi nelle campagne.  Ho avuto la fortuna che mia sorella che abitava allora a Torino ed era in contatto ovviamente con l’élite di Torino, quella che ha potuto poi creare le premesse per il seguito delle scelte di una parte del popolo italiano, è venuta a trovarmi e mi ha consigliato e io ho  aderito ben volentieri mi ha consigliato di seguirla qui nel Piemonte. Nel Piemonte si erano formati già degli aggregati. Perché, essendosi sciolta la IV Armata di stanza in Francia, comandata dal generale Vercellino, molti dei nostri soldati alpini, a piedi o con altri mezzi avevano valicato le Alpi e si erano attestati nel cuneese. Perché molti avevano origini venete, altri avevano origini siciliane, del meridione, per cui non potevano ovviamente portarsi immediatamente nelle loro case e attestandosi lì con armi e bagagli hanno creato dei nuclei, nuclei che sono stati – per nostra fortuna – raccolti da eminenti persone politiche con origini di giustizia e di libertà, provenienti anche da formazioni politiche comuniste o comunque di altre estrazioni. Nel caso mio il Duccio Galimberti che allora era avvocato a Cuneo, aveva ovviamente si era buttato allo sbaraglio, tanto è vero che sulla piazza di Cuneo, lui aveva arringato la folla invitandola ovviamente alla ribellione; comunque lui e altri hanno organizzato in un modo embrionale le prime formazioni. Io al primo ottobre sono andato a formare una formazione, guidata dal capitano Cosa – deceduto di recente -, dal tenente Bertoldo di Vicenza, da un sergente dell’esercito, no ho saltato il quinto, poi c’era addirittura un marinaio con noi e poi c’ero io.  Ero la mascotte, perché ero il più giovane di tutti, per cui diciamo che ero guardato con un occhio privilegiato se vogliamo, se non altro perché tutti mi erano superiori, superiori di esperienza oltretutto. Per cui siamo stati i primi cinque a formare questo aggregato, però noi cinque siamo quelli che abbiamo preso le armi che la IV armata abbandonava via via che si allontanava dalle Alpi e creare dei depositi. Abbiamo cominciato a ricevere a ingrossarci tanto che siamo arrivati ad una formazione di inizialmente di 70 / 80 persone, avevamo tre camion con i quali andavamo nei consorzi a rifornirci di mezzi che poi dovevamo dare alla stessa popolazione che in quel momento non poteva essere rifornita direttamente, perché queste formazioni che erano nate in Val Beggio, a Boves, a …, nel moretanese in genere, ovviamente erano condizionate dalle forze nazifasciste che erano di stanza a Cuneo. Infatti quando noi volevamo fare determinate azioni rompevano il posto di blocco che c’era a Furio, facevamo gli affari nostri e tornavamo a casa, questo era possibile agli albori perché l’entusiasmo nostro e c’era anche l’apatia della parte avversa, non certo dei tedeschi, perché i tedeschi arrivavano quando naturalmente noi disturbavamo i loro interessi. Infatti una delle prime azioni è stata quella all’aeroporto di Mondovì, quando abbiamo portato via 80 fusti di benzina, abbiamo distrutto quattro apparecchi di poco conto, penso apparecchi di avvistamento, era qualcosa che andava bene in quelle località.  Indubbiamente Boves,  Pedraglio, Certosa di Pesio, cominciavano ad assumere delle formazioni militari piuttosto preoccupanti perché certe azioni le facevamo unendoci bande con bande, infatti i nomi che ricorrono del cuneese sono il tenente Aceto, il tenente Dunchi, quello che è stato impiccato in Corso Vinzaglio a cui è stato intitolato l’organizzazione a cui ho aderito io, adesso, da sempre; l’hanno impiccato lì, comunque mi sfugge il nome, è la mia memoria che è piuttosto labile nel tempo, è ovvio che naturalmente questo si verifica più facilmente.  Comunque arriviamo alla Pasqua del ’44 ci hanno attaccato due divisioni tedesche con carri armati cannoncini 88, con l’aviazione per l’avvistamento e ci hanno squassato. Io sono scappato, io comandavo un distaccamento, abbiamo sparato fino a che abbiamo avuto munizioni, poi ci siamo ritirati.

D: Dove è avvenuto questo Remo?

R: Nella Val Pesio, in alta Val Pesio. Infatti io che comandavo un distaccamento che non doveva essere attaccato, perché nel mio distaccamento c’ero io e c’era Piero Bertoldo, ed eravamo lui del 22 faceva parte della IV armata con Vercellino, io invece ero nuovo di zecca e mi ero fatto le ossa nelle varie azioni che avevamo intrapreso e subìto per la verità, anche. Siccome il …era uno spazio di traffico tra la Val Pesio e la Val Ellero, perché noi avevamo il dominio della Val Pesio, della Val Ellero, della Val Corsaglia, della Val Casotto, fino a lì. E il mio distaccamento presidiava la Val Ellero e la Val Pesio, invece cosa è successo? Che gli ucraini che erano, quando c’è stato l’attacco di Pasqua da parte dei tedeschi, i tedeschi avevano come elementi di rottura gli ucraini o i russi, almeno così dall’aspetto così era interpretato da noi; la Val Pesio è la continuazione, la Val Pesio è un fondovalle inizia una strada un ex strada militare che non so per quale ragione era stata costruita a suo tempo, probabilmente perché in alto c’erano dei campi di addestramento per alpini per artiglieria alpina, e comunque mentre… Giasmadona…che era appendice di Vallata che partiva dalla Val Pesio si protendeva verso la Val Ellero che era parallela alla Val Pesio, tanto per creare figuratamente le condizioni, lo spartitraffico in cui ero io quando ero stato mandato lì, mi avevano detto “devi andare lì” e mi hanno dato tutto quello che era possibile avere, troverai una malga che usano i malgari d’estate. Siamo arrivati lì e non c’era nessuna malga, non c’era perché era coperta di neve, allora abbiamo fatto un buco lì di due metri di profondità e siamo entrati, lì poi tagliando dei rami di pino abbiamo creato delle posizioni sopraelevate perché sul pavimento scorreva l’acqua naturalmente prodotta dalla neve che si scioglieva. A lato di Giasmadona che era ad angolo retto con la… c’è il Vallone Cavallo. I tedeschi si erano attestati alla Certosa del Pesio, che era una vecchia, una bella costruzione per la verità, e avevano i … avevano salito, erano risaliti il Vallone cavallo, e sono arrivati dove ci trovavamo noi e sono arrivati, presumo verso la mezzanotte. Noi ci siamo accorti e avevamo in postazione un mitragliatore, avevamo una mitragliatrice con un raffreddamento ad acqua, avevamo anche un… e comunque abbiamo sparato, ma si fa presto a consumare le poche munizioni di cui eravamo in possesso. Premetto che noi avevamo con noi sei ragazzi che erano infermi per congelamento, per dolori reumatici, erano per la verità, almeno quattro erano siciliani, per cui non abituati a quelle temperature, allora siccome al di sotto del Giasmadona c’era un altro distaccamento, comandato da un maresciallo, allora avevo fatto allontanare sei dei miei, e li avevo fati fluire presso l’altro distaccamento, perché avevano più possibilità quelli. Siamo arrivati in quattro abbiamo sparacchiato  quanto ci è stato possibile, e poi ho fatto allontanare siamo rimasti in postazione io e Piero Bertoldo, si sono allontanati poco prima gli altri due, l’ultimo colpo che ci hanno sparato ce l’hanno sparato con la pistola. Abbiamo intravisto delle ombre, noi siamo scesi verso l’altro distaccamento, perché poi di lì potevamo congiungerci con il comando, sennonché avevamo almeno due metri di neve, si infilava una gamba e con le mani si tirava fuori la gamba per portare l’altra più avanti, comunque siamo arrivati all’altro distaccamento che era già stato abbandonato perché era in piena offensiva, e siamo arrivati io e Piero Bertoldo in mezzo ai boschi, i pini erano tutti forati dalle pallottole erano. Mi ricordo che eravamo nel cuore della notte, eravamo fermi ed è passata una pattuglia dei tedeschi a cento metri da noi, loro chiacchieravano tranquillamente, siccome avevano già conquistato il comando, il comando si era ritirato verso la Bisalta, che era la montagna più alta lì, erano padroni della zona.  Comunque il mattino dopo noi siamo arrivati a livello della Val Pesio, abbiamo, c’era un carro armato che transitava avanti e indietro, che faceva naturalmente da pattuglia, abbiamo aspettato che ci avesse superato, abbiamo attraversato il Desio, il fiume Desio e siamo passati dall’altra parte, l’altra parte era stata conquistata e controllata precedentemente perché era una collina abbastanza dolce per cui… … … comunque siamo riusciti a uscire dal cerchio, ci siamo poi incamminati verso Alba, perché ad Alba c’era una grossa formazione e per arrivare lì ad Alba abbiamo dovuto ovviamente trovarci con altri piccoli gruppi che comunque erano alle dipendenze di questa grossa formazione, le quali ci hanno ospitato ci hanno rifornito di denaro e di mezzi. E io e Bertoldo siamo andati a casa nostra. Siamo arrivati a casa nostra qualche giorno, poi è arrivata mia sorella, mi ha riportato a Torino, sono stato aggregato alle formazioni del comando regionale, e in questa formazione cittadina ho fatto alcune azioni con alcuni che però via via queste formazioni si sono assottigliate perché il comandante del mio gruppo è stato arrestato ad esempio; successivamente io che abitavo in una certa via di Torino dove aveva accesso anche a volte Duccio Galimberti, però ci spostavamo per mangiare o per dormire in altre abitazioni, io in uno di questi spostamenti sono capitato in Via Pizzecchi 36, mi hanno preso e sono andato a finire alle Nuove. 

D: Ecco, chi ti ha arrestato?

R: Mi ha arrestato la Questura. Faccio un passo indietro ma molto breve. La mia dotazione era: documenti falsi, avevo un bilingue tedesco che mi dava l’accesso a servirmi di tutti i mezzi mobili, treno, aereo, qualsiasi mezzo, nell’esercizio delle mie funzioni; appartenevo alla questura di Brescia e avevo un tesserino regolamentare a tutti gli effetti; avevo altri documenti, ero armato perché ero un questurino ovviamente in missione a Torino e nel contempo avevo anche una lettera che il Comitato di Liberazione mi aveva affidato che avrei dovuto consegnare mi sembra di ricordare nel pomeriggio. E quella è stata personalmente quella che mi ha messo in difficoltà. Perché evidentemente sono stato seguito o sono stato denunciato, faccio tutte delle ipotesi Sono stato arrestato da dei poliziotti, dalla Questura.

D: Quando questo?

R: Se ricordo bene o il 7 o il 17 luglio del ’44.

D: Ti hanno portato alle carceri Nuove?

R: No, immediatamente mi hanno portato nel Commissariato che stava dietro, dove in quel momento io avevo stabilito il mio domicilio, non ufficiale ovviamente, dove andavo a mangiare e a dormire, per la verità non c’ero ancora andato una volta perché era il primo giorno che mi portavo lì, perché avevamo un appuntamento lì.  Sennonché quando mi hanno portato al Commissariato, la prima cosa è quella che mi hanno preso la pistola, mi hanno preso i  documenti e mi hanno preso la lettera, ovviamente mi hanno messo subito in una cella e mi hanno lasciato lì. I telefoni avranno cominciato a ronzare perché nel tardo pomeriggio mi hanno preso e mi hanno portato alla Questura in Corso Vinzaglio. Lì ho subìto un primo interrogatorio. Dopo questo primi interrogatorio, non ricordo se è stato lo stesso giorno nella notte o il giorno immediatamente successivo, sono stato portato alle Carceri le Nuove che si trovano a Torino in corso Vittorio Emanuele 127.  E lì sono stato aggregato al primo braccio tedesco. Perché c’erano, tutti i carceri hanno dei bracci, sembra che sia l’architettura con cui sono stati ideati a suo tempo.  E lì mi sono fermato, mi sembra, un paio di mesi. Quasi giornalmente venivo preso e portato all’Albergo Nazionale in Piazza San Carlo, e lì a volte a schiaffoni a volte con belle maniere, perché i due sistemi si, insomma evidentemente fanno parte di una casistica……

D: Scusa, lì all’albergo che dici te, cosa c’era, era sede di che cosa?

R: La sede delle SS tedesca.  Infatti tutte le inquisizioni sono state fatte lì, perché invece le brigate nere avevano sede in tutt’altra zona della città che era in Via Asti… io non sono mai stato lì.  Nei primi tempi miei io ho detto sono stato aggregato al braccio tedesco, non è vero il primo tempo ero…, al… molto probabilmente in forza non tanto della Questura, quanto probabilmente delle brigate. Cioè non sapevano bene se io dovevo essere utilizzato dalle brigate nere o dalle SS e sono stato messo nelle cantine che non hanno la luce del giorno, tanto è vero che le lampadine erano accese giorno e notte, però il trattamento era… però per portarmi all’albergo Nazionale comunque mi prelevavano di lì. Evidentemente dopodiché ho assunto una identità specifica e allora sono stato mandato alla cella mi sembra 50/52 del primo braccio tedesco. La cella aveva le dimensioni di tre metri per due, inizialmente ero solo, successivamente hanno, hanno messo con me un partigiano della Valsesia, successivamente hanno aggiunto un terzo membro in questo albergo mio, che era uno di Bardonecchia. E in ultimo hanno messo il dottor Veroi che era il direttore del Banco di Roma, il quale abitava allora all’albergo che c’è in Via Carlo Alberto, che c’è tutt’ora, un albergo di seconda categoria comunque, avevano fatto una retata preso tutti quanti e li avevano…  A questo punto hanno aggiunto un ragazzo tedesco di 16/17 anni, che abitava ad Ivrea con la madre. Siccome in quel momento, in quell’epoca doveva essere stato emanato un editto in Germania che tutti i tedeschi civili dovevano rientrare in patria, nel timore che questo ragazzo non rientrasse l’hanno preso e l’hanno messo in cella con me. Parlava perfettamente l’italiano, era un piacere per me conversare con lui, perché io 18 anni e lui 17, 16/17, eravamo coetanei, comunque mi ha insegnato molte cose, mi ha dato i primi rudimenti di tedesco, mi ha detto cosa vuol dire …… oppure altre cose. Poi, probabilmente constatato, che ero più utile in Germania che rimanere in prigione lì, nonostante tutti i giorni facessero gli appelli per andare a prelevare degli ostaggi da utilizzare a memento per la popolazione, ovviamente, sono partito di lì unitamente a due pullman e siamo andati a Milano; abbiamo prelevato delle altre persone, e siamo andati a Bolzano.

D: Questo quando?

R: Direi i primi giorni di settembre, perché se io sono stato arrestato il 7 luglio, ho trascorso …alle Nuove, luglio agosto due mesi, i primi giorni di settembre.

D: Nel campo di Bolzano quindi ti hanno messo dove?

R: Nel campo di Bolzano mi hanno messo insieme a tutti gli altri, nel capannone, ovviamente, però io a Bolzano mi sono fermato quattro o cinque giorni, direi una settimana sola. Perché probabilmente c’era un trasporto che avrebbe, cioè giornalmente c’erano in atto dei trasporti. Faccio solo una breve pausa. Quando ero su in montagna nella Val Pesio, con noi avevamo un capitano inglese che lui si faceva chiamare Ciro Cavallino, ed era uno del controspionaggio inglese ed era stato paracadutato con la radio per farci avere i lanci.  Quando io ero alle Nuove, un giorno siccome tutte le sere ci affacciavamo alle sbarre e da cella a cella si chiacchierava, ho sentito la voce di un tizio che per me era nota. E l’ho chiamato e gli ho detto “mio Ciro” perché lui diceva che era genovese, allora anziché dire “Ciro Cavallino”, mio Ciro alla genovese, e lui mi ha detto “e tu chi sei?” e io ho detto “io sono il piccolo alpino, quello che tu hai definito piccolo alpino. Ci siamo comunque ritrovati, lui era stato arrestato con la radio a Mondovì, io ero stato, avevo avuto altre vicende, e comunque ci siamo ritrovati a Bolzano. Dovevamo scappare da Bolzano, però scappare da Bolzano era discretamente facile, ma la Valtellina era nominata perché tutti i contadini che riuscivano a prendere uno di noi avrebbe beneficiato di una certa … Lui è partito per Auschwitz e non è più tornato. Io successivamente sono partito per Dachau. Avremmo potuto scappare, perché bastava togliere le assi dei vagoni bestiame ed era forse fattibile, però c’avevano ammonito che per ognuno che scappava sette ne avrebbero ammazzati, e direi che nessuno ha tentato di scappare. Comunque sono arrivato a Dachau.

D: Erano i primi di ottobre, se ti ricordi?

R: No direi ancora settembre, settembre perché io a Bolzano sono rimasto una settimana, non di più. In una settimana a me mi hanno portato due volte a Gargazzone, e mi sembra che ci sia un paese con quel nome, a raccogliere le mele. Per cui sono stato una settimana, un paio di volte a raccogliere mele e un paio di volte a caricarmi dei fasci di legno da portare da un posto all’altro, solo per tenerci occupati ovviamente. E’ un sistema valido in tutti i campi di concentramento. Naturalmente anche in quelli inglesi comunque, almeno il cinema ce ne dà …

D: Ti ricordi se col tuo trasporto c’erano anche dei religiosi con te?

R: Con me da Torino noi siamo partiti, sono partito con padre Girotti e un domenicano, che era un continuatore di una critica, più che di una critica di un qualcosa sulla Bibbia, ed era un uomo molto illuminato, era stato molto in Palestina, molto nell’estremo oriente, doveva conoscere molto bene le lingue, e con me c’era poi anche Padre Girotti. C’era un sacerdote leggermente più vecchio di me, ma che comunque era un uomo veramente dedito alle cure delle sue anime, al di là di qual era la confessione e la colorazione politica.

D: Scusa hai detto Padre Girotti e quell’altro? erano due o uno i sacerdoti?

R. No, due.

D: Don Angelo?

R: Sì, ma il cognome?

D: Dalmasso. E sono partiti con te anche da Bolzano?

R: Sì tutti e due, tutti e due sono partiti con me e siamo arrivati a Dachau. E a Dachau ovviamente siamo arrivati in questo megacomplesso Dachau e un altro nel 1933, Dachau che è il primo campo di concentramento tedesco nato unicamente perché per i sommovimenti socialistoidi, oltre credo che quelli degli ebrei, diciamo, siano stati successivi perché il mio capo campo del mio blocco era dentro, era 11 anni che era dentro, era dentro nel 33, ed era un tedesco. Era un tedesco, ed era dentro perché, a detta sua, perché era un socialista. A Dachau inizialmente siamo stati messi nei blocchi chiusi perché era molto organizzato Dachau. Dachau immaginatevi un campo immenso nel quale conviveva un campo da football, convivevano le docce, e poi c’era tutto un reparto che diviso da viali fiancheggiati da alberati, da cipressi. A destra e a sinistra c’erano blocchi chiusi e blocchi aperti, blocchi dei ciechi e blocchi dei sacerdoti, c’erano i blocchi, c’erano i … dei blocchi particolari che in questo momento non mi sovviene qual è la definizione che potrei dare. Io ero in un blocco chiuso, blocco chiuso perché avrei dovuto, nelle teorie, stare lì 40 giorni, dopo di che visto che non ero contagioso avrei dovuto essere immesso nei lavori comuni. Invece non è vero. Padre Girotti e Don Dalmasso invece sono andati a finire ad alimentare il blocco dei sacerdoti. Dietro il mio blocco chiuso c’era il blocco dei ciechi. A Dachau io sono stato prelevato, assieme a molti altri, venivamo prelevati alle tre di notte perché c’era la solita conta che durava da un’ora a due ore, venivo portato a Dachau, a Monaco di Baviera, per mettere a posto i pilari evidentemente, perché avevano subito dei bombardamenti o altro genere di infortuni.

D: Il tuo numero di immatricolazione di Dachau te lo ricordi?

R: Ce l’ho a casa.

D: Però ti hanno immatricolato?

R: Certo, certo, io ce li ho tutti e due i numeri, uno più alto e uno più basso, perché ovviamente il secondo probabilmente quello chiuso, comunque te lo posso comunicare per telefono quello, eventualmente se lo puoi inserire. E’ un numero di 6 cifre comunque quello di Dachau. Però … che comunque non sono mai stato uno sprovveduto, ho sempre cercato di proclamare, per quanto è possibile, la mia vita, Dachau comunque era una prospettiva che era quantomai dolorosa e difficile, e non mi consentiva delle possibilità. A Dachau si poteva scappare, ma molti di quelli che erano scappati erano rientrati e portavano sulla schiena un grosso cerchio rosso per cui evidentemente non era una strada da seguire. Nel frattempo evidentemente si era creata la necessità da parte delle formazioni tedesche, dell’intelligenza tedesca, di attivare delle fabbriche per alimentare la guerra. Per cui cercavano degli operai specializzati per appunto popolare queste fabbriche. Cercavano un po’ di tutto. Io siccome eravamo alle soglie dell’inverno, ovviamente l’inverno nelle condizioni che avevo, gli indumenti che era una giacca di canapa, una camicia che doveva essere, provenire dall’Ungheria perché era tutta istoriata, era splendida, ma era trasparente, pantaloni e una specie di paletot, il paletot era la stessa giacca leggermente più lunga. Le prospettive comunque, l’alimentazione era quella che … Diciamo che in quelle condizioni io potevo sopravvivere ancora per qualche mese perché provenivo già da un ambiente che mi aveva alimentato, mi aveva riempito fisicamente, mi aveva consentito di sopportare anche disagi. Comunque io … Mi sono messo in lista per andare ad unirmi a questo gruppo. Mi hanno chiesto qual era la mia specializzazione, io avevo detto che ero un collaudatore della Fiat, che conoscevo il …, il dico metro, … conoscevo un po’ tutte le strumentazioni, il che non è vero, le ho scoperte dopo … E loro, per carità, sapendo che provenivo dalla Fiat era vangelo il mio. E assieme con me è partito un altro col quale sono sempre, c’era un mulatto che è sempre stato assieme con me, Dino Miniti si chiama. Comunque il trasporto era diretto a Buchenwald, però le necessità, tutti i grossi campi di concentramento, Auschwitz, Buchenwald, Dachau, e non lo so quanti altri, Ravensbrück, avevano dei sottocampi che venivano utilizzati nei modi più svariati, vuoi perché c’era una sovrappopolazione, e allora per esempio a Dachau correvo il rischio di andare ad Allach, ad Allach era morto il tenente Franco, che era il comandante della … Per cui diciamo che andando in fabbrica è vero che avrei reso più difficoltoso la fine di questa guerra, però diciamo che tutto sommato, io una parte l’avevo fatta, la seconda parte me la sarei gestita per conto mio, per cui avrei potuto collaborare o tentare anche qualcosa d’altro.

Comunque siamo stati portati a Bad Gandersheim, che è un sottocampo di Buchenwald. A Bad Gandersheim c’era una fabbrica che probabilmente era stata abbandonata per la semplice fatto che la popolazione attiva era stata mandata in Russia.

D: Scusa, quindi a Buchenwald non ti hanno portato in quel trasporto lì? E ti hanno immatricolato nel sottocampo?

R: Certo. Arrivati a Bad Gandersheim ci hanno ricoverati nella chiesa sconsacrata, perché il campo non c’era. Allora abbiamo creato il campo, le baracche, abbiamo creato, l’abbiamo circondato col filo spinato, con l’alta tensione, coi vari trespoli dove le guardie ci controllavano giorno e notte, e nell’ambito del campo era inserita anche la fabbrica.  Niente, io ho preso posto al collaudo dei pezzi, la fabbrica produceva aeroplani, i caccia. Nel tempo che sono rimasto lì ne abbiamo costruito uno, non ne è uscito nessuno. Nel frattempo, anche perché la Russia avanzava, infatti dietro al mio banco di lavoro c’erano dei carsuoli che avevano delle dimensioni di 3 metri per 2, ed erano le masserizie dei tedeschi, dei tecnici tedeschi che erano in Polonia o oltre Polonia, e che arretrando rimandavano alle loro origini le loro cose. Tanto è vero che io ho tolto un’asse da questo e ho trovato delle carte geografiche che ho potuto dare a un cecoslovacco il quale è scappato. Lui conosceva la lingua tedesca abbastanza bene.

D: Il trasporto da Dachau a questo sottocampo di Buchenwald, ti ricordi quando più o meno è avvenuto? Prima dell’inverno? Prima di Natale o dopo Natale?

R: prima di Natale, direi che è avvenuto nei primi giorni, nella prima decade o quindicina di ottobre.

D: Quindi appena arrivato tu a Dachau in sostanza

R: A Dachau io ci sono stato 15-20 giorni, forse anche 20 giorni, sono andato cinque o sei volte a Monaco di Baviera a lavorare, e poi basta.

D: Ti ricordi invece ritornando in questo sottocampo di Buchenwald, dicevi costruivate degli apparecchi voi, degli aeroplani, ti ricordi per che ditta?

R: Io ho sempre detto che è la Messerschmitt, però una dottoressa di Berlino che è venuta ad intervistarmi, e che io ho …., mi ha detto che non era la Messerschmitt, non era neanche la Yunker, era un altro nome molto probabilmente il governo tedesco, come il governo italiano, dava mandato alla Fiat la quale Fiat poi passava, diciamo, certe competenze ad altre. Comunque il nome è diverso.

D: E tu sei rimasto lì sempre in questo sottocampo di Buchenwald?

R: Sempre nel sottocampo di Buchenwald, inizialmente abbiamo fatto questi aeroplani,  in un secondo tempo abbiamo creato ……, era un imbuto alto direi cinque-sei metri, ma proprio ad imbuto, ed è rimasto tale. Il terzo aggiornamento di produzione sono state zappe, vanghe, tridenti e cose del genere. Comunque il tutto è rimasto dentro perché le ferrovie tedesche non avevano possibilità di spostamenti, perché i bombardamenti erano tali infatti a volte io ho osservato che c’erano delle incursioni che duravano per delle ore, oscuravano il sole, c’era una grossa ombra sul terreno. Per cui, ecco perché la fabbrica ha prodotto senza essere d’aiuto.

D: Remo eravate in tanti in questo sottocampo qui di deportati?

R: In questo sottocampo faccio un calcolo a memoria, c’era un blocco italiano, un blocco di russi, un blocco di francesi, un blocco di polacchi, un blocco eterogeneo, e direi che per ogni blocco potevano esserci, sei blocchi diciamo e non cinque, sei blocchi un 500 persone. Forse anche di più.

D: E lì sei rimasto, in questo sottocampo sei rimasto fino a quando?

R: Siamo rimasti fino all’incirca alle soglie della Pasqua del ‘45, che non so in che mese sia caduta. Premetto che gli ultimi giorni ci è stata fatta una ricca offerta da parte del comandante del campo, ha detto chi di noi vuol vestire la divisa tedesca avremmo potuto avere gioie, denaro e oltretutto, ma invece qual era la voce di sottofondo? che ci avrebbero incatenato alle mitragliatrici perché eravamo tutti militari validi, eravamo.  Faccio una premessa che nel campo avevamo un Revier, cioè un ospedale, un’infermeria. Io sono stato ammalato, sono svenuto in fabbrica, febbre a 40, mi portano in infermeria e il medico dell’infermeria era uno spagnolo, il quale aveva fatto la guerra contro Franco. Poi ha vinto Franco e lui è passato in Francia. E’ stato preso dai tedeschi quando hanno conquistato la Francia e l’hanno portato lì. Gli ultimi tre giorni del campo c’è stata fatta prima l’offerta di vestire la divisa, successivamente il comandante del campo ha detto che ci avrebbe spostato perché stavano avanzando inglesi, francesi e americani. E noi ci trovavamo in un cul de sac, come si dice. Pertanto chi era in condizioni di camminare sarebbe stato, avrebbe fatto parte della colonna, chi non era in condizioni di camminare sarebbe stato aiutato, caricato su dei carri. Molti hanno aderito, alcuni hanno aderito a questa seconda offerta, possibilità, e mentre noi ci siamo rivolti eravamo in un buon rapporto col medico, andiamo dal medico gli diciamo “cosa dobbiamo scegliere?” e lui ci ha risposto “marchez, marchez, marchez”, tre volte ce lo ha detto. Noi ce ne siamo andati via, il mattino dopo verso l’alba, verso le 4 del mattino, mi sono andato per andare a quella specie di toilette che era poi una fossa con una specie di panca da una parte e dall’altra, ci si accomodava come si poteva lì, e nel frattempo hanno raggruppato quello che avevano aderito ad essere … Dietro il campo c’era un boschetto un po’ più in alto, li hanno portati lì, avevano piazzato le mitragliatrici, non se ne è salvato uno. E lì ce ne saranno rimasti poco poco una cinquantina. Poi ci hanno intruppato, siamo partiti. Prima di partire hanno impiccato un prigioniero, perché doveva aver commesso qualcosa che non era gradito ai tedeschi. Probabilmente era un ammonimento, perché quello era palese, invece l’assassinio nel bosco era qualcosa di occulto, e pertanto non otteneva lo stesso effetto. Ci hanno portato via, ci siamo incamminati, non lo so in quale direzione ovviamente, doveva esserci un’apertura ovviamente ad un certo, e il primo giorno, la prima sera, ovviamente siamo partiti, non ci hanno dato né alimenti né nulla, ognuno di noi ha portato tutti i propri bagagli. Ci hanno fatto accomodare in una chiesa, cristiana, cattolica, apostolica. Infatti le pie donne ci hanno aperto la porta, siamo entrati, hanno chiuso a chiave. Faccio la premessa che abbiamo, siamo andati, prima di partire siamo andati nelle cucine e nei magazzini, e tutto ciò che abbiamo potuto arraffare lo abbiamo arraffato. E molti di noi, io compreso, abbiamo preso delle patate, ma delle patate di quelle che mangiano i ragazzi, mi sfugge il nome comunque. Le abbiamo mangiate, non avremmo dovuto. Comunque entrati in questa chiesa con noi c’era un gruppo di polacchi, i quali si sono avvicinati … e hanno suonato l’Ave Maria. Le lacrime, sembrava il Mississipi sembrava. Dopo di che ovviamente tutti avevamo la dissenteria, non potevamo, non c’era una toilette, ci siamo accomodati per quanto, il mattino dopo, dopo questo oltraggio da parte nostra ovviamente le pie donne che hanno inveito, con ragione sotto un certo aspetto perché abbiamo sconsacrato qualcosa che era un mito da guardare col massimo del rispetto, ma nel contempo avrebbero dovuto provvedere in qualche modo. Comunque la punizione per quello che avevamo commesso, ne hanno scelto un certo numero e chi li sceglieva il comandante. Faccio un passo indietro: il comandante del campo non ha scortato la colonna, la colonna era guidata da un sergente polacco delle SS, una vera figura del militare classico per tradizione, il quale aveva il compito di scegliere chi di noi era sacrificabile. Dopo di che c’erano i soliti due russi dietro alla colonna, i quali avevano unicamente il compito naturalmente di non far soffrire per quanto era possibile, e poi la mentina era quella che mascherava e annullava in parte, perché non poteva annullare tutto quanto. Tutto questo si è verificato per nove giorni, e per nove giorni la colonna che è partita, perché abbiamo formato varie colonne, la mia colonna che eravamo 1.500 in partenza, ho detto 1.500 mentre prima parlavo di un cinquecento, probabilmente non so quale dei due sia il valore esatto, ma comunque ammettendo che fossimo anche un cinquecento, io ero ad un certo momento, dopo che sono scappato tre volte, l’ultima volta ero il 35° vivo.

D: E di questi quanti italiani Remo?

R: C’era uno di Roma, direi che eravamo equidistanti, forse eravamo 5-6 italiani, 5-6 francesi, qualche polacco, c’erano degli ungheresi, c’erano dei cecoslovacchi, c’era tutta l’Europa.

D: Remo tu sei scappato dove più o meno, ti ricordi?

R: Sono scappato, oso dire, la prima volta sono scappato forse al terzo giorno di marcia, sono scappato perché io non avevo futuro perché i vestimenti, i pantaloni e la giacca di canapa nel camminare strusciavano sulla pelle e mi avevano scoperto le ossa delle ginocchia. Nel contempo, siccome io ero partito con gli zoccoli olandesi, erano zoccoli non adatti al mio piede cosa succedeva.. che  un po’ strusciavo in avanti e un po’ invece  a seconda del terreno. E mi sono rovinato totalmente i piedi. Un mio compagno di Milano mi ha prestato le sue scarpe, disgraziatamente nel tallone c’era un chiodo che si è infilato nel mio tallone. Comunque il medico spagnolo mi ha medicato, mi ha messo le garze di carta, che sono durate lo spazio non di una notte lo spazio di un paio d’ore, perché l’umore del liquido che usciva dalle ginocchia e dai piedi ovviamente … Comunque al terzo giorno ho detto “tanto per andare oltre”, si era creata l’opportunità, mi era sembrato che eravamo già diminuiti di numero, mi sembra che ci fosse una certa forma di lassismo da parte delle SS tedesche che erano tutti molto anziani per la verità, perché i giovani erano sui fronti, sui vari fronti. E io e Minetti di Torino ci siamo allontanati in una sosta. Avremo fatto 300 metri, un ragazzino che poteva avere 8-11 anni non di più, con un fucile, un … che era più lungo di lui, ci ha fermato, ci ha portato in paese perché evidentemente c’era stata la segnalazione, e i tedeschi avevano ovviamente schierato dei vigilanti.

D: Scusa Remo, tu quindi la tua Liberazione tu sei scappato per liberarti?

R: Mi sono liberato.

Banterla Arturo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Arturo Banterla.

Sono stato arrestato dalle Brigate Nere e mi hanno portato alla Caserma del Teatro romano, dove torturavano per far parlare e per far dire anche quello che non si sapeva.

Vi ho passato un periodo di pochi giorni, poi mi hanno trasferito alle SS in Corso Porta Nuova.

In Corso Porta Nuova mi hanno interrogato le SS; quindi mi hanno portato al Forte San Leonardo.

Dal Forte San Leonardo dopo pochi giorni mi hanno caricato su un camion con tanti altri, e ci hanno portato nel Lager di Bolzano. Tutto questo in sintesi …

A Bolzano siamo stati nel blocco E; a quanto ho capito lì c’era dentro di tutto, non erano mica tutti politici.

Il nostro blocco era chiuso, era un campo dentro nel campo, era un blocco circondato e chiuso da reticolati. Dietro al nostro blocco c’erano anche le donne, e ci divideva una parete.

E’ successo – per quel che mi ricordo – che ad un certo punto alcuni deportati stavano scavando una buca nel terreno per uscire, per scappare fuori. Ma il giorno di Natale, il 25 dicembre 1944, uno che si diceva fosse il capo-campo, e che era un colonnello dell’esercito a sua volta prigioniero, ha fatto la spia. Allora ci hanno tenuto fuori tutto il giorno sulla piazza dell’appello, al freddo, senza mangiare: dalle nostre fila dovevano uscire i colpevoli, e due o tre sono in effetti usciti; mi sembra che abbiano fatto una brutta fine, qualcuno lo hanno attaccato a un palo …

Tutta la faccenda non l’ho mica vista, e non ricordo granché della fine che ha fatto, credo che però l’abbiano fatta brutta, la fine. Da lì, a gennaio, c’è stato il trasporto per Mauthausen.

D: Scusa Arturo, ti ricordi quando sei stato arrestato?

R: A dicembre ero a Bolzano, quindi sarà stato settembre.

D: Settembre 1944?

R: Sì.

DOMANDA: Quanti anni avevi?

R: Fai il conto: sono del 1923, quindi avevo 21 anni e mezzo.

D: Tu facevi parte di qualche movimento resistenziale?

R: Sì, facevo parte della missione militare RYE.

D: Ci puoi spiegare che tipo di missione era?

R: Era una missione di sabotaggio e spionaggio di comunicazioni; ne sapevamo poco. Eravamo introdotti nei forti con documentazioni, e dovevamo fornire armi possibilmente ai partigiani, favorendoli; ci siamo introdotti nei forti con documenti, abbiamo fatto la guardia ai forti. Ci siamo anche sparati, con i fascisti, qualche volta, ma dico che è andata bene. Poi c’è stata una spia, che ha fregato me.

Sempre di Verona parliamo: nel forte S. Procolo c’erano munizioni e armi che servivano ai partigiani. Portarle fuori non era mica facile, perché la guardia sulle porte era fascista. Cercavamo il momento buono per agire: uno solo di noi era dentro, 3 / 4 di noi eravamo armati come loro; te lo immagini? Da fuori riuscimmo a fare entrare anche dei carrettini, pensa un po’, e li abbiamo portati fuori.

Una notte – mi viene in mente parlandone ora – siamo usciti, con me c’era un certo Giovannino, che era tornato dalla Russia; era uno scalmanato, non aveva paura di nessuno. Aveva una pistola, come la mia, calibro 9. Ci hanno sorpresi a portare il carrettino che altri dovevano prendere in consegna e portare fuori: alle spalle c’erano due ufficiali tedeschi. Ero davanti, Giovannino era un po’ dietro, mi disse: “Tu cammina piano, fai finta di niente”; e io dietro, facendo finta di niente… fino a che l’ufficiale tedesco che era lì vicino si avvicinò un po’ troppo al mio amico: il mio amico si girò improvvisamente, lo prese, lo buttò a terra e gli sparò. L’altro ufficiale scappò, noi abbiamo consegnato il carrettino e siamo rientrati. Non sapevamo dove fosse finito l’ufficiale, non so come abbiano fatto a portare via il morto, non sappiamo niente, neanche che fosse morto sapevo. Giovannino non perdonava nessuno.

Con un altro carro ci siamo invece imbattuti nella pattuglia fascista, ed abbiamo fatto un piccolo conflitto a fuoco: il mio amico è rimasto ferito ad un polpaccio ed io sono riuscito a portarlo fuori dal combattimento in spalla, riuscendo a salvare entrambi in qualche modo.

D: Arturo, RYE cosa significa?

R: Sono domande a cui è difficile rispondere, prima di tutto perché anche fra noi non ci conoscevamo. Le botte che ho preso dai fascisti, meno ne ho prese dalle SS, erano terribili, i fascisti erano peggio, fra fratelli eravamo peggio; volevano sapere quello che io non sapevo. Le domande erano: chi comandava? chi era il comandante che dirigeva le operazioni? Era proprio il maresciallo che comandava il forte, hai capito? ma noi non sapevamo che era lui a dare gli ordini, non sapevamo niente. Quando uno ci chiedeva: “Ma chi era che comandava le cose?” rispondevo: “E che ne so io, non conosco nessun nome”.

Non sapevo mai con chi collaborassi, noi dovevamo fare delle cose, portare materiali ed informazione, li portavamo e basta; avevamo i lasciapassare, era tutto in regola.

Poi un giorno, quando mi hanno arrestato, ho mostrato i miei documenti; mi dice: “Li teniamo noi, tu devi venire a fare un controllo”. Erano le Brigate Nere, e sono stati fortunati perché era la prima volta che mi fidavo ad andar dentro in un ambiente, era un bar e volevo bere un bicchier di vino, porca la miseria, non lo avessi mai fatto. C’era la spia … ho sentito le armi puntate alle spalle; era ben difficile che mi girassi, pensa se mi avessero trovato la pistola, che avevo in tasca. Erano tanto cretini, quella era una massa di ignoranti, non ce n’era di furbi; Mussolini era giornalista e sapeva qualcosa.

Lì sono stato arrestato e mi hanno portato proprio al Teatro Romano, e sono passato attraverso Umana.

Sono andato al processo come accusato ma avevo con me la pistola: ero in carcere con la pistola ancora in tasca!!  Loro sono stati stupidi, ma il problema per me era di liberarmi della pistola, ed era un problemissimo.

Sennonché telefonarono a mia madre che ero lì, e lei mi portò qualcosa da mangiare, dello zucchero; io l’ho rifiutato, poi ho chiamato la guardia ed ho infilato la pistola dentro la roba che mi ha portato e me ne sono liberato.

D: Come venivate reclutati voi della RYE?

R: A dir la verità non lo sappiamo; ci siamo trovati lì, e siamo stati quasi costretti. All’8 settembre ero in marina ad Ancona, poi ero venuto a casa, e il comandante ci ha lasciati liberi dicendoci: “Abbiamo fatto prima la resistenza contro i tedeschi, ma poiché a terra ci hanno abbandonato tutti, dividiamo quello che c’è sulla nave tra chi vuole andare a casa”, cioè i pochi soldi che c’erano. Eravamo sul “Savoia”, sulla nave reale, che era armata pochissimo. Ci disse: “Io vado in Bassa Italia, a Gallipoli, parto con la nave”; la nave poi è stata affondata appena fuori dal porto dai tedeschi, io ho fatto bene a tornare a casa.

Arrivato a casa c’è poi stata la mobilitazione, hanno fatto il governo fantoccio, hanno fatto quel famoso governo. Porca la miseria, una volta mi hanno beccato sotto casa: andavo a casa perché andavo a sentire Radio Londra. Poi avevo anche un’altra casa; un giorno ho trovato un tedesco, un tedesco che raccontava della Grande Guerra; era un anziano, diceva di essere stato con Cadorna, e raccontava della guerra. Siamo entrati in confidenza; mi dice: “Tu ascolti Radio Londra?”. Allora parlavo abbastanza bene il tedesco – adesso l’ho dimenticato – mi dice: “Sappimi dire qualcosa, di come va questa guerra”.  Avevo paura, ma mi disse: “Non preoccuparti finché io sono là fuori”; era un maresciallo della Wehrmacht non della SS, dunque di conseguenza quando finivo di sentire la radio lui voleva sapere le ultime notizie. Gli dico: “Guarda che va male per voialtri, guarda che è finita!”. Aveva più paura di me, era spaventato perché aveva famiglia, ed anche figli militari; era anziano.

Io giravo per la città dappertutto, con tutti i documenti regolari, con i timbri tedeschi; non so dove andavano a farli, però li trovavano.

D: Comunque non ricordi come siete stati reclutati per entrare nella RYE?

R: No, non lo saprei neanche io.

D: La vostra zona operativa era solo qui a Verona?

R: Sì, noi operavamo in città, a Verona.

D: Oltre alla RYE, c’erano altri gruppi con i quali eravate in contatto?

R: E’ possibile, ma noi non sapevamo un bel niente, non sapevamo con chi fossimo. Quando incontravamo qualcuno … per la miseria! incontro una persona alla quale devo consegnare delle cose e penso solo: “Quella persona mi vedrà”. In realtà quella persona non la conoscevo; una volta finito non sapevo niente, neanche cosa ci fosse dentro le cose da consegnare, tra l’altro. Nessuno ci diceva niente.

D: Hai parlato di Umana.

R: Umana si chiamava, Umana era il suo nome.

D: Chi era?

R: Era uno della Bassa Italia: era il carceriere del Teatro Romano, quello che dopo la guerra è stato condannato a morte dalla Corte d’Assise di Verona. Ho ricevuto un sacco di raccomandazioni a casa mia; c’era una fila di gente, tra cui preti, tutti sono venuti lì per salvare la vita a questo uomo, ma cosa potevo fare io?

Il problema mio era questo: abitavo in un quartiere nel quale tre miei amici che sono venuti con me sono morti a Mauthausen; i loro genitori dicevano: “Mica perdonerai? Lo sai che noi ci abbiamo rimesso il figlio?”. Io vedevo un uomo finito, vedevo un uomo che ormai moriva da solo, non riuscivo a condannarlo, non riuscivo. Comunque ho detto la verità nel modo più assoluto. Il giudice mi disse: “Cosa ti ha fatto Umana?” “Per la verità non mi ha fatto niente, a me non ha fatto proprio niente, non mi ha neanche toccato; mi ha accompagnato in prigione e mi ci ha chiuso”. Se gli avessi detto che mi aveva salvato perché mi ha portato fuori la pistola … lui neanche se ne era accorto. Mi ha quasi salvato, ma ad ogni buon conto. Dalla pena di morte con questa storia è passato all’ergastolo, che è già qualcosa; qualcosa ero riuscito a fare. Poi sono venuti i suoi parenti a ringraziare. Io dissi: “Non ho fatto niente, non ho detto altro che la verità” e basta, non ho detto altro.

D: Arturo, adesso iniziamo il discorso della tua deportazione. Qui a Verona, oltre agli interrogatori, hai subìto torture?

R: Sì, abbastanza.

D: Dove e da parte di chi?

R: Dai fascisti soprattutto: botte. Ti facevano una domanda e non ti facevano dare la risposta perché ti davano come minimo un pugno in bocca, ti sbattevano per terra; non riuscivi a parlare, non ti lasciavano rispondere. Al contrario, le SS, che pure erano tremende …  Ricordo che

sono stato interrogato dal maggiore, era di una gentilezza squisita: “Se non lo sai non me lo dici, ma io ti credo”, mi diceva sempre così. Ti veniva vicino in un modo tale da voler farti parlare senza picchiare, con modi gentili ed educati. Ti offriva la sigaretta e diceva: “Tranquillo, vedrai che andrà tutto bene, tu non c’entri per niente, a quanto ho capito io, cosa vuoi”. Questo sistema i fascisti non ce l’avevano.

Le SS mi hanno chiuso in una cella da un metro per mezzo metro, non si poteva neanche star distesi, comunque. Lì siamo stati per una ventina di giorni.

D: Questo accadeva al Teatro Romano?

R: No, questo nelle prigioni delle SS; al Teatro Romano ci sono stato per pochi giorni.

D: Dov’era il comando della SS?

R: La sede delle SS era nel Palazzo delle Assicurazioni in Corso Porta Nuova, nei sotterranei.

D: Da lì ti hanno preso una bella mattina; eri da solo o c’erano altre persone con te?

R: Quando mi hanno preso ero solo, le altre persone le ho trovate dentro; gli altri miei amici sono stati presi nei giorni successivi; ne hanno preso 1 o 2 alla volta, perché i fascisti avevano coraggio solo quando erano in tanti. Non li vedevo fare quel lavoro, erano forti solo se erano in tanti; quando uno scappava i fascisti avevano paura se erano in pochi. Io solo e loro in tanti, allora erano i padroni. Questo è il fatto.

D: Tu sei partito per Bolzano dal Palazzo dell’INA?

R: No, dal Palazzo dell’INA sono stato trasferito al Forte San Leonardo.

D: Quindi è dal Forte San Leonardo che ti hanno portato a Bolzano?

R: Sì.

D: Con cosa ti hanno portato?

R: Col camion sono venuto a Verona insieme con quelli che erano là; qui a Verona abbiamo trovato altri due camion pieni di gente, e siamo partiti insieme.  Prima di arrivare a Bolzano un camion si è rotto; tutti e tre i camion erano fermi sulla strada ed era quasi notte. Ci trasferirono da un camion all’altro; scendevamo a due a due; ogni tanto invece qualcuno passava sotto il camion.  Loro intanto continuavano a chiamare.  Quando toccava a me non son potuto più andar là sotto perché ormai non c’era più posto. Allora noi siamo partiti e loro sono rimasti a terra sotto il camion rotto, e così sono scappati. Gran parte li hanno poi ripresi sulle montagne del Trentino, perché erano soli, non erano stati aiutati da nessuno. Quella era una brutta zona per farsi aiutare, meglio sarebbe stato qui a Verona.

Siamo arrivati a Bolzano; ci mettono dentro al blocco E; non lo conoscevo, era la prima prigionia che facevo lì dentro.

D: Vi hanno spogliato?

R: No, a Bolzano no.

D: Vi hanno dato numero e triangolo?

R: A Bolzano no, perché era considerato un campo di smistamento; era un campo di passaggio per i campi di sterminio. Nei campi di sterminio creavano posto giornalmente: ammazzavano 100 persone e 100 deportati erano pronti da portare dentro. Nei campi di sterminio hanno eliminato tante persone, è quello il fatto.

D: Eri l’unico del tuo gruppo della RYE nel Lager di Bolzano?

R: No, ero con tutti i miei amici; il fatto brutto è che sono morti tutti.

D: Ti ricordi quanto tempo sei rimasto nel Lager di Bolzano?

R: Sono partito nel gennaio 1945, quindi ero là un po’ prima di Natale: sarà stato fra novembre e dicembre, un mese circa.

D: Ricordi qualche nome dei tuoi compagni della RYE che erano nel Lager di Bolzano con te?

R:  Ricordo i nomi di quelli morti; un certo Bragantin di Giovanni, Predoni Attilio, Marani Enrico, tutti morti. Poi c’era un altro di cui ora mi sfugge il nome; la vedova abita proprio vicino a me, lui è morto a Flossenbürg.

D: Nel corso della tua permanenza nel Lager di Bolzano ricordi se vi erano anche dei religiosi?

R: Certo, un prete c’era.

D: Te ne ricordi il nome?

R: No, l’ho sentito nominare tante volte ma ho poca memoria in questo momento; in questi ultimi anni ho perso quasi tutta la memoria. Non riesco più a ricordare, ho tanti vuoti. Comunque questo prete lo ricordo perché usciva dal campo, andava a fare la messa, non so dove; entrava ed usciva, continuava a dire “preghiamo”. Ma cosa vuoi pregare?  Dovevamo lottare con le cimici là dentro, facevamo la guerra con le cimici.

D: Era un prete veronese o di altre zone?

R: Non lo so.

D: Provo a farti dei nomi: padre Piola ti dice nulla?

R: Io non l’ho mai saputo come si chiamava quel prete.

D: Era un deportato anche lui?

R: Era deportato anche lui, è finito a Mauthausen con me; ma è morto, l’ho visto morire là io.

D: Di Bolzano non ti ricordi qualcosa in più? Cosa facevate tutto il giorno dentro il blocco?

R: Stavamo sempre chiusi dentro, a parte il fatto accaduto in quel giorno di Natale, quando ci hanno fatto stare in piedi invece che mangiare il pranzo di Natale fuori al freddo.

D: Arturo, ricordi se potevi scrivere o ricevere lettere o pacchi a Bolzano?

R: Io ho fatto una lettera, dicevano che i pacchi ce li avrebbero dati, ma io non ho mai ricevuto pacchi, perché li mangiavano loro, quello è il fatto. Ho scritto e ho chiesto, e ho ancora una lettera che ho portato qui oggi. Sulle lettere si doveva scrivere poco, quello che volevano loro; non potevamo mica dire quello che volevamo noi! Prima di partire siamo riusciti a contattare le donne, che erano dall’altra parte dell’asse che divideva i due blocchi; si poteva parlare, si sentiva dalle fessure il parlare delle donne. Siccome le donne avevano probabilmente più libertà di noi, non so se erano come noi o no, ci hanno procurato degli attrezzi per la fuga, ci hanno dato delle seghette e delle pinze. Avevamo della roba che pian piano le donne ci hanno passato. Siamo riusciti a salire sul treno con questa roba, poi abbiamo tentato di aprire lo sportello ma – fatalità! – sul vagone dove mi trovavo c’era anche il prete, e non voleva che si facesse la fuga, mentre invece noi speravamo di riuscire ad aprire un buco.  Sul vagone c’era una guardia dietro ed una davanti. E quando il treno arrivava a qualche curva e poi rallentava si poteva saltare, se va va, ma non c’era altro da fare. Sennonché ad un certo punto il treno si ferma, proprio quando avevamo quasi aperto il buco, mamma mia ragazzi! avevano dei cani, sono venuti, hanno perquisito i vagoni, sono arrivati lì, hanno aperto perché era già tagliato tutto. Sono venuti dentro con i fucili. Botte da orbi! Lì ho avuto una fortuna sfacciata ad essere stato dietro, mentre i primi erano davanti; posso dire che in quell’occasione il prete si è fatto avanti. Parlava benissimo il tedesco; è andato davanti alla guardia, si è preso la responsabilità, garantendo che non sarebbe successo più. Noi consegnammo gli attrezzi; portarono via tutti gli attrezzi che avevamo per la fuga, capito?

Basta, siamo arrivati fino a Linz, poi siamo scesi dai vagoni a Mauthausen, abbiamo fatto qualche bel chilometro a piedi in mezzo alla neve.

Siamo arrivati nel campo … Ne ho fatti tre di campi io; non sapevo neanche dove andavo a finire, là non si sapeva niente, non si sapeva neanche il nome della gente con cui eri assieme. Io mi domando come certa gente può aver fatto 10 / 12 mesi là dentro, non lo so; o facevano i kapo o erano impiegati in ufficio, perché in quei campi lì non si può mica stare; passare tre mesi era già un successo, tre mesi in un campo del genere significano che uno era molto forte. Resistevo perché nella mia vita ho sempre sofferto; ero anche un po’ abituato a soffrire, perché la mia vita è così; sono rimasto orfano troppo giovane, allora di conseguenza ho dovuto arrangiarmi, vivere, guadagnarmi il pane fin da piccolo, non avevo tempo neanche di andare a scuola, io. Pertanto ero un po’ abituato alle sofferenze, e le sopportavo un po’ meglio degli altri.

Arriviamo alla spoliazione: siamo arrivati in mezzo alla piazza dell’appello, tutti nel piazzale, tutti in fila, tutti là: “Spogliarsi!” Io credo che ci fossero 20 gradi sotto zero quel giorno. Spogliarsi tutti quanti, là in mezzo al piazzale! Là ci sono stati i primi morti. Mi ricordo di due uno che mi ha detto che faceva l’orologiaio a Verona, ma non li conoscevo. Sono morti dal freddo, era gente delicata.

Dovevi aspettare di arrivare al tuo turno poi facevi la rasatura e la doccia fredda. La rasatura era totale, totale, compreso la riga, la riga da qua a qua (in testa), dal di dietro. Poi ci hanno dato degli stracci, perché non c’erano più divise quando siamo arrivati noi, quelli con le righe; ci hanno dato stracci di morti, che venivano smessi e restavano lì. Ti ritagliavano sul dietro della giacca un quadretto, ci mettevano sopra 4 righe; il numero di matricola qua (sul petto), lì (sulla gamba) ed uno sul polso, di lamierino. A me l’hanno dato di lamierino legato con filo di ferro. Ci chiamavano solo con quel numero.

Ecco perché si poteva morire spesso: per chi non capiva bene il tedesco erano guai. Chiamavano il numero ma lo chiamavano in tedesco, hai voglia te! A quelli che avevo vicino lo ripetevo io, ma quelli più distanti non rispondevano. Ecco il guaio, e se non rispondevi erano guai; se cadevi eri morto, ti ammazzavano, era proibito cadere per terra, e se non cadevi ti gettavano per terra. Comunque, passata quella cosa …

D: Ricordi il tuo numero di Mauthausen?

R: 115.356; devo averlo in tasca comunque.

D: E in tedesco come fa?

R: 115 mila dunque, aspetta che non mi ricordo adesso … einhundertfünfzehn-dreihundertsechs-undfünfzig. E’ giusto?

D: Ti hanno mandato nel Wascheraum?

R:No, ci hanno fatto la doccia lì, e dopo ci hanno mandato in una baracca, dove non c’erano brande, non c’era niente, tutti per terra. Stavamo tutti se messi di fianco, per terra. Dunque, hai voglia te!

I primi giorni ci avevano messo in quelle condizioni e, puoi figurarti, quando di notte passavano per … il problema era quello. Allora ogni tanto, per allargare, passavano col frustino e chi era colpito doveva uscire. E quelli non li vedevi più, li trovavi poi … in attesa del forno crematorio. Ho preso tante pacche, tutte col frustino, non mi sono mai mosso, ho fatto finta … Lì bisogna imparare a salvarsi, là il cervello era mobilitato solo per salvare la vita e basta. Dopo che lì ho fatto un po’ di giorni, hanno fatto posto e ci hanno messo in una baracca un po’ più larga; c’erano delle brande, eravamo in 6 per materasso, dico sul materasso da uno in 6, l’uno sopra l’altro; da sopra, non parliamo, veniva giù l’orina, perché il pericolo era quello … no, non a Mauthausen.

Da Mauthausen mi hanno mandato via dopo una settimana, sono andato in un campo più piccolo che non sapevo dove fosse. Non so dov’era perché non sapevo niente di niente, non ti dicevano niente, e mi hanno fatto lavorare in una montagna, dove facevano pezzi d’aeroplano.

Siccome facevo il saldatore mi hanno fatto saldare gli alettoni degli apparecchi. Ma poi non ho fatto tante saldature, non potevi farne tante potevi farle perché era un pericolo perché … ti fucilano, perché quegli alettoni lì, se cedevano, l’aereo precipitava …

D: Arturo, il nome di questo sottocampo lo ricordi?

R: No, non sapevo neanche dove fosse. Invece quell’altro sì, lo ricordo: era Gusen 2. Quando sono venuto via da là non sono più tornato a Mauthausen, sono andato nel sottocampo di Mauthausen, sono andato a Gusen 2.

D: Prima di andare a Gusen 2 ti hanno mandato in un altro sottocampo?

R: Sì dove ho detto che dovevo saldare gli alettoni degli aerei.

D: E come si chiama questo sottocampo?

R: Questo non lo so, non ne ho mai avuto idea, non sapevo neanche dove fosse, perché avevo fatto le strade tutte di notte. Non avevamo mai visto niente. Là vedevo solo la galleria sotto la montagna, non sapevo neanche dov’ero io, là.

D: Eri con altri italiani?

R: In quel campo lì no, ero il solo italiano. Ero insieme coi russi, pensa come ci capivamo bene! Ci si capiva che era una meraviglia coi russi! Neanche una parola, beh, insomma, pazienza. Lì abbiamo trascorso una ventina di giorni, non molto; non si stava neanche male, eravamo in pochi.

Poi siamo rientrati a Gusen 2, lì cominciò la tragedia. Purtroppo lì siamo finiti. Entrando abbiamo visto la prima baracca dove c’erano degli ebrei, quasi tutti ebrei, le donne, mamma mia! Tutte squartate, ho visto delle cose che io non … roba impressionante, vedere le donne incinte che le tagliavano per vedere … si son viste delle cose che fanno ribrezzo al solo pensarci. Il medico mi ricordo che mi ha detto quando siamo usciti: “Arturo non raccontarlo a nessuno, non ti crederanno.”

Io non posso credere alla gente perché le belve sono più umane, almeno verso i loro figli o fratelli, ma scherziamo! lì eravamo peggio delle belve. Per quello che riguarda me, li avrei ammazzati tutti i tedeschi, tutti dal primo all’ultimo, dal bambino al grande, perché quando si passava per la strada, passavi un pezzo di strada dove c’era il pubblico, e ti sputavano addosso, ti buttavano la mezza sigaretta lì davanti. Se facevi per prenderla te la pestava e ti sputava addosso, se era un civile; se era una guardia, hai voglia! alla fine ti bastonava e basta, ti dava col fucile.

Quando siamo arrivati a Gusen 2 ci hanno dato la baracca con le brande; erano tre file, adesso non ricordo esattamente, eravamo in sei su un materassino da una persona, tre di qua e tre di là.

Dovevi avere la fortuna che qualcuno morisse, perché se qualcuno moriva durante la notte lo buttavi giù dal letto e stavi più largo. “Morte tua vita mia” dicevano; a quel punto lì non c’era più niente da fare.

C’è un episodio che ricordo: all’ora di mangiare, allora eravamo dentro nella galleria, portavano anche marmitte, ma non so cosa ci fosse dentro; c’era una specie di brodaglia scura, nera, c’era della roba dentro, e c’era un certo Morra di Milano. Disse: “Se vai a casa, saluta i miei”, perché lui stava morendo, stava morendo stava morendo. Insomma è spirato lì, e io avevo in mano la sua scodella per mangiare; visto che è morto lui l’ho mangiata io, cosa potevo fare? mica la buttavo via.  Poi c’era anche un ragazzo lì, un ragazzo russo, avrà avuto 13 anni, piangeva sempre, aveva sempre fame; gli dicevo: “Ma io cosa posso fare? io non posso darti niente”. Allora quello che racimolavo …

Avevo trovato un tedesco, questo non l’ho mica raccontato; era un invalido della Grande Guerra, l’ho convinto un giorno a portarmi delle bucce di patata; gli dissi: “Non voglio niente, solo che quelle che butta via tua moglie invece che nell’immondizia portale qua” “Mi ammazzano – dice – non lo posso fare”. Aveva paura anche lui, una paura tremenda. Finché un giorno mi fa un segno; c’era un banco con gli attrezzi, mi fa cenno di guardare e lui se ne va, fa il giro. Io vado là e trovo patate, bucce di patata erano. Tra l’altro anche un po’ grossette, però crude. Allora bisogna provvedere perché mangiarle crude così è un problema. Mi sono preso una ciotola dove c’era l’olio per ungere le macchine, ho versato l’olio, ho messo dell’acqua dentro; però per scaldare non avevo niente, ma avevo la corrente elettrica lì, avevo da attaccare la corrente. Cosa ho fatto? Siccome mi sono sempre arrangiato anche per l’elettricità, ho pensato: “Se provoco un corto circuito in acqua, scaldo l’acqua”. L’ho fatto, ho preso due lame, le ho unite – ne avevamo finché volevamo – le ho messe vicine, isolate in testa, i due capi con i due poli, le ho messe nell’acqua, una volta mi è saltata la valvola e una volta no, ha tenuto: bolliva che era un piacere, l’acqua!

Allora ho detto al ragazzo: “Continua!” Se la guardia vede il vapore, hai voglia tu! Siamo rovinati. Dopo una mezz’oretta che bolliva le abbiamo tirate fuori. Poi hanno portato il famoso rancio, abbiamo riempito la scodella con quelle, abbiamo aggiunto mezza io e mezza lui, abbiamo fatto la pancia piena. Poi ci siamo riempiti di acqua per finirlo perché lì c’era, nella galleria, una specie di rubinetto che continuava a mandare acqua, ma c’era scritto: “Acqua non potabile, proibito bere”, quando invece noi avevamo sete, fame e sete.

Per riempire la pancia quando ci passavo davanti mettevo la bocca sotto e mi riempivo la pancia. Allora dicevo: “Se devo morire muoio, ma almeno bevo!” Non mi ha mai fatto male l’acqua, stavo bene quando avevo piena la pancia, avevo sempre fame. Un po’ d’erba magari la trovavi da mangiare qua e là e qualcos’altro facevi.

Quando rientravamo la sera il problema era che, non so gli altri, ma io non riuscivo più a tenere niente, il corpo non teneva più né l’orina né niente; avevi bisogno di andare alla latrina e la latrina non era mica nella baracca. Era fuori in piazza, si doveva traversare il piazzale. Attraversare il cortile era un problema perché c’erano le guardie che si divertivano a sparare ai birilli, e camminavi in mezzo alla neve. Dunque dovevi stare attento che non ci fosse la guardia e passare al momento giusto. Sennonché quando avevi bisogno della latrina, prima di arrivarci avevi già fatto tutto per strada e ti restava tutto addosso. Addirittura avevamo una branda sopra di noi, e quelli sopra facevano tutto sul materasso, e sotto pioveva. Quella era la vita che si faceva lì.

D: Tu parli di Gusen 2 e di una galleria. Gusen 2 è il campo vicino a Gusen 1, dove c’erano le tue baracche?

R: Gusen 1 e Gusen 2 erano vicini.

D: E la galleria dove lavoravate era vicino alla baracca?

R: No no no, c’era molta strada da fare.

D: Prendevate un trenino?

R: Un trenino, sì.

D: Andavate a Sankt Georgen?

R: Non lo so dove: si finiva sotto la montagna e poi si andava a piedi, non so.

D: E lì cosa costruivate?

R: Io lavoravo ad una saldatrice, continuavo a saldare le stesse cose; non sapevo neanche a cosa servissero; cercavo qualche cosa per fuggire, volevo costruirmi una pinza per tagliare i reticolati, erano con l’alta tensione.

Avevo promesso di resistere ai miei amici che erano con me e che sono morti. Loro non volevano, dicevano: “Non ce la facciamo più!”. Avevano piaghe sulle gambe, anch’io le avevo, e gli stracci facevano pus; ci pulivamo con stracci unti che trovavamo per terra, non avevamo altro.

Se vai in infermeria sei morto. Sai cosa faceva l’infermeria? Quando uno andava là dentro, dopo un giorno gli chiedevano: “Sei guarito?” “No” “Allora domani viene il medico, vai di là, ti fanno l’iniezione e in due giorni sei guarito e non hai più niente.” Infatti guariva subito perché poi andava in forno crematorio e non parlava più. Gli facevano l’iniezione e dopo un’ora erano morti, erano già guariti quelli: i miei amici purtroppo hanno fatto quella fine, sono morti.

D: Ci puoi raccontare una tua giornata? Partivate da Gusen 2, prendevate il trenino, arrivavate vicino alla galleria, e poi proseguivate a piedi; erano grandi queste gallerie?

R: Io ne conoscevo una o due, cioè quel poco che potevo girare, perché dovevi avere tanta forza per girare. Con la scusa che magari mi occorrevano degli elettrodi, andavo a cercarli nel fondo della galleria; continuavo a camminare, andavo a cercare dove non c’erano, tanto per vedere se trovavo qualche amico, anche solo per poter parlare. E’ brutto non poter parlare con nessuno; c’erano un sacco di lingue là, francesi, spagnoli, c’erano tutte le nazionalità là dentro. Italiani ne trovavi pochi; se avessi trovato un italiano mi avrebbe fatto molto piacere parlarci assieme; poteva essere un po’ di consolazione. Invece non ce n’era dove ero io; mi hanno messo in una squadra che chiamavano “la bea fia”: erano tutti russi. Poi sono venuti una decina di italiani che hanno messo con noi. Lì ci hanno fatto fare un lavoro in un luogo che adesso non ricordo; mi hanno levato da lì e mi hanno messo in un’altra galleria, e si mangiava per conto nostro, tra l’altro. Per tutto questo gruppo mandavano una marmitta, che era tutta per noi. Questo gruppo di russi aveva un capo; io non sapevo come chiamarlo, lo chiamavo Molotov. “Ehi, Molotov, vieni qua!”, allora dice lui: “Io sono la maggioranza, io distribuisco il mangiare”, con la guardia lì. Questo succedeva perché era tutto brodo e poca roba dentro, tutta sul fondo; quando noi italiani andavamo là pescava il brodo, quando arrivavano gli amici suoi pescava sul fondo. Una volta, due, tre, poi gli dissi: “Senti amico, guarda che qua siamo nelle stesse condizioni, così non andiamo mica bene.” Sennonché la guardia ci vide discutere e cosa successe? Venne lì e chiese: “Cosa succede?” “Qualcosa non quadra,” dico “vede, questa è tutta acqua”. La vede, poi fortunatamente … mise giù il mestolo. Fece piegare il capo dei russi e gli diede 25 frustate. “Allora da domani tu distribuire rancio, ma attenzione fai la stessa fine se fai …”.

Siamo tutti uguali, se vediamo un italiano cerchiamo di aiutarlo di più. Se riuscivo, la mia gabella era sempre la migliore comunque, perché ovviamente ero l’ultimo e pescavo il fondo, anche se c’era il rischio di restar senza.

D: Con voi in galleria c’erano anche dei civili a lavorare?

R: Io non li ho mai visti, forse da altre parti può anche darsi, ma io non ne ho mai visti di civili; ho sempre visto guardie militari e prigionieri che lavoravano.

D: Non c’erano neanche capi officina, Meister?

R: No no no no, i capi officina li conoscevo, li ho avuti nel 1941. C’ero già stato nel 1940 io in Germania a lavorare, e a quel tempo li ho avuti, conoscevo ingegneri, conoscevo tutti, ho conosciuto anche della brava gente come si trova come dappertutto, ma lì dentro brava gente non ce n’era proprio.

D: Quando parlavi di donne hai parlato di un medico che t’ha detto: “Non raccontare a nessuno”; era il medico del Revier?

R: No, erano in due: c’era un medico russo ed uno americano, quando sono venuto a curarmi all’ospedale, dopo la Liberazione.

D: Dove eri al momento della Liberazione?

R: Ero a Gusen 2. Me lo sentivo nel corpo che c’era qualcosa che non andava; vedevo ormai gli aerei che passavano a filo del campo e non sparavano un colpo, sul campo non hanno mai sparato, mai lanciato una bomba, nonostante bombardassero dappertutto.

Lì, cosa hanno fatto i tedeschi? Quando venivano i bombardamenti ci facevano uscire dal campo e ci facevano andar fuori 100 metri nel campo libero, in piedi, come se i piloti fossero fessi e non potessero segnalarci con il ricognitore agli aerei dietro. Non abbiamo mai preso una bomba dagli aerei alleati, mai un colpo è arrivato nel campo, mai assolutamente niente.

Gli ultimi giorni vedevo i tedeschi che continuavano a parlottare, non riuscivo a capire, allora ho chiesto a Molotov: “Come la capisci questa cosa?” e lui ha risposto: “Se finisce ti levo gli occhi e te li faccio mangiare”, poiché aveva ricevuto 25 bastonate.

Eravamo vicini, vedevo che le guardie cominciavano a non picchiare più, però c’era il pericolo che ci ammazzassero tutti prima di andar via; non credevamo che arrivasse così rapidamente la Croce Rossa. La Croce Rossa è arrivata per prima nel campo, ha raccomandato di star tutti fermi nelle baracche, di non muoversi, parlando in tutte le lingue.

Poi è venuta dentro tutta la truppa, hanno disarmato le guardie che così non hanno fatto in tempo ad uccidere più nessuno …  tanto si moriva da soli, perché quando gli americani hanno detto che eravamo liberi ci hanno anche detto di restare nel campo, in attesa dei soccorsi; dovevamo però prima lasciar passare le truppe di occupazione, perché l’assistenza è dietro, mica davanti.

Sembrava un manicomio nel campo, tutti quanti correvano dove c’era il rifornimento di generi alimentari; c’era burro, c’era un po’ di tutto là dentro. Fortunatamente non ho perso il cervello, lo avevo ancora, se riuscivo ancora a tenerlo; non ho preso niente, sono rimasto come ero. Di quelli c’è stata una moria; sono morti quasi la metà, in che modo? mangiando, per l’assalto ai viveri, tutti quanti dentro a mangiare, a mangiare; gli altri invece morivano per la diarrea. Non capisco come ho fatto ad arrivare all’ospedale, qua sono nel vuoto. Mi sono trovato all’ospedale ma era già passato un mese dalla ferita; io non sapevo niente, un mese dopo ero ancora all’ospedale. Quando ho potuto vedere, prendevo il latte che mi davano con una specie di succhiotto. Ho sentito ciò che un maggiore medico americano ed un medico russo dicevano: “Questo ragazzo ce la fa; questo no. Facevano la selezione, loro. Quello di fianco a me era tubercoloso ma mi bevevo la sua roba, roba da matti!

D: La Liberazione la ricordi così. E il ritorno come lo ricordi?

R: Quello è stato peggio, per ignoranza mia, tra l’altro.

Mi sono dimenticato di dire che nell’ultimo periodo si era arrivati al punto in cui c’era un’apatia … ormai non sentivi più niente, non ti interessava che battessero o non battessero. Ho avuto la lezione una volta che ho rischiato fortemente la vita, perché mi hanno bastonato per cosa non ricordo. Ogni stupidaggine bastava per prendere le botte. Passando, ho urtato col braccio una guardia, e mi ha dato 25 frustrate, per un affare del genere. Dopo mi disse: “Tu devi morire perché sei un fascista”. Ero a terra e ho radunato in un attimo l’orgoglio e tutte le forze che avevo, mi sono raddrizzato e mi sono messo faccia a faccia con lui. Gli ho detto: “Non ripetere più quello che hai detto, nel tuo interesse ammazzati subito ma non passarmi più davanti, altrimenti, pur con le mie poche forze, ti distruggerò”. Non ha avuto neanche il coraggio di replicare, mi ha lasciato stare. Ho detto soltanto: “Non ripetere più quella frase”. Non m’ha neanche toccato, credevo di aver finito con quel discorso.

Tornando all’ospedale, quando ero in grado di camminare, ma non ancora di mangiare, perché mangiavo appena appena un po’ di brodo – mi ci sono voluti anni prima di cominciare a mangiare, ho impiegato un bel po’ di tempo anche a casa per riuscire a mangiare, perché rigettavo tutto, l’intestino non teneva più niente – allora, quando cominciai a camminare, feci la spedizione per l’Italia.

Prima c’era il programma “Dammi la nota”: avevano preso i nomi dei superstiti che trasmettevano poi per radio, e mi hanno dichiarato disperso. Invece avevo dato la giusta posizione a quelli della radio ma c’era una confusione tremenda. C’erano i treni che caricavano ogni tanto un gruppo di persone che andava in Italia, verso il Brennero. Un giorno esco dall’ospedale, cammino, cominciavo a fare le passeggiate intorno all’ospedale; lì vicino c’era a 50-60 metri il binario della ferrovia; i treni passavano di lì, si fermavano e ricaricavano i prigionieri da portare in Italia. Avevano un sacchettino con dello zucchero che avevano dato loro per fare il viaggio, delle cose da mettere in bocca. Io non avevo niente perché non ero neanche sulla lista dei partenti per l’Italia, assolutamente no. Cosa ho fatto? Ho visto il treno fermo e ho chiesto: “Scusate, dove andate, in Italia?” “Sì, stiamo andando in Italia”, allora dico: “Posso salire anch’io?” “Sali”. Senza dir niente a nessuno prendo il treno. Quando sono arrivato al Brennero, gli altri mangiavano quello che avevano io non avevo niente, ero tanto debole che credevo di morire proprio. Allora dopo un po’ mi hanno dato qualcosa e sono arrivato fino a Bolzano. A Bolzano il guaio era che c’era la quarantena da fare, io non la volevo mica fare; volevo andare a casa, volevo andare a casa.

Il fatto è che invece a Bolzano c’era una confusione che non si poteva neanche camminare, neanche rientrare nel campo. C’era un baraccone, c’era della gente che scriveva a macchina. Con un altoparlante hanno gridato forte: “Quelli provenienti dai campi di sterminio KZ devono passare davanti a tutti”. Allora sono passato avanti, mi hanno fatto un biglietto che non mi è stato né timbrato né firmato; mi hanno chiesto la provenienza, hanno scritto tutte quelle cose lì, da dove vengo e da dove non vengo. Poi mi hanno detto di aspettare, mi hanno dato un panino imbottito ma … chi lo mangiava un panino imbottito, in quelle condizioni?

Vengo fuori, mi mettono in coda, e un signore dice: “Di dove sei? di Verona?” “Sì” “Vuoi venire a Verona?” “Magari! sto aspettando qua, devo fare la quarantena” “Vieni qua, sali, sali”. Aveva la macchina, salgo, parte e via … ospite. Me ne vado da Bolzano e arrivo a Verona.

Capuozzo Raffaele

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Capuozzo Raffaele, nato a Milano il 24.5.24.

D: Perchè sei stato arrestato?

R: Ancora oggi non lo so. Comunque penso che la causa sia stata che ero stato sospettato di far parte del primo Comitato di Liberazione di Verona, quando invece non c’entravo niente.

I guai miei si riferiscono al fatto che nel 1943 accompagnavo a Verona l’avvocato Carlo Caldera e l’avvocato Antonio Alberti, residenti sul Lago di Garda, e mio padre, funzionario di pubblica sicurezza. Venivamo a  Verona, io guidavo una 1100 con le bombole di metano; li portavo a Verona alla mattina e li riprendevo alla sera. L’appuntamento per tutti era alle ore 17.00 vicino all’Arena, di fronte al famoso Bar Cillario, frequentato dalla Verona bene, dai fascisti, dai capi. Lì li caricavo e si tornava a Pacengo.

Della scoperta del primo Comitato di Liberazione, di cui facevano parte i nomi che ho indicato, io non sapevo niente. Mi presero tre soldati della SS e mi portarono in corso già Vittorio Emanuele, al numero civico 11, al Palazzo dell’INA. Là in quel periodo aveva sede il comando delle SS in Italia del famoso generale Harster.

All’entrata 15 o 16 uomini mi diedero chi un pugno, chi una sberla. Mi hanno portato in cortile, dove c’erano i garages. Nei garages c’erano le celle; entrai in cella e trovai un personaggio che diceva di chiamarsi Borgoncini Luca, era ex colonnello dell’esercito e comandante dell’Accademia di Modena; penso facesse parte dei famosi servizi segreti dell’esercito. Era un uomo meraviglioso che il tempo mi ha fatto conoscere molto bene; era il cugino del famoso monsignor Borgoncini, nunzio apostolico firmatario dei famosi Patti del Laterano.

Io in quel periodo ero a Verona, fuggito da Bolzano l’8 settembre (1943), dove ero al  IV Genio Alpino.

L’8 settembre (1943) alla mattina eravamo tutti sul greto del fiume Talvera; dopo tre giorni riuscii ad allontanarmi dal Talvera perché una crocerossina mi disse: “Dì che hai l’angina”. Mi portarono fuori; il capo disse: “Perché viene fuori questo?” “Ha l’angina”, e per i tedeschi angina significava malattia infettiva. Mi portarono due / tre giorni all’ospedale civile di Bolzano. Rimasi all’ospedale di Bolzano, quando si seppe che sarebbe arrivata la Gendarmerie, come la chiamavano, per fare un controllo degli ammalati; sospettavano che vi fossero anche dei non malati. Un certo professor Casanova, che era un primario, mi diede allora un paio di pantaloni e una camicia; riuscii a scappare. Andai a piedi fino a Ora, perché la linea da Ora a Bolzano era stata sinistrata dal bombardamento del 3 settembre 1943. Sono arrivato a Verona durante il coprifuoco dove sono riuscito ad avere un documento che mi esentava dall’essere reclutato per lavori durante i bombardamenti.

R: Mi arrestarono l’11 maggio (1944) alle 5 e mezzo della sera, e mi portarono al palazzo dell’INA, dove rimasi tre mesi. Non erano convinti o non si rendevano conto che io non sapevo niente, e mi chiedevano chi era il primo Comitato di Liberazione.

In quel momento sapevo che esistevano solo il rosso e il nero, io ero fascista. Chi mi spiegò un po’ di comunismo fu il famoso Roveda, primo sindaco di Torino, a causa del quale morirono tre ragazzi veronesi.

D: Dopo tre mesi trascorsi nel palazzo dell’INA, cosa successe?

R: Una notte, alle 11 di sera, ci portarono in stazione a Porta Nuova, ci caricarono su un carro e mi portarono a Bolzano. Questo tra la fine settembre ed i primi di ottobre.

D: Su un carro ferroviario?

R: Su un carro ferroviario.

D: In quanti eravate più o meno?

R:  Eravamo circa una sessantina dentro questo carro. Rimanemmo sino al mattino sul vagone, poi ci scaricarono a Bolzano e su un camion ci portarono al campo di concentramento.

D: Ricordi qualche compagno che era con te su questo carro?

R: C’era un certo Renato Bianco di Thiene, era alto quasi due metri. C’era un certo Giuseppe Zampieri, detto Il paia, morto durante la marcia della morte. Poi c’era don Aldrighetti, l’arciprete di Soave, e il dottor Garriba, allora pretore di Soave. C’era un altro prete mantovano che si chiamava don Berselli, una persona squisita. Rimanemmo a Bolzano, non posso dire per quanti giorni; so che in ottobre, il 22 o 23, arrivammo a [Dachau].

D: Del Lager di Bolzano cosa ricordi?

R: A Bolzano non avevo nessuna matricola, chi aveva le matricole era destinato a rimanere lì.

Arrivando a Bolzano ho trovato degli amici che erano passati dalle celle di Corso Vittorio Emanuele. Per esempio un certo Gianni Ferraiolo, che era stato paracadutato dagli americani come spia; là poi seppi che c’era e mangiavamo assieme il rancio che ci davano, il comandante della corazzata Littoria, quella famosa corazzata di cui tutti parlavamo perché era rimasta bloccata a Taranto o a Brindisi, non mi ricordo dove. C’era anche lui, era un ammiraglio, una persona squisita, piccoletto ma vedevi che era un ammiraglio. Lì si parlava del più e del meno, facevamo i bollettini di guerra così, tanto per dire, perché le notizie erano frammentarie, non c’era una comunicazione diretta. C’era qualcuno che, uscendo a lavorare, sentiva il cittadino, poi tornava a dire: “Ho sentito, non ho sentito”, erano tutte voci di riporto.  Così ognuno faceva le sue supposizioni, ma io a 20 anni supposizioni ne avevo poche da fare, ascoltavo, anche perché non avevo altro da fare. Da lì ci portarono in stazione, ci caricarono sui vagoni; eravamo più di 30, anche 70 per vagone. Mi ricordo il freddo, faceva freddo, perché ci hanno lasciato tutta la notte a Bolzano prima di partire; probabilmente attendevano delle tradotte. Arrivammo a Monaco, cioè a Dachau. Lì iniziò il mio primo numero di matricola; se me lo chiedi in italiano non lo so, te lo posso dire in tedesco perché era, dunque: il 113 mila, una cosa del genere, non me lo ricordo bene però è documentato. Quello di Buchenwald invece lo ricordo bene perché è stato l’ultimo: devo studiarlo per dirlo in italiano perché lo sentivo sempre in tedesco e così l’ho memorizzato. Arrivammo a Dachau, ci fu l’appello. Il giorno del mio arrivo arrivarono gruppi dall’Italia, dalla Francia, dalla Jugoslavia, eravamo circa 3 / 4 mila sul piazzale. Lì arrivammo con i nostri abiti borghesi, ci misero in fila, ci spogliarono completamente nudi e in fila, ci tolsero l’anello, io avevo un anello, la collanina, l’orologio; ci misero in fila per andare alla disinfezione.

Il bello della disinfezione, cos’era? Un prigioniero, arrivato prima di noi, con la macchinetta ci pelava dappertutto, la testa, sotto, dappertutto; più avanti ce n’era un altro con un sacchetto di sapone in polvere: ce ne dava una manciata, entravamo in stanzoni enormi dove c’erano dei tubi da cui usciva acqua, facevamo la nostra doccia. All’uscita dalla doccia c’erano dei tavoloni enormi con sopra pantaloni, giacche e zoccoli olandesi: ognuno si prendeva la giacca e il pantalone – le mutande non erano più in uso, le canottiere non c’erano – e arrivammo. Poi ci diedero un triangolo da appendere qua con scritto “italiano” e il numero di matricola che era 113mila e qualcosa. Poi ci fu l’adunata di noi tutti in divisa; quello che mi fece più impressione è che durante questo inquadramento venne il Lagerältester a dire: “Questi vanno ai vari blocchi, distribuiteli”.

D: Stavi parlando del capo del Lager?

R: Sì, il capo-Lager venne con l’elenco e chiamò fuori Samuel Barda, capitano paracadutista inglese. Parlò in tedesco, non so cosa dicesse. Cominciò a sferrargli pugni sulla faccia, e questo capitano, sarà stato un metro e 55, non si mosse, rimase sull’attenti imperterrito come se gli facessero delle carezze. Poi ebbe un mancamento, stava per cadere, ma si rialzò e ritornò nella fila. Io venni inviato al blocco 24; con me c’erano don Berselli, don Aldrighetti, il giudice Garriba, altri veronesi, e Renato Bianco. Le adunate si svolgevano alla mattina alle 6, bel tempo o pioggia: ci mettevano in fila tra le due baracche 23 e 24; eravamo tutti in fila sotto l’acqua ad aspettare che venisse il comando a farci la conta. Quando arrivava davanti al cancello il capo di togliersi il cappello, poi quando era finito ci lasciavano sotto l’acqua, e per scaldarci ci ammassavamo, continuavamo a girare su noi stessi in modo che ogni 10 minuti si veniva fuori poi si rientrava, ci si riscaldava. Molte volte avveniva che alla mattina mancasse qualcuno, allora si doveva ricontare. Poi il capo-baracca della camerata diceva: “Ci sono uno o due morti dentro”; faceva il controllo nella baracca e contava i morti.

Il campo era nato per avere o il singolo o i castelletti da tre ognuno nel proprio posto, ma noi eravamo arrivati al punto che eravamo in sei in due lettini anziché in tre, e forse era meglio perché, non avendo da coprirci, stavamo stretti e uniti, e stavamo al caldo. Dopo tante volte si usciva per andare a lavorare; venivano, sceglievano, prendevano per portare a  pulire il campo con la carriola, sempre scortati dal Lagerpolizei. Il Lagerpolizei non era un prigioniero politico o un prigioniero militare avevamo anche dei militari che non erano politici, ma aveva la giacca con le lettere KG sulla schiena, c’era il KG, che voleva dire Kriegsgefangener cioè prigioniero di guerra. Invece noi eravamo zebrati, e dopo la faccenda di Badoglio, per sfregio ci fecero la famosa riga in mezzo alla testa; sembravano dei rospi, affamati, magri; questo era fatto solo agli italiani per ricordare il periodo di Badoglio. Dopo il tradimento di Badoglio ci fecero questa riga in mezzo, larga due centimetri, sul resto della testa c’era un po’ di peluria, mentre lì eravamo proprio a zero.

D: Parlaci dei kapo.

R: I kapo erano delinquenti comuni tedeschi: ladri, contrabbandieri, rapinatori, condannati per reati comuni. Al posto di cinque anni di carcere facevano fare loro due anni e mezzo di campo di concentramento come kapo. Davano loro la fascia ma vestivano in borghese; loro erano in borghese e vestivano la loro fascia nera con la scritta bianca: solo la lettera K.

D: Sei rimasto sempre  nel blocco 24?

R: Sempre. E’ il blocco dove era morta la famosa principessa di Bulgaria, Mafalda; correva voce che, non so in quale blocco, ci fosse anche il figlio di Stalin, ma noi non lo abbiamo visto.

D: Stiamo parlando ancora di Dachau: hai trovato altri italiani?

R: Eh mamma mia, ce n’era un’infinità di italiani, quando ci scaricavano dai vagoni. Arrivavamo col vagone ferroviario dentro Dachau, perché in Dachau arrivavano i treni. E dietro i reticolati, dietro le reti metalliche abbiamo sentiti un’infinità di: “Ciao, sei italiano?”; dopo, i contatti venivano interrotti. Con me c’era l’avvocato Ruggero Jenna, discriminato da Mussolini come ebreo.

D: Durante il tuo periodo di Dachau sei uscito dal campo per lavorare?

R: Sì, ci hanno portato 3 / 4 volte a Monaco dopo i bombardamenti per togliere le macerie sulla ferrovia.

D: Di fronte alla tua baracca, la 24, c’erano la 26 e la 28; ricordi chi c’era in quelle baracche?

R:  La baracca non era singola, era un corridoio di baracche; le due baracche erano unite ma ognuna aveva il suo ingresso: c’era una camerata a destra e una a sinistra. Ogni baracca aveva dentro due camerate; c’era un piccolo ingresso che divideva le due baracche, e lì, in quell’ingresso, dormiva il capo-baracca, cioè il Blockältester.

D: Cosa avevate in baracca?

R: C’era la fila dei lettini, diciamo dei castelletti di legno; ognuno di noi aveva il suo posto, che non era per un singolo ma che ogni giorno diventava per più persone perché continuamente arrivavano nuovi deportati e li inserivano dove c’era la possibilità.

D: Avevate armadietti?

R: Quali armadietti? Non era mica il Grand Hotel! Parliamo di Dachau! non c’erano armadietti! Si dormiva col vestito che avevamo addosso perché il pigiama non ce l’hanno mai portato…

D: Prima dicevi che all’interno delle baracche qualcuno moriva; questi morti dove venivano portati?

R: Al crematorio, ai forni. Vicino ai forni c’era anche una grossa baracca, che aveva la sembianza di una stalla, di un ippodromo, diciamo di un baraccone; in mezzo si camminava su della paglia. Quando uno non ce la faceva più andava a dormire là ed era tranquillo perché non lavorava più; là passava uno che gli dava il mestolo di brodaglia. Però quando moriva lo mettevano su un carrello e lo portavano ai forni. E là c’era tutta questa fila di forni, li attaccavano con i fili di ferro, li buttavano dentro, uscivano i fili vuoti dalla parte di là. Questi erano i forni.

D: I forni però erano al di fuori del campo.

R:  Adesso non so capire esattamente; sono stato 3 / 4 anni fa a vedere il mio nome in archivio.

Ora è tutta un’altra cosa perché le baracche non ci sono più, ci sono quattro pali, e l’unica baracca visitabile è il “Grand Hotel”, cioè la baracca dei Lagerpolizei. Non è una baracca come le nostre; quella era bella luminosa, spaziosa, la nostra era la classica baracca. Adesso hanno messo al posto delle baracche, nel viale dove erano le baracche, dei pali neri, dei travi, su due colonnine di cemento, e non hanno conservato niente.

Poi dicono Revier, ma non era lì perché, entrando sul piazzale, c’era un promontorio, una baracca, con un medico spagnolo prigioniero, che chiamavano Revier, cioè infermeria. Chi aveva bisogno andava, e quelli che andavano cosa facevano?  Davano loro un cucchiaio di ittiolo, perché le malattie che scoppiavano lì erano foruncoli, specialmente sul collo; avevano la carta oleata, non ti davano delle bende, ma un pezzetto di garza con un cucchiaio di ittiolo, che sembra lucido di scarpe marrone; te lo mettevi sopra questi foruncoli. Scoppiavano foruncoli, dissenterie,  ma malattie in quel periodo non ne ho mai viste, non c’erano.

D: Dopo, dove ti hanno portato?

R:  A Buchenwald.

D: Con cosa ti hanno portato?

R:  Col treno fino a Erfurt.

D: Quando ti hanno portato a Buchenwald?     

R:  Ai primi di novembre 1944.

D: Quando sei arrivato a Buchenwald, altra spoliazione, altra immatricolazione?

R:  Sì. Da lì siamo partiti come un distaccamento di una sessantina di uomini; ho perso di vista tutti, don Aldrighetti, il povero Ruggero Jenna, tutti. E siamo andati a finire a Bad Gandersheim, un paesino con un promontorio in una ex chiesa. Ci buttarono dentro lì. Non c’erano né castelletti, niente, c’era solamente paglia per terra. L’unico sgabuzzino ce l’avevano i due kapo, prigionieri anche loro, e il Lagerältester cioè il capo-Lager di questo gruppo. Dormivamo nella chiesa, e lavoravamo alla costruzione delle carlinghe di aerei per il famoso bombardiere notturno Heinkel. Nel frattempo, un altro gruppo di prigionieri, a fianco dello stabilimento, creò un campo di concentramento con le sue baracche. Così ci tolsero dalla chiesa e ci misero nelle baracche.

In una baracca c’era il comando tedesco, dove dormivano i tedeschi; due baracche a nord, vicino ad una ferrovia, erano le nostre baracche. Ci alzavamo la mattina alle 6 per il famoso antreten, andavamo in fabbrica a lavorare, e la sera alle 5 ci riportavano al campo e ci davano da mangiare. Un mestolo di acqua e rape con una fetta di pane, cioè un pane diviso in cinque.

D: Quando sei partito per Buchenwald, don Aldrighetti, Jenna e gli altri sono rimasti a Dachau?

R:  Sono rimasti là, non ho più saputo niente di loro. Don Aldrighetti però è sopravvissuto, è tornato in Italia a fare l’arciprete a Soave, mentre invece credo che il povero Garriba morisse in campo di concentramento.

D: Anche don Berselli è ritornato.

R:  Sì, lo vedrei molto volentieri.

D: Poi è mancato. Loro sono rimasti a Dachau?

R:  Sì, perché quando noi partimmo per andare a Buchenwald chiesero degli operai specializzati in fresatura. Allora un certo Plinio Panciroli, veronese, che era cameriere al ristorante “Girelli” in corso Vittorio Emanuele, e Giuseppe Zampieri, detto Il paia perché era lungo e magro, mi dissero: “Bocia, vieni con noialtri”, loro conoscevano queste cose. Io dico: “Non son mica bon” “Ghe penso mi, vien via con me!” e lo segui. E andammo a Buchenwald.

D: A Buchenwald siete rimasti poco.

R:  Poco, sí. Dopo 15 / 20 giorni ci trasferirono in un sottocampo del campo di Buchenwald che era il campo di Bad Gandersheim.

D: Vicino a quale città era?

R:  Bad Gandersheim è nella zona di Halberstadt. Lo so perché dopo l’evacuazione del campo, attraversammo a piedi molti paesi vicini. Loro non volevano abbandonare i campi per l’esperienza fatta nei Paesi che vennero occupati dagli americani o dai russi: lasciando infatti libero il campo e facendo uscire i prigionieri, questi andavano nelle case e facevano piazza pulita. Allora la loro idea fu di tenerci sempre in gruppo e di farci camminare, affinché all’ultimo momento ci prendessero gli americani o gli inglesi. Partimmo da Bad Gandersheim e facemmo una strada. Ora non la ricordo con ordine, però so che passammo paesi che mi sono rimasti in mente: Vernigerode, Aschersleben, abbiate pazienza per i nomi che posso storpiare, non voglio offendere nessuno. Comunque era la zona intorno all’Elba. Arrivammo a Halberstadt in periferia, alla sera. Eravamo accampati senza tende e senza niente in un prato enorme, i tedeschi erano attorno di guardia. Di giorno camminavamo e c’erano dei prigionieri che tiravano carretti con tutto il bagaglio dei tedeschi; ogni tanto si vedeva che qualcuno si toglieva la divisa e si metteva in borghese.

A un bel momento, una mattina ci svegliammo, quando arrivò il chiaro potemmo vedere – credo che dormire fosse relativo – che non c’era più nessun tedesco, erano spariti. Io e altri due di cui adesso mi sfugge il nome, non so se è un certo Zanardelli di Brescia, ricordo che ci incamminammo alla chetichella e ci infilammo in una stalla.  Ci nascondemmo dietro alle balle di paglia, per vedere cosa succedeva. Nel pomeriggio alle 4 sentimmo dei carri armati venire avanti; dico: “Arrivano i tedeschi!” ma ad un bel momento vidi che il carro armato aveva la stella col cerchio, erano alleati.

Sopra il carro armato c’erano soldati inglesi e ciprioti che parlavano l’italiano. Allora, visto che erano americani, siamo venuti fuori: noi eravamo con la divisa a righe, non potevamo dire: “Siamo dei signori di passaggio”. Ci videro, ci diedero della cioccolata, ci fecero salire sul carro e arrivammo a Halberstadt.

Halberstadt era già una cittadina organizzata, ci presero in consegna e ci portarono in fondo al viale più grosso di Halberstadt, dove c’era una fabbrica, la Junkers. La strada si chiamava Adolf Hitler Strasse.

Ci portarono in questa fabbrica; nelle baracche dietro c’erano i prigionieri che lavoravano. A quel punto venne qualcuno, ci disse: “State qua, mettetevi calmi, tranquilli, verrà la Croce Rossa ad aiutarvi, a vestirvi”. Ci hanno dato delle cose, e rimanemmo in attesa che le autorità competenti si organizzassero per poter far partire ognuno per la propria residenza. C’era il gruppo di italiani, erano quasi tutti genovesi. Dopo c’erano i russi, i polacchi, gli slavi, ognuno aveva il suo settore; eravamo lì in attesa in rientrare. Arrivò l’ordine che c’era una tradotta che veniva verso l’Italia e ci  caricarono sul treno, che era molto piccolo, ed era sempre un carri di merci. Arrivammo a Innsbruck, ci misero in quarantena. Poi venne la Commissione Pontificia e con un camioncino da Bolzano venimmo fino a Verona. Arrivati a Verona io sono andato direttamente a casa e ho trovato i miei.

D: Ritornando ancora a Buchenwald, dicevi di esservi rimasto 15 giorni.

R:  Sí, 15 / 20 giorni.

D: Ricordi se all’interno del campo hai visto donne o ragazzetti?

R:  Quello era pieno, quello era pieno, c’era il reparto donne e il reparto ragazzi. Per esempio si diceva a Dachau che c’era la famosa Ilse Koch mi pare, che era l’amante del comandante del campo. La Koch aveva la mania dei tatuaggi. Era una iena, perché quando vedeva una bella schiena di tatuaggi li segnalava e i kapo, quando questo veniva ammazzato, gli toglievano la pelle, con cui lei si faceva fare le abat-jours. Ripeto questo si diceva ma io non l’ho visto perché io non ho tatuaggi. Il numero sul polso non era regola obbligatoria “Tu fatti questo”, ognuno se lo faceva per non dimenticare. Tanti dicevano “Fatti fare un tatuaggio” perché erano bravissimi a farlo, facevano disegni meravigliosi. Però questo poteva comportare delle conseguenze.

D: Dopo Buchenwald sei andato nel sottocampo. Con voi a lavorare in fabbrica c’erano anche dei civili?

R: Civili tedeschi, per Dio! c’erano. Io avevo, forse per la mia mania di pulizia, un tovagliolo con cui mi lavavo. Mi misero a fare un lavoro di precisione, che consisteva nel modellare, con delle dime e con una macchina che faceva le curve, curve in metallo dural, una specie di alluminio, per le carlinghe degli aerei; nelle varie forme della carlinga c’erano dei pezzetti che venivano incastrati. La macchina era un po’ particolare: aveva due ganasce a pressa, e infilandovi questa striscia piano piano dava la sagoma che doveva combaciare con la sagoma in legno. Allora il capo dei civili tedeschi veniva e vedeva che era fatto bene. Quando veniva controllava e, qualche volta di nascosto, mi metteva sempre un pezzetto di pane. Loro alla mattina alle 10 avevano il Brotzeit cioè il tempo del pane. Gli chiesi del sale, e un giorno mi portò un cartoccetto di sale, perché non mangiavo niente di quello che trovavo; tanti sono morti non perché li hanno ammazzati i tedeschi, ma perché mangiavano tutto quello che trovavano e morivano di dissenteria.

Io invece raccoglievo le ortiche, quando andavamo fuori e passavamo nei campi, le strappavo; ecco perché ero, diciamo, un po’ rovinato, perché le nascondevo sotto la giacca. Alla mattina in fabbrica con un barattolo di conserva le davo a quello dei forni, me le bollivano, me le cuocevano, e poi io alla sera me le toglievo dall’acqua, le facevo scolare, e al giorno dopo con il sale me le mangiavo. Io sono stato un grande mangiatore di ortiche. Ma non perché sapessi che facevano bene, sapevo che non era una pianta velenosa; ne avevo il terrore, infatti le bollivo e le mangiavo, e il tedesco mi dava il sale. Mi diceva: “Fertig Salz?” e il giorno dopo mi portava un sacchettino di carta con un po’ di sale.

D: Poi l’evacuazione e tu hai partecipato ad una marcia della morte.

R:  Mi è arrivata una carta dal Deuxieme Bureau francese, che conservo tuttora, in cui mi chiedono in quali punti erano seppelliti i morti, avendo io fatto parte di quella marcia. Le strade erano quelle che erano, durante la marcia eravamo per cinque in fila e si marciava. In quel periodo l’esercito era in rotta e bisognava lasciare a loro il passo. Il comandante decise di metterci per tre, e naturalmente la fila si allungò e la scorta divenne insufficiente. Allora decisero che i primi 20 in testa, non appena avessero visto un bosco, sarebbero entrati con le pale a fare le buche; il capo, quando aveva il segnale, contava gli ultimi 30 dalla coda, e mentre tutti marciavano, a un bel momento 30 sparivano, si sentivano le raffiche e lì venivano seppelliti.

Indicai sulla carta i punti al Deuxieme Bureau  ma per saperlo esattamente bastava vedere dove c’era un gruppo di pioppi o di piante di piccolo bosco: lì c’erano senz’altro.

D: Secondo il tuo ricordo, quanti ne sono stati uccisi?

R:  Ogni 3 / 4 ore ne “partivano” una ventina. Eravamo in 3.000, messi in fila per tre: è una bella coda! perciò tante volte ci siamo accorti verso la fine di stare attenti a non far parte né del gruppo di testa né del gruppo di coda, per la lotta della sopravvivenza. Da mangiare ce ne davano solo quando arrivavamo alla sera e ci raggruppavano in questo piazzale, in questo campo, ci davano la fetta di pane. Stop.

D: Quanto tempo è durata questa marcia?

R:  Ah è durata … Non potrei dirlo con certezza; ho dormito all’aperto 7 / 8 notti, adesso non lo so esattamente, però ci sono tutte le date della partenza dal campo di Bad Gardersheim.

D: 55 anni dopo tu ancora non sai perché sei stato deportato.

R:  La storia si è risolta perché la mia faccenda non era complicata: senza saperlo trasportavo i fondatori del primo Comitato di Liberazione di Verona, che era composto dall’avvocato Tommasi, il conte Tedeschini, Todeschi, era quel piccoletto, l’avvocato Carlo Caldera, grande socialista, il grande democristiano Antonio Alberti, che è stato presidente del Senato, e poi dopo altri. L’ho saputo dopo, tanto è vero che durante la prigionia  mia lì passavano tutti prima di essere smistati o al Forte Procolo o agli Scalzi; io facevo l’iniezione a un certo Polito, questore di Roma, quello che arrestò Mussolini, che era in galera con me. Gli facevo l’iniezione perché soffriva di sciatica, e aveva la scatoletta con quella siringa di vetro. Però non eravamo più nei garages, perché dopo la fuga durante un bombardamento, sotto proprio dove erano le cantine fecero costruire due file di celle piccole, singole. Allora dalla mia cella alla sua gli facevo l’iniezione, e mi diceva come dovevo fare, io le facevo, non era carne mia, comunque spingevo e facevo l’iniezione. Questo era Saverio Polito, questore di Roma, l’uomo che arrestò Mussolini.

Emer Luigi

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Luigi Emer. Il mio nome di battaglia è “Avio” perché ero dell’aviazione. Sono nato a Dermulo il 27 agosto 1918, nel comune di Taio in provincia di Trento.

D: Perché sei stato arrestato?

R: Sono stato arrestato in seguito ad un combattimento contro un presidio nazifascista che si trovava a Cavalese. Abbiamo ricevuto l’ordine da parte del Comitato di Liberazione di Trento, che era organizzato dall’ex senatore Mascagni e dal professor Fabio Visentini. In seguito ebbi anche contatti a Trento col povero Manci. Da lì fui destinato prima in Val di Non poi in Val di Cembra, poi di nuovo in Val di Non sui Crozi Carlini; poi in Val di Cembra, sopra il lago di Pinè, ricevemmo l’ordine di attaccare il presidio nazifascista di Cavalese.

Partimmo di notte e arrivammo nel villaggio vicino a Molina di Fiemme; fummo ospitati da una nostra staffetta, una certa Sabina, per una notte e un giorno. In quella circostanza arrivammo stanchi e affamati e ci diedero, se è il caso di dirlo, un cane da mangiare, cosa che abbiamo saputo 5 anni dopo. All’indomani sera ci unimmo ad un’altra formazione di partigiani, comandata dal povero Iseppi Aldo ed incontrata in Val di Fiemme, e ad altri compagni, tra cui Franco Franch e Corradini Quintino, per attaccare il presidio.

Era verso le 10 di sera quando una bomba a mano mi scoppiò fra le gambe e mi fratturò completamente la gamba destra, l’ulna del braccio sinistro; le schegge mi riempirono tutto il corpo, provocandomi profonde lacerazioni e ferite.  Quando caddi, i compagni volevano sospendere l’azione; chiesi loro se avessero ultimato l’azione, dissero: “Ancora no”; allora diedi l’ordine di proseguire e di portare a termine l’azione. Portarono a termine l’azione e cercarono di portarmi in salvo, caricandomi sopra un carretto; mi trascinarono fino al villaggio di Stramentizzo.

C’era una regola fra di noi: i feriti gravi che si rendevano intrasportabili dovevano essere fatti fuori con un colpo di pistola.  Un compagno, tuttora vivente a Bolzano, si preparò per spararmi il colpo di pistola alla testa, ma disse: “Ma no, è inutile sparare, questo è morto”. Avevo infatti perso i sensi. Convinti che fossi morto, se ne andarono di notte attraverso le montagne e mi abbandonarono sul carretto. Durante la notte del 26 agosto del 1944 ripresi i sensi, cercai aiuto: nessuno rispondeva. Silenzio assoluto, buio pesto, cielo sereno: guardavo le stelle. Verso l’alba si avvicinarono alcuni partigiani paesani del posto, di Stramentizzo, fra i quali una ragazza, una certa Sabina che fungeva da staffetta. Vedendomi in quelle condizioni chiamò un medico che arrivò, mi fasciò la gamba destra e scappò subito via in motocicletta per paura di essere catturato.

Questa ragazza cercò di alimentarmi dandomi un bicchiere di latte e una coperta che prelevò dalla stalla. Avevo soldi e armi addosso, li buttai su un cumulo di legna. Dopo, notai che la gente curiosa che si era avvicinata si stava allontanando. Alzai il capo e vidi che immediatamente venni accerchiato dalle SS; fui preso e catturato.

Ma nel frattempo c’è un particolare importante. La ragazza riuscì a mettersi in comunicazione con l’ospedale di Bolzano, dove c’era una nostra cellula; dall’ospedale di Bolzano partì un’autoambulanza col dottor Lucenti, con la scusa di andare a prelevare un paziente in Val di Fiemme; l’autoambulanza venne bloccata perché se ne servirono per caricarmi sopra; contemporaneamente caricarono anche un altro giovane e mi portarono alla caserma di Cavalese. Lì dalla mattina fino alla sera fui sottoposto a lunghi interrogatori, senza essere curato, fasciato, alimentato.

Alla sera con la scorta armata mi portarono nel carcere di Trento, e la prima sera passai la notte in una stanza di detenuti comuni, qualcuno dei quali si offrì di darmi qualcosa da mangiare.

All’indomani fui posto in segregazione in una cella dove nessun altro metteva piede; neanche il cappellano delle carceri poteva entrare nella mia cella. E lì fui sottoposto a continui interrogatori, torture, sevizie; continuamente svenivo, e allora mi facevano rinvenire con delle iniezioni, poi, appena rinvenivo, altre scudisciate. Gli interrogatori si protrassero per giorni e giorni, anche di notte. Non resistevo più, spesso svenivo, invocavo la morte per porre fine a questo supplizio.

Alla mattina nella cella entravano i carcerieri a sbattere i ferri della finestra; mi diedero come alimentazione una ciotola di roba soltanto verso mezzogiorno; altro non potevo mangiare. Non potevo muovermi né spostarmi, ero completamente nudo, lacero e ferito, sporco di terra e sangue, non mi diedero neanche un indumento.

Quelle condizioni si trascinarono dall’agosto fino ai primi di ottobre; ad un certo momento alla vigilia di un giorno dei primi di ottobre, si presentò in cella un detenuto politico, un ex maestro che fungeva da infermiere. Mi sbarbò, mi lavò, mi pulì, mi diede una casacca da indossare; a quelle condizioni tutti sospettavano che io venissi condannato a morte. Quello era il nostro destino, poiché erano qualificati come ribelli tutti coloro che venivano catturati con le armi in mano, e che facevano parte delle formazioni partigiane; venivano fucilati, impiccati e quantomeno torturati. Io ebbi la fortuna di essere portato nel carcere di Trento, dove fui continuamente sottoposto a interrogatori e torture, sevizie, fintanto che una sera, dopo essere stato lavato e pulito, prevedendo che all’indomani mi avrebbero portato di fronte ad un plotone di esecuzione, entrarono nella mia cella alcune donne del carcere femminile, donne detenute politiche, che mi portarono parole di conforto, qualche frutto da consumare e nient’altro.

All’indomani mattina presto nel corridoio del carcere sentii dei passi ferrati: erano quelli delle SS che entrarono nella mia cella e chiesero subito: “Tu stare in piedi?”, dico: “No, non ce la faccio a stare in piedi in queste condizioni”. Mi caricarono sopra una barella, mi portarono fuori, nell’attraversare i corridoi del carcere altri detenuti cominciarono a battere le gavette ed i piatti di alluminio contro la porta in segno di protesta. Mi portarono nella fureria del carcere, mi diedero un panino e una coperta, da lì mi caricarono sopra un motofurgoncino e mi portarono alla stazione di Trento. Alla stazione di Trento mi caricarono sopra un vagone merci, e io ero piantonato sempre dalla polizia; entrarono altri cittadini, tra i quali un parente che, non appena mi ebbe riconosciuto, scese dal treno e scappò via.

Premetto una cosa: il giorno dopo che fui incarcerato mi portarono all’ospedale civile di Trento al pronto soccorso, per ottenere le prime cure. Al pronto soccorso c’era il dottor Franco Visentini, il quale mi riconobbe; rimasi stupito e lui disse: “Questo bisogna ricoverarlo”, e loro risposero che non era il caso; nel contempo entrarono nella sala del pronto soccorso Mascagni, con Nella Mascagni, ignorando che io fossi stato catturato, perché pensavano che fossi morto. Vedendomi in barella rimasero stupiti e feci cenno col capo ad indicare che non avevo parlato. Loro se ne andarono via subito, scapparono.

Riprendendo il discorso, caricato sul vagone merci, fui trasferito alla stazione ferroviaria di Bolzano. Lì mi scaricarono in una sala d’aspetto sempre piantonato dalla polizia; in quelle condizioni non potevo né muovermi né parlare; ricordo un particolare: un soldato polacco fece per offrirmi un frutto, ma questi delle SS reagirono in malo modo e lo picchiarono di santa ragione con i calci dei mitra.

Dopo di che ci fu l’allarme. Nel frattempo ero già passato di competenza al Tribunale Speciale di Bolzano. Quindi l’autista ricevette l’ordine questo di trasferirmi all’ospedale civile in via Fago, nel quartiere di Gries.

Fui messo in una stanza assieme ad altri detenuti politici, fra i quali il povero Francesco Rella, l’avvocato Ferrandi, il dottor Lubich, lo studente ora avvocato, Giorgio Tosi, l’avvocato Steiner di Lana; qualche giorno dopo mi trasportarono in sala operatoria e mi fratturarono la gamba destra e l’ulna del braccio sinistro. Rimasi ingessato per alcuni mesi, sempre poi sottoposto ad interrogatori da parte del procuratore del Tribunale Speciale, che era abbastanza burbero ma non osò mai usare metodi violenti.

I medici dell’ospedale, ai quali va tuttora il mio sincero e vivo ringraziamento, cercarono di protrarre il più possibile la mia degenza: mi trovavo con la gamba in trazione e dopo alcuni mesi mi ingessarono la gamba.

Tra i medici posso ricordare il professor Chiatellino, il professor Settimi, il dottor Bailoni, il dottor Lucenti e tutto il corpo infermieristico che mi assistette, sia me che altri con molto senso di umanità, di solidarietà e con molta comprensione. Questo è un ricordo che mi trascinerò sempre per tutta la vita.

Dopo il secondo giorno che avevo la gamba ingessata mi fornirono un paio di stampelle; due agenti di scorta l’indomani mattina mi accompagnarono verso i servizi, quando uno mi disse: “Tra poco verranno quelli delle SS”, al che riuscii appena a lavarmi. Non appena mi ebbero scortato in stanza, con le stampelle, entrò un ufficiale delle SS con altri quattro, sempre delle SS, e chiese: “Tu Luigi, tu Emer Luigi?” “Sì” e rivolgendosi all’altro: “Tu Francesco Rella?” “Sì” “Tutti e due condannati a morte”: il Tribunale Speciale il 12 dicembre del 1944 aveva confermato la nostra condanna a morte.

Ci prelevarono dall’ospedale ai primi del febbraio del 1945. Feci per prendere le stampelle, ma mi dissero: “Queste non servono più”; feci per prendere qualche indumento da portare con me, ma mi dissero: “Non serve più”. L’altro, Francesco Rella, aveva gli occhi bendati, era mezzo cieco. Ci prelevarono e ci sollevarono tutti e due; ci caricarono sopra una macchina, la quale macchina, con la scorta, arrivò fino al Corpo d’armata. Al Corpo d’armata fecero scendere Francesco Rella; lì poi il povero Francesco Rella venne fucilato, massacrato negli scantinati. Sapendo la nostra destinazione io aspettavo il mio turno; nonostante le invettive da parte di altri militari tedeschi, rimanevo sempre fermo in macchina: vidi che stavano trascinando per terra il corpo di un giovane, pesto e sanguinante, lo caricarono in macchina. Questi era un certo Walter Pianegonda da Schio, aveva la mamma con tre sorelline deportate nel campo di concentramento; il papà, che era capo partigiano, era stato fucilato.

Chiesi se potevo parlare, e il comandante disse: “Parlate pure”, chiesi dove ci potessero portare. L’ufficiale non rispose, ma Walter Pianegonda disse: “Io vengo dal campo di concentramento, chissà che non ritorniamo lì”. Noi pensammo subito che ci avrebbero portato sotto Castel Flavon, dove avvenivano le fucilazioni. Questo è quanto si sapeva allora.

Invece ci portarono nel campo di concentramento, io fui ricoverato all’infermeria, ma prima fui portato all’ufficio della fureria, e lì mi presero in forza, mi consegnarono un triangolo rosso col numero da portare obbligatoriamente sulla casacca. Mentre ero in fureria, una donna, soprannominata La Tigre, sapendo che ero partigiano – almeno per loro ero un ribelle – cercò di farmi avventare contro due cani poliziotto che erano pronti ad aggredirmi, sennonché intervenne un sottufficiale delle SS, la bloccò, e in tedesco la rimproverò molto, facendo capire che non poteva agire così. Questo stesso sottufficiale mi accompagnò all’infermeria e mi raccomandò, parlando in uno stentato italiano, di stare alla larga da quella donna.

All’infermeria fui messo in un lettino dove ebbi occasione di conoscere il professor Meneghetti, rettore dell’Università di Padova, e il professor Virgilio Ferrari, che era primario degli ospedali di Garbagnate e di Milano, il colonnello Andreoli da Verona, e altri deportati politici. I primi giorni mi guardavano con un certo sospetto: allora ero giovane, con tutti i miei capelli, biondi, occhi azzurri e pensavano che fossi una spia. Quando nell’infermeria stava passando un altro deportato politico per distribuire un po’ di sale e chiesi di darmene, questi fece scena muta e se ne andò. Dopo, tramite Laura Conti ed un’altra dottoressa, poiché avevano contatti con l’esterno, seppero effettivamente chi ero; allora avvertirono gli altri e da lì in poi ebbi tutto il conforto, l’aiuto ed il sostegno da parte di tutti i compagni dell’infermeria e di altri amici politici del blocco E.

Poi un amico che lavorava nella falegnameria del campo, mi fornì due stampelle; intanto avevo la gamba ingessata, ed un prigioniero pilota italoamericano di origine trentina, saputo che ero trentino, poiché poteva ricevere dei pacchi, mentre noi non potevamo ricevere niente, mi fece avere un paio di uova.

E’ un particolare a cui tengo: prima di consumarle, qualcuno mi disse: “Guarda che nel blocco E c’è il conte Wolkenstein che sta per morire di fame, potresti portarle a lui?”. Gli portai le uova, e fu come se fosse stato un lingotto d’oro. Siano state le uova, o che altro, il conte Wolkenstein di Castel Toblino si rimise bene in sesto e uscì anche lui dal campo! Lo ricordo tuttora: mi ospitò nel suo castello al lago di Toblino, mi fece conoscere anche suo figlio. Mentre ero ricoverato all’infermeria, dovevo stare molto attento e nascondermi alla vista dei famosi aguzzini, i due ucraini. I due ucraini erano sempre ubriachi, e quando vedevano uno di noi, quello veniva torturato, massacrato, picchiato … scene strazianti che è doloroso e triste rievocare.

La gente era intimorita, un po’ paurosa, ma in gran parte era anche rassegnata al proprio destino; il nostro destino era quello.

Il Tribunale Speciale, saputo della morte del partigiano Francesco Rella, infermo e cieco, chiese alle SS: “Avete fucilato un infermo; volete fucilarne un altro?”. Il Tribunale Speciale – storia ricostruita poi in seguito – commutò la mia pena di condanna a morte nell’ergastolo, destinato ai blocchi di eliminazione in Germania.

Però la mia sopravvivenza la devo soprattutto a loro, perché a loro interessava conoscere l’organizzazione clandestina della lotta partigiana.

D: Quando tu parli del campo, quale campo di concentramento intendi?

R: Il Lager di Bolzano, in via Resia.

D: I tuoi interrogatori erano per capire l’organizzazione partigiana?

R: Io soltanto ho sempre negato e taciuto tutto ciò che sapevo, però di fronte alla morte ho dovuto dare le mie vere generalità. Dopodiché una pattuglia si spinse fino al mio paese d’origine, volendo quasi incendiare la casa dove risiedevano mia madre con i miei fratelli e sorelle; questo non avvenne per intercessione di altri. La mia povera madre per ben tre volte apprese che io ero morto: la prima quando mi catturarono, la seconda dal carcere di Trento, la terza quando ero nel campo di concentramento di Bolzano.

Quello che è stata la vita nel campo del Lager di Bolzano di Via Resia è indescrivibile; la gente soffriva, penava, era affamatissima, si andava a rovistare persino nelle immondizie per cercare qualche buccia di patata. Bisognava cercare di evitare l’incontro con gli ucraini o La Tigre, perché sapevi quale sarebbe stato il tuo destino. Un giorno ci fu la partenza di qualche centinaio di deportati, politici soprattutto, che vennero caricati su carri bestiame alla stazione di Bolzano. Vi rimasero per un giorno e una notte, e poi ritornarono nel campo, perché la linea del Brennero era continuamente martellata. Da lì non ci furono poi più passaggi attraverso la Germania e l’Austria. Forse qualche camion con deportati politici, quello sì riuscì a passare.

D: Ti ricordi quando eri nel campo di Via Resia se c’erano anche dei religiosi deportati?

R: Sì, c’erano dei frati, c’erano dei religiosi, soprattutto Don Antonio Pedrotti, Don Longhi, Luigi Longhi mi pare si chiamasse, e altri frati che erano stati catturati non so esattamente dove, ma c’erano diversi religiosi.

D: Don Pedrotti non era Don Guido, per caso?

R: Don Guido Pedrotti, sì.

D:  E Don Daniele Longhi?

R: E Don Daniele Longhi.

D: Anche loro deportati?

R: Sì, nel campo di concentramento.

D: Luigi, ti ricordi il tuo numero di immatricolazione?

R: 9861, ho qui con me il triangolo rosso. E nel campo un giorno incontrai un mio carissimo amico, che è riuscito a sopravvivere, il quale rimase anche lui ferito ad un occhio, un certo Corradini Quintino, soprannominato Fagioli, destinato al blocco celle. Nel blocco celle era detenuta anche Nella Mascagni.

D: Sei stato testimone di atti di violenza all’interno del campo?

R: Personalmente non sono stato testimone, personalmente non ho visto … però voci correvano e si conoscevano atti di violenza, di pestaggi, di torture, che venivano regolarmente eseguiti. Ma si aveva anche paura di parlare e di tacere; essere presenti era molto pericoloso, perché venivi coinvolto nel fatto e andavi a fare la fine di tanti altri, venivi massacrato anche tu. Perciò si cercava di sfuggire a queste azioni.

D: Ti ricordi se nel campo c’erano anche delle donne deportate?

R: C’erano moltissime donne. Oltre alla famiglia di questo Walter Pianegonda c’era Laura Conti e un’altra dottoressa della quale mi sfugge il nome, poi c’era anche una certa Cicci, che faceva da capogruppo alle donne, che era poi diventata la moglie di un certo Novello; un particolare curioso: c’era anche la moglie di Indro Montanelli. Con Indro Montanelli ebbi un fugace incontro subito dopo la guerra perché voleva sapere del comportamento di questa donna all’interno del campo. Io naturalmente dissi che il comportamento era stato veramente esemplare, come da parte di tutte le donne.

Poi c’erano famiglie di ebrei dentro, con dei bambini. Delle tre ragazzine di Schio, le Pianegonda, ricordo la più giovane Noemi, una bambina dalla treccia bionda, che alla mattina usciva per lavorare, e rientrando la sera passava davanti all’infermeria, cercava di offrirmi una banana di pane perché la popolazione delle case Semirurali alle colonne di lavoratori e lavoratrici davano qualche cosa da mangiare. E io dissi: “Hai la mamma e due sorelline dentro, dai a loro da mangiare”, e lei rispose: “No, la mamma mi ha detto di dare a te il pane”. E’ rimasto con questa famiglia un legame molto profondo, fraterno, di sincera amicizia; è un’amicizia indissolubile che non si può così materialmente concepire perché fra noi c’era un particolare legame, cioè il destino che ci accomunava tutti quanti, il destino della morte che ci si aspettava, attraverso i blocchi di eliminazione in Germania o attraverso quello che poteva accadere all’interno nel campo stesso.

Noi col triangolo rosso, politici e partigiani, eravamo i più perseguitati e presi di mira. Io riuscii a nascondermi più volte, ma altri furono picchiati, torturati, seviziati. Personalmente non ho assistito, non posso ricordare altri episodi.

D: Nel campo c’erano anche forme di solidarietà tra voi deportati?

R: Sì, c’era molta solidarietà, anche se fino ad un certo punto. La solidarietà consisteva nel conforto morale, spirituale, era un sollievo al nostro destino che tutti ci aspettavamo, quello di essere condannati da un momento all’altro, o attraverso i campi di concentramento e i blocchi di eliminazione in Germania o attraverso i forni crematori, di cui correva voce. Noi eravamo considerati i più pericolosi, i più esposti, pertanto la solidarietà per noi era guardarsi con un occhio quasi di compatimento e di sopportazione, no, non di sopportazione ma di incitamento e di conforto.

D: All’interno del campo i deportati cosa facevano?

R: Alcuni erano destinati, quelli che potevano, alla falegnameria; altri quelli che potevano uscire, uscivano alla mattina per andare a lavorare; le donne andavano a pulire le stanze dei militari fuori o gli alloggi. Alcuni andavano verso Gries, non so cosa facessero esattamente; non ricordo a distanza di tutto questo tempo, per me è difficile dover ricordare e rievocare questi episodi.

D: Sei rimasto nel campo di Bolzano fino a quando?

R: Sono rimasto dentro fino alla Liberazione. La Liberazione è avvenuta tramite l’intervento della Croce Rossa Internazionale in accordo con il Comitato di Liberazione Nazionale di Milano e di Bolzano.

Prima uscirono politici, ebrei, ed altri tipi di deportati, renitenti al lavoro, tedeschi disertori, tedeschi renitenti che rifiutavano di prestare servizio nella Wehrmacht. C’erano diversi tedeschi, specialmente della Val Passiria, tra i quali ho conosciuto anche il dottor Pitschiller, che cercava di aiutarci, era un deportato anche lui. Per primi uscirono tutti quelli che non avevano niente a che vedere con noi. Per ultimo uscimmo noi, ma correva voce che ci avrebbero eliminati, perché dalla torretta una mitragliatrice era puntata sul nostro gruppo. Uscendo camminavamo all’indietro, perché aspettavamo che ci falciassero, e invece riuscimmo ad uscire. Da lì cominciò poi il periodo della Liberazione.

D: Come ricordi  il giorno in cui vi hanno liberato?

R: Eravamo tutti increduli, sembrava di affacciarsi su un altro mondo, di fronte alla realtà che non conoscevamo più, che avevamo dimenticato. Vedere altra gente, vedere movimento … Fui ospitato da una famiglia delle semi rurali a consumare un pasto, ricordo che questo pasto fu molto abbandonante e stetti male per tre giorni, comunque ringrazio lo stesso. Si consigliava a tutti quanti di non mangiare tanto, i primi giorni, perché lo stomaco non era più abituato ad assorbire tanto cibo.Poi fui ospite per qualche giorno della famiglia Carlini a Gries, e poi trovai modo di sistemarmi in una stanza in piazza Walther; poi ci furono dei retroscena nel dopoguerra.

D: Quando sei stato deportato nel campo di Bolzano, tu o altri deportati, potevate ricevere posta dall’esterno, pacchi?

R: No, noi non potevamo ricevere niente. Dall’esterno arrivavano solo messaggi. C’era un contatto con l’esterno, che teneva soprattutto Laura Conti e l’altra donna di cui mi sfugge il nome, tramite ad esempio il CNL esterno, fra i quali c’era Franca Turra. Ci mandavano dei messaggi. Qualche cosa facevano avere ad altra gente, ma noi come politici e partigiani non potevamo ricevere niente; solo il blocco degli italoamericani potevano ricevere pacchi.

D: Potevate comunicare con l’esterno?

R: Noi non abbiamo mai avuto occasione di comunicare con l’esterno, almeno io personalmente, ma neanche altri. Tra i tanti, centinaia e centinaia, senz’altro qualcuno riusciva a comunicare e mandare delle lettere ai suoi familiari e conoscenti, che facevano pervenire attraverso i collegamenti clandestini con quelli che erano addetti all’esterno.

D: Quindi tu non hai mai potuto scrivere?

R: No, soltanto nel carcere di Trento l’ultima notte mi diedero la possibilità di scrivere; scrissi alla mia povera madre, feci quasi un testamento spirituale chiedendole perdono di tutte le sofferenze che le avrei potuto provocare e perdono per altre eventuali cose che la videro preoccupata; ha avuto una vita abbastanza avventurosa e tormentata, perciò scrissi alla mia povera mamma, a cui confidavo tutto quello che potevo, aiutandola  a sopportare e lenire queste sofferenze; questa lettera mi risulta che non sia mai pervenuta a casa mia.

D: Ritorniamo indietro, a prima del tuo arresto. Facevi parte di una formazione partigiana?

R: Sì, era il battaglione Fabio Filzi. Per risalire alle origini, io ebbi contatti a Bolzano con il povero Pedrotti, per primo con il povero Marco Zadra, il quale mi mise in contatto con Pedrotti e Pedrotti mi mandò a Trento a prendere contatti col povero Manci. Trento mi mandò con altri compagni, che eravamo già riusciti a mettere insieme, in Val di Fiemme a Cavalese, per prendere contatti con Ariele Marangoni. Ma quando mi presentai, la mia prima funzione fu quella di commissario politico, poi quella di comandante di formazione. Quando presi contatto con la famiglia Marangoni si affacciò alla porta una signora piangente, disse: “Ma ragazzi, cosa cercate?” “Cerchiamo suo figlio” “Mio figlio è scappato, ma scappate anche voi perché ieri c’è stato un rastrellamento nella valle adiacente a Cavalese”. C’era stato un rastrellamento in cui rimasero feriti diversi partigiani della Val di Fiemme. Noi allora a piedi scendemmo giù attraverso la Val Floriana verso Trento a riprendere contatti con il povero Manci, da cui fui ospite, e che poi ci destinò come formazione in Val di Non. In Val di Non cambiammo più volte posizione perché eravamo continuamente segnalati e dovevamo sfuggire ai rastrellamenti. Siamo riusciti a sfuggirvi per ben 3 / 4 volte; c’erano sempre delle spie in giro che segnalavano ai tedeschi le nostre posizioni. Anche nella nostra formazione si era inserita una spia, che scappava di notte, andava ad informare sulla nostra posizione; poi quale spia fu condannata a morte.

D: La vostra zona di operazione come partigiani era la Val di Non?

R: Per prima era la Val di Non, poi i Crozi Carlini sopra il Lago di Pinè, poi la Val di Cembra. Dopo aver fatto alcuni atti di sabotaggio alla ferrovia del Brennero, scendemmo dalla Val di Non, ma non potemmo più risalirla, perché i tedeschi ci stavano alle costole; allora scendemmo verso Mezzocorona, bloccammo con le armi alla mano il trenino che proveniva dalla Val di Non e scendemmo a Lavis. Da lì entrammo in Val di Cembra. Al nostro passaggio, ricordo specialmente il paese di Albiano, si chiudevano tutte le finestre. Dalla Val di Cembra salimmo fin sopra a Baselga di Pinè e Miola e ci attendammo sui Crozi Carlini. Avevamo poche tende, si dormiva all’aperto, si mangiava quello che si poteva, e spesso soffrivamo la fame, soprattutto la fame. Qualche volta andavamo nelle malghe e lasciavamo dei buoni di sequestro per prendere qualche pezzo di formaggio e qualche pezzo di burro; erano contenti, tutti ci aiutavano, e c’è stata molta solidarietà da parte dei malgari e dei contadini, che cercavano di aiutarci in ogni modo. Da lì ci trasferimmo, appunto, in Val di Fiemme, per compiere questa azione contro il presidio nazifascista. Avevamo altri compiti per il dopo, cioè quello di spostarci verso il Veneto, ma tutto fu troncato con la mia cattura: la formazione si sciolse, qualcuno entrò a far parte delle formazioni venete, qualcun altro entrò nella missione speciale che è stata paracadutata dagli alleati, che operavano con delle ricetrasmittenti; insomma la nostra formazione fu quasi sciolta, altri si sbandarono e entrarono a far parte di altri gruppi.

D: Del campo di concentramento ti è rimasto qualche documento? Accennavi al triangolo.

R: Sì, il triangolo rosso con il relativo numero di matricola. Inoltre ho anche il foglio di rilascio della liberazione dal campo di concentramento. Questo è il fazzoletto dei deportati politici con sopra il numero originale di matricola del campo di concentramento del Lager di Bolzano.

D: Quello era il tuo numero?

R: Questo era il mio numero.

D: E dove lo avevate questo numero?

R: Appuntato al petto; poi l’ho attaccato sul fazzoletto.

D: All’appello ti chiamavano per numero?

R: Per numero sì, si doveva rispondere col numero.

D: Vi chiamavano in tedesco?

R: Eh sì, ci chiamavano in tedesco.

D: E chi non capiva?

R: Doveva capire per forza, c’era qualcuno che parlava anche mezzo italiano fra i tedeschi, c’era qualche elemento che conosceva anche l’italiano.

D: Accennavi alla motivazione della medaglia.

R: La motivazione della medaglia d’argento fu di aver resistito alle torture, alle sevizie del carcere prima e del campo di concentramento poi, di non aver parlato, di non aver fatto nessun nome, nessun accenno; ho sempre resistito, ho fatto sempre scena muta, a costo di rimetterci la pelle perché preferivo che mi ammazzassero, nelle condizioni in cui ero. Tant’è che in cella, quando mi capitò quello delle SS, chiesi: “Se avete da fucilarmi, fucilatemi” “Non ti preoccupare – disse questo maggiore … di Merano – le tue gambe stanno facendo cancrena”. Allora mi diede quattro scudisciate, io gli sputai in un occhio; mi diedero tante di quelle scudisciate che svenni. Secondo loro sarei dovuto morire per le ferite che non erano mai state curate, di cui porto tuttora le tracce; porto tuttora nel corpo e nelle ossa schegge della bomba a mano che si sono ossificate o incarnite.

D: Quelle medaglie le porti sempre con te, Avio?

R: Quando ci sono le celebrazioni del 25 aprile.

D: Altri documenti non ne sono rimasti del campo?

R: Sì, li ho lì nascosti.

D: La dottoressa a cui accennavi era forse Ada Buffulini?

R: Buffulini, sì, Laura Conti e Buffulini, proprio lei.

D: Era lei che ti ha aiutato?

R: Sì. Ecco qui la motivazione della medaglia d’argento.

D: Cos’è che hai in mano adesso?

R: Un notes, ecco qui: “Comitato di Liberazione Nazionale, campo di concentramento Bolzano, il signor Emer Luigi, matricola 9860 è un ex detenuto politico proveniente dal campo di concentramento di Bolzano; egli merita perciò l’aiuto di tutte le autorità civili e militari e di tutti i cittadini dell’Italia liberata, riconoscimento ecc. ecc. Il possessore di questa tessera deve essere subito munito del documento di scarcerazione”, che ho qua. Questo è un santino che conservo ancora del campo di concentramento, distribuito in occasione della Pasqua 1945, con sopra i nomi di altri deportati, c’è anche un tedesco.

D: Chi te lo ha dato, ti ricordi?

R: Il santino me lo ha dato il prete, quando è venuto a celebrare la Pasqua.

D: All’interno del campo?

R: All’interno del campo, e sopra vi sono le firme di alcuni detenuti politici.

D: Quel notes lì l’avevi tu nel campo?

R: Sì, me lo avevano dato nel campo quelli che lavoravano alla tipografia. Qua c’è il nome del dottor Leoni, del colonnello Andreani, poi c’era Padre Ghino Andreani, direzione generale società Ilva di Genova. Qui ci sono le monete che sono riuscito a recuperare all’uscita del campo di concentramento, alcune monete da 10, 50 e 100 lire, che erano di carta.

Questa era una tessera della cellula clandestina del partito comunista del campo di concentramento. Qui ci sono il dottor Leoni, il Colonnello Andreani, Ada Buffulini, il professor Baroncini Ciro di Verona, Brunner Giuseppe da Corvara, Rabenstein Moser di Passiria, il dottor Antonio Dalle Mule da Belluno, l’avvocato Ducci Luigi di La Spezia, Deria Cesare da Torino, tutti con i rispettivi numeri di matricola, Dossi Giovanni via Tasso Bergamo, il professor Virgilio Ferrari senatore in Garbagnate Milano, il dottor Franco Ferrazzi da Castelfranco Veneto Treviso, Polivotto Carlo Perearolo di Pieve di Cadore, Pisciotta Frank. Questo Pisciotta Frank era un italo-americano, era dottore, catturato con gli americani, nel Lager fungeva da dottore, Zuliani Bianca da Longarone, Zusso Mario di Milano, Sardi Alberto da Asti, Bonifaci Beppi da Valdastico, è quello che mi ha fatto avere le stampelle, lavorava in falegnameria; poi c’è l’avvocato Ferrandi Giuseppe, il dottor Lubic Gino, quelli che erano all’ospedale, l’avvocato Steiner Massimiliano di Lana.

E devo aggiungere un particolare: dopo che mi hanno portato via dall’ospedale con il povero Francesco Rella, il procuratore del Tribunale Speciale, persona degnissima, per quanto fosse compito condannare in base alle leggi che vigevano allora, commutò la mia pena di morte nell’ergastolo. Trasferì questi altri detenuti politici, fra i quali Ferrandi, Lubic, Steiner, un certo Tosi Giorgio da Riva e il professor Doglioni da Belluno, nelle carceri mandamentali della provincia, dove la vigilanza era esercitata soltanto dalla Wehrmacht, per sottrarli alle eventuali vendette della SS o della Gestapo.

Hudson Giorgio di Genova, Calter Antonio di Vicenza; insomma qua ci sono vari indirizzi. Ecco qua … Montanelli Margarita si chiamava, era di origine austriaca lei. E poi Tomba Antonietta da Riva del Garda, Di Giovanni Renzo da Predazzo, non li guardo mai, Pianegonda da Valli Sant’Antonio, è quella di cui parlavo prima; questa è di Vicenza, Antonella, Bianconi Valentino di Vittorio Veneto, Roncoletta Giuseppe era impiegato alla Cassa di Risparmio di Belluno. Poi c’era dentro un tale Fabbro Rinaldo, Dino del Bo di Milano, il dottor Ribotto Lionello di Garbagnate Milano matricola 9664, Massetti Piero da Milano, Segno da Torino, Lubic Luigi, il dottor Luigi. Il conte Tonetti di Roma, lo ricordo, Marianna Scola di Torino. Luciana Feratro di Roma.

Poi basta, mi ero stufato di scrivere a penna i nomi.

Addomine Renato

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Io sono di Feltre, la mia famiglia è di Feltre da generazioni e generazioni. La caratteristica di Feltre, essendo provincia di Belluno, storicamente è sempre stata la bella stagione di Goldoni, il retroterra dell’estate per i veneziani, come educazione, come tutto. A un bel momento mi trovo senza sapere perché nella situazione della Seconda Guerra Mondiale, la capitolazione e tutte queste cose. Nelle tre province, sia di Trento che di Bolzano che di Belluno, ci sono dei villaggi e delle zone in cui si parla tedesco, basti pensare a Cima Sappada, su nell’alta provincia di Belluno, tanto quanto Trento. Caduto il fascismo, si è formato il fascio repubblicano anche a Feltre, un po’ dappertutto. A un bel momento sono venuti i…

Noi chiamiamo tedeschi nel senso generale tutto ciò che è aldilà del Brennero, non andiamo mica tanto per il sottile. Quello che noi chiamiamo tedesco non distinguiamo se è prussiano, se è di altre parti. Sono venuti i tedeschi, ci hanno occupati. A un bel momento hanno dato ventiquattro ore di tempo perché i fascisti abbandonino le tre province di Trento, Bolzano e Belluno, cosa che non tutti sanno. Questi signori hanno fatto le consegne di tutta la loro situazione politica delle varie famiglie, di chi era e di chi non era, consegnati ai tedeschi e sono andati via.

I fascisti sono stati mandati via. Non era più questione di fascisti o non fascisti, era soltanto l’ennesima occupazione che noi avevamo, cosa che non abbiamo mai fatto noi. C’era una piccola storia piuttosto interessante che ricordo, che mio padre quand’era ragazzino, parliamo dell’ottocento ancora, sentiva da mio nonno una frase di cui non ho mai saputo chi sia l’autore, probabilmente qualcuno lo saprà. Mio nonno diceva: “E poiché gli Alemanni in casa avete, serviteli bene e fatevi mostrare le spade loro con che vi hanno fesso i visi e padri e figli uccisi”.

Mio papà diceva: “Ma no, ormai sono finiti quei tempi”. Si è beccato tutta la Prima Guerra Mondiale, sette anni di servizio militare, Feltre è stata invasa per l’ennesima volta. Mio padre quando è successo che siamo entrati in guerra nella Seconda Guerra mi ripeteva questa frase: “E poiché gli Alemanni…”. E io dicevo: “Ma papà, dai che sono cambiati i tempi”. Per l’ennesima volta è successa la stessa cosa.

Quindi nel sangue noi non è tanto con le persone, io ho degli amici tedeschi singoli. Addirittura c’era un ufficiale delle SS, lui viveva in America, che eravamo amici intimi, però lui sapeva e io gli dicevo: “Guarda che se tu metti la divisa, tu mi fai fuori”. E lui mi diceva: “Cosa vuoi che ti dica? Così è”. Per dire l’abisso mentale che c’è, questa è quindi la cattiva disposizione.

D: Addomine, Lei dice che i fascisti sono andati via…

R: Sono stati mandati via. Tanta gente non lo sa.

D: Quando è avvenuto questo?

R: Glielo dico subito, forse non esattamente, verso l’agosto, settembre del 1944.

D: 1944?

R: 1944. Sono stati mandati via. E cosa che non tanti sanno, il capo un po’ dei fascisti repubblichini che era quello che faceva arrestare e consegnavano ai tedeschi il Tizio, Caio e Sempronio, perché venivano consegnati soprattutto da questi, a un bel momento sono stati mandati via. Però hanno lasciato tutto un dossier di dichiarazioni. Aspetti, ho detto agosto? No, il 19 giugno c’è stata una grande retata a Feltre, quindi ai primi di giugno sono stati mandati via con l’occasione di quella retata.

D: Voi quanti anni avevate allora?

R: Io ho compiuto vent’anni in campo di concentramento, perché sono del 1924, quindi avevo diciannove anni. Mio fratello ne aveva sedici, quindici e mezzo, sedici e due sorelle maggiori, perché siamo stati deportati in quattro. Io mi ero appena diplomato a Vicenza e a Feltre c’era la direzione della costruzione della diga del Trabignolo su in Val di Fiemme.

Io lavoravo dentro in quest’impresa svizzera. Circolavo coi documenti Schuetzbetrieb, cioè stabilimento protetto e venivo anche a Milano ai collaudi delle turbine, delle centrali allora sotto i tedeschi, sempre con questi documenti. Quando c’è stato il grande rastrellamento, i documenti stracciati, buttato via tutto, portato via tutto quello che avevamo addosso.

D: Voi siete stato fermato in un rastrellamento?

R: No, al mattino alla cinque tutta Feltre è stata occupata da un’azione militare e hanno portato via duemila e tante persone su una cittadina come Feltre. duemila circa concentrate tutte in uno stabilimento e mandate poi alla Todt, a lavorare alla Todt. Centodiciassette selezionati, fra i quali io, un fratello e due sorelle tirati fuori. Questi centodiciassette, ci hanno portati tutti su un teatro, chiusi dentro senza mangiare né niente né bere là, sulle sedie di questo teatro. Il giorno dopo sono andati su sul palco, tutte le porte picchettate.

In questo non c’entrano né fascisti né niente, perché ormai erano stati mandati via. Avanti una famiglia. Questa famiglia, nome? Avevano tutti i foglietti consegnati dai fascisti. Posso dire che quando è toccato a me, eravamo io, mio padre, mia sorella, altre due sorelle e un fratello, sei persone, quando siamo arrivati: famiglia Addomine. Allora uno fa con la mano così, metà da una parte e metà dall’altra. Un gruppo concentrato così, dov’è la metà?

Un po’ qua, un po’ là. Hanno fatto così e ci hanno sbattuti quattro da una parte e due dall’altra senza stare là a contare. Poi questi qua fucilati e gli altri no non si sa niente, là il momento era così, perché fuori intanto avevano fatto l’ira di Dio, avevano impiccato delle persone. Ci siamo trovati in quattro e gli altri mandati via.

D: Le volevo chiedere: che giorno era questo?

R: Questo era il 3 ottobre 1944. Ci hanno separati in questa maniera, né mangiare né niente, privati di tutto quello che avevamo addosso, portati via ori, anelli, orologi, tutto, spogliati di tutto, messo dentro tutto in un sacco, portato via tutto. Al mattino presto chi poteva dormire là tra un seggiolino e l’altro di un cinema? Ci sono dei camion fuori, si sente che sparano, l’ira di Dio.

Veniamo fuori, incolonnati e messi su dei camion. Attraversando tutto il centro di Feltre tutta la gente che piangeva, noi ci sentivamo che è finita, volavano dalle finestre le coperte per cercare di ripararci. C’è stato quel senso che senza guardare in faccia chi fosse bisognava aiutare questa povera gente. Col camion dove andiamo?

Erano cinque o sei camion, eravamo stretti come sardine. Un piccolo particolare: quelli che hanno mandato via, sono tornati a casa e quelli che siamo rimasti, siamo stati in centodiciassette, cento uomini e diciassette donne. Questi che poi siamo stati deportati.

D: E la Vostra famiglia era?

R: Io, due sorelle e un fratello, quattro. Invece che fare tre e tre, che siamo rimasti lì hanno fatto quattro e due. Poteva essere.. Non lo sapevo se così o così, che andavano a casa. Il babbo e una sorella a casa. Quattro ci siamo trovati così. Con questi camion coperti di teloni cercando di guardare fuori abbiamo passato Primolano, siamo arrivati a Grigno. Hanno fermato i camion, dentro in una scuola. Scendere tutti, ci hanno fatto dormire dentro nelle scuole elementari di Grigno, un paesetto per andare in Valsugana, per andare a Trento.

Al mattino presto: “Su, Aussen, tutti su, tutti in piedi, tutti allineati contro il muro”. Dico: “E’ finita qua”. Altra volta, qua adesso ci hanno messi al muro. Invece no, ci hanno tenuti là fermi finché arrivava sulla ferrovia della Valsugana un treno merci che si è fermato non in stazione e ci hanno fatto montare su, su dei vagoni come bestie. Bombardavano la linea del Brennero allora. Siamo arrivati alla sera del 5 ottobre a Bolzano. Guardano fuori, chi conosceva: “Sì, siamo a Bolzano”. Poi a un bel momento davanti a un grande cancello eravamo all’entrata del campo di Gries a Bolzano.

D: Siete arrivati in treno a Bolzano dove?

R: Alla stazione di Bolzano.

D: Alla stazione.

R: Alla stazione ci hanno fatto scendere, caricato con dei camion ancora e portati davanti al portone del campo. Guardando fuori ho visto reticolati, mi sa tanto di campo di concentramento, ma noi non sapevamo dove eravamo, dove andavamo.

D: Lì cos’è successo?

R: Lì ci hanno fatto entrare, tutti fermi. Vedo certa gente, tutti con una tuta addosso, pelati a zero. Era pomeriggio e ci mettono dentro divisi in baracche. C’erano baracche con castelli di tre piani di legno, pagliericcio per modo di dire, era una specie di coperta straccia e segature. In questo grande capannone, uno dei due o tre, ci siamo tirati su e vedevamo questi qua che venivano su al buio come anime morte e noi: “Dove siamo?”. “Siete in campo. Siamo destinati ad andare tutti in Germania”; le prime informazioni che correvano.

Al mattino giù tutti, hanno diviso le femmine da una parte, gli uomini dall’altra, spogliati, un grande getto con la manichetta per fare la doccia davanti al cortile con la manichetta dei pompieri. I cani addestrati che ci mordevano se uno si curvava, anche questa è una cosa nota, cosa che è molto bella. Il nervo di bue è l’unica cosa, a frustate, ci hanno dato una tuta che erano le tute di fatica, allora, quella che ho avuto io, dell’aviazione nostra, quelle tute bianco grezzo. Quella mi ha accompagnato. Spogliato di tutto il resto, solo la tuta.

Hanno fatto il primo discorsetto: “Da questo momento siete sotto il controllo del vostro capo campo”, che era un certo Maltagliati, fratello della Evi Maltagliati attrice. In gamba, perché con un assembramento di gente così eterogenea se non c’è un capo succede l’ira di Dio, perché le donne, gli uomini erano dagli avanzi di galera Il professor Ferrari, primo Sindaco di Milano del dopoguerra dormiva vicino a me. Mi ricordo, una mattina mi sono svegliato, avevo un mal di gola tremendo, avevamo il terrore di cose del genere perché non c’erano condizioni igieniche.

Mi fa: “Dopo ti guardo io”. “Ma te ne intendi un po’?” mi ha detto lui, mi ha guardato… “No, no, è un angina semplicemente”. Dico: “Ma chi sei tu?”. “Sono Ferrari di Milano”, poi è diventato il primo Sindaco del dopoguerra di Milano, professor Ferrari.

Mi ha guardato in gola, era anche lui con la tuta come me, con gli zoccoli, eravamo tutti uguali, tutti “Banditen”, eravamo banditi e basta.

D: Lei ha subito un interrogatorio?

R: No.

D: Niente?

R: Una cosa posso dire, c’è una storia pregressa. Nessun interrogatorio perché era già tutto predisposto e deciso, era la lezione che dovevano dare a Feltre. Perché con l’occupazione delle tre province a un bel momento i giovani di leva, come ero io, come altri, io ero iscritto al corso ufficiale di stato maggiore di Marina, perché avevo fatto radiotecnica come specialità, ma che poi è finita la guerra l’8 settembre

Ci avevano dato la possibilità di scegliere, scegliere volontari delle SS o delle SD, di vestire in ogni caso la divisa tedesca. Un bel mattino corre la voce che sono arrivati giù i partigiani e hanno portato via tutto… Certo, non hanno potuto fare la chiamata ufficialmente e questa è stata la grande lezione che ci hanno dato. Duemila portati a lavorare in fortificazioni alla Tod e centodiciassette deportati, che eravamo destinati all’eliminazione. Come siamo entrati in campo di concentramento ci hanno dato un triangolo rosa, che vuol dire rastrellato.

I triangoli erano il giallo, ebrei, rosa, rastrellati, rosso, politico pericoloso e azzurro che era qualche inglese, qualche svedese, straniero ma non militare, senza significato politico. Questi erano i triangoli. La cosa è durata poco, perché a un bel momento hanno cominciato a fare le prime partenze, a mandare via qualcuno di noi, poi non è tornato nessuno. Sono andati in Germania, il campo di Bolzano era un campo di smistamento, era un Durchgangslager, un campo di attraversamento. Sotto SS, soltanto controllato da SS.

Noi non potevamo neanche salutare qualcuno della Wermacht. In pieno inverno ci avevano dato una specie di berretto fatto con un pezzo di coperta, a passare davanti a uno della SS bisognava tirare giù il berretto e stare fermi, fermi, fermi finché c’era il consenso di proseguire. Al mattino era una beffa. Alle cinque del mattino, sei, che era notte, quando ci facevano l’adunata, ci contavano tutti. Davanti ad ogni blocco c’era il capo blocco, ci contavano e allora uno diceva: “Siamo in tanti più tre che sono magari morti dentro”.

Dovevano quadrare i conti, sennò là era fame, botte, acqua mai vista, fuoco: chi ha mai visto il fuoco? Sa cosa vuol dire? Passare un inverno, lavorare, poi le squadre. O portavi i feriti che scaricavano dai treni all’ospedale di Bolzano, c’erano degli ospedali, mi ricordo, grandissimi che ricoveravano i feriti che venivano dal fronte, e li portavamo con le barelle su. O a cavare granito.

D: Ma fuori dal campo?

R: Sì, sì, fuori dal campo. Al mattino c’era un certo numero di squadre che uscivano. Andavamo a Gries, andavamo a Appiano, andavamo di qua e di là a fare qualunque lavoro, pulire tutti gli ospedali. In ogni caso la cosa più frequente era cavare pietre in cava.

D: In cava?

R: Sì, le cave di granito, ci sono su, di porfido.

D: E dove, si ricorda?

R: Esattamente no. Sa che non mi ricordo esattamente? Poi c’era un distaccamento a Merano, aspetti. C’era un distaccamento del campo di Bolzano a Merano perché tutta la roba che portavano su con l’avanzata degli alleati dall’Italia veniva messa dentro, i vari castelli della Val Venosta, tutti i castelli che ci sono là. Io mi ricordo una volta un certo maresciallo Kek, allora io avevo studiato tedesco, tedesco e francese, l’inglese era proibito ai miei tempi, io avevo studiato tedesco e allora ero comodo, qualche volta potevano rivolgermi la parola per certe cose.

Una volta chiedevano uno Spezialist Tecknik degli orologi, dico: “Se si tratta di mangiare un pezzo di pane in più, mi intendo anche di orologi”. Avevano migliaia di orologi che avevano sequestrato, allora li avevo tutti classificati, mi ero fatto gli attrezzi, quelli che lavoravano come forgiatori mi avevano fatto le pinzette, degli amici dentro. Tanto per darLe un’idea, ero diventato uno Spezialist, mi era comodo in un certo senso. Ecco perché dico se vado a Merano non c’è l’aria di Bolzano, Merano è un altro clima d’inverno di Bolzano, a Merano si sta molto meglio come temperatura.

Là a Merano qualche grado di più voleva dire tanto per sopravvivere, veramente. Là mi ricordo siamo entrati in un castello accompagnati da un signore con questi della SS sempre, perché c’erano dei quadri. Eravamo io, un certo dottore, che è morto adesso, Nino Paoletti, Bepi D’Antoni che era direttore, è stato direttore della Dalmine Acciai Speciali, che era prigioniero anche lui con me. Avevamo una certa cultura, per chiederci se potevamo classificare in ordine di valore un certo numero di tele.

Erano tele che credo fossero state portate su da Bologna, Modena, non so dove, ma delle tele meravigliose. Allora noi mettevamo a seconda dell’ordine d’importanza, classificate così. E’ venuto dentro un signore che parlava tedesco perfettamente e mi ha chiamato in disparte. Mi ha detto: “Come vi trattano qua?”. Come si fa a dire a uno che me lo porta la SS che mi trattano male? Per prenderle? Ho detto: “Così”. “Abbi pazienza, ci vedremo presto”.

Ed era quello stesso signore, era il rappresentante della Croce Rossa Internazionale, svizzero di Merano che è venuto dentro lui a portarci il foglio di scarcerazione. Questo che era un esperto di pittura, d’antichità, che viveva a Merano, che è venuto dentro con la scusa dei quadri per fare la valutazione di queste tele che avevano portato via, a Castello… Non mi ricordo più quale, li conoscevo tutti.

D: Ma in città o fuori città?

R: Fuori città. A Merano eravamo alla caserma di Maiabassa, prigionieri. Però eravamo sempre fuori. Per cui ho visto dei capolavori passare via, cosa ci potevo fare? Questo signore che avevano invitato per fare la stima in franchi svizzeri, l’aveva fatta lui la stima di questi quadri, è stato quel tale che è venuto dentro ufficialmente. Al 30 aprile è finita e sono arrivati gli americani.

Al 2 o 3 maggio eravamo ancora prigionieri dentro e non si sapeva cosa succedeva, è capitato dentro accompagnato dagli ufficiali con i fogli di scarcerazione di tutti noi. Per cui tutte le cose impensate, chi lo sa. Questa è un po’ la mia strana storia. Posso dire una cosa, però. Quella notte, dopo che ci hanno lasciati dentro, chiusi dentro quei centodiciassette, mi sono arrampicato su sul palcoscenico dove avevano le loro scrivanie, eravamo in due o tre, a raccogliere i bigliettini che avevano stracciato, dove avevano preso gli appunti.

Nel caso mio, cosa straordinaria, mi è capitato proprio “famiglia Addomine, composta di sei elementi, favoreggiatori e collaboratori di banditi”. Questa era la mia accusa. “Dichiarazione Recalchi”. Storia premessa: mio padre aveva uno studio fotografico, questo Recalchi era venuto su perché parente di un certo Rovali da Ferrara, io non ero neanche nato allora. Aveva uno studio fotografico, in un certo senso c’era la concorrenza professionale. I ricordi più lontani della mia infanzia, quindi parliamo del 1926, 1927, ho visto mio padre piangere perché il Recalchi aveva mandato i figli che erano tutti fascisti, mio padre invece non era fascista, era socialista, a spaccare tutti i vetri delle finestre di casa nostra.

Non potevamo fare niente, perché mio padre era socialista e quegli altri erano fascisti. Questi naturalmente erano tutti fascisti, tant’è vero che uno di questi Recalchi sono andati a prelevarlo in prigione e l’hanno fatto fuori, perché ha fatto quella cosa orribile. Una cosa strana che succede: la guerra finisce, sono venuti su con dei camion da Feltre a portarci giù, noi sopravvissuti. Arriviamo giù e ormai eravamo ai primi di maggio. Mi dicono che mio padre è impazzito, dico: “Perché?”. “Pensa che avevano preso Recalchi e messo su in una nicchia che c’è nella porta imperiale a Feltre per fucilarlo, mio padre gli ha fatto scudo e ha detto: “Questo mai”.

Pur essendo lui che ci ha deportati, ci ha fatto deportare lui e la sua famiglia, ha detto: “Ci sarà una giustizia, non facciamo queste cose”. Questo è un ricordo meraviglioso che ho di mio padre. Lei non sa niente perché ci siamo conosciuti e sposati in America con lei, poi era di Rovereto, però soltanto sentito dire. Però testimonio che quando mio padre è morto, vent’anni fa, io da Milano sono andato a Feltre naturalmente perché c’era il funerale di mio padre e vedo uno lontano, ricordo, dico: “Quello è Recalchi”.

Un figlio, il più giovane di questa famiglia era venuto con il motorino da La Spezia a Feltre per rendere scusa e omaggio alla tomba di mio padre. Guardi se non è un po’ un dramma impressionante. Questa è la mia storia. Eccola qua. Io non sono un eroe, non ho meriti particolari, ringrazio il Padre Eterno che mi ha fatto uscire in qualche maniera ed essere qui a raccontare, non posso neanche dire “Io sono un eroe”. No.

D: Una cosa, quando eravate lì a Merano a Maiabassa nella caserma, Vi ricordate la caserma qual’era? Era vicino a una stazione, a un albergo?

R: La caserma me la ricordo sì. Dunque, c’era la strada, uscivo qualche volta che mi facevano tirare fuori i cavalli. Fra me e i cavalli… Con il carretto… Una volta mi è scappato il cavallo, anzi no, ho preso il cavallo. La cavalla, la chiamavano la Fittoria… Questa ha aperto la porta, ha preso la corsa, le si sono fermate le stanghe e io sono volato fuori… Un disastro, fra me e i cavalli proprio non… Si costeggiava un fiume. Comunque la caserma di Maiabassa per me era notissima.

R: Addirittura a Feltre devo avere una delle fotografie del grande cortile interno, perché c’era un grande cortile interno.

D: Della caserma?

R: Sì. Proprio fatte il giorno che ci avevano liberati, devo avere una o due fotografie con le mie sorelle. Poi il triangolo me l’hanno cambiato in rosso. Senza sapere perché, non era più rosa, sono diventato rosso, politico pericoloso, ma non so perché.

D: Una cosa, oltre al triangolo Le hanno dato anche un numero?

R: 4.972.

D: Le Sue due sorelle erano con voi a Maiabassa?

R: Sì.

D: Anche loro?

R: Anche loro.

D: Ma qui non avete però la tuta bianca?

R: No, quella era a Bolzano, questo è Merano. Quella è la foto che si deve vedere il cortile, mi pare, è il cortile della caserma di Maiabassa quello là.

D: Allora, rimaniamo un attimo a Bolzano.

R: Sì.

D: Allora, Vi hanno dato il numero, la tuta e il triangolo.

R: Sì.

D: Poi il capo campo vi ha fatto il discorso.

R: Ha fatto il discorsetto il capo campo che si chiamava Maltagliati, che poi è stato sostituito da altri che adesso mi sfugge il nome, ma a cui posso risalire.

D: In che baracca Vi hanno messo?

R: Io sono entrato nella H.

D: Nella H?

R: Sì.

D: Vi ricordate il capo blocco chi era?

R: Sì, Musi, tenente dei carabinieri.

D: Qualche altro Vostro compagno Ve lo ricordate, oltre al professor Ferrari?

R: Compagni?

D: Dentro in baracca.

R: Dentro in baracca? Giuseppe D’Antoni… Ah no, questo poi era a Merano, poi ci siamo trovati là. E’ un gruppo diverso. Tutto il gruppo di Feltre, me li ricordo… Ci deve essere qualche elenco…

D: Se Le viene in mente qualche nome così.

R: Perbacco, il dottor Nino Paoletti, Antonio Paoletti che era il mio vicino di casa.

D: Vostro fratello era con voi?

R: Sì.

D: Invece le Vostre sorelle dove le hanno messe?

R: Nel blocco a fianco, che era delle donne.

D: Vi ricordate se avete visto che dentro nel campo c’erano anche dei sacerdoti?

R: Sì.

D: Lì avete visti?

R: Sì, perché il giorno di Natale a un bel momento uno di questi prigionieri si è messo su uno straccio sopra, ha fatto la messa per tutti, ha dato un pezzettino di pane secco, ha detto: “Questo è il simbolo…”, senza confessione né niente, “fate la comunione tutti perché qui è finita”.

D: Il nome non Ve lo ricordate?

R: Non me lo ricordo.

D: Ma era un feltrino?

R: No, non era un feltrino perché li conoscevo.

D: La messa di Natale.

R: La messa di Natale. Non ricordo chi fosse. Ha detto: “Questa è la confessione generale a tutti, perché avete pagato tutte le vostre colpe”, senza confessione né niente, un pezzo di pane che sia simbolo della comunione.

D: Vi ricordate i capi invece tedeschi?

R: Sì.

D: Questi nomi Vi ricordano qualcosa?

R: Haage, il maresciallo Haage, il tenente Thito, che quando veniva fuori lui era perché c’erano delle spedizioni, organizzava le spedizioni, le partenze, Thito poi il maresciallo Kek.

D: A Bolzano questo maresciallo?

R: No, Kek era a Merano, invece Haage e Thito erano a Bolzano. Ricordo benissimo che c’erano due o tre ucraini che erano i capi celle che pestavano la gente, poi li impiccavano con le mani sul palo così, sollevati da terra a morire dal freddo.

D: Nel campo?

R: Nel campo. Alla mattina si usciva e si vedeva sul palo uno là e non si poteva toccare, stava morendo servito da questi signori ucraini.

D: Lei a Bolzano quanto tempo è rimasto prima di partire per Merano?

R: Tre mesi e mezzo, quattro mesi.

D: Quindi ha visto numerose partenze?

R: Altroché.

D: Quegli ucraini, Ve li ricordate i nomi degli ucraini?

R: No, però in uno dei libri che ho ricevuto, ho letto, ho trovato, non so che, ci sono.

D: Otto e Lischa?

R: Esatto.

D: Vi ricordate se c’era anche una donna?

R: Sì. Era la iena, era tremenda, la chiamavano “la iena”. C’era questa donna, sì.

D: Una cosa, il campo aveva un muro di recinzione?

R: Sì.

D: Sopra il muro c’era del filo elettrificato, del filo spinato?

R: Filo spinato tutto attorno, elettrificato lo ritenevamo, ma non lo sapevamo. C’erano però ogni tot metri delle torrette con le guardie armate.

D: Delle garitte quindi?

R: Delle garitte proprio sopra il muro.

D: Senta, l’appello come avveniva?

R: Mai fatto appello. Noi dal momento che si entrava, che ci hanno dato il numero, il nostro nome era sparito, soltanto il numero, eravamo solo il numero.

D: Ma alla mattina non vi chiamavano fuori dalle baracche?

R: Certo, tutti in fila e ci contavano, ogni blocco. Questo ne ha centoventicinque, centoventitre, allora il Kapò del blocco veniva avanti, due sono morti dentro, oppure non so, uno è moribondo. Il papà di Gianfranco Grabuio per esempio una volta era pronto per la spedizione, portato via, hanno detto: “E’ morto, lascialo qua”, invece poi è sopravvissuto. Il papà di Gianfranco Grabuio era…

D: A proposito di morti, diceva prima di violenze. Quindi Voi avete assistito a delle violenze?

R: Io ad esempio, siccome lavarsi niente, avevo un’infezione di barba tremenda, siccome non c’era barbiere, altro che per tagliare i capelli con la forbice, i capelli a zero, un’infezione di barba tremenda, mi ricordo. Un mattino col freddo passo via e il maresciallo Kek mi chiama, grida, mi giro, fermo, duro, siccome non ho tirato giù il berretto sperando che non mi vedesse mi ha dato delle nervate in viso.

Avendo tutte le croste dell’infezione di barba sono entrato in blocco che ero tutto sanguinante, sembrava chissà che, però era superficiale, perché erano croste. A vedere i miei compagni che piangevano mi è venuto un male al collo, loro piangevano e per me e io dicevo: “Va beh, insomma, mi ha dato delle nervate”.

Non mi ero visto allo specchio che avevo tutto il sangue dell’infezione di barba. Così si viveva, in queste condizioni. Col terrore. Poi i cani poliziotti sempre addestrati, sguinzagliavano i cani con l’istruzione precisa di saltare addosso se uno si muoveva fuori dalla riga, mordevano. Anche questa era una cosa piuttosto antipatica.

D: Nel periodo che Voi siete rimasto a Bolzano uscivate a lavorare, costituivano delle squadre di lavoro?

R: Sissignore.

D: Quindi uscivate dal campo?

R: Si usciva dal campo comandati da un plotone tedesco, sempre accompagnati da un plotone armato e ci portavano, non so, ad un ospedale o in cava o a scaricare vagoni.

Oh, una cosa che mi sono dimenticato, molto carina anche quella, con i bombardamenti che c’erano nel Brennero le varie stazioni, tutti i vari binari venivano smantellati per ricostruire le linee su cui poter passare. Quella di cavare su rotaie era una cosa spaventosa.

D: Quindi vi mandavano a lavorare sulle massicciate anche?

R: Certo, anche molto grazioso era scaricare le bombe inesplose con un bel martello di gomma, le istruzioni, poi si mettevano di dietro e ti facevano segno così. Quando davi il colpo così slittava la spoletta, facevi così, sono qua o sono… Anche quella era una cosa molto graziosa.

D: E sotto la galleria del Virgolo?

R: Il Virgolo l’abbiamo fatto noi, la galleria del Virgolo era galleria per la strada, ma è diventata una fabbrica di cuscinetti a sfera che era necessaria e dentro al Virgolo a fare le massicciate, a portare i muri… Il Virgolo è stato fatto con tutti i prigionieri. La fabbrica di cuscinetti a sfera.

D: La Imi, Imi si chiamava.

R: Non lo so, non ricordo.

D: La Imi. Quindi Voi siete stato anche lì?

R: Certo. Altroché.

D: A proposito di questa cava, può dirmi qualcosa di più? Perché di questa non avevo mai sentito. Non so assolutamente dove collocarla, era vicino al campo o andavate a piedi?

R: Era lunghetta. Per …. era un altro, subito prima di Bolzano per andare su, cosa c’è? Laives?

D: Laives Bronzolo.

R: Da quelle parti là.

D: Porfido quindi?

R: Porfido, il granito.

D: Estraevate il porfido e lo mettevate sul camion?

R: Sul camion i blocchi venivano caricati…

D: Quindi una cava all’aperto?

R: All’aperto. … Quello era un altro, poveretto.

D: Cioè, hanno ammazzato qualcuno?

R: E’ successo dentro, quando l’hanno portato in Germania, un mio amico.

D: A Bolzano?

R: No.

D: A Merano?

R: No, in Germania, non mi ricordo più, erano tre o quattro campi, erano sempre quelli.

D: Allora, lì siete rimasti tre mesi?

R: Tre mesi circa, sì. Poi sono stato liberato a Merano ed è stata a Merano la storia dei quadri. Di quello che era il funzionario della Croce Rossa Internazionale, che nessuno lo sapeva, che faceva l’antiquario di Merano, loro credevano che fosse un antiquario, era uno svizzero.

D: Il nome non lo sa?

R: No.

D: E questi quadri erano dentro a questo castello?

R: Sì.

D: Però diceva che il castello è fuori Merano.

R: Fuori, fuori. Tutti quei castelli lì attorno, Annaturno, Sluderno…

D: Se io Le dico un nome, Le dice qualcosa San Leonardo in Passiria?

R: San Leonardo anche, sì.

D: Ma non è quello dei quadri?

R: No, non è quello dei quadri questo.

D: Lì a Merano la sua occupazione qual è stata? Quella dei quadri sempre?

R: No, quella è stata incidentale. A Merano era caricare e scaricare i vagoni, tutto quello che portavano su, dai sacchi di caffè, che allora il caffè era una cosa rarissima. Caricare e scaricare vagoni.

D: In stazione?

R: In stazione.

D: Maiabassa?

R: Maiabassa, sì. Ma tante volte non si fermavano in stazione i vagoni, perché con la storia dei bombardamenti venivano spostati in rami ferroviari tirati fuori, secondari. E cavare su rotaie per ripristinare la linea ferroviaria, il ponte di Bodi, quante volte l’hanno bombardato.

D: Siete andati anche lì?

R: Anche lì, perbacco.

D: Sai dov’è? Prima di Trento?

R: Fra Trento e Bolzano. Il ponte di Bodi. Coi bombardamenti di allora buttavano giù tante di quelle bombe che facevano spavento, tant’è vero che la montagna per un certo periodo aveva tutte le buche delle bombe. Anche là, prendere e ripristinare almeno una linea che potesse tirare dritto per poter proseguire.

D: E uscivate con le zebrate, con le tute?

R: Sì, sì. Non esisteva altro per cambiarsi. A Merano avevo quell’altra tuta, due pezzi, a Bolzano quella bianca. Non ho mai avuto altro.

D: Quando eravate lì a Bolzano o anche a Merano avete potuto scrivere a casa?

R: Sì, qualche volta sì. Perché quando ci mandavano fuori con le squadre c’era qualche paesano che salutava così e allora avevamo sempre nascosto un pezzettino di carta, qualche cosa. “Tò, consegnalo”, si poteva comunicare in questa maniera.

D: Però voi potevate ricevere lettere o pacchi?

R: No, mai ricevuto.

D: Avete mai ricevuto niente?

R: Io non ho mai ricevuto pacchi, però c’è stato qualcuno che riceveva dei pacchi. Come non lo so.

D: All’interno del campo c’era chiamiamolo un movimento resistenziale, c’era qualcuno che si dava da fare?

R: No, no. Ho visto delle cose meravigliose, delle cose orribili, però là era proprio la sopravvivenza e basta.

D: Vi ricordate qualche cosa meravigliosa?

R: Una cosa meravigliosa sì. Quando hanno scavato quella galleria nel silenzio per uscire dal blocco, per poter scappare, li hanno sorpresi all’ultimo momento perché hanno fatto la spia. Eravamo 15, 20 gradi sotto zero, tutti inquadrati fuori al freddo. “Se non salta fuori chi è stato non vi muovete”.

Le solite guardie, i cani, ecc.

Non è saltato fuori per un giorno, il giorno dopo si è fatto avanti uno che era un ex ufficiale, non mi ricordo più se degli alpini o di dove fosse. Si è costituito lui, in realtà erano più, erano parecchi. Però con questo hanno liberato le squadre. Ho visto un gesto di uno che ha dato la propria, ha offerto la propria vita per gli altri, sì. Anche questo ho visto. Era nel blocco…l’ultimo del capannone su, non mi ricordo più come si chiamasse. Che roba!

D: Voi dicevate prima dei triangoli azzurri che erano degli inglesi.

R: Sì.

D: Cioè nel campo c’erano anche…

R: Sa che con la guerra, ancora quando c’era l’esercito italiano, un certo numero per esempio di inglesi erano stati catturati in Africa e portati qua. A quelli sbandati, i tedeschi hanno attribuito questo triangolo che non erano né italiani né niente, militari ma non catturati da loro. Questo era il triangolo azzurro.

D: Erano lì a Bolzano, nel campo di Bolzano?

R: Sì, c’erano questi, c’erano i gialli che erano gli ebrei, i rosa che erano i rastrellati e gli ostaggi.

D: Gli ostaggi?

R: Bambini di cinque o sei anni col nonno di sessanta, settanta.

D: Bambini c’erano?

R: Bambini di pochi anni, certo.

D: Dov’erano questi?

R: Qua e là, messi nel blocco. Magari cercavano uno che era, non so, ufficiale degli alpini, avevano preso il padre e il figlio. Allora praticamente nonno e nipote messi in campo di concentramento e tenuti dentro. Che fine abbiano fatto non lo so, però c’erano sì.

D: Non Vi ricordate che c’era una famiglia dentro nel blocco celle che avevano un bambino appunto piccolo di quattro anni, c’erano due sorelle?

R: Ho un vago ricordo. Però quello delle celle era proprio in mezzo al campo, messo di traverso così.

D: In mezzo al campo?

R: Sì, sì. Non era un blocco, le celle erano proprio in mezzo al campo.

D: Non erano in fondo?

R: O in fondo, ma comunque non facevano parte dei capannoni. No.

D: Questa famiglia che erano mamma, due figlie di vent’anni…

R: Ho vaghi ricordi di tutte queste mostruosità, però… C’erano anche quelli, sì.

D: Ci raccontate un’altra cosa bella del campo che avete visto? Oltre a quella del tentativo di fuga.

R: Quella è stata una cosa che non dimenticherò mai.

D: Un altro fatto, un altro episodio a cui avete assistito di questi belli?

R: Non saprei.

D: Allora uno brutto. Quello più brutto a cui avete assistito.

R: C’era uno messo dentro in cella con le gambe e le braccia rotte. Dopo una settimana tirarlo fuori proprio con gli arti spezzati e pestarlo ancora, a questo ho assistito, fatto da quei due ucraini maledetti.

D: Lui chi era?

R: Un italiano sicuramente. Queste sono cose terribili.

D: Su quando Vi hanno chiamato per andare a Maiabassa, cosa Vi hanno detto?

R: Che c’era bisogno di uno Spezialist. Siccome io servivo per fare l’elettricista… Una cosa molto graziosa: nella caserma di Maiabassa nel distaccamento delle SS di Merano, nel distaccamento di Merano verso la fine della guerra erano un po’ tutti abbacchiati, sentivano che stava per finire anche questi signori della SS. E bevevano.

Avevano preso l’abitudine, siccome avevano tutte le villette attorno, vivevano dentro nelle villette questi ufficiali, avevano preso la mania di spararsi un colpo di pistola nella serratura dopo essersi ubriacati, così non vai a letto, uno con l’altro.

Alla mattina lo Spezialist, che ero io, doveva andare ad aprire le porte, per cui io facendo il giro avevo tolto tutte le combinazioni dentro, in maniera che bastava anche un chiodo piegato per aprire, perché sennò dovevo stare là a diventare matto. Come Spezialist ogni tanto mi davano magari una mela o mi davano…

D: Cioè gli avete tolto un nottolino?

R: Sì, sì. Sa che c’è la combinazione? Ho tolto quel nottolino per non stare a diventare matto. Anche queste cose…correre dietro a…

D: Il campo di Merano era anche quello sotto le SS, non c’era Wermacht?

R: Solo SS. E non solo, noi eravamo consegnati con tutti i numeri da un distaccamento all’altro e se ne assumevano la responsabilità di questi numeri.

D: Quanti eravate più o meno lì a Merano?

R: A Merano trenta o quaranta.

D: Arrivavano ogni tanto delle persone in più oppure siete…

R: No, perché eravamo già verso la fine e quindi non arrivavano più.

D: Neanche se ne tornavano?

R: Neanche andavano indietro. Per me è stato un bel rifugio, un bello scappare, Merano per me è stato un bel passo avanti. Anche perché avevo cominciato, sia pure ad andare ad aprire le porte, ma almeno sentivo un ambiente caldo per scaldarmi le mani.

D: Cos’era, marzo, aprile?

R: Fine aprile.

D: A Merano?

R: A Merano io sono andato tra febbraio ed aprile, sono stato a Merano.

D: Il 30 aprile del ’45 Voi eravate a Merano?

R: Prigioniero ancora. Sapendo la gente che gridava per le strade, questo e quell’altro, eppure…finché non sono venuti dentro ufficialmente a scarcerarci. Avevo però da buon Spezialist fatto le chiavi false dell’armeria. Eravamo in tre o quattro pronti a vendere cara la pelle se per caso capita.

D: Anche Vostro fratello?

R: No, mio fratello non è venuto con me.

D: Ah no? E’ rimasto giù?

R: E’ stato scarcerato lui. Un certo numero dopo due mesi o tre li hanno scarcerati, triangolo rosa ancora. E’ stato allora che hanno mandato là quelli rosa e poi quelli dentro sono diventati rossi.

D: E le Vostre sorelle invece sono venute su?

R: Rosse anche loro, triangolo rosso, sempre con me, sempre.

D: Il 30 aprile a Merano, attorno al 30 Aprile, è successo un fatto di sangue, Ve lo ricordate?

R: Sì. Sparavano dalle strade, ci hanno sparato dietro anche a noi.

D: Come vi hanno sparato dietro?

R: Dalle case, le infermiere degli ospedali. Sa che gli alberghi erano ospedali, quasi tutti. Ci hanno sparato dietro. Quando sono uscito per la strada ci sparavano gli infermieri, dicevano, perché chi poteva essere che rimaneva là ormai?

D: Sono state uccise anche delle persone?

R: Certo.

D: Altre due cose importanti. Nel campo di Bolzano, quando siete arrivati nel campo di Bolzano all’ingresso c’era su una targa, c’era qualcosa?

R: Sissignore. Polizeilisches Durchgangslager.

D: Era sul cancello?

R: Sul cancello.

D: Sopra il cancello?

R: Sopra il cancello e i reticolati, sopra c’era questo cartello e poi c’era il cancello.

D: E a Merano cosa c’era scritto?

R: Niente. C’era il cartello che diceva “Amministrazione delle SS del distaccamento di Merano”.

D: La vita nel campo di Merano era un po’ sul ritmo di quello di Bolzano?

R: Mille volte meglio. Eravamo pochi, ci conoscevamo e anche qualche maresciallo o con le denominazioni delle SS che erano completamente diverse di gradi, qualcuno diceva: “Presto finisce”. Sentire confidenze di questo genere dalle SS per me sembrava di toccare il settimo cielo, sta proprio per finire.

D: E a Merano c’erano anche ebrei o eravate solo triangoli rossi pericolosi?

R: Nessun ebreo a Merano.

D: Donne?

R: Donne sì.

D: Le sorelle. Più uomini o più donne?

R: Più o meno metà e metà. Perché le facevano cucire, confezionare sacchi, sempre per queste spedizioni, sa?

D: Quando eravate a Bolzano nel campo avevate sentito di questi altri campi? Avevate sentito parlare prima di Maiabassa o di altri posti?

R: No, però ho sentito il capo blocco Maltagliati che aveva detto: “Occorre un certo numero di persone per Merano”. Un mio carissimo amico che è morto adesso purtroppo, proprio nati e cresciuti insieme, Nino Paoletti che conosceva, era andato tanto tempo, diceva: “Potessimo andare a Merano, è tutta un’altra aria”. Si è fatto avanti, allora per me lo stimolo, dice: “Se non altro, non moriamo dal freddo in queste condizioni”, perché il freddo è stata una cosa tremenda.

Arrivare bagnati con una sola tuta e fare il bilancio scientifico: conviene tenerla visto che non è calda l’acqua che ho addosso o toglierla? Qual è il bilancio termico che conviene tra questi due ragionamenti? Comunque con tutto questo sono arrivato a casa che pesavo quarantadue chili io, uno di ottanta chili.

D: Avevate vent’anni?

R: Sì. Vent’anni giusti. Sono del ’24.

D: Per quello che riguarda le funzioni religiose, Lei si ricorda di questa di Natale e si ricorda magari di qualche altra funzione oppure è l’unico episodio?

R: L’unico episodio che ricordo è questo, però c’erano dei preti. C’erano dei preti perché so che quando ci hanno portato via tutti gli indumenti, i vestiti e ci hanno dato questo berretto, alla mattina c’era la famosa adunata, tutti inquadrati con i numeri, “berretti su” traducevano, “berretti giù”, finché non sentivano il colpo secco tutti insieme non si diceva: “Fuori le squadre”.

Ce n’erano uno o due che avevano tagliato il cappello da prete che avevano e avevano fatto il berretto un po’ più consistente con la cupola che poteva stare addosso. Sapevo che erano preti insomma.

D: Glielo ho chiesto perché alcuni si ricordano di un sacerdote che entrava che non era prigioniero, ma che veniva apposta il sabato o la domenica a celebrare messa.

R: Mai visto.

D: E poi usciva, era un esterno.

R: No, non lo ricordo assolutamente.

D: Neanche a Pasqua?

R: Io ero a Merano a Pasqua.

D: Magari era venuto qualcuno nel campo di Bolzano.

R: A Pasqua ero a Merano.

D: Il Monsignore però, Monsignore Bontignon.

R: Il Vescovo?

D: Il Vescovo, sì.

R: Io non ero…

D: Era su a Merano. Lì a Merano Vi ricordate, a proposito di questo personaggio della Croce Rossa, che c’era un italiano che poi è scappato alla Liberazione e che ha riparato in Svizzera? Non Ve lo ricordate?

R: Non esattamente.

D: Edgardo Sogno? Non Ve lo ricordate?

R: Mi suona il nome, ma non ricordo assolutamente.

D: E’ andato su a Merano Sogno, scappando. La Liberazione, ce la raccontate?

R: La Liberazione è stata un sogno.

D: Dove eravate Voi in quel momento?

R: Già la sera prima avevamo visto dei movimenti strani e avevo distribuito le mie chiavi dell’armeria, perché dico: “Questi qua ci fanno fuori”. Al mattino chi dorme? Nessuno. Affacciarsi con la testa così a guardare giù, vedo tutto uno strano movimento.

Ci hanno riuniti tutti insieme ed è venuto avanti questo signore che era quello che giorni prima era venuto per i quadri, questo svizzero. Ha detto: “La guerra è finita”, c’è stato un urlo generale per noi. Quando abbiamo varcato la porta e abbiamo visto le jeep americane, erano già arrivati gli americani, delle jeep americane, ci sembrava un sogno. Mi ricordo che si sono avvicinati e ci hanno detto se eravamo prigionieri. Mi hanno offerto le Chesterfield. Un sogno sembrava.

D: Poi cos’è successo?

R: Poi da Feltre sono venuti su con dei camion, l’impresa locale Dalla Corte, questi Dalla Corte avevano avuto anche loro dei figli prigionieri come me, a raccoglierci, a portarci giù. Ci hanno portati giù a Feltre coi camion.

D: Quindi direttamente da Merano?

R: Da Merano.

D: Non siete più ritornati a Bolzano?

R: No, perché eravamo un certo numero, ci siamo riuniti e siamo venuti giù da Merano direttamente.

D: Lei a Merano ha ricevuto il foglio di rilascio?

R: Sì.

D: Proprio quello firmato da Titho?

R: No, Titho non c’entrava, dalla Croce Rossa Internazionale.

D: Ce l’ha ancora questa carta?

R: No, non sono riuscito a farmela dare, perché quando è finita la guerra mi hanno chiamato al servizio militare. Allora ho dovuto allegarla come documento al distretto militare di Belluno. In altre occasioni successivamente sono andato per farmelo ridare indietro, mi hanno detto che non c’era più.

D: Ma dopo avete dovuto fare il militare, il servizio militare?

R: No. Perché avevo questo documento di scarcerazione dal campo di concentramento.

D: Neanche le Vostre sorelle hanno quel documento?

R: Sono morte ormai da anni. Probabilmente sì.

R: Mi ricordo che ci hanno fatto la lunga presentazione del mondo che avremmo trovato fuori, dice: “Guardate che trovate per tornare a casa un percorso duro e tremendo. La guerra è stata spaventosa”. Ci raccontava tutti questi particolari questo svizzero. E’ stata una sorpresa, io non avrei mai immaginato.

D: Cos’era, uno svizzero che parlava italiano?

R: Parlava italiano, tedesco, parlava benissimo.

D: Ma lui era svizzero tedesco, italiano? Che svizzero era?

R: Parlava italiano benissimo, però parlava tedesco benissimo perché era lui il consulente per i quadri della SS.

D: Che età poteva avere più o meno?

R: Allora avrà avuto sui quarant’anni.

D: Con divisa da SS?

R: No, no, in borghese.

D: Ah, in borghese?

R: Era un cittadino che era stato preso per stimare dei quadri.

D: Un esperto?

R: Un esperto di quadri. Però mi ha chiamato in disparte quando mi ha detto: “Come vi trattano?” Io gli ho detto: “Zitto, per l’amor del cielo, guai, si sbaglia tutto”.

D: E’ importante secondo Voi che i giovani di oggi conoscano questa storia?

R: Le ho premesso prima: “E poiché gli Alemanni in casa avete…”. Mio nonno garibaldino lo diceva, mio papà: “Ma dai che sono cambiati…”, mio papà lo diceva a me e io dicevo: “Ma papà, dai che sono cambiati…”. Io l’ho ripetuta cento volte alle mie due figlie, che non mi vengano a dire che i tempi sono cambiati perché può succedere ancora.

Ecco perché è importante, perché è un niente che un gruppo di violenti col potere in mano… Non c’è più né destra né sinistra, non c’entra, sono tutte balle. Io ho girato il mondo con molto piacere e ho visto due cose che si assomigliavano spaventosamente: la Spagna di Franco, che più fascista non poteva essere, e la Russia di Breznev, che più comunista non poteva essere. La stessa roba, da una parte a Barcellona dicevano sottovoce: “Stamattina ne hanno fucilati due ancora”, a Mosca mi dicevano: “Stamattina ne hanno mandato quattro in Siberia dei nostri” sottovoce. Poi in confidenza dicevano: “Che speranza c’è per il mio popolo?” I russi.

Mi ricordo che una volta ho detto: “Guardate, io stamattina sono entrato al Cremlino. Voi da cinquanta anni non ci entrate, se non settanta anni. Vuol dire che siete sulla buona strada, visto da me evoluzione, non rivoluzione, perché sennò vanno su quelli più cattivi di voi, secondo me”. Allora sentire queste famiglie a Mosca che volevano sentire il “Kapitalist”, che ero io secondo loro, come la pensavo, è successo così.

Io ho portato mia moglie ed è entrata tranquillamente al Cremlino, ma loro per due generazioni o tre non sono mai entrati. Evoluzione, non rivoluzione. La rivoluzione non fa niente.

D: Prima raccontavate di quell’episodio quando eravate a Caracas se non mi sbaglio, che è venuta questa…

R: Zoppoli, sì.

D: Chi era questo?

R: Quello era un prigioniero che lavorava nell’officina delle automobili, di riparazione automobili dentro nel campo di Bolzano. L’officina era dietro il muro, là facevo l’orologiaio io.

D: Allora, se questo è il campo, questo è l’ingresso…

R: L’ingresso, l’officina era qua, da questa parte.

D: Si usciva come? Da qui oppure c’era una porta nel muro?

R: No, no, la porta è sempre stata interna, dal muro.

D: C’era una porta dal muro?

R: Sì, sì.

D: C’era questo garage, c’era questa officina meccanica, poi c’erano altre officine?

R: Sì, forgiare, ferro, fare catenacci…

D: C’era anche una tipografia?

R: Sì, ho un vago ricordo che c’era anche una tipografia, sì. Con delle macchinette.

D: Voi a Bolzano avevate delle monete interne del campo?

R: No, io no. Avevo sentito parlare, però io non le ho mai avute monete interne del campo.

D: C’era anche una falegnameria che Lei sappia?

R: Non ricordo.

D: Una lavanderia?

R: Sì, lavanderia sì.

D: Vi ricordate, visto che facevate un po’ l’elettricista anche, se c’era un elettricista di Milano?

R: Non ricordo.

D: Che aveva nascosto una radio, un apparecchio radio.

R: Io non ho mai detto che ero radiotecnico, perché quella era una condanna a morte per me, per paura di spionaggio, sa? Mai, per questo che da buon radiotecnico sono andato a fare l’orologiaio, perché solamente a parlare di radio era finita, paura di comunicazione col nemico. Mai detto.

D: Quando partivano i deportati per la Germania, cosa succedeva lì?

R: Succedeva questo: al mattino era una mattina come un’altra, però si vedeva il tenente Tito con tutte le scartoffie. Adesso qua le liste. Cominciava l’appello dei numeri, tirava fuori e durava un’ora, un’ora e mezza, ripetere il numero…

A un bel momento questi venivano messi da parte, gli altri rientravano nei blocchi, questi venivano portati alla stazione che c’erano già i treni di solito, perché gli stessi prigionieri dovevano sigillare i vagoni. C’era Beppi Grisotto e altri che conoscevo che tornavano indietro dopo aver sigillato i vagoni con questa gente che veniva spedita via dalla stazione.

D: Dalla stazione? Non da altre parti?

R: Non lo so, perché io non sono mai andato.

D: Li facevano sigillare?

R: Sì.

D: Adesso una cosa, questa fotografia qui…

R: Questo sono io e le mie due sorelle, questa è proprio dentro nel cortile di Maiabassa di Merano. In fondo questi erano capannoni dove si imballava roba.

D: Che tuta avete su lì?

R: Questa ormai eravamo liberi, perché potevamo fare le fotografie. Ci siamo messi su una maglia per uno. Avevamo la tuta in due pezzi.

D: C’è il triangolo però?

R: Sì, non è una tuta, avevamo due pezzi qua. Tutti, era a Bolzano che avevamo la tuta unica.

D: Chi vi ha fatto questa foto?

R: Uno che era venuto su, perché dentro veniva anche a lavorare della gente fuori di Merano, venivano a lavorare anche loro. Non ricordo più chi me l’abbia fatta, so che mi ha fatto un rullino. Ho detto: “Dammelo che poi penso io”. E questa eccola qua. Vede, il triangolo e il numero.

D: Certo.

R: Io avevo il 4.972.

D: Vi siete ricordati il numero, eh?

R: Già mi crescevano i capelli, vede già lunghi due dita. Eravamo sempre rapati a zero. Qualche volta anche le donne. Se non c’erano cimici, c’erano pidocchi, piccole cose che si dimenticano. Le assicuro che la scabbia, grattarsi fra le dita qua, non avere acqua, non avere niente, cose che non si credono. Qui è stato il ritorno alla vita.

D: C’era un’altra foto. C’è un’altra informazione molto preziosa perché una memoria così viva sui motivi della presenza a Merano non l’avevo mai sentita.

R: Questa è stata così. A Merano occorrevano dei prigionieri un po’ da fidarsi, perché c’era da trattare della roba bella, non solamente mani da cava, capisce? Bisognava tirare fuori qualcuno che sapesse come si tiene un quadro, per dare un’idea.

D: Certo. E di quella roba non si sa poi che fine…?

R: Hanno detto che parte è stata recuperata. Sono tutte voci che ho sentito dopo, perché io non ho voluto più saperne niente, sa, la ripulsa di dire che è il mondo passato, la vita comincia domani, guardiamo davanti.

D: Sa che c’è una via a Merano che si chiama Via trenta aprile?

R: Non lo sapevo. Allora bisogna che si torni a Merano.

D: Questa foto invece?

R: Questa è in Piazza Alta, però me la sono trovata a casa. Era la foto della resa di Feltre, così mi hanno detto, la presentazione dei documenti della resa agli americani, doveva essere.

D: Quindi questo è il ’45?

R: Il ’45 questa.

D: In che zona della città questa?

R: Piazza Vittorio Emanuele, sulla Piazza Alta, questo è il palazzo Guarnieri a sinistra, che non si vede, quello tutto settecentesco, bello. Ricordo benissimo dov’è. Qui a destra c’è il teatro del Palladio.

Forse l’ha fatta mio padre di sfuggita.

D: Allora Vi piace Merano e Bolzano?

R: Sì, molto.

D: Non siete più ritornato?

R: Ogni tanto. Mia figlia appunto per l’ospedale che ci è andata su, diverse volte ho detto: “Vengo su anch’io magari in giro”. Ma non è neanche più l’ombra di quella triste cosa. Guardi che era brutto, perché…

D: Non Vi andrebbe di raccontare la vostra storia a degli studenti?

R: Quali studenti?

D: Ragazzi delle scuole medie o delle medie superiori. Di Bolzano e di Merano. Italiani o tedeschi.

R: Io non ho niente, assolutamente niente in contrario.

D: Raccontare la Vostra storia come ce l’avete raccontata a noi?

R: Certo, perché no? Io ho visto una cosa molto simpatica che mi ha fatto impressione, vedere dei ragazzi giovani che uno parla italiano, l’altro risponde correttamente in tedesco o viceversa, senza problemi. Io sono un internazionalista, sono cittadino del mondo io, a me piace la libertà. Quando ricordo che fuori per le squadre magari ci fermavano in centro…

R: Dicevo che passeggiando era normale che venissero dei bambini e vedevano queste bestie rare vestite con la tuta. Mi ricordo uno che veniva: “Bist du ein Zigeuner?”, “Sei uno zingaro?” Perché eravamo confusi come degli zingari, come della sottospecie. Guarda caso, magari con me c’era il professor Ferrari, però eravamo ridotti in quelle condizioni.

Un’altra cosa che mi ha fatto molto dispiacere, una volta a Bolzano, c’era la Lancia a Bolzano, sì, lo stabilimento della Lancia, erano tutti italiani. Quando passavano le squadre c’era dietro qualche angolo qualcuno con dei pezzi di pane che cercava di darci un pezzo di pane, perché era fame. Vedere magari una bella signora molto elegante avvicinarsi, buttarlo per terra e schiacciarlo sotto i piedi. Questo è capitato anche a me. Non è bello questo.

D: Cioè gli operai vi davano…?

R: Certo, se potevano. Qualcuno cercava di dare un pezzo di pane a questi prigionieri che passavano al mattino e poi scappavano via, perché era proibito avvicinarsi. Mi ricordo di questa donna molto fine, si è avvicinata, avevo il pane così in mano, me l’ha buttato per terra e schiacciato sotto i piedi.

Questo non deve essere una ragione per creare sette e odi, però dire che gente che c’è dappertutto. Io sono razzista perché il mondo si divide in due razze, persone per bene e persone non per bene. Non c’entra il colore della pelle. Guardi, io ho vissuto in mezzo ai sanguemisti. Meglio un negro onesto, in gamba che un ciarlatano di quelli pieni e presuntuosi nostri bianchi. E viceversa.

R: Una cosa bellissima, come siamo arrivati, un gruppo di una ventina, quindici o venti, da Bolzano che ci hanno portato a Merano, ci hanno portati tutti nelle cantine a spidocchiarci. Eravamo pieni di pidocchi e di scabbia, ecc. Per poi portarci nella caserma di Maiabassa. Ci hanno spidocchiati tutti. Sa che sollievo. Era normale che venissero fuori i pidocchi dalle maniche, che roba. Non eravamo esseri umani.

D: Vi fate un giro su a Bolzano e a Merano.

R: Volentieri.

D: Vi chiamo come testimone.

R: Sì.

D: Sai cosa sarebbe bello? Sarebbe bello… assieme all’ingegnere Bettion.

R: Di … mi ha detto?

D: No, di Belluno.

R: Anche a Belluno con la storia là di Piazza dei Martiri, ne hanno impiccato uno per ogni palo. Che vergogna.

D: Invece l’ingegnere Bettion era a Certosa Val Senales e scendeva a Giuderno anche lui alla stazione per caricare…

R: Ecco, vede.

D: Anche lui mi ha parlato di questo, però per un’altra zona. Per la zona di Merano Lei me ne parla.

R: La zona di Merano, sì, sì.

D: Bettion era anche a Maiabassa, penso. Lui andava in un castello solo, si chiama Castel di Nova, dice che portavano dei tappeti e loro dovevano trasportare questi rotoli di tappeti dentro al castello.

R: Sì, sì.

D: L’abbiamo trovato questo castello, abbiamo fatto un giro con l’ingegnere, un giorno un giro a Merano e poi l’abbiamo trovato. Ovviamente il nome non lo conosceva.

R: Che nome ha?

D: Castel di Nova in italiano.

R: Sì, ma mi pare di saperlo che aveva tutti i tappeti dentro.

D: Lui dice che lì portavano i rotoli di tappeti.

R: Perbacco.

D: Lui dice che questo castello…

R: Ingegner Bettion, non lo ricordo.

D: Tullio Bettion si chiama, ma lui è scappato a marzo del ’45, è scappato dal campo di Certosa Val Senales.

R: Ce l’ha fatta?

D: In due sono scappati.

R: Querincig, anche lui è scappato.

D: E’ scappato da dove?

R: Dal treno per andare in Germania.

D: Allora lui è scappato che stava andando… E di dov’è lui?

R: Non lo so, lui era venuto a Feltre, ma non era feltrino. E’ stato catturato a Feltre. Doveva essere sloveno, da quelle parti là.

D: Quindi è arrivato a Bolzano?

R: E’ stato a Bolzano, poi tra gli imbarcati per portare…ed è riuscito a scappare dal treno.

D: Vi siete visti dopo la guerra?

R: Sì, perbacco.

R: Comunque il rastrellamento di Feltre e la deportazione di Feltrini quel 3 ottobre sono significativi perché erano tutti gruppi, pezzi di famiglia. Molti erano in due, tre, unici in quattro noi, io, un fratello e due sorelle. Gli altri due o tre, i Dallacorci, i Palminteri, ecc. Se tu guardi nella lista…

D: Sono passati con gli elenchi.

R: Uno faceva così col mitra, da una parte e dall’altra, nessuno ha mai saputo se quelli di qua vivi e gli altri morti o viceversa. Certo è che era avvenuta la divisione. Poi ho visto che quelli che erano di qua, compreso mio padre e una mia sorella, hanno aperto le porte e li hanno accompagnati fuori e siamo rimasti noi là di notte, può pensare che allegria.

D: Quando è finito tutto avete rivisto Vostro padre?

R: Io ho detto una cosa, è una cosa che sembra mostruosa, ma bisogna provare. Solo una gioia così grande si prova soltanto con un dolore così grande. Questa è la verità. Ero padrone del mondo.

D: …. E’ un professore di Verona che era già laureato in lettere e filosofia quando è stato preso, è stato mandato a Bolzano, Flossenburg, ….., è vissuto a ….. Poi è andato in Sud America a cercare fortuna, perché poi è stato anche picchiato quando è tornato a casa, non solo picchiato in campo, ma quando è uscito si è accorto che la lotta non era finita. Forse non era neanche cominciata. Poi dal Sud America è passato in Nord America e lì è stato in un’università del posto a Chicago. Adesso sono cinque o sei anni che è tornato in Italia. E’ a Verona.

R: E’ così. Tredici anni sono stato io in Venezuela. Dal ’47 al ’60. Siamo stati fra i fondatori della Casa d’Italia ai tempi a Caracas, poi ha portato un angolo di cultura musicale. Facevo le trasmissioni alla radio nazionale della presentazione della musica italiana tutte le domeniche al pomeriggio, la presentazione delle opere, della musica classica. Lo facevo per hobby così mi divertivo un mondo. Senso di libertà. Io sono nato e cresciuto in un ambiente musicale per la verità, quindi questo ha contribuito. Tintinnio e musica.

D: Anche Vittore, Vittore poi è un pittore. Poi si è innamorato, Vittore quando racconta la sua storia, viene con noi nelle scuole a raccontare la sua testimonianza…

R: C’era una certa Marianne Menius e una certa… due tedesche di Ulma, prigioniere, giovani. Anche zingari c’erano.

D: A Merano anche gli zingari?

R: A Merano no.

D: A Bolzano?

R: Sì, a Merano sì, c’era la Maria Ferrari si chiamava che era zingara, sì.

D: Che triangolo aveva?

R: Come il nostro, italiana.

D: Rosso?

R: Rosso.

D: E queste due tedesche?

R: Monica Cloz e Marianne Menius si chiamavano. Non sono mai riuscito a sapere cosa facessero là, avevo sempre paura che fossero spie dentro. Poi scarcerate, sparite, così. Di Ulma.

D: Lavoravano come voi?

R: Sì.

D: Prigioniere?

R: Prigioniere. Io credo che probabilmente avevano seguito qualche militare ai tempi e le hanno prese e messe dentro. Probabilmente erano fidanzate di qualche italiano prima, forse è successo questo. Là non guardavano in faccia a nessuno.

Le zingare, la Maria e sua sorella. C’era la cosa strana, proprio gli ultimi giorni un certo maresciallo Kek che era un archeologo della SS, era una persona coltissima, uno specialista in scavi, nel Nord Africa era stato. Maresciallo Kek. Aveva un certo cuore, almeno con me mi chiamava: “Renato, Spezialist, komm”.

Cosa strane, non era di quelli che si sparavano dentro le serrature, erano gli altri disgraziati. Questo maresciallo Kek una volta mi ha detto: “Renato, vieni che andiamo a caricare della roba là”. Poi mi ha portato all’ospedale, “Andiamo a trovare Maria”, era questa zingara che stava morendo. Un gesto di umanità di questo maresciallo della SS.

D: Questo a Merano?

R: A Merano.

D: All’ospedale c’era una zingara deportata?

R: Deportata che stava per morire, però mentre a Bolzano l’avrebbero lasciata morire nella baracca, a Merano l’hanno fatta ricoverare e sono andato a salutare Maria che era tubercolosa.

D: Di dov’era questa?

R: Non lo so, so che si chiamava Maria, Ferrari di cognome. Parlava italiano, so che era zingara. Siccome questo maresciallo Kek era tubercoloso, allora non c’era ancora la penicillina né antibiotici… Guarda come saltano fuori tutti questi ricordi. Incredibile

Bruni Eugenio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Prego.

R: Mi chiamo Eugenio Bruni, sono nato a Bergamo, l’11 luglio del 1918 e …

D: Prego, prego, vai.

R: Dimmi quello che …, vado avanti nella mia vita anche?

D: Esatto, ad un certo punto voi avete fatto una scelta di resistenza …

R: No, aspetta allora, in una famiglia antifascista, mio padre era combattente della guerra 1915-1918, pluridecorato, ed era stato licenziato dal Comune per scarsi sentimenti nazionali, perché non era iscritto al Partito Fascista, questo aveva incominciato a farmi pensare e con me fare pensare mio fratello.

Quando abbiamo visto che una volta veniva messo in carcere perché arrivava il Duce a Bergamo, un’altra volta veniva licenziato perché era di scarsi sentimenti nazionali, perché nostro padre lo avevamo sempre visto come persona non soltanto coraggiosa ma ben voluta in città, quando è stato licenziato, tutta una gran parte della città che contava gli ha dimostrato la sua solidarietà, perché allora un atto di coraggio era possibile quanto meno, e questo rincuorava.

Tutto questo ha fatto pensare a noi che la libertà era una qualche cosa a cui non si poteva rinunciare, e siamo cresciuti proprio con questo spirito di ribellione di fronte a tutte le imposizioni che il fascismo faceva, dalle imposizioni di carattere ideologico, alle quali era facile dire di no, alle imposizioni di carattere formale, alle quali era più difficile dire di no, divise, adunate e cose di questo tipo.

Ci siamo ritrovati alcuni compagni e abbiamo incominciato a pensare che dovevamo fare qualcosa, e quel qualcosa si è tramutato in scritte sui muri, nel pubblicare una rivistina da distribuire, in cui esprimevamo quello che sentivamo, i nostri pensieri, fino a che abbiamo creduto di dover richiamare l’attenzione della città con un’azione un po’ eclatante, e cioè nel centro di Bergamo i fascisti avevano fatto un monumento nel quale era effigiato con maggior evidenza il Duce.

Noi abbiamo sporcato la faccia di questo Duce con una vernice studiata apposta, resinosa, che si staccava a mala pena, e che aveva un colore che la assimilava ad un prodotto organico. Hanno incominciato a parlare nei palazzi, c’è stato qualche d’uno che ha parlato, preso dalla paura evidentemente, siamo stati arrestati, e siamo stati portati nelle carceri di Bergamo.

D: questo quando Eugenio, quando è successo?

R: 11 ottobre 1941. Dopo qualche giorno, senza essere stati interrogati naturalmente, siamo stati portati a San Vittore a Roma, portati attraverso trasporto speciale, perché mio padre era terrorizzato dall’idea che noi potessimo andare in un vagone per detenuti …

D: San Vittore a Roma o …?

R: No San Vittore, Regina Coeli, si può correggere?

D: Sì, sì prego.

R: Là si è rimasti, direi, un paio di mesi in perfetto isolamento, che non auguro a nessuno.

D: Vi hanno arrestati, chi?

R: Hanno arrestato me, mio fratello, il dottor Taino e un certo Virginio Caffi, cantante lirico.

D: Tutti di Bergamo?

R: Tutti di Bergamo. Sto pensando, anche il dottor Antonucci. Il processo nel marzo del 1942, abbiamo saputo per vie particolari che la sentenza era stata già segnata sul fascicolo dallo stesso Mussolini, e la condanna era di anni tre di reclusione per me, di anni quattro per il dottor Taino, mentre mio fratello, che non aveva partecipato a quest’azione, anche perché in condizioni di salute non felici, e il dottor Antonucci, che evidentemente non era emerso nelle sommarie indagini che allora venivano fatte, venivano assolti per insufficienza di prove.

Quindi venivamo portati nel braccio famoso per i politici di Regina Coeli, e da lì poi partivamo per andare a Castelfranco Emilia, io, a Castelfranco Emilia e Taino, ma in un altro braccio perché là c’erano due bracci per i politici, mentre il Caffi andava al reclusorio di San Geminiano. Sono rimasto in carcere dalla fine del processo fino al 25 luglio 1943, e dirò che la vita nel carcere è stata rasserenata dal fatto di essere assieme a tutti i politici, si studiava, si pativa la fame, perché ci dividevamo tutto quello che arrivava, soldi e pacchi, ma era bello perché ci si sentiva anche molto uniti.

Fino a che è avvenuta la caduta del fascismo e ci siamo trovati in mezzo a Bergamo a vedere passare i carri armati, vedere tutti i soldati scappare, non avere neanche un punto d’ancoraggio, cercare di andare in qualche caserma per richiamare gli ufficiali superiori ad un minimo di senso del dovere e di fedeltà al giuramento, cosa che è riuscita assolutamente vana, e quindi soli di fronte alla nostra coscienza, vedere che la via della libertà era la via della montagna, e lì ci siamo avviati.

Mio fratello è rimasto a casa perché, come dicevo, non poteva affrontare una fatica di questo tipo, mentre io sono andato ad unirmi ai partigiani. Purtroppo il carcere aveva lasciato dei segni nella mia salute e quindi sono andato a Milano per vedere di farmi curare, naturalmente con tutti i sotterfugi delle carte d’identità e di quanto altro, dopo di che sono ritornato e ho preso contatti tramite mio padre con il comandante Buttero, e sono stato mandato in Val Canobina.

D: La vostra formazione partigiana quale era?

R: Qui non c’era un nome preciso perché eravamo proprio agli inizi, e la Val Canobina non sono neanche riuscito a sapere esattamente che cosa era, perché abbiamo preso un treno a Milano, ci siamo avviati sul lago Maggiore, poi lì uno ci ha ricevuto alla stazione, ci ha avviato su una strada, ci ha detto di andare su, poi abbiamo dormito una sera nell’accampamento dei partigiani, poi dovevamo raggiungere un altro distaccamento e siamo stati affidati quindi ad un partigiano.

Non so che cosa sia successo lì, fatto sta che in questo cammino, in questo percorso per raggiungere questa nostra nuova destinazione, ad un certo punto il partigiano è sparito e invece sono sbucati dei militi forestali, i quali ci hanno subito preso, ci hanno spianato le armi contro e noi non abbiamo potuto fare atro che dire di sì.

D: Lì c’era anche Roberto, no, il fratello?

R: Certo, ovviamente c’era il problema Roberto da risolvere, ed è sembrato giusto che questo problema lo risolvesse con me, perché restare in città, non potevamo sottrarre mio padre a quelle che erano le sue normali occupazioni, mia madre e mia sorella non erano assolutamente adatte, e quindi l’unico adatto a stargli vicino ero io, ed allora a questo punto non c’era altro da dire. “Andiamo e vediamo di poter risolvere il problema là”.

Siamo stati presi, i partigiani sono venuti e hanno fatto un attacco alla casermetta di questi militi, una battaglia che non finiva più, dopo di che non sono riusciti assolutamente a sfondare, e quindi abbiamo dovuto subire l’umiliazione dell’attacco di gerarchi fascisti, poi lungo la strada essere consegnati ai nazisti, alle SS, e andare lungo la strada dove questi giovani fascisti sputacchiavano, insolentivano, picchiavano, era gente alla quale ci avevano affidati perché facessero tutto quello che volevano, che era suggerito dai loro istinti più bassi, più volgari e più violenti.

Poi siamo stati portati, perché siamo arrivati a …, come si chiama lì, sul Lago in fondo, la patria di Chiara …

R: Luino.

D: Luino, lì che periodo era quando vi hanno arrestati?

R: Dunque, vediamo un po’, marzo, febbraio, 4 marzo …

D: Del ’44?

R: 1944. Da Luino saliamo su un motoscafo, anzi ci pigliano con un motoscafo lì, non so quale era la base di partenza, ci accompagnano a Luino. A Luino le SS ci fanno un piccolo interrogatorio, puramente formale, dopo di che ci caricano su questo motoscafo e scendiamo la prima volta una terra, ci spianano i fucili addosso, dopo di che rinunciano, saliamo ancora sul motoscafo, seconda fermata e poi terza fermata, poi capiamo che siamo di fronte a sadici che vogliono vedere le reazioni di gente che è posta di fronte ad un plotone d’esecuzione.

Arriviamo ad un’oasi di riposo a San Donnino. A San Donnino, restiamo lì parecchi giorni insieme a tutti i politici, mio padre aveva interessato della nostra sorte un certo Eugenio Rosasco di Como, che faceva parte anche del CLN, il quale organizza dei partigiani, che vengono e danno l’assalto a San Donnino …

D: Scusa Eugenio, siete stati arrestati te e Roberto e basta, o anche insieme ad altri?

R: Io e Roberto e basta. Il terzo, che era con noi, poi è scappato.

D: Poi vi hanno portato al carcere di Como a San Donnino?

R: Lì dicevo, c’è stato quest’assalto, dopo di che c’è stato l’ingresso a San Vittore

D: Vi hanno trasferiti a Milano?

R: Trasferiti a Milano a San Vittore. La vita a San Vittore è stata una vita si può dire abbastanza tranquilla, per quanto era possibile e per quanto avevamo intravisto in queste prime vicende. C’era questo maresciallo tedesco, si chiamava Franz, che era una cosa spaventosa, lanciava urla terribili, veniva con quel cane che abbaiava, e noi sentivamo il terrore che ti scorreva un pochettino addosso. Eravamo sempre in tensione, poteva succedere di tutto, ma anche dall’altro braccio si sentiva arrivare urla, certe volte, e noi immaginavamo che fosse qualche d’uno dei nostri che veniva trattato in modo non certo complimentoso.

Così è stata un po’ la vicenda a San Vittore, ricordo che una volta sono riuscito ad avere per vie traverse, erano i preti in genere, forse c’era anche qualche SS cattolica non so, erano venute mia madre e mia sorella, e siccome avevano delle caratteristiche somatiche, mia sorella è molto riccia e mia madre con un naso piuttosto pronunciato, le hanno tenute per tre ore all’entrata di San Vittore dicendo che loro dovevano dimostrare di essere ariane, perché davano tutta la sensazione di essere ebree, questo è per dire il clima nel quale noi si viveva.

Fino a che un giorno sono arrivati dei pullman, ci hanno fatto uscire, e ci hanno mandati, passando attraverso le nostre contrade, che oramai conoscevamo a mena dito, perché ci avevamo passato la nostra giovinezza, siamo andati verso Bolzano. Scappare sarebbe stato forse possibile, forse, infatti c’è stato l’avvocato Luciano Elmo per esempio che è scappato, si è rotto il naso, e Luciano era su a Bolzano con me, non era però del mio trasporto, mi sembra.

Fatto sta che siamo arrivati a Bolzano e a Bolzano abbiamo visto cose brutte. Abbiamo visto per esempio un palo in mezzo a questa grande distesa e abbiamo visto attaccato uno che veniva percosso perché aveva tentato di scappare, e quindi veniva castigato in questo modo, almeno la voce correva che fosse questa la ragione, ma non poteva avere commesso niente che meritasse un castigo di questo tipo.

D: Eugenio scusa, nel carcere di San Vittore ti ricordi qualche nome di altri arrestati che c’erano, perché voi siete rimasti fino a giugno?

R: C’era un certo ragioniere Castelli, che era di Bergamo, che dopo non l’ho più visto, c’era Mike Bongiorno come ho detto, c’era don Gagino …

D: Leggeri?

R: Don Liggeri, direi di sì, perché mi ricordo che a San Vittore ho avvicinato un prete per parlare di temi di religione con lui, ero in un momento che non è che avessi bisogno di vincere i miei dubbi, perché i miei dubbi erano già risolti, ma con un religioso certe volte si può parlare di valori morali che possono interessare anche al laico, come ero io, come mi ritenevo io, questo lo ricordo. Non ricordo se c’era Indro Montanelli, a me sembra, io ho la sensazione che lo avessi visto o che l’ho avessi sentito nominare, però francamente altri non li ricordo.

Sai si viveva in una specie di nebbia, perché non era facile vivere. Non era facile vivere perché, io avevo alle spalle tutto il carcere, un anno e mezzo di carcere, insomma non è poco per riprenderti e per acquistare tutta la tua lucidità, tutta la capacità e tutta la forza di reagire a quello che stava succedendo. Era una nuova tappa che si apriva per uno che aveva già preso le sue brave mazzolate. Quindi i nomi, io avrò parlato con Tizio, Caio e Sempronio, però che i nomi mi siano rimasti incisi, può darsi che per esempio lo chiamassi Paolo, lo chiamassi Carlo, chi lo sa? Però non ricordo.

D: Di Bolzano, del campo di Bolzano per esempio cosa ti ricordi, i blocchi, ti ricordi qualcosa oltre alla piazza dell’appello?

R: Ricordo che noi avevamo un blocco che era sulla sinistra entrando, a Gries eravamo, io il resto non lo ricordo.

D: Neanche il numero del tuo blocco, la sigla del tuo blocco?

R: No, no, per me francamente, ricordo il mio blocco a Dachau.

D: Lì a Bolzano siete rimasti quanto tempo?

R: Dunque a Bolzano siamo rimasti penso, ho il certificato della Croce Rossa e caso mai te lo posso dire, penso un mesetto, un mesetto e mezzo.

D: E lì cosa facevate tutto il giorno?

R: Niente. Siamo andati a lavorare con dei territoriali tedeschi in una galleria, che era sotto il vecchio ospedale di Bolzano, questi due territoriali erano Enrico Fucilone… Anche lì, a mio avviso era facile scappare, però scappare in due, tirare dietro mio fratello il quale aveva sempre perplessità, dubbi, poverino …

D: Era più giovane di te?

R: Più vecchio.

D: Ah, più vecchio di te?

R: Più vecchio di me.

D: Lì a Bolzano vi hanno dato una divisa?

R: No, siamo rimasti con i nostri vestiti.

D: Avevate un numero?

R: Neanche, io non lo ricordo, ricordo il numero a Dachau, 113157, l’ho visto adesso, ma l’ho riconosciuto perché ho lì …

D: Quindi uscivate per lavorare in questa …

R: Poi venivamo riaccompagnati dentro.

D: E cosa facevate in questa galleria?

R: Ma, gli sciocchi! Raccoglievamo del materiale della migliore qualità possibile, lo caricavamo su dei carrelli, che poi spingevamo e giocavamo su questi carrelli, perché ci mettevamo su e ci spingevamo a vicenda, fino a che in fondo c’erano questi soldati che dicevano “Ferma, ferma, ferma” e gridavano, tutto lì insomma.

Poi una volta siamo andati a cogliere le mele, con delle strane scale, fatte con un bastone in mezzo e i pioli che uscivano a lato, una sacca in spalla, potevamo mangiare le mele, e questi contadini non parlavano, non dicevano niente …

D: E di personaggi diciamo così?

R: Io ricordo che sono scappati da lì due toscani, uno si chiamava Giorgio, io avevo portato con me da San Vittore, perché nessuno mi aveva perquisito, avevo della simpamina, e allora non potendo andare con loro sempre per la stessa ragione, gli ho dato queste pastigliette di simpamina e gli ho detto “Queste vi tira su, vi dà la carica e andate” erano dopati insomma. È stato un dopaggio ante litteram. Avevo questa simpamina perché avevo fatto atletica leggera, c’era chi mi aveva suggerito di doparmi, non lo avevo fatto, però quando ho dovuto affrontare i passaggi, le camminate, ecc, io venivo dal carcere ed ero indebolito al massimo, mi ero ricordato e allora avevo comperato questa simpamina.

D: Ti ricordi Eugenio di Titho, Haage lì a Bolzano, dei comandanti del campo?

R: Li ricordo, ma non li ricordo di nome.

D: E neanche del blocco celle ti ricordi?

R: Il blocco celle sì, era spostato più in fondo, esatto.

D: Dove c’erano gli ucraini …

R: Ecco.

D: Otto e Misha?

R: Adesso i nomi non domandarmeli.

D: Non te li ricordi. Ti ricordi lì a Bolzano di avere incontrato altri sacerdoti, deportati dentro nel campo?

R: No.

D: E donne ne hai viste?

R: No.

D: Non hai visto donne nel campo, deportate?

R: No.

D: Si arriva al giorno che vi chiamano …

R: … E ci caricano sul vagone bestiame.

D: Ti ricordi da dove siete partiti, da dove vi hanno caricati sul Transport?

R: Alla stazione, allo scalo ferroviario. Ci hanno messo lì e poi siamo saliti su questo vagone.

D: Vi hanno dato qualcosa da mangiare, da bere?

R: Non lo ricordo, ho la sensazione di sì, pochissimo, ma sì, però questo non lo ricordo, so che avevamo qualche cosina di nostro, che c’eravamo portati dietro fino da Milano, un po’ di zucchero, due biscotti, roba del genere, non ricordo neanche come li avessi avuti, non mi ricordo.

Ricordo che a San Vittore, tu adesso stai scavando nella mia memoria, cosa che io ho sempre cercato di non fare, e mi ricordo per esempio che a San Vittore avevo fame, e avevo tanta fame che una volta, mi ricordo, c’è stata una vicenda di pane che è arrivato dentro, che chi lo aveva preso, chi non lo aveva preso, Franz gridava l’ira di Dio.

Deve essere successo invece che, a Bolzano, vi era un commerciante di legname, si chiamava Amati, e aveva delle ragazze, di Bolzano, che cercavano di fare qualche cosa, ed erano riuscite a fare entrare un pacchetto con queste piccole cose, evidentemente non era niente, che poi mi aveva aiutato un pochettino durante questo viaggio.

D: Questo viaggio era iniziato i primi di ottobre del ’44?

R: Sì.

D: Ed è durato quanti giorni?

R: Ho la sensazione che sia durato un giorno, una notte, ed un altro giorno, però ho il dubbio che siano state una o due le notti che noi abbiamo passato su questo … cosa risulta a voi?

D: E no, adesso bisogna recuperare le date, durante il percorso si è mai fermato il treno, il Transport?

R: Può darsi.

D: Non so, per i bisogni fisiologici …

R: No, no, no, mai, mai, perché avevamo questo grosso problema, questo grosso problema. Qui poi succede questo che poi i ricordi si sommano ai ricordi che io ho sentito da altri, per cui per esempio avevamo recuperato delle latte, queste latte servivano per l’acqua, ma io pensavo che era per fare la pipì, altri mi avevano detto che avevano sollevato un asse del vagone, questo ha creato in me, non so se suggestione o ricordo autentico, che anche noi avessimo sollevato questo asse, in modo tale da poter …

Ricordo le fermate, questo sì, perché ricordo le urla, le urla delle SS, erano urla di “State indietro”, o parlavano fra loro ad una certa distanza per cui era necessario urlare, però lo ricordo esattamente, avvertivamo qualche cosa che c’era fuori del nostro carro bestiame.

D: E quando vi hanno fatto scendere?

R: A Dachau.

D: Direttamente lì vicino …

R: Davanti al portale.

D: Del campo, e poi lì cosa è successo?

R: Lì si è aperta la porta. Oltre tutto non ricordo, vedo adesso, tu mi dici che c’erano parecchi che erano partiti quel giorno, io ricordo soltanto quelli che sono partiti con noi, saremo stati una cinquantina penso, siamo andati nel magazzino a destra, ci hanno portato via tutto, ci hanno fatto spogliare, ci hanno vestito con una camicia, una giacca, ci hanno tagliato i capelli e poi ci hanno fatto la riga in mezzo, ci hanno dato i sabot.

L’unica cosa che ho visto, ecco c’era un prete, perché ho visto un prete spogliato nudo con un tricorno in testa, era là, tu sai che c’era l’Antreten lì, con tutti i fari, la mattina presto venivano, lì un registro doveva esserci stato per creare proprio il senso l’ossessione, e ricordo che era lì, lo avevano lasciato lì quasi per derisione. Dopo di che siamo andati nel blocco …

D: Quale blocco, te lo ricordi?

R: 25, io direi 25, siamo entrati sulla sinistra, sulla destra c’era la parete chiusa, ci hanno detto “Pigliate posto” e siamo entrati in tre in una, erano a tre piani, ognuna era in tre, e lì è incominciata.

D: L’immatricolazione quando ve l’hanno fatta?

R: Non me lo ricordo, so che sulla giacca c’era scritto 113157, il 113 lo ricordavo, il 157 l’ho visto adesso ma ho quello della Croce Rossa che segna, il triangolo con la “I”, e sopra il coso bianco con il numero.

D: Il triangolo di che colore era?

R: Rosso.

D: Lì nella baracca 25, nel Block 25, fino a quando sei rimasto?

R: Fino a che non sono andato in infermeria.

D: Al Revier?

R: Sì, perché ho dovuto lasciare mio fratello, perché ero …, c’era un tifo petecchiale in giro, intanto noi eravamo afflitti dai pidocchi, a manciate li tiravamo via, ogni tanto andavano a farci la disinfezione all’aperto con dei grossi pennelli, li intridevano nella …, cosa è quel disinfettante biancastro …

D: Creolina?

R: … Creolina, lì ci pitturavano tutti, non serviva a niente. Dopo di che mi è venuta la febbre e sono dovuto entrare in infermeria, avevo 38 e mezzo circa di febbre. Lì è stato brutto perché intanto il passaggio delle docce, ricordo che nevicava, ci hanno fatto spogliare nudi, ci hanno fatto entrare e l’acqua era in alternanza, fredda e calda, e qualcuno quando sono passato io è morto. Dopo di che siamo andati avanti con questi passaggi, aperto, chiuso, aperto, chiuso, fino a che sono arrivato nel mio posto.

D: E lì cosa ti hanno fatto?

R: Niente, niente. L’unica cura che io ho avuto, intanto c’era un cibo che davano invece delle carote e delle rape, davano una specie di riso, con un colore biancastro che doveva essere latte.

Siccome eravamo in due, non ho mai parlato con quello vicino, e quello vicino non ha mai parlato con me, perché eravamo esausti primo, in secondo luogo la lingua non si conosceva, ricordo che due volte è capitato che ho tenuto quello lì morto, e ho preso la sua scodella per poterne mangiare due.

Quando si andava giù al gabinetto, che era vicino alla porta che dava all’aperto, si vedevano fuori mucchi di cadaveri, di venti persone, trenta persone, in fondo dall’altra parte c’era il crematorio.

Dopo sono uscito, ad un certo punto si è stabilito che ero guarito, e quindi sono uscito, sono andato a pigliarmi un altro blocco, perché ad un certo punto sono stato abbandonato un po’ a me stesso, sono andato prima di tutto a chiedere notizie di mio fratello ed ho appreso che era morto, c’era un padre domenicano nel blocco, che teneva nota di tutti quelli che erano morti, l’ho chiamato e mi ha detto “È morto il 13 di febbraio, l’altro giorno” così quando poi sono arrivati gli americani …

D: Scusa Eugenio, quindi tu sei andato in un altro blocco, quando sei uscito da lì?

R: Sì.

D: Non ti ricordi che blocco fosse?

R: Non mi ricordo, non mi ricordo.

D: Cosa facevi durante il giorno?

R: Niente.

D: Dentro nel blocco eri?

R: Dentro nel blocco o nel cortiletto che intercorreva tra un blocco e l’altro, si camminava sotto l’acqua, sotto la pioggia, sotto la neve, sotto il sole.

D: Non sei mai stato chiamato in un commando di lavoro?

R: No sono stato qualche giorno con don Angelo. Con don Angelo è lui che me lo ha detto, mi ha detto “Vieni con me”, don Vismara che era di Bergamo, aveva presentato anche don Angelo, e don Angelo era un galletto per quanto consentiva il posto. Mi ha detto “Vieni con me che si mangia a metà mattina, ti danno qualche cosina ancora” e cosa si doveva fare? Si doveva stracciare vecchi indumenti dei tedeschi, mutande, ecc, ecc, e poi dovevi fare la treccia, poi veniva lì ogni tanto se era fatta bene o se non era fatta bene, e se non era fatta bene la rompeva magari e te la faceva rifare, poi questa roba qui non l’ho …

D: Non l’hai più fatta?

R: … Non l’ho più fatta perché, intanto volevo stare vicino a mio fratello, perché questo era avvenuto prima, in secondo luogo bisognava andare all’appello la mattina ed era una cosa terribile, perché lì ti picchiavano con i calci dei fucili, e poi questa specie d’asfissia lì dentro, per un pezzettino di cosa che non serviva assolutamente a niente.

Ho provato anche, questo non con don Angelo, alla ferrovia, ma era pazzesco. Era pazzesco perché dovevi alzarti di mattina, prestissimo, entravi e passavi attraverso questo piazzale d’adunata, attraverso le urla di questi signori che urlavano “Scnell! Los!”.

Poi si aprivano queste porte, si saliva su un carro bestiame dove gente aveva fatto lì i propri bisogni, l’ira di Dio, si arrivava ai binari della ferrovia di Monaco, là scendevi, eravamo in dicembre, gennaio, vestiti com’eravamo vestiti, ti davano un piccone di quelli che hanno una parte un po’ a paletta, e dovevamo, sotto il comando di un operaio di Monaco, rincalzare i sassi sotto le traversine, quindi comandava “Hanz, vai, hanz, vai, hanz, vai” e tu dovevi seguire quel ritmo, se non seguivi quel ritmo c’era una botta.

Tutto questo per avere poi un piccolo scampolo di riposo, nel quale potevi pigliare mezza fettina di pane e una fettina di margarina, se tutto questo valeva quel dispendio d’energie che ci obbligavano a fare, per poi arrivare meglio a cercare di chiacchierare con qualcuno se era possibile. Infatti avevo conosciuto un certo Andrè Romer dei Vosgi, un ragazzo bravo che è venuto poi a Bergamo a trovarmi, e lì si camminava per cercare di avere un pochettino di caldo, ci si stancava e quindi ci si fermava per avere un po’ di freddo, ma intanto si chiacchierava, lui mi parlava del suo paese, io parlavo della mia città, ci scambiavamo il conforto di ricordare un pochettino qualche cosa.

D: Questo fino alla Liberazione?

R: Fino alla liberazione.

D: E come te la ricordi la liberazione?

R: La Liberazione me la ricordo, ero in questo famoso blocco nel quale ero entrato dopo essere uscito dal Reviere, ad un certo punto si sono incominciati a sentire i duelli aerei sopra, poi abbiamo visto due o tre volte degli aerei che cadevano, che fossero tedeschi o che fossero inglesi, erano il segno di una battaglia che si svolgeva proprio sopra di noi.

Dopo di che ci hanno portato tutti sul piazzale, e lì ci hanno dato mezzo pane, una scatola di flaisch, li chiamavano flaisch non so cosa sia, una specie di impasto di carni animali, e poi siamo stati lì ad aspettare. Io ho mangiato subito tutto, ho detto “Qui è meglio mettere giù, piuttosto che …”

Poi una parte, sono partiti, un certo numero, e noi invece siamo rientrati, eravamo lì, i nervi tesi, dicevamo “Ci siamo, ci siamo, ci siamo” e, infatti, si è affacciata al campo una giornalista americana con la pistola in pugno, le SS hanno sparato qualche colpo sul piazzale dove c’erano ancora i nostri, ma sono state immediatamente fatte fuori dalle truppe americane che erano arrivate, quindi poi è cominciata la festa. È cominciato questo senso di ricominciare a guardare avanti a noi, di incominciare a dire adesso si apre qualche cosa che è diverso.

D:Voi italiani vi siete subito organizzati?

R: Noi italiani ci siamo organizzati in un gruppo, ed è saltata fuori la fantasia italiana, perché in un gruppo …, non so, ogni tanto ci penso “Ma come è successo?”, socialista, comunista, si sono divisi e hanno formato quasi il CLN.

Poi si andava fuori, mi ero procurato un piccolo biglietto che c’eravamo fatti a vicenda, lo facevamo vedere agli americani e uscivamo, io sono uscito un due o tre volte.

Una volta, la penultima volta, ho visto un treno con tutti i morti, francesi, e c’era un ometto lì vicino al quale dico “Dubish doich” “Nein italijenick” “Italiano? Di dove?” “Sono di Bergamo” “Sono di Bergamo anche io” “Ma dove?” “Borgo Canale”, che è un borgo di Bergamo, “Anche io sono nato in Borgo Canale” “Come ti chiami?” mi dice lui, “Bruni” “Ma ti sei figlio del professor Bruni?” “Sì”. Si è messo a piangere, ad abbracciarmi, ecc.

Lui era lì con la Todt, era da un fornaio, allora io sono rientrato un momento, sono riuscito, sano andato da lui, ho mangiato a crepapelle e ho dormito ventiquattro ore. Dopo di che ho rubato una bicicletta, senza nessun rimorso, lui aveva un carrettino, se lo era già preparato, dove aveva su il suo bottino di guerra, pelli per fare scarpe, ecc, ecc, e siamo partiti.

D: E siete arrivati dove?

R: Siamo arrivati a Garmish-Partenkirchen.

D: In quanti giorni?

R: Abbiamo dormito in fienili, ecc, ecc.

D: Tutto a piedi, in bicicletta …

R: A piedi, in bicicletta.

D: E non vi ha fermato nessuno?

R: Sì, i francesi ci hanno portato via tutto.

D: Cioè?

R: Ci hanno portato via tutto, carrettino, bicicletta, tutto, e ci siamo avviati a piedi. Ci hanno lasciato qualche cosa da mangiare che aveva lui.

D: Eugenio tu avevi ancora la zebrata?

R: Certo non avevo altri vestiti, io.

D: E dopo Garmish cosa è successo?

R: E dopo Garmish c’erano ancora gli americani, gli inglesi non so chi. Lì c’era un gruppo d’italiani, militari, li vediamo bene in carne, uno ha addirittura una forma di groviera, e ci da un bel pezzettone di groviera.

Ci organizziamo un po’ anche, si nomina un organismo di disciplina, di cui faccio parte anche io, saputo che ero studente di legge, è vero fino a che ad un certo punto ci hanno detto: “Salite sulle nostre camionette e andiamo”, e ci fanno attraversare il Brennero, e arriviamo …

D: E siete arrivati?

R: Non a Bolzano, dunque no, a Bolzano mi sono fermato perché c’era quel tale Amati, e allora sono sceso, ho lasciato andare avanti gli altri e ho detto “Io vorrei andare …” lui mi ha detto “Guarda pronti, qui c’è un camion che parte adesso per Milano, ferma a Treviglio, poi a Treviglio qualche d’uno ti aiuterà”

Difatti a Treviglio mi sono fermato, si era formato già il CLN, ecc, ecc, tutta gente che poi magari è ritornata ad essere fascista. …

Lì mi ricordo che c’era uno che conoscevo, un certo Tombini, il quale ha procurato una macchina, ma il mio grosso cruccio era sapere se i miei sapevano di mio fratello, perché portare quella notizia lì era una cosa tragica, invece lo sapevano.

Lo sapevano me lo hanno detto lì a Treviglio, era già tornato uno prima di me, un italiano, che era un certo Americano Italo, che era venuto a cercarmi, ma era uno che aveva una certa libertà, perciò mi puzzava di qualche cosa che non andava, è venuto a cercarmi, mi aveva pescato lì, non lo so, non mi ricordo, e mi aveva regalato una bottiglia di olio di fegato di merluzzo, che io avevo messo via per partire.

Poi visto che dovevo partire l’avevo regalata ad un prete, non faccio il nome, che l’aveva messa via “Tieni, io guarda parto, ormai chissà cosa fanno qui, mi sbattono, mi fucilano o roba del genere, pigliala”, quando ho visto che non si partiva, io sono andato là e gli ho detto “Guarda che non sono partito, tornamela”, tornamela, non tornamela è caduta e si è rotta.

Quindi a Treviglio mi hanno dato queste notizie e sono ritornato.

D: Quindi i genitori, mamma e babbo, sapevano già di Roberto?

R: Sì, sì.

D: Tu quando sei uscito dal Reviere, e che hai appreso la notizia di Roberto, ti sei messo a cercare dove era stato messo, sepolto?

R: Ma che mai sepolto? Cremato. Perché me lo hanno detto, poi sapevo, vedevo passare i carri con su tutti i cadaveri che andavano a finire al crematorio. Io il crematorio dentro non l’ho mai visto, perché c’erano i beccamorti che andavano là a fare questo mestiere, ma sapevo benissimo.

D: Eugenio, alla Liberazione di Dachau, voi deportati vi organizzate in comitato con Melodia, con altri, e l’autorità italiana c’era?

R: Assente.

D: Voi non l’avete mai incontrata, neanche quando sei tornato?

R: Mai, niente. No, dopo qui hanno detto che si doveva andare all’ARC, in Via Borgo Palazzo, che era organizzata mi sembra dalla Croce Rossa, lì tanto è vero che c’è il certificato della Croce Rossa Internazionale, che ha raccolto tutti i dati, poi li aveva già raccolti non so come, e hanno preso nota di un po’ di tutto, ma altrimenti …

D: Cioè sul piano della salute, voglio dire?

R: Niente.

D: Perché quando siete tornati non è che…?

R: Io pesavo 35 chili.

D: Sì, poi con malattie?

R: Ero piagato. Avevo tutte le gambe piagate.

D: Ecco, questa attenzione sanitaria, la cura sanitaria, è stata tutta a carico tuo voglio dire?

R: Sì, a carico mio, ma è consistito nel fare una vita normale, quindi forse non ricordo se sulle gambe ho spalmato qualche cosa, qualche crema …

D: L’autorità non si è interessata?

R: No, no, no, non è che mi abbiano detto “Lei poverino è tornato, adesso venga qui”. C’è un mio amico che mi ha fatto una visita, il dottor Leidi, che ricordo sempre con molto affetto, il dottor Paolo Leidi, il quale mi ha chiamato, siccome era medico polmonare, e c’era pericolo soprattutto per i polmoni, mi ha fatto una visita scrupolosa e mi ha detto “No, stai bene”, anche perché il tifo non lascia tracce se si guarisce, almeno credo, non me ne intendo.

D: Di Bergamo oltre a te e tuo fratello, sono state deportate …

R: C’era, io avevo visto un certo Battagion, che poi è sparito, ma non ha lasciato traccia questo tale. Questo tale io lo conoscevo a Bergamo, e là, non lo so, quando sono entrato così, ho visto, ho intravisto, della gente che giocava a pallone cosa che mi ha … “Ma siamo diventati matti?”, ed era anche lui che giocava a pallone.

D: Questo a Dachau?

R: A Dachau, dopo non ho visto più niente di tutto questo. Ma se tu sapessi come si affollano i ricordi, proprio si intrecciano, uno si sovrappone all’altro e viene fuori qualche cosa che probabilmente ha un po’ dell’uno un po’ dell’altro, però inquina tutti e due i ricordi.

D: C’è un altro tipo di ricordo, gli odori di Dachau te li ricordi?

R: Gli odori di Dachau li ricordo benissimo, mi ricordo certi episodi, per esempio tu sai cosa si mangiava? La mattina davano un certo caffè che era poi dell’acqua tinta, ma anche tinta male, poi ti davano le carote con le rape, e la sera ti davano il pane a fette con un po’ di margarina o un salsicciotto, una roba che …

Ci mettevamo tutti in fila, e le fette non le potevano tagliare tutte uguali, tu guardavi, contavi e dicevi “L’ottava fetta è più grossa” allora cercavi di contare a che punto eri della fila, e cercavi di sgattaiolare o fare qualche cosa del genere, o passare facendo finta di andare al gabinetto, che era la cosa migliore, rientrare appena vedevi che la fila aveva sedici posti e tu avevi adocchiato al diciassettesimo una cosa più grossa, tacchete dentro e arrivavi, ed erano 3 grammi di più. Ecco, questa è stata la nostra vita.

D: Eugenio un’ultima domanda, la babele delle lingue, delle urla, dei rumori del campo, come te lo ricordi?

R: Le urla no, mica tante, gli impiccati sì, nel viale. Le urla no. Dicevano che i russi rubavano, che passavano sopra il tetto dei blocchi, facevano il buco e poi entravano dentro, dicevano. Guardavamo con invidia i danesi, perché avevano il pacchetto della Croce Rossa, e c’erano i polacchi, che io ho sempre visto di una dignità straordinaria. Mi ricordo che c’era un ingegnere polacco che era là fermo, sempre così, non è morto, praticamente così, guardando nel vuoto, una testa a uovo, per cui non erano riusciti neanche a raparlo, ed era sempre là così che guardava.

Degli italiani ricordo un avvocato Bruni, si chiamava Alessandro Bruni di Torino, che era l’avvocato dell’UTET, della casa editrice, è morto nella merda, è morto sotto di me, siccome c’era questo tifo petecchiale, questa diarrea, non riusciva più a muoversi assolutamente, fino a che un giorno lo abbiamo trovato lì morto, abbiamo portato fuori un pagliericcio intriso di …, marcito, una cosa terribile, Alessandro era buono, erano tutti buoni.

Cosmar Franco

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono Cosmar Franco nato a Remanzacco in provincia di Udine, il 28.05.1927 e adesso sono residente qui a Bologna da tanti anni, una quarantina di anni.

Io sono stato deportato perché sono stato preso in combattimento.

Ero nella formazione partigiani della divisione Valnatisone, Brigata Piccelli, io sono stato preso in combattimento in Jugoslavia, a Barcis, in Jugoslavia. Dovevamo attraversare il fiume e la vecchia ferrovia.

Sembrava sul momento, come dicevano i nostri ufficiali che erano essi d’accordo con i repubblichini. Poi però cosa successe da noi? Da noi è venuto a mancare un uomo, un uomo che abbiamo cercato tutto il giorno e non l’abbiamo trovato.

Alla notte, quando siamo partiti, sarà stata mezzanotte, abbiamo disceso questo paese, attraversando questa ferrovia. C’era un chiaro di luna e il prato sembrava una tavola da biliardo quanto era bello…

Allora, davanti a noi c’era la pattuglia, le mitragliere e subito dietro a noi la seconda squadra del secondo distaccamento del battaglione…

Arrivati quasi in fondo, si sentì uno sparo o due perché la pattuglia era riuscita a sparare perché era un’imboscata dei tedeschi, tedeschi, repubblichini e anche alpini come loro si sono definiti. Fatto sta, che lì ci hanno fatto prigionieri.

D: Franco, scusa, quando questo è accaduto?

R: Io sono stato preso il 2 gennaio del 1945…, sono stato fatto prigioniero. Abbiamo avuto l’assalto sul campo con trentuno o trentatre morti, tutto il resto, gli altri tre battaglioni si sono ritirati, non hanno accettato il combattimento perché erano tutti allo scoperto. Per noi è stata un’improvvisata questo tradimento e nessuno se lo aspettava.

Ci hanno portato su i tedeschi, prima hanno cominciato a venire con il mitra attorno a noi…, ci volevano ammazzare, poi c’erano anche i repubblichini, i fascisti jugoslavi, i cernisi che sono gente cattiva quelli.

Ci hanno portato giù in una casa, c’erano tre o quattro case, ci hanno messo al muro per fucilarci i tedeschi.

Poi, hanno detto: No, questa è zona nostra, voi non li fucilate, perché abbiamo avuto abbastanza morti, voi non li fucilate”.

Allora mandavano di là la staffetta tedesca, per avere l’ordine dal comando tedesco di sapere cosa dovevano fare di noi. Ci hanno legati dentro, e poi io avevo il vestito di un soldato tedesco, hanno cominciato a dire: “Tu, kaput”.

Poi giù botte, ci hanno legato con le mani di dietro e lì aspetta per delle ore, finché arrivò la staffetta e ci dissero: “Via”, ci hanno fatto camminare fino a Tolmino a piedi, con un buio terribile.

Ci hanno messo dentro le carceri a Tolmino, arrivammo in quindici, c’era un ufficiale con noi, Paride, fatto sta che ci hanno messo a dormire per terra, senza una coperta, senza niente, sul cemento così, un freddo, un freddo, roba da matti. E ogni tanto entravano dei fascisti con la baionetta in canna che ci volevano ammazzare. I tedeschi ci proteggevano. Gli italiani ci volevano uccidere, gli jugoslavi ci volevano uccidere, i fascisti… Siamo stati senza mangiare.

Quando entravano a fare i compiti gli ufficiali, prima entrava la truppa con il mitra spianato e poi piano, piano entrava l’ufficiale, e diceva: “Ragazzi, mi dispiace per voi, però non posso darvi da mangiare”. Senza mangiare, io non so niente. “In ogni caso, stasera”, disse, “quando arriverò, se riuscirò a racimolare qualcosa”.

Questo qui è venuto alla sera, tutti i soldati, ci ha portato una pagnotta, quelle nere che si è diviso in quindici persone. Poi disse: “Ho lasciato ordine a tutti gli alberghi di qua, di Tolmino che le cose che a loro avanzano, di non gettarle via, ma di tenerle a parte per voi altri”.

Siamo stati cinque giorni, tra fame e freddo, non riesco a descriverlo. Una sera è arrivato lì l’ufficiale tedesco, e ci ha detto: “Preparatevi, mettetevi in fila”; ci hanno legato, ci hanno messo in fila, in mezzo alla fila con questa gente che ci voleva ammazzare. E io pensavo: “Ci vogliono ammazzare tutti”. Ci proteggevano però i tedeschi. Fatto sta che ci hanno buttato sul camion allo scoperto e in ogni camion, sopra alla tettoia dell’autista c’era un uomo con il mitragliatore, e di dietro c’era un soldato con il fucile.

Io avevo le mani slegate e giravano su e giù e nel convoglio di prima avevano caricato dei piselli secchi e io volevo prendere dei piselli per mangiare, con la fame che c’era. Non si vedeva l’ora di partire, siamo partiti, altrimenti ci scoppiava il cuore con quella gente che ci voleva massacrare, da un momento all’altro potevano dire: “Salta su”, e ti ammazzavano che per loro era tutto regolare.

Allora partimmo, e loro avevano paura che i partigiani per strada, nella zona partigiana succedesse qualcosa come un’imboscata ecc.

Speravo anch’io, ma niente da fare. Allora dissi a un mio amico: “Ho le mani ghiacciate, ho un freddo da matti. Come facciamo?” “Sei solo te slegato, anzi tu prendi quello di dietro, e quello davanti si gira, ci spara e ci ammazza”.

Fatto sta che arrivammo a Cividale, posto di blocco dei cosacchi, dopo Cividale siamo passati al mio paese di Arnazacco, da Arnazacco fino a Gorizia. A Gorizia ci hanno messo nelle carceri, e nelle carceri era pieno di pidocchi. Tutta la gente che gridava, cantava canzoni slave, patriottiche, tutti i giorni e notte a cantare perché erano i giorni che arrivavano i tedeschi e prendevano a secondo la gente che volevano ammazzare e dicevano: “Tu, tu fuori”. E uno pensava che si andasse a casa, chissà dove, invece li portavano al castello e li fucilavano.

Ogni tedesco che i partigiani uccidevano lì attorno, uccidevano un soldato, dieci partigiani e un ufficiale.

Fatto sta che ci hanno interrogato e come sono entrato io dalla SS, vestito così da soldato tedesco e poi era una divisa estiva, di quelle di tela.

Hanno fatto tante di quelle domande e non ne potevo più.

Allora non mi hanno picchiato.

Hanno provato a mandarmi in carcere, poi in carcere ci davano quella sbrodaglia regolare, tutti i giorni, tutte le mattine arrivavano con quel martello nelle sbarre, finché un giorno si dormiva sul fieno, sulla paglia, il gabinetto era un secchio, finché un giorno mi sono sentito chiamare: “Cosmar, si prepari, deve venire giù con me”. Pensai: “Questi qui mi fanno fuori, mi chiamano per nome”, forse perché ero vestito da tedesco… Invece quando sono arrivato giù, mi dissero: “Guarda che c’è un signore che ti vuole vedere.”

“Come mi vuole vedere?” Non davano loro a un partigiano preso con le armi in mano, la possibilità di avere un colloquio con qualcuno.

Mio padre avevo lavorato sempre in Germania, aveva anche conosciuto mia madre in Germania e sapeva la lingua. Si vede che lui ha incastrato questo tedesco… , e mi ha fatto avere il colloquio con mio padre.

Mio padre mi disse: “Ti ho portato una valigia”, quelle di cartone legate con le corde perché in Germania è freddo. “Da domani partirai per la Germania a lavorare”. Come sapeva mio padre che partivo l’indomani? Perché aveva parlato con l’ufficiale tedesco. Fatto sta che quando sono arrivato dentro alla cella sono rimasti tutti di stucco, e mi hanno detto: “Non ti hanno fatto niente?” “Sono qua…”

L’indomani mattina, tutti fuori dalle celle in fila per quattro, fuori tutti.

E ci hanno portato alla stazione di Gorizia.

Lì in stazione c’erano tutti i vagoni aperti. Lì ci hanno incastrato sopra questi vagoni e poi quando era pieno chiudevano… Allora aspettavamo che partisse il treno, passò un giorno, passò il secondo, passò il terzo… e il treno non partiva. E la gente del paese, ogni tanto, quando un tedesco o un italiano lasciava un po’ passare, buttavano giù qualcosa da mangiare, però lo prendevano sempre quelli che erano davanti, quelli che erano di dietro non prendevano niente. Lì l’egoismo dell’italiano era quello di tenersi tutto per sé.

Io non avevo niente, anche quello di dietro a me non aveva niente.

D: Posso chiederti? Dicevi che avevi addosso una divisa da tedesco…

R: Sì, perché avevano bloccato un convoglio tedesco. I convogli andavano a prendere i generi alimentari, da Gorizia andavano a Tolmino, Caporetto.

Allora, noi facevamo così, quando c’era da prendere qualcosa, perché il mangiare non arrivava …, ho mangiato tante di quelle rape…

D: Non avevate aiuti?

R: Sì, c’erano gli aiuti, ma non lasciavano passare. In Friuli c’erano trentanovemila uomini tra cosacchi, Repubblica di Salò, Jugoslavi. C’erano trentanovemila uomini…, poi qualcosa mi sfugge sempre. Lì non riuscivano a passare. Noi avevamo una zona molto dura lì.

Noi, tutti i giorni, era chiamata anche divisione d’assalto, tutti i giorni noi avevamo un rastrellamento perché noi partigiani, la linea di Tarcento che andava in Austria era l’unica che andava, le altre linee erano saltate tutte. Lì non sono riusciti la linea a farla saltare dietro ai monti perché i tedeschi hanno messo una grande contraerea che li disturbava e quando si alzava su alta quota, buttavano giù le bombe, con il vuoto d’aria le bombe si spostavano, non andavamo mai a colpire il bersaglio.

Allora il Generale Alexander, comandava il generale Alexander, diceva: “Domani passano due divisioni di tedeschi, dovete fare saltare la linea, disturbare, ritardare”.

Questi qua poi che cosa facevano? Si fermavano sì, ma venivano contro di noi a combattere.

E noi avevamo sempre il combattimento…

Ecco perché era chiamata divisione d’assalto.

D: In quanti eravate, più o meno, in questa divisione?

R: Eravamo seimila credo.

D: Quindi si può dire che sei stato preso a Barcis, o vicino a Barcis.

R: Sì, c’è un ponte di legno e mi mandò la fotografia quell’ufficiale che lui ha detto che è un alpino, che è repubblichino, che sparavano contro di me. Due ne ho trovate.

D: Dopo…

R: Sì, su in montagna le ho trovate.

E’ un caso. Io non ho odiato quella gente perché lui cos’ha fatto? Lui ha scelto una via e io ho scelto quell’altra. Se a me andava male, se andava bene a lui, cosa succedeva? La stessa cosa. Non si può odiare per questo, come odiavi sul fronte nemico non si può odiare, dopo la guerra non si può odiare perché ognuno combatte per il suo paese, per il suo ideale e tutto il resto.

Per quello dico che non si può odiare.

Perché loro, spiego questo famoso… repubblichino, lui non vuole essere chiamato Repubblica di Salò, repubblichino, alpino che anche lui, dopo la Liberazione, ha avuto delle cose che non trovava mai lavoro perché era dei repubblichini.

Ha dovuto girare tutta l’Italia per trovare lavoro.

Era come per il Friuli.

Nel Friuli, quando uno era stato partigiano, secondo loro era stato comunista e non trovava lavoro.

Era la stessa cosa.

D: Accennavi prima a Porzius?

R: Sì.

D: Cioè?

R: Io ho conosciuto tutti quelli di Porzius, perché tutti i giorni io passavo di lì per andare a prendere i medicinali o per andare a prendere armi e munizioni. I lanci che facemmo sulla valle di Porzius, gli inglesi di Pippo, di notte,buttavano giù questi qua e buttavano giù anche gli ufficiali, buttavano giù gli inglesi. E io andavo sempre lassù.

Queste donne che loro dicono, l’avevano condannata come spia, le donne che avevano quelle di Porzius e le altre c’erano quando io andavo su, ma io non sapevo che erano ricercate.

D: Siamo rimasti quando eravate alla stazione di Gorizia nei treni.

R: Siamo stati lì tre giorni fermi e per fare i bisogni, ogni tanto aprivano lì fuori ai vagoni, davanti al pubblico che era fuori, poi dentro Roma, lì in piedi senza potersi neanche sedersi, ma neanche voltarsi. Ci avevano talmente incastrati dentro che non passava neanche l’aria.

Finché un pomeriggio, verso sera, il treno andò avanti, andò avanti, ma non molto, si fermò a Pradamano, è un paesino prima di Udine, su un binario morto perché c’erano i bombardieri che andavano su e giù e allora avevano paura dei bombardamenti.

Il giorno dopo, di notte, ci hanno portato alla stazione di Udine e ci hanno collegati insieme a quelli della Risiera di San Sabba, e noi di Udine, di Gorizia e poi quelli di Udine sul treno. Hanno collegato tutti i vagoni, senza mai uscire, e siamo andati via.

Ogni galleria, se c’era un allarme, dovevamo stare dentro alle gallerie con quel fumo, che non si respirava. Anche un giorno si stava là dentro.

Infatti per arrivare a Mauthausen ci abbiamo messo una settimana, sempre chiusi nei vagoni e lì era venti gradi, anche ventidue a Tarvisio.

Quando siamo arrivati a Mauthausen, siamo arrivati a Mauthausen verso sera.

D: Che periodo era più o meno?

Sai il giorno in cui siete arrivati a Mauthausen?

R: Il giorno, con precisione, non lo so.

D: Era sempre gennaio?

R: All’inizio di gennaio.

Fatto sta che di lì ci hanno aperto tutti i vagoni, la prima cosa che ho guardato quando ci hanno fatto scendere, il nome della stazione dove eravamo: Mauthausen e ho detto: “Guarda dove sono arrivato?”

Pensate mio padre che era uno della guerra del 1914 – 1918 è stato prigioniero a Mauthausen e mi raccontava che mangiava le ortiche per sfamarsi e sono arrivato qui anch’io.

Dopo, messi in riga, siamo andati un bel po’ avanti, non abbiamo attraversato il paese di Mauthausen, ci hanno fatto prendere le mulattiere, di notte, al buio e cammina, cammina non si arrivava mai in fondo.

Ad un certo punto si videro delle luci, tutto un chiarore.

Man mano che si andava avanti si vede che si ingrandiva questo colosso di campo.

In una parte Mauthausen è tutta di cemento armato.

Lì si vide questo portone alto, a fianco c’era una piscina… questi riflettori che sparavano addosso. Si è aperto il portone e ci hanno fatto entrare, dentro ci hanno fatto mettere in fila e sulla destra venne fuori un uomo dicendo che era il capo del campo, su un balcone, parlava in tedesco, io il tedesco non lo capivo.

Dopo un po’, quelli del campo, i tedeschi hanno detto: “Via tutte le valigie…”, si è messo via prosciutto, salame, e in tutto il viaggio noi siamo rimasti senza mangiare.

I tedeschi hanno sequestrato via tutto.

Di lì ci hanno fatto andare su a destra, un’altra decina di gradini, poi un gran portone di nuovo qui, si è aperto ancora il portone, e subito dopo il portone a destra, una scalinata dove c’erano i bagni, le docce.

Ci hanno fatto spogliare tutti nudi, un freddo…, fuori c’era il ghiaccio e la neve, tutti nudi, e lì a fare la doccia, calda, fredda, calda, fredda, ghiacciata.

Di lì i tedeschi, la SS ci ha fatto togliere tutto…, chi aveva la fede, chi aveva l’orologio d’oro, tutte quelle cose lì.

C’era da noi un prete jugoslavo, di Lubiana, lui sapeva il tedesco. Aveva una catenina, ha detto in tedesco: “Per piacere, non me la portate via, è un ricordo di mia mamma”. Questo tedesco l’ha guardato in faccia e ha cominciato a offendere, hanno fatto un girotondo e l’hanno pestato. Non l’abbiamo più visto, non so dov’è andato a finire, se l’hanno ammazzato, non l’abbiamo più visto.

Di lì nudi, ci hanno detto: “Fuori in baracca“. Fuori, con il ghiaccio, tutti nudi, e via camminare scalzi fino alla baracca, in quarantena, ho saputo dopo che era quarantena, perché ho saputo dopo che la quarantena era distaccata dalle altre baracche, la quarantena era dall’altra parte, dicevano che si stava lì quaranta giorni e poi ti mandavano a lavorare.

Siamo andati in quarantena, lì ci hanno dato i vestiti, non quei vestiti rigati, erano dei pantaloncini, messa una pezza con la riga e il numero di matricola e poi ci hanno dato il bracciale con il filo di ferro, la placchettina e si doveva dire il numero in tedesco perché se non sapevi dire il numero in tedesco non mangiavi.

Poi siamo arrivati dentro lì. Adesso, disse, andate a dormire… Ma dove a dormire? Che non c’era neanche un letto, niente.

“Vedete lì in fondo? C’è un mucchio di sacchi”, erano di carta fatta attorcigliata con dentro della segatura, avevano sdraiato tutti questi materassi e ci avevano messo a dormire come le sardine. Così, io i piedi in bocca a lui, lui i piedi in bocca a me.

Camminava sui nostri corpi… e dava tante di quelle botte…, non potei neanche muovermi tutta la notte. Finché è giunto da noi un ebreo nella nostra baracca, che l’ebreo non poteva venire dentro, eravamo solo italiani.

Questo capo della baracca è venuto lì dicendo: “Sei italiano?”

Prende uno zoccolo da uno lì, lo getta lui questo zoccolo, ma lui prende questo ebreo e gli spacca la scatola cranica, l’ha ammazzato.

Al mattino arrivavano lì i barbieri, lì tutti nudi ci hanno rapato fino all’ultima pelle.

Avevano dei rasoi …, non gliene fregava niente perché per un lavoro che facevano prendevano una minestra in più.

Ci hanno rapato, e poi c’era un secchio come quella colla che va sui manifesti, con un pennello te la mettevano di qui, di là, per paura dei pidocchi.

Dopo di lì ci hanno mandato fuori, a un freddo, tutti rannicchiati uno vicino all’altro, saremo stati lì tre o quattro ore.

Ad un certo punto arrivò il capo blocco e disse: “Tutti in riga, guai se uno di voi sgarra e che stia fuori riga”.

Fatto sta che ci metteva in riga in quella maniera e se sgarravi prendevi tante di quelle botte da matti. Perché passava quello delle SS, si doveva pazientare e tutto il suo gruppo doveva essere a posto e tutti presenti. Bisognava avere il cappello così, altrimenti erano botte.

Di lì, rotte le file, ci portarono il caffè secondo loro, il caffè arrivò in un bidone, era tutto foglie di tiglio e ci hanno dato un pezzettino di pane, sarà stato 50 grammi e un po’ di margarina quella minerale, arancione carica. Meno male pensammo, qui ci danno da mangiare…

Quando arrivò la minestra…, a mezzogiorno pensammo ci daranno qualcosa! A mezzogiorno arrivarono lì e dissero: “Chi è volontario e vuole andare a prendere i bidoni di minestra?”…. ti davano una minestra in più. Noi non abbiamo visto la realtà del campo, quello che succedeva niente. Dopo fatto la quarantena si vedeva veramente quello che era il campo, ma non eravamo convinti neanche con questo, vedevamo della gente portare dei morti sulla coperta e poi buttarle là a mucchi, ma non pensavi che fosse…

Fatto sta che sono andato a prendere la minestra, sono tornato indietro. Molti di loro quando ci hanno dato la minestra non l’hanno mangiata.

Sulla porta che era di metallo in fondo della quarantena, c’erano quei poveretti che erano magri, malmessi, che venivano ad elemosinare questa minestra e il primo giorno dicevano che faceva schifo e non la mangiavano.

Fatto sta che molti di loro non la mangiavano… Di lì ci portarono,qualche giorno dopo, a fare le fotografie in due o tre pose con il numero di matricola.

Avevamo la riga qua in mezzo

Poi ci hanno dato un paio di guanti di feltro…

D: Ti ricordi il numero di matricola?

R: 126691.

Fatto sta che, la mattina, siamo andati a lavorare prima a Gusen e poi da Gusen siamo andati alla stazione ferroviaria, non avevo mai visto quella stazione ferroviaria, avevo visto che c’erano i vagoni, però non era la stazione. Erano dei binari che passavano così. Fatto sta che ci hanno fatto caricare tutti sui vagoni aperti, in ogni vagone c’era un tedesco, e lì ci hanno portato alla stazione di Linz, tutta bombardata, massacrata, vagoni in alto, a destra, a sinistra, tutta roba che arrivava dall’Italia, pane, pasta, miele, tabacco, guai se toccavi qualcosa.

Il primo giorno che si lavorava un freddo cane. Nessuno si rende conto di quello che fa lo spostamento d’aria sui binari, distrugge come se fosse un cappello…, da non crederci.

C’era un maresciallo dei tedeschi cattivo, con il cane lupo… e pretendeva di più di quello che noi potevamo fare.

Fatto sta che alla sera, dopo dodici ore di lavoro, ci hanno portato a Gusen a dormire.

Dovevamo aspettare, perché a Gusen facevamo i turni a lavorare nelle miniere sotto e poi c’erano le fabbriche di armi,… facevano dei pezzi… quando andavano al lavoro loro,noi andavamo a dormire nelle loro cuccette.

Al mattino mi alzai, e quando mi svegliai il Kapò, il Kapò era uno senza un braccio, cattivo come una bestia……, cominciava a dire…., fatto sta che i miei zoccoli non c’erano più. Mi avevano rubato gli zoccoli.

Come facevo adesso a camminare sui binari, se c’erano dei vetri e con il freddo che c’era?

Io ho guardato, ho preso un paio di zoccoli di quelli che dormivano, li misi, e avevo le dita così, sono andato a lavorare in quella maniera lì e so che mi ha fatto un’infezione lì dietro.

Mi venne fuori un’infezione, un bozzo lì…, e si doveva lavorare lo stesso.

Io dicevo… c’era la gioventù italiana, non ne avevano più di anziani, c’era qualcuno che comandava, però erano tutti giovani italiani. “Tu, italiano kaput crematorio”. Non sapevo neanche crematorio cosa volesse dire, ancora perché non avevo avuto il tempo di vedere queste cose.

Fatto sta… “crematorio” diceva.

Era questo il fatto. Mi era rimasto un po’ impresso. Ognuno di noi, con il freddo e la fame sveniva non è che dicesse: “Prendilo, rimettilo là che poi rinviene”. No, in due si doveva prendere, uno per i piedi e uno per le mani, vivo e buttarlo dentro alla buca, dai uno, dai due, dai tre, dai tre, dai quattro e seppellirli, buttando sopra la terra, vivi.

Mi sono preso anche paura io, … crematorio, camera a gas.

Ritorniamo a Gusen, alla sera, io scoppio dalla febbre, non stavo neanche diritto dal male che mi faceva e lavorare sempre con quel male, finché ho detto al Kapò di Gusen, dissi… “Le faccio vedere…”, mi ha dato un manganello sulla schiena che sono rimasto secco e sono dovuto andare a lavorare lo stesso. I miei amici mi guardavano.

Sono andato a lavorare e lì piangevo dal dolore e non c’è stato niente da fare.

Allora, alla sera, invece di andare a dormire a Gusen, siamo andati al campo n. 2 di Linz, c’è la caserma delle SS che gli americani hanno bombardato, la caserma, hanno fatto saltare un mucchio di gente del campo e hanno ammazzato un mucchio di deportati.

Allora, di lì siamo andati a dormire, solo che ci hanno messi e da varie ore eravamo già lì.

Dopo dodici ore di lavoro chiamarci e stare lì delle ore, aspettare per mandarci in baracca e darci quel po’ di minestra calda, io sentivo urlare a destra, a sinistra.

Io stavo male e mi faceva male. Passò di dietro questo tedesco, quando mi ha visto curvo mi ha dato tante di quelle botte, ecco perché ci avevano mandato in baracca, perché secondo loro mancava una persona, non mi vedevano e lì sono stati fuori … per colpa mia.

Un’altra sera siamo andati a dormire a Gusen, a Gusen non c’era posto quella sera lì e dove si dormiva? Fuori delle baracche.

Ci hanno dato una coperta e basta… C’era il fango. Io ho messo la coperta sopra e sotto niente. Di notte ghiaccia e più o meno il corpo scalda un po’. Alla mattina staccarsi dal ghiaccio per non rovinare anche il vestito, se lo rovinavi eri rovinato del tutto.

Strappai un po’ alla volta, e via a lavorare di nuovo.

Allora dissi al tedesco, alle SS … e l’altro: “Tu italiano… kaput”.

Come kaput?

Solo che poi è arrivata un’anima buona, dietro di me, uno vestito da SS e disse: “Vieni con me…”, era un italiano, “e non ti meravigliare che sono delle SS, ho dovuto accettare anch’io queste cose qui perché altrimenti facevo la fine che dovresti fare te adesso. Vieni qua, metti sotto quel … che nessuno ti tocca”.

Fatto sta che nessuno mi ha toccato.

Alla mattina, a Gusen di nuovo, … a Mauthausen ci hanno portato quelli che eravamo ammalati.

D: Franco, scusa un attimo, quando tu parli di Gusen, ti riferisci a quale Gusen?Gusen 1 o Gusen 2 ?

R: Sai che non l’ho mai capito. Per me era tutto Gusen, che era schifoso Gusen.

Non lo so che Gusen era.

D: Allora, quelli ammalati lì a Gusen li prendono…

R: No, gli ammalati hanno chiesto la visita medica…

Li prendono e li portano a Mauthausen…

D: A Mauthausen dove? Dentro al campo di Mauthausen o in fondo…

R: No, dentro il campo di Mauthausen perché doveva essere la Commissione Medica a dire se eravamo recuperabili o no. Ci hanno fatto fare la doccia, fuori, nudi, in attesa del responso della Commissione Medica. Fatto sta che siamo stati lì quattro o cinque ore, un freddo, e mai preso un raffreddore.

Pensavamo tutti: “E’ meglio che ci ammazzano, altrimenti qua…,” invece è stato contrario… Poi all’ospedale, anzi era un’infermeria, sono arrivato là, giù…, non sono andato dentro alla baracca, mi hanno messo subito in sala operatoria, mi hanno disteso su un tavolaccio, mi hanno mezzo legato, mi hanno tagliato con un po’ di tintura e c’era il pus che schizzava da tutte le parti.

Poi sono andati con le forbici a tagliare e poi hanno messo una stecca di legno, c’era un barattolo con dentro una cosa nera, come una pomata, me l’hanno messa sulla ferita, senza cucire niente e la fasciatura non con la garza, con i rotoli di carta igienica li adoperavano per fasciarci. Poi mi portarono in baracca.

Quella lì non era una baracca, quando ho visto questa gente, tutta aperta, che mi guardava…, sono morti viventi! Ma quella gente lì è ancora viva?

Si vedeva solo gli occhi e i denti, le mani scarne, si vedevano le ossa, e mi guardavano e io guardavo loro.

Poi mi hanno assegnato un posto, eravamo in sei, era a tre piani, tre alla testa e tre ai piedi, il materasso sempre così stretto, con un asse di legno e una coperta in sei.

Di lì, dopo, mi venne la febbre a 41.

Cominciai a tossire sangue…, non sapevo cos’era. Passò un dottore, un dottore che andò da un russo, questo russo lavorava alla cava delle pietre, era un colosso, gli usciva l’acqua dalla pancia, chissà cos’era. Fatto sta che gli fa questa puntura, al petto, non ricordo più, so che appena fatta la puntura, questo russo ha cominciato… hai visto le bolle dei bambini di sapone?…

Poi io dissi: “Dottore…, guardi qui”, avevo rotto un lembo della coperta, dove c’era tutto il sangue. Allora mi ha visitato. Io ho ascoltato, non ha detto: “Dategli una camicia”, niente… Ha detto: “Guarda, ragazzo, vuoi vivere? Se vuoi vivere, se arrivano i miei colleghi quel sangue non glielo devi fare vedere perché qui la tubercolosi…”, non disse tubercolosi, non sapevo neanche che era tubercolosi io. Questo qui disse: “Se i miei colleghi ti vedono, ti fanno fuori. Hai visto cosa hanno fatto al russo? Toccherà a te”.

Io camminavo per cercare qualcosa da mangiare. Davano un mestolo di minestra al giorno, senza pane, senza niente, all’ospedale.

Andavo in giro a vedere, fuori l’erba era rasata tutta.

Si tirava su tutto, quello che c’era di commestibile, con le patate dei fiori, delle piante, non era rimasto niente fuori.

Qualcuno fuggiva, di notte, dalle finestre, andava nei rifugi delle SS e qualche volta gli davano una buccia di patata, e sembrava avere risolto chissà che cosa. E lì, tutti a destra, sinistra, fuori e poi arrivò la dissenteria.

La dissenteria, cinque giorni, se dura cinque giorni muori.

Fatto sta che uno con la dissenteria in cinque giorni diventa pelle e ossa perché va in continuazione al gabinetto.

Dov’era il gabinetto? In fondo dove a destra c’era il mucchio di cadaveri, e a sinistra c’era un asse per traverso e lì si facevano i propri bisogni, due o tre alla volta, tutta roba liquida, che di consistente non c’era niente.

Fatto sta che la dissenteria…, non si arrivava mai al gabinetto e te la facevi addosso.

Infatti tutto per terra, pieno di liquido. Era una cosa brutta.

Chi cadeva giù, pur di arrivare, cadeva giù già sfinito, morto.

Chi, mentre faceva i bisogni, cadeva e moriva lì, chi arrivava gli dava uno spintone e cadeva dentro tutto questo liquido che era lì, si affogava anche di liquido.

Non eravamo più degli esseri umani, eravamo delle bestie. Ma neanche delle bestie, le bestie…

Tutti al gabinetto, su e giù…, cosa succede dopo? Che quello che ho avuto io all’inguine, mi venne dall’altra parte.

Lì facevano molti esperimenti, c’era della gente che aveva aperta tutta la muscolatura dei piedi, la schiena…, facevano gli interventi e poi c’era tutta questa carne aperta.

Andai lì, mi portarono giù di nuovo in infermeria, stavolta svenni perché ero molto più debole.

Però guarivo presto anche…, c’era uno di fianco che disse: “Partigiano tu di dove sei? Sei di Olzano?” Olzano, il mio paese. Dissi: “Non sto bene”. E lui mi ha detto: “Ti aiuto io a letto, ti aiuto io a portare …” Ma quando sono tornato, un giorno non c’era più, si vede che era morto.

Però, con tutto questo, un giorno successe il patatrac. Arrivarono i tedeschi dentro le baracche e pensai: “Ci ammazzano tutti”.

“Fuori, fuori, lasciate tutto lì, a mani vuote”, eravamo sempre nudi a 24 gradi sotto zero, broncopolmoniti… Fatto sta che dissero: “Fuori tutti”.

Non sapevo cosa era successo, però non pensavo che fosse qualcosa che qualcuno avesse fatto la spia.

Noi avevamo qualcuno con i cucchiai di ferro e cosa facevano? Battevano come il contadino batte la falce,è dura la lama, si indurisce la lama e fa una lama tagliente per l’erba, e per tutto. Anche le assi di legno, sai quanto carbone delle assi di legno ho mangiato io per fermare la dissenteria che me le dettero i francesi? Poi dopo un po’ ci mandarono tutti dentro di nuovo. Era successo che lì da noi mangiavano i cadaveri, aprivano la pancia dei cadaveri, pelle e ossa, cos’era più commestibile? Secondo lei cos’è di più commestibile? Secondo lei cos’è? Il fegato. E litigarsi i pezzi di fegato, e poi andarsi a nascondersi sotto i letti a castello che gli altri ti assalivano.

Qualcuno è andato a riferire ai tedeschi…, e avevano paura che venisse la peste. Così portarono via tutto, anche quello. Che brutta…

D: Franco, quando tu parli dell’infermeria di Mauthausen quale intendi, quella dentro nel campo?

R: Quella giù nell’ospedale.

Quel dottore lì mi salvò la vita anche quello, due volte. La prima volta per la selezione degli ammalati mise fuori la chiacchiera che erano tutti ammalati gravi e ci portarono su al campo, dicendo che nel campo avevano fatto un ospedale per i più gravi. Io sono andato nella fila di quel dottore. Quando sono andato là mi ha scartato e mi sono messo a piangere.

Siamo andati in baracca, passò la giornata, alla sera successe che arrivò uno lì e disse: “Sapete chi sono io? Sono quello che è scappato da quel convoglio che oggi hanno fatto”.

“Cosa hanno fatto?” “Hanno mandato tutti alla camera a gas”.

“Non vi presentate più, altrimenti vi gasano tutti”.

Il dottore lo sapeva.

Poi di lì, poiché io ho vissuto in Francia, ho fatto scuole in Francia, parlavo poco l’italiano, ho conosciuto dei francesi lì dentro e ai francesi davano il pacco della Croce Rossa, solo ai francesi. E noi chi eravamo? I figli di nessuno?

E lì era l’ultima fila dove c’erano i cadaveri.

E di lì, ho detto al francese: “Per domani ti danno il pacco, sei fortunato, per domani ti danno il pacco così ti rimetti in carne, ti tiri un po’ su.”

E disse: “Spero che domani ci diano il pacco, di mangiare e stare meglio”.

Dissi: “Te lo auguro”.

La mattina mi alzai e dissi: “Vado a salutare il francese, così faccio amicizia che salta sempre fuori qualcosa”.

Andai là, questo qua aveva già la bava alla bocca.

E pensai: “Oh Dio, questo qua ha già la bava alla bocca”. Le bestialità di un uomo quando è alla disperazione: io scambiai il mio numero di matricola con il suo.

Quando chiamarono lui, presi il pacco io. Mi sono mangiato due scatolette di carne in scatola americana, qualche galletta, la sigaretta e il tabacco le tenevo per fare gli scambi con la minestra. Chi era ammalato di fumo…, io non voglio morire di fumo, volevo morire di mangiare e faceva lo scambio.

Il giorno dopo hanno fatto la spia…, venne l’interprete della SS, in fondo alla baracca, qui disse: “Qualcuno ieri ha ritirato il pacco francese ecc., salti fuori, lo consegni”. Era un furto, lì impiccavano, o in forno crematorio, o gli sparavano in testa.

Allora io zitto, sotto la baracca, di nuovo sotto ai letti castelli, per fortuna che hanno lasciato andare dopo. Hanno visto che nessuno si presentava…, meno male ho detto.

Poi, tutta la notte a stare attento, con dei dolori alla pancia, avevo mangiato la carne dura, mi rotolavo dal dolore, dal male, anche l’egoismo per mangiare…. Fatto sta, a vedere gli altri che mentre mangiavo, quello zoppo moriva dal letto, veniva fuori blocco di sangue, portarli via con tutto sangue, urine e quel po’ di grasso che erano di calorie intorno…

E’ una cosa indescrivibile, pazzesca.

Il giorno dopo dissero: “Da domani tutti i francesi si devono presentare, verrà consegnato un pacco e partiranno per il sanatorio in Svizzera…”. Quando questi due pullman della Croce Rossa erano pieni, partivano e se ne andavano. Al mattino c’erano sempre gli stessi pullman, altri due pullman. Pensavo che veramente andassero là in sanatorio, altri due pullman e così, fin quando sono finiti i francesi. Non si è saputo più nulla. Dissi a questo francese: “Se tu vai a casa, telefona a mio fratello che lui è ufficiale dell’esercito di De Grulle”.

Fatto sta che finisce la guerra, arrivano gli americani, non è che arrivano gli americani, perché era successo, secondo la storia che mi raccontavano loro che come c’è stata la fuga dei russi, che si è saputo di Mauthausen, qualcuno aveva raggiunto, passato il fiume, il Danubio, la zona dei russi. Allora hanno detto: “Là stanno uccidendo sempre, ogni giorno di più”. Tutti quelli che arrivavano dagli altri Lager, là non c’era posto e li hanno tutti gasati, tutti uccisi, chi moriva ghiacciato, morto, al mattino, li avevano uccisi tutti, ma era parecchio tempo che arrivavano dagli altri Lager, Dachau e tutto il resto. Fatto sta che i russi hanno detto agli americani: “Guardate o voi andate avanti o noi non guardiamo più niente, attraversiamo il Danubio e andiamo noi …” Fatto sta che è arrivata una pattuglia americana con due autoblindo, non c’era più un tedesco…, ne hanno beccati parecchi. Sono arrivati lì, hanno tirato giù la svastica… , con le autoblindo, hanno parlato e poi cosa hanno fatto? Hanno armato la gente, i deportati e li hanno messi…

Hanno dato l’ordine che nessuno doveva uscire dal campo fin quando non fosse arrivato il grosso della truppa.

Siamo stati quasi una settimana, perché avevano paura che noi andassimo fuori, ci hanno maltrattato, pestato questi austriaci. Avevano paura che andassimo fuori a fare qualcosa contro il popolo austriaco.

Qualcuno è scappato, fatto sta che di lì sono arrivati gli americani dopo tre giorni, tutta la truppa. E cosa ci davano da mangiare? Latte e verdure per dilatare un po’ lo stomaco.

Ci hanno messo su delle barelle. In quel momento hanno portato una catasta di casse da morto, fatte di quattro assi, ma visto che le casse da morto occupavano molto posto, li buttavano dentro alle fosse comuni.

Poi di lì li hanno portati in ospedale loro, da campo, su una barella, i più gravi e lì tutte le mattine facevano l’ispettorato, guardavano come stavi, e in fondo a questa baracca c’era adibita un’infermeria e tutte le sere mi facevano una puntura di un calmante che avevo dei dolori enormi e vicino a me c’era un italiano, che lui era un partigiano piemontese, uno che ha fatto l’università, sapeva l’americano. E mi raccontò, era gonfio, mi raccontò che lui aveva nascosto dei documenti molto importanti della casa reale, che lo sapeva solo lui, li ha nascosti, murati in montagna, e lo sapeva solo lui. Fatto sta che lui ne parlò con gli americani e quando hanno saputo che documenti erano, gli americani li hanno messi da parte lì e gli hanno fatto il plasma, delle trasfusioni ecc., e niente da fare.

Lui è morto, nessuno ha saputo niente e lui ha detto: “Se mi salvate lo dico, se non mi salvate non dico niente”. Tutto è andato così, è morto. Lì siamo stati lì un bel po’. Ci portarono all’ospedale a fare dei lavaggi, non so se era luglio, in radiologia e lì mi trovarono la TBC bilaterale attiva. Tornai sull’autoambulanza, mi avvicinai ad altri italiani, e dissero: “Tu sei tubercoloso, sei tisico…”, non sapete la paura che avevo di questa malattia, facevo dei chilometri per non andare vicino ad uno quando era stato ammalato.

Mi faceva tanta paura. E dissi: “Non posso tornare a casa”.

I miei, quando sapranno che ho la tubercolosi, che sono tisico, non mi vorranno neanche a casa…

Dicevano: “Non scherzerai mica… con le tecniche nuove, con una puntura di calcio guarisci”.

Così, dai oggi, dai domani, mi hanno convinto.

Di lì mi hanno portato distaccato nelle baracche delle SS dove ci stanno i vari monumenti. Sei stato a Mauthausen? E’ subito dietro al nostro monumento, c’è la baracca delle SS, dove c’è il numero in italiano c’era la cucina americana e tedesca.

Lì, alla baracca delle SS, mi hanno messo in questa baracca, su un castello, tutti erano a bassa quota, non erano sul letto a castello, su un letto normale. Ho pensato: “Cosa ci sarà qui dentro?” Ho aperto, i materassi erano tutti fatti con capelli di donne, dormivi sui capelli delle donne. E ti davano da mangiare scatolette di fagioli…, allora abbiamo reclamato e abbiamo detto: “Come mai voi mangiate uova, mangiate… e a noi date questa porcheria con la febbre…?” Abbiamo reclamato, ma non c’è stato niente da fare. Ci davano quello e dovevamo mangiare quello. I mesi passarono finché un giorno vidi che stavo in piedi a camminare, mi sono alzato piano piano, al secondo portone che ho detto io, in fondo a sinistra c’è una garitta in fondo, per le scale dove c’è il monumento…, c’è un portone, in fondo a sinistra c’è una garitta, lì c’erano i militari americani, che noi eravamo in isolamento, ma non sapevo il perché, dopo si è saputo. Allora ho cominciato a camminare trascinando i piedi e quando sono arrivato vicino a questa garitta che ho girato a destra, c’è ancora il filo spinato largo tre metri… e in mezzo arrotolato così. Sentì che uno mi disse: … “Ma sei proprio tu che sei ridotto così? Cosa fai di là?” “Sono in ospedale risposi”. “Come in ospedale…? Sai che noi partiamo domani mattina? Si è riunita la Commissione medica del Vaticano e ha detto che i primi a partire devono essere gli ammalati”.

“E voi partite e noi rimaniamo qua? E’ una schifezza…”

Allora disse: “Sai cosa fai? Stasera, vieni qua alle sette, che loro quando scambiano stanno dieci minuti e anche di più, a chiacchierare e ridere anche di là e noi prendiamo delle assi di legno, e quando si addormentano tutti, andiamo di qua…”

Allora, piano, piano, presi una coperta, ma era pesante, che se cadevo…, fatto sta che sono arrivato là e gli americani parlavano tra di loro…, sono andati via loro, in quattro e quattro otto abbiamo girato… Siamo andati di là e c’era un rebus quando siamo andati in baracca. Non c’entravo io, ero l’ultimo, non sapevano da dove venivano…. , tutti hanno reclamato. Allora dissero: “Facciamo così, scrivete la vostra data in cui siete stati qui a Mauthausen”. Io ho scritto la data e sono risultato il più vecchio.

Alla mattina siamo partiti, abbiamo lavorato due mesi…, giorno e notte…, morivano anche dopo, abbiamo fatto il saluto a tutti i nostri morti. C’erano delle donne che hanno avuto dei bambini con le SS per salvarsi.

Ci hanno caricato sui carri bestiame.

Idem quando siamo arrivati… su ogni vagone c’era un americano con baionetta in canna.

Tutti questi austriaci prima ci sputavano in faccia, con la bandiera sembra che piangessero, piangevano perché eravamo ancora vivi, questi disgraziati! Vedi il mondo come gira!

Quando il treno è partito, al mattino è partito presto, verso mezzogiorno fermarono il treno vicino a due, tre case contadine e sulla sinistra c’erano dei binari morti dove c’erano dei vagoni letto con della gente dentro.

Lo fermarono lì e c’erano prigionieri politici, militari e civili.

I civili erano ben messi.

Allora questa gente, fermato il treno a mezzogiorno, sparpagliati un po’ qua e un po’ là… Poi c’erano le patate che erano nate così, un campo di patate… Hanno cominciato ad accendere il fuoco, con le patate… , quella disgraziata di contadina là ha cominciato a urlare e quando sono arrivati gli americani hanno detto: “Cosa succede?” E lei ha risposto: “Guardi il campo, uccidono le galline…”

Ha sparato in aria questo americano.

Arrivato sui vagoni, cosa è successo? Vennero dentro due ragazzi tedeschi, austriaci… lì hanno preso questi ragazzi e li ammazzavano. Se non arrivava l’americano ammazzavano, ha cominciato a dare ordine di sparare in aria altrimenti li ammazzavano sul serio.

Da lì, verso sera siamo arrivati in un altro campo, anche lì un campo di concentramento, di lì ci hanno fatto scendere piano, piano e la prima cosa che ho cercato, ho cercato un letto. “Stasera, italiani”, dissero, “facciamo i maccheroni”.

Dopo un po’ che ero lì sdraiato, sentii: “Vieni…” Risposi: “Cosa è successo? Cosa c’è?” “Vieni”, mi dissero.

Allora mi alzai piano piano e quando sono arrivato a metà strada, vidi un gruppo di gente americana. “Cosa è successo?” dissi.

“Ti ricordi quello che ti ha spaccato la schiena? E’ un italiano”.

“Cosa dici?” risposi. “Ha avuto il coraggio di venire con noi. Mi ha aperto le valigie: orologi, collane d’oro… mi hanno ammazzato di botte”.

Sono arrivati gli americani…, ma penso…ha avuto un bel coraggio a venire via con me…. Come faceva questo a sapere che lui mi ha massacrato di botte?

Arrivati a Bolzano, il treno camminava piano piano, la gente a baciare la terra…, arrivati a Bolzano, tutti questi signori con le fotografie dei figli e dicevano: “Questo lo conosci? Lo hai visto?” E’ difficile ricordarsi.

Oltretutto dove lavoravo io…., senza niente, si cambia fisionomia e cambia tutto. E mi hanno dato un uovo con un panino, mia madre mi dava dei soldi…, ho aperto l’uovo e lo mangiavo con il pane.

Poi hanno detto: “Venite, ragazzi che vi diamo dei vestiti civili, venite che buttate via quelli lì”. Dicemmo: “Va bene”.

Mi hanno dato i vestiti civili, sono arrivato lì e mi hanno detto: “Mi dispiace, abbiamo solo una camicia”. Rigata anche quella. “Mi dia pure la camicia” dissi.

Dopo un po’ mi dissero: “Vai all’ospedale”.

Ma io risposi: “Non mi prendono neanche vedendo che io sono tubercolotico”.

“Ma dai”, mi dissero, “cosa dici?”

Dissi:” No, non ci vado”, finché la febbre mi ha convinto e sono andato dentro all’infermeria in ospedale, avevo il pus che mi colava…, avevo tutto sangue marcio. Volevano operarmi. Ma io dissi: “No, mi hanno già operato due volte, quel cane là”.

Fatto sta che in ospedale mi misero in un letto con lenzuola bianche, coperte bianche, dormivo un po’ di qua e un po’ di là…, mi hanno fatto delle punture e dormii tutta la notte. Alla mattina dormivo ancora e sentii: “Quelli di Udine si presentino che stamattina si parte e si va a casa”. Così pian piano mi sono svegliato, mi hanno preso mi hanno portato sulla corriera e siamo partiti.

Dove c’erano dei punti che non erano sicuri, facevano scendere tutti e passava l’autista. Dove si mangiava, nei posti in cui loro avevano già preparato per mangiare, sempre dalle suore o dai preti, mangiavo, ma appena mangiavo mi facevo tutto addosso, non tenevo più.

Avevo talmente la pelle che non tenevo più niente, avevo fatto tutto addosso. Allora mentre andavano a mangiare, io andavo al gabinetto…. “Dai, vieni a mangiare” e io dicevo “No, non ho fame”. Non potevo dire all’autista: “Fermati” a metà strada, per me.

Siamo arrivati a Pordenone e … mi ha convinto a medicarmi. Sono andato con lei, mi ha medicato e tutto, e poi da lì siamo arrivati a Udine alla sera.

Ha avuto un bel cuore di dire: chi vuole andare a casa, lo portiamo a casa.

E lì sono andato alle scuole IV Novembre che erano le scuole apposta per gli ammalati, IV Novembre ad Udine. Lì c’era il dott. De Bellis, con le suore lì dentro. Il dottore mi disse: “Avvisiamo tutte le vostre famiglie”.

Dissi: “Dott. Bellis, mi faccia un piacere, non lo dica a nessuno dei miei”.

“Perché?” mi disse. “Se mi vedono così…, sono pelle e ossa”.

“Va bene”, mi rispose.

Andai a letto, mi medicavano, mi misero una zanzariera contro le mosche per tutto il pus che mi colava giù, finché un giorno un pomeriggio dopo mangiato, sentivo parlare, dopo un po’ sento che uno mi scuote. Dissi: “Cosa c’è?” E’ venuto un signore con il dott. De Bellis, e lui ha detto: “Questo è Cosmar”.

“Ma non è mio figlio questo qui, ho visto mio figlio prima di partire per la Germania, non sarà mica ridotto così. No… Poi, vede che ho la lettera che mio figlio è morto a Mauthausen.”

Poi allargarono la zanzariera e parlava con questo dottore che mi voltava la schiena, parlava con il dottore. Allora mi sono affacciato alla porta e dissi: “Papà”!

Quando si è girato, quel che si è sentito lui non lo so dentro di sé, ma so che non è riuscito a parlare per un bel po’.

Disse: “Sei proprio te?”

Dissi: “Sono proprio io, sono arrivato”.

Di quelli che arrivavano della Croce Rossa Internazionale del Vaticano, gli ammalati arrivavano lì e dopo due o tre giorni morivano tutti. Erano già alla fine, senza avere neanche la soddisfazione di vedere i propri familiari.

E’ quello che mi fa rabbia.

D: Quando sei entrato lì quand’era?

R: Era il 26 o 28 giugno.

D: Del 1945?

R: Sì.

Balboni Ferdinando

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Mi chiamo Balboni Ferdinando, sono nato il 27.5.1923.

D:. Dov’è che sei nato?

R: Sono nato a Castelmaggiore, un paese vicino a Bologna, il 27 maggio 1923. La mia storia possiamo dire che comincia fra la fine di febbraio e i primi di marzo.

Ci fu una chiamata, siccome molti non avevano ricevuto la cartolina tutti quelli nelle classi ’22, ’23, ’24, fino a ’25 e anche ’26 avevano l’obbligo di presentarsi volontariamente.

D: Questa chiamata in che anno è avvenuta?

R: Nel ’44. Io non è che avessi troppa voglia di andarci, allora fui contattato una sera da un certo Giordano Maz, penso che si chiamasse così, è una specie di reclutatore, il quale mi offrì di entrare in una piccola squadra partigiana, roba di principianti.

Io entrai, accettai. Andavamo in giro per le campagne, il nostro ordine era di approvvigionare quelli della montagna. Siccome nella zona dov’ero io c’era un sacco di piccoli proprietari terrieri che facevano il mercato nero. Allora noi, adesso non so se sia giusto dirlo questo, andavamo alla sera.

Prelevavamo quanto ci serviva, però abbiamo sempre lasciato una ricevuta con la quale alla fine della guerra questa gente che aveva dato la roba poteva per lo meno giustificarsi. Non so se siano stati rimborsati o pagati, però per lo meno non sono stati né arrestati né tacciati di collaborazionismo.

Anzi, sono stati apprezzati come collaboratori. Poi venne il periodo della mietitura, allora c’era l’ordine che nessun carico di grano doveva partire. Noi alla notte andavamo a bruciare le macchine, le trebbiatrici con delle molotov, con una bombetta a mano, prima la molotov poi la bombetta a mano.

Ogni tanto abbiamo avuto qualche scontro, perché nei fienili su c’erano le Brigate Nere, allora qualche sparatoria, ecc. Fu in una di queste sparatorie che un mio collega rimase ferito da una scheggia di legno che gli si piantò nel collo. Non avevamo medicinali.

Siccome io nella zona ero quello conosciuto di meno, andai a Minerbio, un paese sempre vicino a Bologna a prendere dei medicinali. Naturalmente i medicinali che presi io insospettirono il farmacista, il quale era un noto fascista. Mi dette tutta la roba, presi bende, ecc.

Anche lì, un po’ ingenuo. Appena fuori fui fermato dalla Todt, da guardiani della Todt. Io avevo una tessera della Todt come documento, mi lasciarono andare. Solo che quel maiale di farmacista andò dentro alla Casa del Fascio, che era lì proprio nella piazzetta dove c’era la farmacia, disse che un tipo sospetto si era presentato e aveva preso dei medicinali.

Allora mi mandarono dietro. Solo che io non me ne accorsi, perché io avevo una bicicletta, allora le chiamavano alla Valencia, cioè col manubrio così, una motocicletta moderna. Se io mi fossi solo voltato, mi bastava accelerare.

Mi stavano seguendo due con quelle biciclette da bersaglieri a ruote piene, non c’era competizione. Invece mi sono arrivati dietro che non me ne sono accorto, mi hanno intimato l’alt.

A quel punto mi ritengo fortunato, perché nei mesi precedenti non sono mai uscito una volta armato, senza due pistole. Avevo due Browny calibro lungo che avevamo prelevato disarmando fascisti e tedeschi.

Per fortuna quel giorno non ce l’avevo, non l’avevo con me, quindi me la cavai, mi arrestarono. Subii un primo interrogatorio, poi mi mandarono alla caserma dei carabinieri, il maresciallo dei carabinieri era un fascista.

D: Scusa, Ferdinando, quando? Ti ricordi il giorno che ti hanno arrestato?

R: Il giorno che mi hanno arrestato deve essere stato il 24 giugno.

D: Del ’44?

R: Del ’44, però non è che io ricordi esattamente, è già passato tanto di quel tempo.

D: Questi due che ti hanno seguito chi erano?

R: Erano due della Brigata Nera, due brigatisti neri. Mi hanno spianato il mitra e mi hanno detto di precederli. Io sono andato davanti e loro dietro.

Ad un certo punto mi è venuto in mente che io avevo una scatola di fiammiferi nel taschino, piegata nella parte sotto c’è una lista d’armi che io dovevo far avere a Castelmaggiore. Ho detto: “Qui sono fatto, sono finito”.

Ad un certo punto si dà il caso che passassimo dove stavano facendo dei lavori, c’era un tombino di fognatura aperto. Io tirai fuori la scatola, dico: “E’ già finita, avete da accendere?”, poi ho buttato via la scatola così dentro lì.

Mi hanno arrestato, mi hanno fatto un primo interrogatorio in cui io ho raccontato una storia alla quale non avrebbe creduto nemmeno Cappuccetto Rosso penso, di getto. Ad un certo punto mi misero dentro in cella.

Poi dice: “Domani ti interroghiamo, domattina ti interroghiamo”. Alla mattina fui portato all’interrogatorio.

D: Questo dove? Ti hanno messo in cella in quale località?

R: A Minerbio sempre.

D: Ti hanno portato lì nella caserma?

R: Mi hanno portato nella caserma, poi dopo un piccolo sommario interrogatorio in cui io gli raccontai una storia tanto per dire qualcosa mi misero in cella. Alla mattina andai all’interrogatorio.

Primo interrogatorio, l’interrogatorio venne su alla casa della GIL, era la caserma delle Brigate Nere. Avevo davanti quattro o cinque persone, io ero seduto su una specie di poltrona da barbiere girevole. Cominciarono ad interrogarmi.

Mi interroga, io racconto questa storia ecc. Ad un certo punto uno: “No, sono tutte balle quelle che stai dicendo, non è vero”. Poi uno schiaffone. “Tu hai detto così e così, invece non è vero”, poi i tre mi giravano, un altro schiaffone.

A turno mi hanno schiaffeggiato tutti, diverse e svariate volte. Dopo però finita lì, sono tornato in cella. Stetti sveglio tutta la notte a cercare di architettare una storia credibile e un po’ mi sembra di esserci riuscito.

La mattina dopo ricominciano, per un’ora li lascio andare avanti sulla vecchia versione con schiaffoni, ecc. Alla fine feci una scena, feci finta di piangere: “No, basta, vi dirò tutto. Sì, la storia che vi ho raccontato non è vera”. “Allora che storia?”. E gli raccontai quella che mi ero costruito.

Lì ho tenuto botta per quattro giorni, sotto le botte non ho mai sbagliato una parola. Non è che io l’avessi scritta, ma ormai me l’ero memorizzata. Allora non avevo la memoria di adesso.

Non dico che furono costretti a crederci, ma dovettero crederci, perché nemmeno sotto gli schiaffoni ecc… Difatti mi avevano ridotto la faccia, sanguinavo un po’ dappertutto, la faccia gonfia. Poi mi misero un giorno in cella.

Mi arriva dentro all’improvviso, sento aprire la cella, mi si presenta un certo Romano Ricci. Era un partigiano, veniva a portarci da mangiare nelle basi dove andavamo delle volte. Per fortuna aveva il carabiniere dietro e non s’accorse che Ricci ebbe un momento così…

Io invece ebbi il sangue freddo di rimanere impassibile. Salutai, poi stavo leggendo un libro e mi rimisi a leggere. Me lo lasciarono lì, io gli feci segno che avrebbero potuto essere in ascolto. Così parlammo un po’ del più e del meno.

Dico: “Se permetti adesso voglio finire questo libro, tanto a te non interessa”. Dopo mezz’ora lo vennero a prendere e lo rimandarono a casa, perché anche lui era un sospetto, però non avevano niente in mano.

In poche parole fui spedito a Bologna, dopo quello mi mandarono a Bologna alla caserma Giulio Bernini. Allora dalla caserma Giulio Bernini avevano estradato i frati, era un vecchio convento, e si erano insediate le Brigate Nere. Gli avevano dato il nome di Giulio Bernini; credo che fosse un eroe loro.

Sono stato lì diversi giorni. Anche lì botte da orbi, non ho sbagliato una parola nemmeno lì. Allora si sono convinti. Nel frattempo c’era stata una fuga a San Giovanni in Monte, nel carcere di San Giovanni in Monte, purtroppo l’avevano fatta troppo presto.

Quando sono arrivato io ci misero dentro una cella. Eravamo in trentacinque dentro una cella, ognuno aveva la sua branda, c’era il passeggio. La cella sarà stata lunga 20, 25 metri, larga 8 o 10, si stava comodi. A parte il fatto che non si mangiava niente, ma si stava comodi.

Lì chiamavano gli interrogatori. Io non fui mai chiamato e sono stato lì. Adesso esattamente non lo so, sarà stato il 14 o il 15 d’agosto che sono andato a San Giovanni in Monte e sono rimasto lì fino al 27 ottobre, il giorno che ci hanno mandato a Bolzano.

Premetto: nella cella dove ero io hanno fucilato un sacco di gente, li tenevano come ostaggi, ma eravamo tutti ostaggi, anche noi. Ammazzavano un fascista, ne prendevano dieci o quindici, li portavano contro al muro lì e li ammazzavano spesso e volentieri, dove c’è il muro del pianto adesso con tutte le fotografie, i tre tabelloni.

Li ammazzavano lì contro, poi li lasciavano lì, il giorno dopo li esponevano, tanto per farli vedere. Io ho subito tre o quattro di queste incursioni dentro, che c’era il famoso Tartarotti, il famigerato Tartarotti. Era credo a Villa Triste, credo che fosse a Milano Villa Triste, so che era una villa dove si compivano un sacco d’orrori e i capi dentro queste villa erano Osvaldo Valenti e la Luisa Ferida.

Hanno raccontato delle cose spaventose di quelli. Sembra che la Luisa Ferida, sembra, non lo so, io non ho visto, si esibisse nuda, che legavano questi ragazzi, lei gli si esibisse nuda davanti, magari anche avvicinandoli a contatto, naturalmente ragazzi giovani, si eccitavano.

Allora delle gran legnate sul sesso, questa è una delle cose. Poi c’era la famosa tortura del fiammifero sotto le unghie. Io fortunatamente non ho mai avuto torture, botte ne ho prese.

Ma sai, le botte si sopportano. A quell’età ti viene un nervoso addosso che le senti dopo magari, ché ti ritrovi con una faccia così. Dov’ero rimasto? Ero rimasto che ero ancora dentro a San Giovanni in Monte e venivano alle cinque della mattina.

Quando il secondino, erano secondini normali, secondini impiegati, venivano a chiamare, cominciavano: “Tizio, Caio, Sempronio, altri fate fagotto”. A quell’orario fare fagotto voleva dire andare contro il muro.

C’erano i vari orari. Alle nove c’era l’orario dell’interrogatorio, alle undici invece se ti chiedevano di fare fagotto venivi scarcerato. Fare fagotto voleva dire racimolare il materasso, tirare su il materasso dalla brandina, il lenzuolo, quello che avevano dato e poi portarlo in magazzino.

Poi da lì o andavi da Tartarotti o andavi all’interrogatorio. No, all’interrogatorio comunque non facevano fagotto, dall’interrogatorio dopo ritornavano. Ho visto diversi, sono stati in cella con me, fucilati. Sono tutti là.

C’è un certo Onofri, Gino Onofri credo che si chiamasse, un signore sulla quarantina d’anni, un certo Musi, che era uno che avevano beccato con del tritolo sulla bicicletta. Anche lì dopo averlo torturato l’avevano buttato contro al muro.

Poi chi c’era? Adesso i nomi purtroppo non me li ricordo più, ma ce n’è diversi che li conosco guardandoli. Poi ad un certo punto verso il 5 ottobre ci fu un grossissimo bombardamento a Bologna, che durò dalle nove di mattina alle cinque del pomeriggio.

Sembrava che preludesse l’entrata degli alleati a Bologna, invece poi non è stato vero. Gli alleati erano ancora lontani. Premetto una cosa ancora, che io ero sotto il Tribunale Speciale di Parma, perché l’unica accusa che mi rimase era il sospetto di essere partigiano e disertore.

Bastava quello in tempo di guerra per cacciarti contro un muro, però non sono mai andato a Parma. Ci caricavano su un camion, eravamo in trentaquattro, trentacinque, eravamo noi un po’ della nostra cella, d’altre celle. C’erano anche, posso parlare chiaramente, c’erano anche tre prostitute di Roma.

Il loro crimine era quello di avere impestato un mezzo reggimento di tedeschi, o qualcosa del genere. Naturalmente, come furono a Bolzano, le rimandarono subito a casa. Ce n’era una con una pancia così, a quella detti l’indirizzo di casa mia e la mandai a casa mia, da mia madre raccomandandole di dare quello che poteva per aiutarla.

Difatti mia madre la tenne in casa diversi giorni, le preparò un piccolo corredino per il bambino. Mia madre era una ricamatrice bravissima. Le dette delle cose, la aiutò. Poi arrivammo a Bolzano.

Però prima di arrivare a Bolzano nei pressi del Po’ fummo attaccati da due Moschitos, quelli a doppia coda, che ispezionavano un po’ la strada. Ci fermammo, c’era il camion e dietro di noi c’era una di quelle jeep tedesche, quelle anfibie con quattro SS sopra coi mitra. Ce n’erano due in cabina.

Ad un certo punto la jeep si fermò e il camion invece non capì, proseguì e ci rimase per venti, trenta secondi tre o quattrocento metri di strada libera. Allora quattro saltarono giù, mi ricordo i nomi. Erano Vittorio Chefeo, Fellicani, Didomizio e un capitano dei bersaglieri ebreo, un certo Ascoli.

Quelli riuscirono a scappare, saltarono giù al volo, gli spararono dietro, ma gli spararono dietro con una Maschinenpistole. Quelli correvano in mezzo alla campagna. Per non perdere capre e cavoli siamo andati avanti così e siamo arrivati a Verona, al castello.

Era il periodo che c’erano De Bono, Ciano. Li avevano fucilati subito prima o subito dopo, adesso non ricordo più. Io so che ci cacciarono in una camerata con della paglia per terra e ci misero a dormire là.

Alla mattina alle quattro ho passato il più grosso spavento della mia vita. Ci svegliano, c’è un prete. Erano le quattro di mattina. Questo prete dice: “Io sono autorizzato per speciale dispensa papale ad assolvervi e a comunicarvi tutti in massa”. Dico: “Qui ci danno l’assoluzione in massa alle quattro del mattino, qui ci fucilano tutti”.

Invece fortunatamente ci caricarono su un camion e arrivammo a Bolzano il giorno dei Santi, non mi ricordo più se l’uno o il due, so che o il giorno dei Santi o il giorno dei morti. Lì appena entrati venimmo classificati, cioè segnati, tutto: nome, cognome. Presi dentro a forza, poi ci mandarono alla tosatura e ci raparono a zero.

Dopo ci presero gli abiti e ci misero sopra dei giacconi. Non avevano lì a Bolzano la divisa a strisce, avevano dei giacconi di iuta, di tela grossa, giaccone e pantalone. Dietro c’era verniciato rosso una specie di bersaglio, di tiro a bersaglio, perché se uno scappava… Non lo so.

Oppure una croce così. Ci lavarono, ci lavammo. Mi meraviglio che ci lasciarono… Io avevo un bel pacco così che mi aveva portato dentro mia madre il giorno prima, dove c’erano dentro tutte le grazie di Dio. Ci assegnano al blocco, credo che fosse il primo, il blocco non lo ricordo esattamente. So che è un blocco.. o F o… No, F no. C’erano le donne, credo fosse il blocco H.

Nel frattempo passa il rancio, uno schifo da far paura, figurati se io mangio questa roba. L’unica cosa in cui non c’era nessuna differenza con i campi veri e propri di sterminio era il mangiare, quello era uguale. Era una tazza di brodaglie con qualcosa dentro, c’era una qualche grana d’orzo.

Io ad un certo punto me ne frego, mi ero scelto un castello in alto, mi prendo fuori una bella cotoletta così e mi metto a mangiare con del pane bianco. Mentre mangiavo ad un certo punto mi sono sentito a disagio, mi sono sentito osservato. Alzo gli occhi, avevo tutto il blocco in piedi sopra che erano lì tutti attorno a guardare.

Allora non ho potuto fare a meno, ho visto uno che sembrava il capo, gli ho dato tutto e ho detto: “Distribuisci un po’ per uno”. Per me avevo da mangiare per tre o quattro giorni, ma per un centinaio che c’era dentro al blocco hanno mangiato un pezzo di roba ciascuno e sono rimasto là, per tre giorni non ho mangiato.

Dopo è diventato buono anche il rancio. Il pezzetto di pane grosso così, pane in cassetta che sarà stato un etto, poco più di un etto, ma non credo che fosse molto di più, sarà stato dodici o quattordici millimetri.

D: Ferdinando, quando ti hanno immatricolato lì a Bolzano?

R: Subito, appena arrivato. Mi hanno dato il numero 5854, achtundfunfzigvierundfunfzig, dico bene?

D: Assieme al numero ti hanno dato qualche altra…

R: Il triangolino rosso. Ce li ho ancora quelli lì. Ce l’ho qui, lo vuoi vedere? Sospendiamo per un attimo.

D: Abbiamo recuperato il triangolo. Quello è il tuo triangolo e il tuo numero?

R: Sì.

D: Di Bolzano?

R: Sì.

D: Il numero qual era?

R: 5854. Ci chiamavano col numero in tedesco, se non rispondevi… Abbiamo fatto presto ad impararlo.

Lì siamo stati fortunati che, a parte gli ultimi che avevano cinque cifre, i 110, qualche cosa del genere sono stati proprio gli ultimi entrati, erano tutti numeri a quattro cifre. Quindi erano abbastanza…

R: Mi ero dimenticato un particolare. Subito all’inizio che ero in questa piccola squadra di partigiani, che avevamo cominciato a fare delle cose, subentrò in squadra un fuoriuscito jugoslavo, un certo Vincon Laker, che poi è tornato in Jugoslavia.

Ha fatto a tempo a congelarsi un piede nell’ultimo inverno, è riuscito a scappare dopo, scappava. Lui non è mica mai stato catturato. Lui era lì con me come un domicilio coatto, era presso una famiglia di fascisti che però facevano il doppio gioco. Quindi lo tenevano lì.

Dopo è venuto in squadra con noi e ci ha insegnato diverse cose, ci siamo fatti un po’ d’esperienza. Tant’è vero che con l’incoscienza dei vent’anni io da niente ero diventato… Abbiamo fatto un paio di cose.

Tu pensa una cosa, siamo entrati io e lo svizzero, mi meraviglio che l’abbia fatto anche lui, in un bar a San Giorgio di Piano che era un covo delle Brigate Nere. Siamo andati. Mentre eravamo dentro arriva un camion. C’era stato un rastrellamento ad Argelato, un paese lì vicino.

Tutti questi fascisti: “Sì, perché qua, perché là”. Io ebbi la presenza di spirito, come entrarono nel bar gli andai incontro, dico loro: “Quei figli di puttana li avete ammazzati?”. Allora loro mi guardarono: “No”, dicono, “qualcuno sarà, perché abbiamo sparato attraverso la canapa, ma tanto non possono mica scappare. Sono là”.

Dico: “Dio bono, avete fatto bene. Dovete ammazzarli tutti quelli che ci stanno rovinando, potremmo vivere tranquillamente. Posso offrirvi da bere?”. Gli abbiamo offerto il caffè. Saranno stati ventiquattro o venticinque caffè.

Avevamo i soldi, ne avevamo. Gli abbiamo offerto i caffè: “Allora ragazzi, arrivederci”. “Grazie del caffè”, “Mi raccomando, se ne trovate ammazzateli tutti”. Poi dico: “In culo”. Avevo voglia di voltarmi. Me lo tirerete via questo suppongo.

A parte quell’episodio, adesso riprendiamo. Dove eravamo rimasti?

D: A Bolzano.

R: A Bolzano.

D: Che dopo il primo giorno che sei arrivato, che hai mangiato…

R: Sì, tutte quelle cose. Il secondo giorno passò senza niente lì in campo: appello alla mattina, appello al pomeriggio, appello alla sera. Dopo quattro o cinque giorni cominciammo a sentire, Radio Scarpa fa presto a camminare, si cominciava a sentire, noi non sapevamo niente di Mauthausen, non sapevamo nemmeno cosa fosse Mauthausen.

Si cominciava a sentire che andavano a Mauthausen, a Dachau, Buchenwald. Parlavano che li spedivano e ogni quindici giorni circa vuotavano il campo, all’infuori di quelli che erano di servizio fissi lì, vuotavano il campo.

Noi eravamo quattro o cinque giorni che eravamo lì. A un certo punto la mattina dopo è stato il colpo di fortuna. La mattina dopo all’appello c’erano tutti e due, il maresciallo Haage e il comandante Titho, con l’interprete, il quale interprete ci dice: “Chi è meccanico specializzato venga fuori”.

Io ho pensato: “Io di meccanica me ne intendo”, facevo il disegnatore tecnico. Dico: “L’incognita quale sarà? Se ci chiamano qui penso che hanno l’idea di mandarci a lavorare. Io vado fuori”. Cercai di tirare fuori qualcun altro, tirai fuori un avvocato di Bologna, l’avvocato Mocai. Tirai fuori uno studente in medicina del meridione, tirai fuori due braccianti che non sapevano nemmeno cosa fosse la parola meccanico. Tirai fuori altre due persone, andammo fuori in sette. Eravamo in trentacinque, vent’otto rimasero lì.

Dopo tre o quattro giorni quei vent’otto sono andati via, ne sono tornati due. Un certo professor Forni, che non so, poveretto, come sia andato a finire, perché io l’ho visto a casa e sembrava uno di ottant’anni, non aveva ancora quarant’anni. Era un professore di matematica dell’università di Bologna. Sono tornati in due, quell’altro non mi ricordo chi fosse. Poi siamo partiti, ci hanno caricato su un camion e ci hanno portato alla galleria del Virgolo. La stavano ultimando perché doveva venire su una fabbrica di cuscinetti da Ferrara.

Solo che non avevano operai, perché avevano tagliato la corda gli operai, allora si sono trovati che a Bolzano non c’erano operai, perché c’era la Falck., la Viberti e altre due che adesso non ricordo più come si chiamano, che lavoravano a pieno ritmo. Quindi non c’era un operaio libero, allora li vennero a cercare al campo. Andammo fuori in tutto fra tutto il campo un 170, 180 persone. Il primo mese o quasi due abbiamo lavorato a picco e pala, cioè piccone e badile, perché abbiamo depositato all’interno della galleria i binari perché entrassero col materiale, con le macchine che pesavano delle tonnellate.

Poi a un certo punto verso gennaio, primi di gennaio, cominciarono ad arrivare le macchine e fecero le squadre. Erano venuti su alcuni capisquadra da Ferrara, gli dettero una parte. Io fui assegnato al collaudo volante. Avevo sette, otto macchine da guardare con dei calibri.

Dovevo controllare queste macchine a diverse grandezze, a diversi diametri. Facevano le gole dei cuscinetti, le gole interne ed esterne, tutto. Io avevo dei misurini chiamati calibri, dovevo ogni tanto controllare la centratura di questo incavo. Nell’Isarco se vanno a guardare sotto c’è una miniera di ferro lì sotto o d’acciaio.

I tedeschi non capiscono niente da quel lato. C’era solo il pericolo di due capi torinesi, uno si chiamava Nicolini e l’altro Prelle. Il signor Prelle era una brava persona, abbastanza. Nicolini era un fascista fetente, ma di quelli fetenti, ma super fetenti.

Il quale s’accorse che io e altri due o tre sabotavamo le macchine un po’. Allora dice: “Io debbo dirlo perché sennò…”. Dico: “Signor Nicolini, si ricordi una cosa. Il suo nome è già segnalato fuori a chi di dovere, quindi le garantisco una cosa, che se Lei ci denuncia noi andiamo a finire contro al muro, ma a casa Lei non ci torna. Quello glielo garantisco io”.

Fatto sta che Nicolini si è tenuto per sé quello che sapeva. Arrivammo verso la fine. Dopo si cominciava a stare… Sai com’è, uno comincia ad organizzarsi un po’. Cominciò a saltare fuori il pezzettino del pane.

Io adesso ho un particolare, glielo dico però non l’ho detto per televisione. Praticamente un giorno io stavo dentro uno sgabuzzino, avevo una specie di sgabuzzino, stavo disegnando. Disegnavo una donnina nuda, ero abbastanza bravo a disegnare. A un certo punto mi trovo il caporale tedesco dietro la schiena che mi stava guardando.

Ho detto: “Adesso qui sono botte”. “Gut, gut”. Mi deconcentra, per me deve avere fretta di andare via. “Tu fare cose per me, qua e là”. Allora io andai un po’ oltre, gli feci un disegnino pornografico. Andò al settimo cielo. Da quel momento cominciò a portarmi un pezzo di pane, qualche sigaretta.

Allora io mi misi a lavorare, Tinto Brass è roba da ridere. Mi misi a fare questi disegnini, tutto è permesso ad un certo punto. Solo che ad un certo punto mi sono preso la più grossa legnata della mia vita.

Una mattina ci alziamo, erano le sei del mattino, cinque e mezzo. Cominciavamo il turno alle sei. Io in genere tenevo un pezzettino di pane, alla mattina ci davano un bicchierino così di caffè, acqua calda. Però era caldo, un po’ dolce.

Solo che quella mattina non c’era più niente. C’era l’ordine del giorno con tutti gli orari. Per esempio nell’ordine del giorno c’era: burro e la fetta di salame, mai visti, mai, proprio mai visti. Strappo via l’ordine del giorno. Dopo cinque minuti arriva Panciolini, lo chiamavamo Panciolini, un caporale della SS che era cattivo, ma cattivo cattivo.

Comincia ad urlare, chiama l’interprete. “Chi è che è stato a fare questo?”. Tutti zitti. “Chi è che è stato?”. Ad un certo punto dice: “Va bene, io adesso…”. L’interprete disse, io parlo, faccio finta di essere il tedesco: “Vi conto, faccio la decimazione, cioè vi conto, ogni dieci ne tiro fuori uno e viene punito”.

Io non ero sicuro che nessuno mi avesse visto strappare il foglio. Dico: “Qui se mi hanno visto va a finire che ci faccio una figura di merda, meglio prendere qualche botta”. Alzo la mano e vado fuori. Mi sono preso… Io non le ho contate, ma mi hanno detto che sono state vicino alla trentina, con il Gummi.

Era un attrezzo d’alluminio con la copertura di gomma. La prima mi ha spaccato il sopracciglio qui, la seconda mi è arrivata nel naso, poi ho cominciato a coprirmi. Tutte le altre me le hanno date da qui.

Mi sono lasciato andare in ginocchio, non sono svenuto perché avevo una tensione. Mi hanno ridotto per qualche giorno… Ha presente Quasimodo? Ero gonfio da qui fino a metà schiena. Un collo che era così.

Poi pian pianino… E tutto sommato ci guadagnai, perché mentre ero a letto, nel frattempo premetto che avevano aperto anche alle donne la galleria, c’erano arrivate altre 120 donne, c’erano arrivate altre macchine. Era tutta roba automatica, era abbastanza facile da fare.

Premetto quello, che arrivavano. Allora le donne di là lo sapevano, c’era la guardiola fra gli uomini e le donne, la guardiola con due SS, però le lasciavano. Per una decina di giorni le donne mi hanno portato tutte qualcosa da mangiare.

D: Ferdinando, quest’episodio si svolgeva nella galleria del Virgolo o nel campo?

R: No, nella caserma.

D: Vicino alla galleria?

R: Sì. C’è una caserma tuttora che esiste. Difatti quando mi avete fatto l’intervista eravamo circa in quella posizione. Dalla galleria del Virgolo avanti duecento metri sulla sinistra allora c’era una caserma.

Ci deve essere ancora, io l’ho vista, l’ho fotografata. Le ho a casa, solo che non le ho trovate. Volevo prenderle, ho a casa le fotografie. C’è ancora sulla galleria del Virgolo, c’è ancora l’aquila del Littorio.

Com’è che non la fate levare via?

D: Tu quando sei uscito dal campo, siete stati alloggiati in questa caserma?

R: In questa caserma quando siamo usciti, perché andare dal campo a lì era troppo lontano. Dal posto dove era il campo…

D: Via Aresia.

R: Da Via Aresia a lì facevano prima. Ci andavamo a piedi e in un minuto eravamo dentro. Quindi eravamo lì. Io sono stato picchiato lì, nella guardiola.

Però, come le ho detto, ci ho guadagnato, perché almeno ho mangiato qualcosa di più.

D: Anche lì al Virgolo c’erano i Kapò, c’erano dei capi?

R: No, al Virgolo non c’era nessun Kapò.

D: Nella caserma?

R: Nella caserma nemmeno, non credo. C’era il comandante del campo che seguiva, ma io non mi ricordo che ci fossero dei Kapò.

D: Ferdinando, tu sei rimasto lì fino a quando?

R: Fino al 30 aprile. Sono andato fuori il 30.

D: Cos’è successo in quei giorni?

R: In quei giorni si cominciava già ad avere il sentore che stava per finire. Noi ci siamo preparati. Ad un certo punto da fuori sono riusciti a mandarci dentro un mitra, l’abbiamo nascosto. Era nascosto sotto un letto.

Se per caso facevano degli scherzi… Invece non ci fu bisogno di niente. Ci caricarono, ci portarono tranquillamente al campo, ripassammo per la reception, ci dettero questo documento e poi a quel punto liberi.

D: Cioè, cos’è successo?

R: Come cos’è successo?

D: Liberi cosa vuol dire? Sei uscito dal campo?

R: Sono uscito dal campo lì a Bolzano. Poi a Bolzano i partigiani hanno attaccato i tedeschi sbagliando il momento, sbagliando tutto, poveretti. Anche loro non è che avessero una gran pratica di guerriglia.

Io ho visto un ragazzino dentro una porta con un mitra, sparava a mortaio col mitra, puoi ben immaginare se il mitra è efficace, a venti, trenta metri al massimo. Dopo non fa più niente. Lui sparava così.

A un certo punto i tedeschi si stancarono, li circondarono, li presero tutti, li schiaffarono dentro ad un cortile e poi li dettero in mano agli americani quando arrivarono.

Per me c’erano già stati dei contatti, perché quando tornammo indietro, non so se era a Ora, quei posti lì, c’erano già che facevano i vigili soldati tedeschi con la piastra qui. Non erano armati, però facevano i vigili.

D: Tu quando sei arrivato a casa?

R: Io sono arrivato a casa dopo sei giorni, me la sono presa comoda. Primo episodio, appena uscito dal campo, una signora di Bologna ci ha sentito parlare bolognese, una che abitava a Bolzano. Ci ha invitato a casa, ci ha fatto le tagliatelle.

Quattro o cinque forchettate, poi non andavano più giù. Lo stomachino si era ridotto. Dopo ci incamminammo, Mocai aveva uno zio facoltoso che aveva una villa a Riva del Garda. Allora siamo arrivati a Riva del Garda.

Ci siamo installati un paio di giorni a casa dallo zio facoltoso. Dopo siamo venuti via e siamo passati da Verona, eravamo in contatto col dottor Betti, che era uno dei capi, era il farmacista di Piazza delle Erbe. C’era la farmacia in Piazza delle Erbe.

Appena uscito erano già venuti a prenderlo, l’hanno portato a casa. Lui a sua volta ci ha portato a casa sua in campagna e ci siamo fermati altri due giorni lì. Lo stomaco cominciava già ad essere più ricettivo.