Faronato Gianni

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Gianni Faronato. Sono nato a Feltre il 26 dicembre 1927. Abito da sempre a Feltre e sono stato internato nel campo di concentramento di Bolzano. Il 3 ottobre 1944 le SS tedesche facevano delle azioni di rappresaglia nei confronti dei partigiani attorno a tutte le montagne feltrine. Le montagne feltrine in provincia di Belluno erano brulicanti di partigiani. Le SS hanno cominciato a rastrellare Bassano, impiccando 40 partigiani. Sono saliti sul Monte Grappa, sono discesi dall’altra parte, dalle parti di Seren del Grappa, di Porcen e hanno bruciato Porcen e anche Seren. Poi hanno distrutto tutte le casère che sono in cima al Monte Tomatico e lungo il Monte Tomatico e sono scesi a Feltre.
Il 3 ottobre un grande rastrellamento: 2.000 persone vengono rastrellate e portate nell’allora Metallurgica Feltrina. È una fabbrica di manufatti di alluminio.
Fra queste persone c’era il vescovo, c’erano i sacerdoti delle città, c’erano i frati, c’erano tutte le personalità di Feltre e dopo che, assieme ai fascisti, avevano individuato quelli che potevano essere i rappresentanti dei partigiani e i loro collaboratori, hanno rinchiuso 150 persone nel Cinema Italia di Feltre. Là c’erano le SS sul palco che ci hanno interrogati tutti quanti. C’era anche un nostro amico, un certo Scarton che poi è stato ucciso dai partigiani, che ci conosceva perché eravamo diversi amici.

D: Gianni, tu sei stato arrestato dove?

R: Io sono arrestato a Feltre perché hanno circondato Feltre, i tedeschi hanno circondato Feltre e hanno bloccato tutte le tre o quattro uscite che c’erano. Avevano dei fucili mitragliatori: pancia a terra e là ci hanno fermato e ci hanno condotto prima nella caserma degli Alpini a Feltre e poi nel recinto della Metallurgica assieme ai 2.000 che dicevo prima. Ci hanno portato poi al Cinema Italia e là ci hanno interrogato. C’era, come dicevo, questo mio amico Scarton, il quale mi ha chiesto cosa facevo là. Non so, mi hanno rastrellato, mi hanno fermato qua. Disse: penso io a liberarti.
Sennonché lui invece probabilmente ci ha fatto la denuncia e ha detto che noi eravamo staffette partigiane. Allora io avevo 16 anni appena fatti. Voi potete immaginare cosa ha provato un ragazzo a quell’età ad essere messo là in mezzo a tedeschi, a fascisti, a repubblichini e poi portato in campo di concentramento di Bolzano. Siamo stati là al Cinema Italia una notte, poi il giorno successivo ci hanno portato a Bolzano. Ci hanno fatto fermare prima a Grigno e poi ci hanno messo in un carro bestiame e ci hanno mandato a Bolzano.

D: Dal cinema, cioè da Feltre per arrivare a Bolzano, dicevi, vi hanno portato come?

R: Nei camion. C’erano dei camion. Non eravamo ammanettati ed eravamo tutti quanti stipati su due camion, 150 eravamo come le salsicce messe là. Ci hanno portato prima a Grigno e ci hanno fermato là una notte, poi il giorno successivo ci hanno messo su tre carri bestiame e ci hanno condotto a Bolzano.

D: Scusami Gianni, qui a Feltre tu non sei mai stato interrogato?

R: No, personalmente no. Sono stato interrogato solo a Bolzano, quando sono arrivato là che mi hanno chiesto cosa avevo fatto e cosa non avevo fatto. Io ho detto: non ho fatto niente. Qua a noi risulta che la denuncia che è stata fatta a Feltre era che tu eri una staffetta partigiana e collaboratore con i partigiani.

D: Questo interrogatorio che ti hanno fatto a Bolzano dove te l’hanno fatto?

R: Proprio all’interno del campo di concentramento, quando sono arrivato. Siamo arrivati alla sera del 6 ottobre a Bolzano, siamo scesi dai vagoni che erano piombati e c’erano tutte le SS pancia a terra attorno alla stazione di Bolzano con le luci abbrunate perché eravamo in periodo di coprifuoco, periodo di guerra, ci hanno messo su ancora sui camion e ci hanno portato dentro nel campo di concentramento di Bolzano.

D: Gianni, come ricordi il tuo ingresso nel campo di Bolzano?

R: È stato il primo impatto, ma un impatto, era buio anche là, c’erano anche là i lampioni tutti abbrunati e siamo entrati dentro su una porticina che quasi quasi non ci si passava neanche. Siamo entrati dentro e abbiamo visto tutti questi letti a castello, tutte queste brande a castello in legno che erano come tanti alveari e io sono entrato dentro e non sapevo neanche dove ero arrivato. Noi non sapevamo neanche dove ci avrebbero portato. Dall’altra parte del blocco io avevo visto fuori blocco D, avevo letto blocco D. Sono entrato dentro assieme a tutti quanti gli altri miei amici, ci siamo osservati tutto attorno e sono spuntate dalle altre parti del blocco perché il blocco era diviso con delle pareti in mattoni alte, dal blocco sono spuntate delle facce macilente, pelate, striminzite, con delle tute strane. Ma dico: ma dov’è che siamo qua? Dice: siamo in campo di concentramento di Bolzano. Ma dico: voi altri con quella faccia da … avete fame? Sì – dice – abbiamo fame e qua non si mangia niente, avremmo bisogno di mangiare.
Allora io avevo un sacco che ci avevano mandato su delle mele e del pane, un sacco da montagna pieno, l’ho rimandato su ai miei amici, i quali se lo sono preso e se lo sono mangiato e hanno restituito il sacco. Poi mi sarei morso le dita qualche giorno dopo, quando finalmente la fame è stata veramente grande. Voi pensate all’età di 16 anni, ragazzino venuto fuori dal collegio, non sapevo neanche come gestirmi, trovarmi là in mezzo a tutta questa bolgia che non si capiva neanche cos’era. Mi si lascia su questi alveari e con dei materassi di trucioli, con una coperta, due coperte, poi il giorno dopo ci hanno portato dentro, ci hanno rasato i capelli, ci hanno dato una tuta con una croce, con un triangolo rosso. Prima era rosa, ma devono aver sbagliato perché successivamente poi doveva essere il triangolo rosso. Io avevo il 4.927, il triangolo rosa significa che eravamo rastrellati.
Poi dal 5.000 in su hanno messo il triangolo rosso, quindi probabilmente eravamo tutti politici e hanno sbagliato a metterci il triangolo. Hanno sbagliato anche la numerazione e hanno sbagliato probabilmente anche a metterci il triangolo rosa anziché rosso.

D: Scusa Gianni, qualche tuo amico che è rimasto con te, i feltrini che sono partiti con te, ti ricordi qualche nome?

R: Sì, ce ne sono tanti. Alcuni sono anche morti. Il Dall’Olio intanto prima di tutto oltre ai miei amici che poi descriverò, il Dall’Olio che ci ha lasciato il bellissimo diario che lui ha aveva fatto del campo di concentramento da cui noi feltrini abbiamo ricavato un libro che abbiamo provveduto poi, con i 10 milioni del ricavato di fare cinque premi annuali di due milioni ciascuno da assegnare ai ragazzi delle scuole medie superiori. Questo è il quinto anno che noi assegniamo il premio con grande soddisfazione per tutti. Quindi Gino Dall’Olio in primis, poi Felice Bellumat, che era il nostro capogruppo dopo lo scioglimento del campo, che è deceduto. Poi Vittorino Bellumat, Sergio Samiolo, il cavalier Tombari, che era il segretario dell’ospedale, il direttore sanitario dell’ospedale di Feltre generale Emilio Gaggia e tanti altri.

D: Anche delle donne feltrine?

R: Anche delle donne feltrine. La Ghita Repici che è deceduta, la Liliana Zadra che è vivente, la Lina Di Palma che è vivente, Lelia Barbante che è stata con me quando ci hanno trasferito nel campo satellite di Colle Isarco, è stata con me amica carissima che è già morta.

D: Gianni, cosa ti ricordi tu del campo di Bolzano?

R: Sono anche sciocchezze, ma in mezzo al nostro blocco c’era un grande vaso che si chiamava bugliolo, era il bugliolo. Allora noi altri andavamo là la sera quando ci richiudevano verso le sette, ci chiudevano dentro e tutti dovevamo accomodarci là perché il gabinetto non c’era. Allora eravamo in tanti, eravamo in 140 dentro, 114 noi feltrini e altri che poi si sono aggiunti. Dovevamo tutti ad accomodarci là. Quindi ad un certa ora della notte il vaso strafondava, veniva fuori e là si camminava in mezzo alla melma. La mattina portarlo fuori, pulirlo.
Altra brutta cosa che io ricordo, oltre alla fame, il freddo. Il freddo di Bolzano proprio a ottobre che è cominciato e l’adunata alle sei di mattina a farci la conta e là durava magari un’ora, un’ora e mezza e non contavano mai abbastanza, non eravamo mai a posto abbastanza. Non si sapeva quanti eravamo. Loro non sapevano quanti eravamo e ci facevano il bel giochetto che lo portano anche per farci divertire un attimino. I cappelli su e i cappelli giù, che riportano anche in diversi libri, anche Primo Levi lo dice, anche altri autori. Dovevamo tutti, al comando “cappelli su”, mettersi il cappello in testa, quelli che avevamo, e “capelli giù” sbatterlo sulla mano sinistra facendo un grande rumore. Ma siccome il rumore andava a spezzettarsi, non erano mai contenti. Doveva essere un colpo unico solo che non riusciva mai perché eravamo in 2.000 là a fare questa benedetta adunata e finché il colpo non era proprio massiccio, forte, robusto, lo lasciavano là. Una grande umiliazione perché rapati a zero, freddo, un’unica tuta, 15 gradi con una piccola maglietta sotto e una tuta sopra, gli zoccoli, erano cose da impazzire.

D: Oltre alle donne feltrine che vi hanno seguito lì nel campo di Bolzano, hai visto se nel campo c’erano altre donne deportate?

R: Sì, perché noi, col blocco D, eravamo vicino al blocco E e quindi salendo su, c’era un reticolato, noi potevamo vedere di là e c’era, per esempio, il signor Citton che aveva la moglie dall’altra parte e c’erano anche altre persone che avevano la moglie dall’altra parte, adesso non ricordo i nomi, ma ricordo il Citton e comunicavano, buttavano là i vestiti, loro li rammendavano e li cucivano e poi li rimandavano di qua perché non ci si poteva vedere altro che qualche minuto al giorno.

D: Tu avevi 16 anni, c’erano dei deportati più giovani di te, li hai visti, dei ragazzini?

R: No, questi non li ho visti perché noi del blocco D eravamo proprio tutti quanti assieme e alla mattina, quando alle sette si usciva per andare al Virgolo, perché si andava a lavorare al Virgolo, si ritornava la sera alle cinque, era difficile vederli. Non era possibile comunicare da blocco a blocco.

D: E dei religiosi, hai trovato dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Sì, s’era un sacerdote che diceva la messa, non ricordo più il nome e alla domenica diceva la messa ma non è che alla domenica si stesse là a riposare. Tutt’altro, si lavorava, si facevano le pulizie al campo, si andava per i vari blocchi, per esempio, quando c’erano deportazioni, allora il blocco rimaneva vuoto ed era da pulire. Si andava là a pulire il blocco si ritornava. Oppure si andava alla Wehrmacht a lavorare sulla caserma delle truppe, si andava a fare dei lavori là. Si andava al Virgolo, quando bombardavano si portavano i sveller (traversine), le scine (rotaie pesanti), i binari da una parte all’altra e si aggiustava.

D: La messa al campo dov’è che veniva fatta, te lo ricordi?

R: Veniva fatta al centro del campo. Poi ricordo anche un’altra cosa ma questa l’ho sentita perché io ero già a Colle Isarco allora che è venuto il nostro vescovo, monsignor Bortignon, è venuto a celebrare la Messa il giorno prima di Pasqua, il giovedì di Pasqua ed è stata una cosa meravigliosa mi hanno detto là, tutti commossi, tutti che piangevano, perché lui ha ricordato, ha detto: guardate che la Liberazione sarà vicina, ha fatto capire a quelli che erano là che dovevano avere la fiducia perché le cose volgevano al meglio, insomma.

D: Tu accennavi che andavi a lavorare al Virgolo, come è che sei stato scelto per andare a lavorare al Virgolo?

R: Ogni tanto sceglievano, c’era il capoblocco che era Musy, era un capitano dei Carabinieri, era lui che destinava quelli che andavano da una parte o dall’altra, secondo i lavori, i più giovani li destinava ai lavori più pesanti, gli anziani cercava di metterli a loro agio magari con le pulizie, scopare al campo, liberare qualcosa, fare qualcosa insomma, ma i più giovani, quelli che secondo lui erano i più robusti, li mandava o alla cava o al Virgolo o lungo la ferrovia a fare dei lavori.

D: Dal campo al Virgolo come andavate?

R: Andavamo in camion, allora là quando si tornava, si aveva una fortuna immensa perché al Virgolo venivano le signore dell’Azione Cattolica e della San Vincenzo, ci portavano la minestra, ogni tanto ci portavano qualche gavetta di spezzatino e si mangiava così. Mi ricordo con tanta commozione il casellante della ferrovia da Bolzano a Merano che a un certo punto abbassava le sbarre e costringeva i tedeschi, le SS, a fermarsi per cui ci dava casse di mela, casse di frutta, in qualche maniera ci riforniva di qualcosa che poteva darci quasi tutte le sere.

D: Al Virgolo tu cosa facevi?

R: Io ero addetto ai carrelli, andavo dentro con il carrello, mi caricavano la roba, io col carrello andavo fuori, lo scaricavo e poi ritornavo dentro. Quello era il mio lavoro, in più aiutavo a caricare il carrello e a scaricare il carrello.

D: Questo durante il giorno, la notte non lavoravate al Virgolo?

R: No, no nel mio ricordo no, alla sera alle ore cinque si rientrava al campo ed alle sette eravamo tutti quanti rinchiusi nel blocco.

D: Dentro nel Virgolo, nella galleria del Virgolo c’erano anche dei civili che lavoravano?

R: Non ricordo. Non so perché il mio compito era quello e cercavo di dare il meno possibile all’occhio, cercavo di tergiversare per non farmi notare, per non avere possibilmente grane.

D: Nel periodo in cui tu sei rimasto al Virgolo, ci sono stati dei bombardamenti al Virgolo?

R: Che io ricordi no. Io non sono stato là tanto perché a metà novembre circa, allora hanno fatto una selezione, io avevo una paura maledetta di andare a finire a Mauthausen, o di andare oltre il Brennero invece mi hanno mandato a Colle Isarco che è a otto chilometri dal Brennero, era il comando delle SS tedesco, da Verona avevano trasferito il comando a Colle Isarco e là io avevo il compito di curare i maiali, allora là qualcosa si mangiava sempre perché i tedeschi buttavano via e noialtri si tirava fuori quello che era possibile tirare fuori dalla pattumiera dei maiali e si cercava di mangiare, poi facevo il fuochista, c’erano due, un certo Toller ed un certo Cantaller che erano i fuochisti, conduttori delle caldaie, io facevo il fuochista, alimentavo le caldaie con il carbone, tanto è vero che negli ultimi tempi abbiamo bruciato nelle caldaie un sacco di documenti che pervenivano dai Comandi delle SS di Verona con tutti i documenti delle persone schedate in Italia, ebrei, per due giorni e due notti abbiamo continuato a bruciare documenti. C’erano una ventina di casse di documenti che noi abbiamo bruciato con fotografie, con domande da parte degli ebrei, con politici che chiedevano di essere reintegrati nei propri posti di lavoro, io ho letto qualche documento, le istanze che facevano per poter essere scagionati dalle accuse che le SS facevano loro.

D: Gianni, da Bolzano quando ti hanno trasferito a Colle Isarco, in quanti siete stati portati su?

R: Siamo stati portati su in 15, eravamo circa una diecina feltrini e altri cinque che erano stati racimolati qua e là, ci hanno messo su un camion a rimorchio, hanno caricato mele da Bolzano e farina, vettovaglie varie e ci hanno portato su tanto è vero che siamo arrivati alla sera alle ore otto ed ho sentito una voce quando siamo arrivati che ha detto: io sono solo italiano e qua gli altri sono tutti tedeschi, orco cane, dico qua siamo arrivati in Germania, mi hanno detto: no, non siamo ancora in Germania, siamo a otto chilometri dal Brennero e siamo in Italia, scortati sempre giorno e notte facevamo tutti i lavori di manutenzione, di facchinaggio, andavamo a caricare carbone in ferrovia, lo scaricavamo su per poi alimentare le caldaie, come dicevo io facevo il guardiano di porci, ma anche facchinaggio, le ragazze invece erano destinate nei due hotel Gröbner e Palace alle pulizie, ai lavori nelle camere degli ufficiali tedeschi, del personale delle ex SS che erano là.

D: Gianni, come era il campo, la struttura del campo?

R: Eravamo messi in una cantina, guardati giorno e notte da due SS che si alternavano al comando giorno e notte, erano in tre, quattro, cinque, sei che si davano il turno e noi eravamo sempre scortati, andavamo avanti e indietro scortati dove si doveva andare, eravamo messi nelle cantine del Gröbner Hotel prima e del Palace Hotel poi.

D: Quindi avevano requisito questi hotel?

R: Avevano requisito questi due hotel e al Gröbner avevano fatto il Comando delle SS, invece al Palace Hotel avevano tutte le loro camere e tutti i loro alloggiamenti.

D: Lì sei rimasto fino a quando?

R: Fino al tre ottobre. Scusa: dal 3 ottobre al 3 maggio (1945), il giorno 3 maggio abbiamo requisito una macchina, loro erano già in disarmo e siamo scappati con la paura che ci venissero a prendere perché la macchina era stata rubata per cui avevamo paura. Ci siamo fermati a Bressanone e là ci hanno detto: dove andate? Ho risposto: siamo diretti a Bolzano perché siamo stati internati là e torniamo al campo di Bolzano. A Bolzano ci hanno chiesto dove si va, abbiamo detto: a Trento. A Trento abbiamo trovato i partigiani, non ci volevano far passare, allora uno dei nostri che era stato rastrellato sul Grappa e che era un marinaio, era una faccia di quelle… ha tirato fuori una pistola: a me che sono stato partigiano sul Grappa, che sono stato rastrellato e che ho fatto sette mesi di campo di concentramento non mi lasciate passare, vi tiro giù tutti quanti, dice. Ci hanno fatto passare, però a rischio e pericolo nostro. Non vi preoccupate, ha detto. Siamo passati e a Borgo Valsugana abbiamo trovato gli americani che ci hanno scortato fino a Feltre.
Quando ho visto la mia Feltre non le dico la commozione di trovare i miei, di vedere finalmente che avevamo portato la pelle a casa.

D: Gianni scusa. Dicevi il 3 maggio.

R: Sì.

D: Ma cos’è successo il 3 maggio, sono scappati tutti?

R: Si sono dileguati. Il 25 (aprile 1945) abbiamo sentito casualmente la notizia che era stato fatto l’armistizio e si vedeva un po’ di tramestio fra tutte le SS che andavano e non si capiva cosa facevano, cosa non facevano. Allora abbiamo pensato di scappare in qualche maniera. Se cerchiamo di eludere la vigilanza, scappiamo, ma erano sempre alle costole sti benedetti tedeschi. Alla notte del 2 maggio ci siamo trovati senza più nessuno, allora ci siamo guardati a destra e a sinistra e abbiamo visto che stavano caricando delle macchine, stavano caricando delle cose, stavano scappando. C’erano due autisti, c’erano Barioli e anche Masocco, dicono: qua noi abbiamo il camioncino, montate su che si parte e siamo partiti.
Per quanto riguarda un altro episodio molto importante che vale la pena di essere raccontato. Un mese prima circa ci hanno chiamato, io e Sergio Dalla Rosa e ci hanno detto di andar dentro in un salone del Palace Hotel. Era meraviglioso, era un quattro piani con camere splendide. Ci hanno fatto fare pulizia di casse che erano là. Dentro erano contenuti tutti i soldi, le valute, gli ori, i gioielli che provenivano dal Monte dei Paschi di Siena. Io ho visto coi miei occhi quattro lingotti da 25 chili di platino. Li avevo messi dentro una cassa quattro lingotti, poi c’erano piatti in argento, anelli, braccialetti, era tutta la refurtiva del Monte dei Paschi di Siena. Li abbiamo messi dentro due casse, loro le hanno inchiodate, hanno portato via due forme di formaggio grana che erano là, sacchi di farina e altri alimenti. Li hanno messi su un camion e se li sono portati via.
A noi come premio ci hanno dato mille Lire francesi allora e a me hanno regalato una perla che era rimasta fuori dalle buste, perché abbiamo spiluccato tutte quante le buste e abbiamo tirato fuori tutta questa cosa e l’abbiamo caricata su queste casse.

D: Poi con questo camioncino siete arrivati a Bolzano.

R: Siamo arrivati a Bolzano.

D: Siete andati nel campo di Bolzano?

R: No, abbiamo detto a Bressanone che andavamo a Bolzano, che eravamo destinati ad andare a Bolzano, perché eravamo prigionieri, eravamo lassù, eravamo deportati lassù e che tornavamo al campo perché dovevamo tornare là. Poi invece ci siamo portati verso Trento e poi da Trento siamo arrivato a Borgo e quindi a Feltre.

D: Quindi tu nel campo non sei più rientrato.

R: Non sono più rientrato, non ho più visto. Ho sentito il dottor Meneghel che era il direttore dell’ospedale neuropsichiatrico qui di Feltre e che ha scritto un libro anche “Carnematta” da cui ho ricavato alcuni brani che ho messo anche nel mio testo “Ribelli per la libertà”, che negli ultimi giorni anche là si sono dileguati. Posso dire anche una cosa di un mio amico Barioli di Feltre che era l’autista e che ha condotto il comandante delle SS di Colle d’Isarco, assieme ad altri tre ufficiali a Bolzano qualche giorno prima e gli hanno detto di aspettare di fuori. I comandanti sono andati dentro, non si sono più fatti vedere, lui ha preso la macchina ed è venuto a Feltre.

D: Cioè è scappato.

R: È scappato anche lui, non si sono fatti più vedere, ha aspettato fino a tarda ora. Nessuno più si muoveva, lui ha visto movimento di camion che andavano e venivano. Dice: ho pensato che queste persone tornassero a casa, scappassero via, per cui sono scappato via anch’io ed è tornato a Feltre anche lui con la macchina che gli era servita da Colle Isarco ad arrivare a Bolzano per portare giù ‘sti capoccioni.

D: Quando voi siete scappati c’era solamente il gruppo dei feltrini e quindi anche la donna di Feltre, oppure no?

R: Gli ultimi giorni erano venuti ad aggregarsi a noialtri delle ragazze che avevano lavorato come lavoratrici coatte in Germania e sono venute là, le hanno portate là e le hanno consegnate ai militi che ci facevano la guardia. Dice: queste qua devono star qua e dare una mano assieme ai deportati. Sono rimaste là con noi e siamo tornati in 12 o 13 perché qualcuno era andato via, Barioli era andato via ed altri erano andati via, si sono aggregate anche quattro o cinque ragazze che erano del bellunese, che sono tornate e sono rientrate in bellunese anche loro.

D: In questo sotto campo, oltre al gruppo feltrino, c’erano altri deportati di altre regioni?

R: C’erano cinque deportati, la nostra paura è sempre stata quella che ci ha ossessionato di più, c’erano cinque deportati rossi, col triangolo rosso, quindi politici e che probabilmente uno mi aveva detto che da ragazzino, non so se ricordo bene, se è vero, se non è vero, che è stato quello che ha portato una valigia con dentro della dinamite, una bomba a orologeria con dinamite a Milano. Quando hanno fatto una riunione al cinema che io non mi ricordo più, che lui mi ha detto, gli hanno consegnato questa valigia da portare là. La bomba è scoppiata e ha fatto diversi morti durante il periodo fascista. E questo qua era stato preso e portato là, assieme ad altri cinque o sei che noi siamo andati là a dargli il cambio. Loro sono rientrati a Bolzano e successivamente sono stati inviati a Mauthausen tutti e cinque. Uno è scappato e mi hanno detto che è scappato e lo hanno ucciso quando è disceso dal treno, uno è tornato con la TBC e gli altri due o tre devono essere morti là. Non so se sono tornati o se sono morti. Queste sono tutte notizie che io ho raccolto dopo, non potrei dire che siano veritiere, però me le hanno date per vere.

D: Quando tu eri su invece in questo sotto campo c’era solamente il gruppo dei feltrini?

R: Sì, è rimasto il gruppo dei feltrini solamente.

D: E basta.

R: Basta.

D: Ti ricordi qualche episodio di violenza che tu hai visto?

R: Io personalmente là loro avevano bisogno di noialtri e non era che ci bastonassero più di tanto. Io ho un episodio mio particolare da raccontare che è stato anche per me eclatante. Una mattina alla cinque viene il maresciallo a svegliarci. Svelti su, ci si alza. Io sono là sulla mia… erano letti a castelli di due a due, di brande in ferro, ero su in cima e mi ero traccheggiato un attimino a mettermi su le fasce da piedi sugli zoccoli. Lui è andato fuori ed è tornato, mi ha visto ancora su a letto, si è arrabbiato, ha preso uno sgabello, me lo ha tirato, uno sgabello di quelli là quadrati, è andato a sbattere fortunatamente sulla spondina del letto e si è fatto tutto in pezzi. Se mi prendeva, mi ammazzava. L’unica cosa. Però erano duri, avevano sempre il nerbo dietro che se sgarravi ti facevano correre, ti facevano lavorare. Il freddo di Bolzano era ancora maggiore perché lassù c’era un vento terribile che ti entrava dappertutto. Mi ricordo che quando si scaricava il carbone, alla sera arrivavamo dentro il campo neri, sporchi, non ci si poteva lavare, pidocchi che giravano e avanti.

Fioravante Fiorio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Fiorio Fioravante, sono nato a Nogara il 6.05.1915.

Fui arrestato per attività partigiana alle Zucche di Bonferraro in provincia di Verona un giorno di novembre (1944). C’era tanta neve, mi hanno portato lungo la strada a Isola della Scala. Le Brigate Nere che mi avevano arrestato volevano fucilarmi perché sui manifesti c’era scritto: “Prenderlo vivo o morto”. E mentre ero sceso con loro ammanettato in una siepe arrivò un tedesco in bicicletta il quale mi salvò la vita dicendo che non bisognava fucilare.
Allora mi portarono a Isola della Scala in un edificio che adesso non ricordo, non penso che sia il municipio. Poi fui portato a S. Giovanni Lupatoto nella Caserma dei carabinieri dove però non c’erano i carabinieri perché erano sostituiti dalle Brigate Nere. Lì rimasi due notti; lì fu ucciso un mio amico che si chiamava Gino Dusi ed era a capo delle nostre formazioni.
Poi mi portarono a Verona al Forte Broccolo in attesa di fucilazione.
La mia cattura fu mossa da mio zio. Io non andavo mai dai parenti, andavo dagli amici, lontano dai parenti, perché sapevo che le Brigate Nere sarebbero andate dai parenti. Così mio zio venne a Verona al Palazzo delle Assicurazioni che era dominato dai tedeschi e gli dissero che mi avevano fucilato la sera precedente, ma non era vero. Per questo mio zio stette male 10 giorni in letto.
Al Forte Broccolo incontrai il professor Perotti attraverso un buco fatto nel muro. Avevamo fatto un buco nel muro perché il Forte Broccolo era diviso in stanze. Perotti, siccome avevamo avuto delle riunioni a San Giovanni Lupatoto con lui e il colonnello Mercandino, sempre per questioni partigiane, mi disse: “Ecco, lì vedo Dante”. Questo è scritto anche su un libro del professor Perotti che si chiama “Inferriate”.
In marzo (1945) fui portato a Bolzano su un camioncino assieme a Perotti. Lungo la strada gli aeroplani tentarono di colpire con le mitraglie il camioncino ma non lo colpirono e così il viaggio continuò fino a Bolzano. Ci misero nel blocco D, in campo di concentramento. Lì si soffrì molta fame, vidi morire tanta gente per i pidocchi perché non si curavano, non li uccidevano. Poi il giorno 25 febbraio (1945) fummo caricati e portati in stazione, messi su un vagone; eravamo in circa 100/101 su un vagone. E’ successo che i tedeschi hanno caricato anche 3 uomini ammanettati ma le manette erano così strette che gli veniva fuori il sangue dalle braccia. Io ho preso un fil di ferro e ho aperto le manette a questi disgraziati e dico disgraziati perché erano ammanettati. Dopo poco salì un tedesco col mitra e disse: “Chi ha aperto le manette?” e io, perché non uccidessero altri, ho detto: “Sono stato io”. Quelli che erano dietro di me si tirarono via perché avevano paura che le pallottole trapassassero il mio corpo e colpissero anche loro. Il tedesco mi guardò in faccia e disse: “Niente”, è sceso e non mi uccisero lì.
Poi fummo portati nel campo. Quando siamo scesi dal treno parte sono andati a Bolzano e io fui portato in Val Sarentino dove eravamo in circa un centinaio. Si dormiva sui castelli ma si mangiava molto male. Si andava a lavorare per fare delle linee elettriche. Un tedesco venne da me di notte e mi disse: “Senti Batà”, mi chiamava Batà, “tu dovresti fare l’assistente al capocampo” e io gli risposi: “No, io lucidare le scarpe a un tedesco, mai”. Da allora andò un altro a fare l’assistente al capocampo. Da allora io vissi molto bene perché questo tedesco di notte veniva a portarmi dei panini con più bondola dentro e burro perché disse: “Tu sei un uomo forte perché hai rifiutato di stare bene e allora io ti faccio stare bene, però non parlare altrimenti mi fucilano subito”.
Lì siamo rimasti diversi giorni. Poi venne la liberazione.
Eravamo d’accordo in 6 o 7 compagni di andare contro i tedeschi per fermare la mitragliatrice perché dovevano fucilarci tutti. Invece non fucilarono nessuno, solo ci tagliarono i capelli a zero e dissero: “Chi viene trovato ancora domani in Bolzano verrà fucilato”. Allora io non sono rimasto tanto contento di questa liberazione perché speravo in una liberazione in lotta, non così facile.
Andai alla Lancia dove trovai dei compagni di lotta della liberazione. Il giorno in cui, dopo 2 o 3 giorni, festeggiarono la liberazione – e questo me lo ricordo nel cuore – al municipio di Bolzano sulla terrazza c’erano gli americani, c’erano i tedeschi, c’erano tutti, però levarono la bandiera rossa.
Rimasi molto male perché anche noi avevamo lottato anche se eravamo della bandiera rossa, abbiamo rischiato la vita, abbiamo fatto il nostro dovere. Sarebbe stato facile andare nelle Brigate Nere e mangiare e bere a discapito degli altri, ma io ho preferito la lotta. E così venni a casa e trovai la mia casa svuotata di tutto dalle Brigate Nere; avevano portato via tutto. Andai in cerca dei miei genitori che non trovavo più. Io arrivai a S. Giovanni Lupatoto ancora con la divisa a strisce con la croce dietro. E, questo posso dirlo apertamente, chi mi diede un vestito e da mangiare fu un fascista che era impiegato nella banca di S. Giovanni Lupatoto. Io non potei rifiutarmi perché per me era un amico, era uno come un altro, anche se era fascista, non interessa quello, è il cuore che conta, non è il servizio che si faceva. Andai in cerca dei miei genitori a Novara e li trovai. Quando mia madre mi vide continuò a guardarmi e a toccarmi con le mani perché non credeva che fossi vivo; mia madre aveva 5 figli e tutti erano via da casa e non sapeva dove fossero.
Qui finisce la mia storia.

D: Fioravante all’inizio ha parlato di manifesti con il Suo nome?

R: Sì, erano a San Giovanni Lupatoto. Sui manifesti appesi sui muretti c’era scritto: “Prenderlo vivo o morto”. Quei manifesti li avevano messi fuori le Brigate Nere, capito?

D: Erano specificamente per Lei questi manifesti?

R: Per me, sì per me.

D: Perché era così pericoloso?

R: Perché avevano paura, perché loro avevano paura di me.

D: In che formazione partigiana militava?

R: Militavo nella Garibaldi Bandiera Rossa. Io lavoravo per procurare medicinali, cibi e denaro per quelli che erano in montagna. Allora era funzionante il ricamificio automatico di San Giovanni Lupatoto dove erano i tedeschi che comandavano e la maggior parte dei medicinali me li dava questo tedesco. Io li davo ad altri compagni che li mandavano in montagna per curarsi.

D: Ma non ci sono montagne!

R: No, qui non ci sono montagne ma ci sono subito dopo Verona, dopo Verona incominciano subito le montagne.

D: Ci può spiegare cosa vuol dire “mandare medicine in montagna”?

R: Vuol dire aiutare i compagni che lottavano lassù. Ha capito?

D: Ha parlato anche di un Suo amico Dusi Gino ucciso in carcere. Come è successa questa cosa?

R: La cosa è successa nella Caserma dei carabinieri che non erano carabinieri ma erano Brigate Nere. Gino Dusi assistette a un mio interrogatorio e lui mi diceva: “Dante, io non resisto come te” e lui ha preso la rivoltella a un Brigata Nera. Dicono che si è ucciso mentre io sono sicuro che fu la Brigata Nera a ucciderlo perché tentava di rubargli la rivoltella per uccidersi. Allora presero me per i capelli e mi portarono su Dusi, che era per terra dietro a morire e mi sorrise lentamente morendo. Mi dicevano, con la rivoltella nella testa: “Quello che non dice adesso questo perché muore, lo dirai tu”. E lì finì la storia di San Giovanni Lupatoto. Storia che rimase ancora insoluta per me perché loro dicono che è stato lui a liberarsi mentre io sono convinto che è stata la Brigata Nera a ucciderlo.

D: Che cosa volevano sapere da Lei le Brigate Nere?

R: Volevano sapere tutto, tutti i comandanti. Per esempio chi era Perotti, chi era Mercandino che era il colonnello che veniva giù a fare le riunioni nella pineta dell’Adige. Nelle riunioni si stabiliva dove uno era destinato e tutte queste cose; bisognava procurare dei soldi che si chiamavano soldi del Comitato di Liberazione Nazionale. Di questi soldi me ne diede tanti Fedrigoni, quello della cartiera di Verona. Ma mentre io andavo dentro da Fedrigoni veniva fuori uno vestito in Brigata Nera e io feci caso a Fedrigoni: “Guarda, da i soldi a noi altri e ne ha appena dati alle Brigate Nere, bisogna tenere per tutte le parti nella vita per stare in piedi”.

D: In quanti eravate, più o meno, nella vostra Brigata Garibaldi?

R: Uno si è ucciso. Eravamo, nella zona lì di San Giovanni, in 8 o 10, 8 o 9 e poi c’erano quelli che si ritirarono perché la lotta era pericolosa. Io nel mio lavoro feci saltare un ponte, che se lo sanno ancora adesso me lo fanno pagare. Dovevamo andare in due con la barca sotto il ponte che è la ferrovia che va da Nogara a Mantova e bisognava farlo saltare secondo gli ordini. Ma il compagno che doveva venire con me non è venuto, sono andato io solo ad attaccare queste mine e dopo a farle brillare. Però sono sicuro che il comandante tedesco di Nogara sapeva che sono stati i partigiani a far saltare il ponte perché diceva: “Lo scoppio non è venuto dall’alto, è venuto dal basso”. Si vede che era uno che se ne intendeva e fu buono, non fece nessuna rappresaglia, non fece niente. Noi avevamo come degli ovuli di plastica che bisognava gettare dove c’erano dei tedeschi, degli uffici in campagna; loro andavano sempre in campagna a requisire le case e a fare degli uffici e noi bisognava buttare gli ovuli sopra le case. Non appena toccava il tetto l’ovulo si espandeva, faceva fosforescenza. Allora Pippo, che era l’aereo che girava di notte, vedeva dov’era la fosforescenza e bombardava. Era un compito molto difficile perché se ti trovavano con questi ovuli in tasca avevi finito. Se mi g’ho salva la vita è per questione dei tedeschi. Due volte i tedeschi mi salvarono la vita.

D: Ma quando è entrato nel campo di Bolzano che cosa le è stato dato? Un numero di matricola? Un triangolo?

R: Sì, era un triangolo bianco e rosso e il numero di matricola era 9.495 perché non si aveva più il nome. Quando si andava via e si andava nei campi di concentramento nessuno aveva nomi, avevano tutti un numero cui corrispondeva un nome sicché se uno moriva, moriva il numero, non l’individuo.
Io assistetti ad una cosa terribile in campo di concentramento.
Mentre era freddo e pioveva hanno messo fuori tutte le donne nude all’acqua in modo che se prendevano la polmonite e morivano; era una scusa per loro perché dicevano: “E’ morto di polmonite”, mentre invece sono stati loro a far venire la polmonite. Una volta hanno preso uno che dentro era delle Brigate Nere; l’avevano preso perché aveva rubato e l’avevano buttato in campo di concentramento, perché loro facevano così. E noi gli dicevamo: “Quando se liberemo el primo che copem te se ti,” (“Quando ci libereremo il primo che uccideremo sei tu”) e lui: “Ma no, ma no”. Tentò di fuggire perché aveva paura che venisse la liberazione; lo colpirono proprio in fronte con un fucile e ci radunarono nel piazzale di Bolzano davanti alle caserme (blocchi), ci misero in quadrato e su una coperta con lui dentro lo rotolarono e ci dicevano: “Ecco la fine che fa chi tenta di fuggire” e noi tutti insieme: “Bene, avete ucciso un fascista”. I tedeschi si arrabbiarono. Quando ci lasciavano dal blocco D, che era dei pericolosi, ci davano un’ora di aria, l’ultimo ad andare dentro prendeva botte da matti; io mi sedevo sul muretto là fuori aspettando che andassero dentro tutti e dico: “Non mi uccidete?” “No, dice, tu per soffrire devi vivere perché se ti uccidiamo hai finito di soffrire”.

D: Le parlavano in italiano?

R: Sì, parlavano un italiano un po’ stentato, ma parlavano.

D: Ha detto di aver visto delle persone morire nel campo di Bolzano?

R: Sì, nel campo di Bolzano, di notte, e questo sta scritto anche su “Inferriate”, si uccidevano i pidocchi. Quelli che si rilassavano e non volevano vivere, vedere tirare via la cinghia e venir via la carne assieme dai pidocchi che erano, si afflosciavano per terra e morivano lì. E poi li portavano via. Questo sta scritto anche nel libro “Inferriate” che ha scritto Perotti. Io quando uccidevo i pidocchi dicevo: “Questo è Hitler, questo è Mussolini, questo è Ciano”. A ognuno che uccidevo davo un nome dei fascistoni che esistevano in Italia.

D: Ce n’erano tanti di Veronesi nel campo?

R: Sì, ce n’erano tanti ma era transitorio. Venivano, andavano.
Si dormiva nei castelli e si mangiava quel po’ di acqua e pasta che era più vermi e che era roba che per non morire bisognava mangiare. Quando sono tornato a casa ero 36 chili e non ci vedevo più dalla fame che ho sofferto. Mi portavano in bicicletta all’Adige, quando portai a casa i miei genitori che ripresi la vita. Si andava a riposare all’Adige all’ombra e i compagni mi riportavano in bicicletta perché io non camminavo, camminavo poco o niente insomma.

D: Ha visto anche dei sacerdoti nel campo di Bolzano?

R: Mi pare di sì che ci sia stato un prete; forse si ricorda più di me il professor Perotti.

D: Invece Sarentino se lo ricorda? Che posto era? Come era fatto? Quante baracche c’erano?

R: C’erano 2 o 3 baracche, adesso non ricordo bene. So che si dormiva sui castelli dove veniva il tedesco a portarmi il panino tutte le notti. Se sono salvo è grazie a quello perché sennò si finiva per morire.

D: A Sarentino ha visto montagne o qualche edificio?

R: C’era una vallata dove ti facevano lavorare a fare delle linee, non so se di corrente o telefoniche, adesso mi non so spiegare. So che si tiravano su dei paloni che io sabotavo, muravo il fil e il palon el cascava per terra. Il tedesco mi vedeva e mi diceva: “Finché ti vedo io, Bata, tutto va ben ma se ti vede un altro te copa all’istante, non fare quelle robe lì se vuoi vivere”.

D: A Sarentino quanti potevate essere più o meno?

R: Penso un centinaio, forse più, anche adesso non so in quanti di preciso erano. Sul treno so che eravamo in 100/101, lo so. Non siamo mai andati tutti in Val Sarentino, tanti come Perotti sono tornati in campo di concentramento a Bolzano per esempio, mentre noialtri ci han portati a Sarentino.

D: Dal campo di Sarentino vedeva un castello? Qualcosa di particolare o solo montagne?

R: No, solo la vallata.

D: Per andare a lavorare andavate a piedi o vi portavano?

R: A piedi, non si andava mica tanto lontano, un chilometro un chilometro e mezzo; ogni volta si andava un po’ più lontano perché bisognava mettere i paloni, raddrizzare i paloni e dopo c’erano quelli che mettevano i fili.

D: Per quello che riguarda il comando di Sarentino erano SS? Parlavano italiano?

R: Parlavano italiano ma erano SS, insomma tedeschi. Per conto mio quello che mi voleva bene era austriaco, perché ho rifiutato di andare a fare l’assistente del campo di concentramento del campo di Sarentino.

D: A Sarentino facevate l’appello?

R: Sì, quando si ritornava avveniva la “conta” per vedere se c’eravamo tutti o no. Era impossibile fuggire perché era una vallata, non era una pianura dove ci si poteva nascondere fuggendo. Era impossibile e poi c’erano tante guardie coi mitra, coi moschetti, coi sciopi (fucili).

D: Intorno al campo di Sarentino c’era filo spinato? Cosa ricorda?

R: No, niente filo spinato. Non mi ricordo quello. Non so se era più avanti. Quello non me lo ricordo.

D: Fioravante, quando eri nel campo di Bolzano ricordi se potevi scrivere a casa o ricevere lettere o pacchi?

R: No, non c’era neanche l’acqua da lavarsi, né penna, né carta, non c’era niente, non c’era niente, non c’era niente, solo un’ora di aria al giorno e basta.

D: Sempre nel campo di Bolzano ti ricordi il blocco celle?

R: No, mi ricordo il blocco di dove ero con Perotti che era il blocco D, dei pericolosi.

D: I due ucraini tu te li ricordi?

R: No, no.

D: Neanche la “Tigre” ti ricordi?

R: No, mi ricordo solo Perotti, mi ricordo quello che era sindaco di Milano, Virgilio Ferrari, e qualche altro compagno con cui poi ci siamo persi di vista o fu mandato a casa perché era giovane. Dopo lì ci si perde perché un po’ per la delusione, un po’ per tutto quello che è successo. Allora la vita è fatta così e dopo una certa età non mi ricordo tanto.

D: Ricordi se all’interno del campo di Bolzano c’era un gruppo di resistenti?

R: Come resistenti?

D: Cioè che lavoravano per la resistenza all’interno del campo?

R: No, io mi ricordo solo che al campo di concentramento di Bolzano c’era un amico mio che veniva a buttarmi dalla rete dei sassi con attaccato delle pastiglie per salvare i denti; fu preso ma non aveva niente addosso perché aveva buttato a me il sasso con le pastiglie con gli elastichini in modo che non si perdessero nel volo. Queste pastiglie bisognava prenderle per salvarsi i denti perché adesso io sono senza i denti ma allora li avevo forti, allora.

D: Al campo di Sarentino dove c’erano le baracche vicine c’erano anche delle case di civili?

R: No, non mi ricordo.

D: Non hai mai incontrato civili?

R: Civili ne abbiamo incontrati andando a lavorare. Si passava davanti a una casa e lì avevano buttato fuori le bucce delle patate che noi si raccoglieva per mangiare. Ho preso una botta sulla testa perché raccoglievo queste bucce di patate, solo quello ricordo di Sarentino.

D: A Sarentino lavoravate tutti sulle linee elettriche o c’erano altri lavori?

R: Non tutti, perché eravamo una trentina che andavamo a lavorare a tirar su questi paloni, gli altri non so dove andassero a lavorare e se andavano a lavorare oppure avevano scelto noi per lavorare.

D: Eravate solo uomini a Sarentino o c’erano anche donne?

R: No, solo uomini. A Bolzano c’erano donne tra cui un’amica mia che lavorava con me nella lotta di liberazione. Adesso è morta, si chiamava Rossini Maria ed è morta che sarà circa un anno, neanche.

D: A Sarentino ha mai assistito ad episodi di violenza?

R: No, solo quella del Pani e basta. Sennò violenze ce n’è dappertutto, la vita lì è violenta perché bisognava mangiare quello che ti davano, bisognava stare zitti, non bisognava parlare, non bisognava essere in gruppi più di 5, non bisognava radunarsi più di 5.

D: Quante ore durava il turno di lavoro a Sarentino?

R: Si andava via, si prendeva su un panino, ci davano un panino più secco che, si andava via la mattina verso le 8 e mezzo, 9 e si tornava la sera verso le 4 e mezza, 5 e lì veniva la “conta”.

D: Si ricorda come avveniva la “conta”?

R: La conta avveniva così: ci mettevano in fila e ci contavano, non ci chiamavano per nome perché non avevamo più un nome avevamo 9.495 io e gli altri avevano altri numeri e ci chiamavano i numeri e non i nomi; ci mettevano in fila e ognuno che chiamavano passava dall’altra parte e andava dentro nelle baracche.

D: In quanti erano i tedeschi a fare l’operazione della “conta”?

R: Erano 5 o 6 tedeschi armati e 2 o 3 assistevano quelli che andavano nella baracca e gli altri quelli che dovevano ancora essere chiamati.

D: Dopo Sarentino tu sei stato riportato a Bolzano?

R: No, io sono stato liberato a Sarentino. Libero a Sarentino dove tutti gli altri esultavano dalla gioia di essere liberi mentre io se non ho pianto è perché avevo del coraggio. Io da Sarentino andai a piedi alla Lancia di Bolzano dove sapevo che c’era una formazione di liberazione nazionale. Rimasi alla Lancia 6 o 7 giorni, finché avvenne il fatto che mi ricordo sempre e che ho nel cuore della terrazza del Comune (non lo so se c’è ancora perché io a Bolzano ci sono stato poco dopo), dove levarono la bandiera del mio cuore.

D: Chi vi ha liberato a Sarentino?

R: Nessuno. Sono andati via loro. Ci hanno lasciati liberi, ci hanno tagliati i capelli a zero e ci hanno detto: “Chi viene trovato domani in Bolzano sarà fucilato”.

D: Ti ricordi la data? Quando?

R: Penso il 26, 25, 26 aprile, non so se il 27, ma il 26 ormai la guerra era finita e quindi era inutile stare lì a tenerci prigionieri, perché anche loro dovevano scappare via e andare in Germania, se era possibile raggiungere.

D: E’ mai più tornato a Sarentino a vedere dove era il campo?

R: No, non sono più tornato perché mi viene la pelle d’oca a nominarlo adesso.

Gianardi Mario

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Gianardi Mario, sono nato a Vezzano Ligure il 18.9.1926, in provincia de La Spezia. Sono stato arrestato il 15 ottobre del 1944 davanti alla chiesa di Migliarina. Mentre accompagnavo un ragazzo uscito dal carcere di Villa Andreini, che era un handicappato, preso in un rastrellamento a Cegirano, questo ragazzo qui è stato, dietro interessamento mio e degli altri, doveva essere accompagnato quando è uscito a Cegirano, solo che lui non poteva sapere la strada, e allora mi hanno incaricato di accompagnarlo sino a Migliarina dove c’è la biforcazione, che va verso il Termo e una parte verso Buonviaggio. Forse voi non sapete ma la diciamo, una va verso Roma e l’altra va verso Parma.
Lui doveva prendere la strada verso Parma, senonché io partii da casa mia assieme a mio fratello Sergio ad un certo Del Nero e questo ragazzo. Erano le due del pomeriggio. Quando siamo arrivati sul Ponte della Dorgia, che è un canale che attraversa prima di arrivare alla chiesa, sulla Via Aurelia, io sentii il rumore di un camion che giungeva. Feci una corsa e arrivai proprio all’incrocio davanti alla chiesa di Migliarina, lasciando mio fratello e gli altri indietro, in maniera che se questo camion potesse andare verso Parma l’avrei fermato chiedendo il permesso di poter salire questo ragazzo, gli avrei spiegato la situazione. Senonché il camion proseguì per il Termo, quindi la mia corsa fu vana.
Mentre attendevo che loro, i miei amici e questo ragazzo, mi raggiungessero, io mi sono rivolto verso loro e vedevo che esitavano a venire, e io gli dicevo Camminate”. Ad un bel momento ho sentito dietro la schiena, con la canna del fucile “alza le mani”, io ho alzato le mani, erano due della Brigata Nera che mi avevano preso. Chi è stato? Io il giorno dopo, lunedì, perché era di domenica, avrei dovuto andare ai monti, non perché avevo un’idea politica però più che altro per la paura di essere preso anch’io che già c’erano le voci che arrestavano ecc., mi sembrava di essere più sicuro allontanarmi da casa. Ebbene il delatore, che mi ha fatto prendere, è un certo Guerra, che dalla finestra del suo appartamento era d’accordo, come si può dire, insomma era passato dai partigiani alle Brigate Nere, quindi lui era consapevole che io dovevo andare ai monti, pertanto presero soltanto me. Ma di questo mi accorsi solo quando mi portarono in casa sua, prima io non l’avrei neppure immaginato. E come lui dalla finestra, un certo Capitani, che si trovava invece sulla via Aurelia, faceva, a 200 metri da casa sua, lo stesso lavoro. Stetti in casa del Guerra fino alla sera verso le cinque o le sei, poi, una ventina circa eravamo, ci portano al 21° Fanteria. Il 21° Fanteria era la caserma dei soldati dei fanti del tempo di guerra, di cui la Brigata Nera si era impossessata ed aveva adibito certi settori del carcere a celle per i detenuti. Io mi trovai in una cella vicino alla strada che andava verso Pegazzano, eravamo in 12, ero io, in parte me li posso ancora ricordare, un certo Chiari, Ughetto, poi Gigli con cui siamo stati poi ammanettati insieme quando siamo partiti da Genova, poi c’era l’ingegner Iacchetti della Ceramica di Ponzano, il suo contabile signor Foce o dottor Foce, non so chi poteva essere, un impresario edile di cui adesso mi sfugge il nome.
Ebbene siamo stati lì una quindicina di giorni. In questo frattempo però la notte sentivamo le urla di coloro che interrogavano e ci si preoccupava un poco perché quando venivano e chiamavano qualcheduno e lo portavano a questi interrogatori di solito non lo si vedeva ritornare perché lo facevano cambiare di cella.
Successe che anche a me chiamarono, mi chiamarono e me la cavai invece con poco, mi fecero alcune domande, se ero partigiano, se conoscevo Tizio o Caio, e io risposi di no, perché effettivamente partigiano non lo ero ancora. E va bene, mi dettero qualche ceffone così, va bene. E io tutto contento sono rientrato in cella, convinto che avessi superato la fase più critica. Invece il bello doveva proprio venire, perché dopo alcuni giorni ci portarono su un camion a San Bartolomeo. San Bartolomeo è una zona vicino al mare di Spezia, cioè sul mare di Spezia diciamo. E qui c’erano alla fonda alcuni zatteroni, gli zatteroni erano da sbarco, cioè avevano il pontile che si abbassava per far scaricare la merce. Eravamo in questo zatterone circa un centinaio, 87-100 adesso non so. Ebbene lì ci hanno dato un pezzo di pane che abbiamo dovuto dividere, l’ho dato a sette persone, comunque stettimo lì un giorno fermi perché c’era mare con burrasca. Il secondo giorno di sera si partì verso Genova, via mare verso Genova. Quando siamo stati al largo di Monterosso, Monterosso è una zona vicino a La Spezia ma dalla parte andando verso Genova, Chiari con una tavola dove eravamo seduti, Chiari è quello dei parati, vendeva le carte da parati, era in cella con me ed era a bordo. Insomma abbiamo sollevato leggermente la mira e lui voleva a tutti i costi fuggire, ma sapete davanti allo zatterone, se lui si buttava andava a finire sotto, non poteva avere, non aveva uno slancio per … E lui effettivamente l’ha capita e ha desistito. Quindi abbiamo cercato di togliere questa tavola e bene o male si vedeva che non era stato forzato il portale dello zatterone.
Siamo arrivati verso la mattina alle cinque a Genova. E a Genova ci hanno portato al carcere di Marassi di Genova. Qui io sono andato, e portato con tutti gli altri, a pianterreno della quarta sezione, eravamo anche lì una decina per cella, qui avevamo la possibilità di andare a prendere l’ora di aria, così si dice nel carcere, e quindi quando io poi insieme agli altri della mia cella potevamo uscire, vedevamo, e mettevamo il nome anche noi, nei muri in maniera che potessero trovare una testimonianza del nostro percorso, perché pensavamo che non potendo scrivere a casa, e non potendo avere notizie, almeno se ci fosse stato qualcheduno un domani che avesse letto queste scritte sui muri avrebbe capito che io ero transitato lì il giorno tale ecc.
Quindi subii il primo degli interrogatori effettivamente severo. Io sono stato seviziato e torturato, per sei ore, sono stato seviziato e torturato da Battisti, Morelli, Guerra, Capitani e due marescialli della SS. I più sono stati Battisti, Morelli e i due marescialli della SS, Guerra e Capitani nell’ultimo. Allora io ero legato cavalcioni di uno sgabello a torso nudo, e cominciavano a nerbarmi. Mi dettero 18 accuse: la morte di Bergamini, l’assalto alla Flage, alla batteria di Monte Pertico, ero partigiano, avevo nascosto le armi, insomma tutte invenzioni perché fino a quel momento di ciò che mi dicevano nulla corrispondeva al vero, perché io certe azioni non le avevo mai fatte. E loro dicevano di firmare, ad ogni interrogatorio, ma il primo interrogatorio è stato forte, all’ultimo mi ruppero questo sgabello nella schiena. Il giorno dopo mi richiamarono il pomeriggio e ricominciarono altre botte, cominciarono a mettermi il tubo dell’acqua dal rubinetto in bocca, mi è venuta una pancia grossa così che scoppiavo, e poi mi storcevano le dita, il dito pollice, questo vedete com’è? me li storcevano. In più se vedete le mie unghie, queste dei piedi, hanno ancora i segni adesso, perché mi mettevano i fiammiferi di legno corti, tagliati e con la punta infilata qui e ci davano fuoco qui sul pollice destro e sul pollice della gamba sinistra, e sulle mani. Pertanto quando perdevo i sensi mi buttavano con la testa dentro il lavandino, pieno d’acqua, che era rosso del mio sangue. Pertanto io i peggiori momenti credo della prigionia per il dolore patito sono stati quelli.
Insomma io non firmavo, all’ultimo il terzo giorno, dopo ancora avuto percosse ecc., hanno preso, io ero in stato di semi-incoscienza perché quando vedevano così ti davano proprio il colpo nella testa per farti svenire, poi ti mettevano con la testa dentro il lavandino. Invece di tirarmi l’acqua in viso mi ci buttavano dentro, e ti senti soffocare, poi con questo peso che avevo già dell’acqua della pancia, che mi si era gonfiata tutta la pancia e lo stomaco, insomma stavo male, malissimo.
Adesso mi vengono le amnesie.

D: Stavi dicendo, Mario, che dopo tre giorni…

R: … dopo tre giorni mi hanno preso la mano e mi hanno fatto una scarabocchio, e mi hanno riportato in cella. Però non mi hanno portato più alla quarta sezione, mi hanno passato alla terza sezione e lì sono stato qualche giorno, facevo fatica ad entrare nella cella perché c’era il cancelletto per aprire in queste celle qui che erano più di segregazione che altro, molto strette.
Lì ho potuto incontrare gli altri che avevano preso in un secondo tempo della Pianta, della zona mia. E c’era un altro Gianardi come me, allora ho pensato che fosse mio padre o mio fratello, invece era mio zio. C’era un certo Trippini che aveva una segheria lì alla Pianta, non mi riconosceva neppure da come ero gonfio, ridotto male, avevo la faccia e gli occhi tutti tumefatti. Ah mi hanno rotto il setto nasale, mi hanno rotto i denti, questo che mi ha rotto i denti era con il calcio della rivoltella, mi ha spaccato proprio i denti qui davanti, a metà proprio rotti. Ebbene, io avevo soltanto, perché era di ottobre, la canottiera e la camicia, ero vestito estivo ancora. Praticamente si doveva, le voci, perché in carcere non c’è cosa come in carcere perché si sanno più delle altre parti dove si va a finire, si diceva che si andava a lavorare in Germania. Assieme a me in cella c’è sempre stato un ragazzo che faceva il capostazione a Migliarina, il nome ce l’ho sempre e quando lo devi dire non ti viene mai. Ebbene a lui era arrivata da casa una valigia con degli indumenti mentre a me non era arrivato niente, e combinazione questo mio zio invece era addirittura in canottiera. Sapendo che si doveva andare per la Germania, Peschiera, si chiamava Peschiera il capo. Questo ragazzo con cui eravamo diventati amici perché eravamo in cella, sia al 21°, insomma avevamo fatto tutto il percorso assieme, e siamo arrivati a Mauthausen combinazione sempre insieme. Mi ha dato un pullover blu, ma vedendo mio zio che credevo che partisse anche lui con noi, che era in canottiera, glielo cedetti, e lui si ripromise di ridarmi qualche cosa. Senonché quando partimmo da Marassi, Genova, dal carcere di Marassi per andare a Bolzano, quando arrivammo a Bolzano, al Blocco E la valigia a lui gliela presero, quindi rimase lui con i suoi vestiti e io con la mia camicia, cioè non avevamo il ricambio per nessuno.

D: Scusa Mario, da Genova per andare a Bolzano?

R: Ci siamo fermati poi, adesso torno un momento indietro. Quando siamo partiti da Genova sui camion ci siamo fermati non un giorno, abbiamo fatto una sosta al carcere di San Vittore di Milano, ci siamo fermati lì. E lì ero ancora io, i secondini lì che avevano l’infermeria, mi hanno medicato un po’ la schiena e mi hanno medicato un po’ il viso con degli impacchi, della roba, non so con che cosa, non mi sembrava acqua però sarà stato borato o qualcosa del genere. E sul camion che mi portava a Bolzano eravamo ammanettati destra con sinistra, io ero con questo Gigli, con Gigli, non ero con Peschiera, ero con un certo Gigli che era della mia età e facevamo la scuola insieme, abbiamo fatto. Io non ce la facevo a stare ancora in piedi con gli scossoni, e seduto anche tantomeno perché battevo contro la spalliera e la schiena mi doleva, cominciavo a fare, insomma le ferite ci rimarginavano però erano dolori quando toccavo la schiena. Allora mi ricordo che questo povero ragazzo, Gigli, si è messo di fianco a me per badare che non battessi contro la spalliera. E così siamo arrivati a San Vittore, che mi hanno fatto questo impacco, questo medicamento e sono proseguito per Bolzano. A Bolzano sono al Blocco E, il Blocco E è un blocco in armatura, con mattoni rossi, però è un campo recintato dentro il campo. E confinava, il muro ad una certa altezza, di là, nel solito capanno nostro c’erano le donne, erano le mogli dei partigiani, erano le mogli dei movimenti di liberazione, è stato lì che la prima volta io ho capito movimento di liberazione, insomma queste cose, perché io di politica non mi sono mai interessato, anzi sono stato sotto il fascismo e ignoravo completamente cosa voleva dire a quei tempi comunismo, socialismo, ecc.
Ebbene queste donne quando mi hanno visto che sono entrato, dato che anche il reticolato divideva dalle donne, ma eravamo recintati in un recinto unico, però divisi dal recinto per le donne, così il muro … Quando hanno visto che ero ridotto così male c’era qualcheduna che usciva già a lavorare a Bolzano, che andava negli ospedali, e allora mi vide, anche loro mi hanno medicato un pochettino, cominciava ad essere una settimana il dolore, perché i primi giorni era molto doloroso, poi col tempo si leniva lentamente, non è che stessi bene però avevo di molto migliorato. Mi sembra che siamo stati una decina di giorni a Bolzano, ora io i giorni non posso saperli con esattezza. Mi avevano dato un numero che non mi ricordo, mi pare che fosse 9.712, però questo non aveva nessun valore poi per quando sono andato più avanti in Germania. E’ successo che un giorno ci prendono tutti e ci portano alla stazione, ci imbarcano su dei vagoni merci, ci chiudono dentro. Ed eravamo anche lì un centinaio circa, senza mangiare senza bere, non avevamo né da mangiare né da bere. Questo era per noi spezzini. Però qui è successa una cosa che poi mi è molto dispiaciuta anche tra noi italiani, questo volevo dire perché questo lo dirò appena arriveremo.
Ebbene noi qui, io sono partito da Bolzano e c’era con me Nicolai, quello che era con me impresario edile. C’era Nicolai, Ughetto il tabaccaio, Nicolai, Ughetto, che ha gli apparati, quello che vendeva …, questo Chiari qui era un po’ più, se posso dire coraggioso, oppure interessato a scappare. Le donne ci avevano dato una zampa di porco, e allora sì perché c’erano anche i mariti che partivano con noi, le donne invece rimanevano lì, per scappare. Difatti tra il tratto tra Bolzano e Innsbruck sono fuggiti in cinque, Chiari, Nicolai, Ughetto, uno di piazza Brin, un altro che non so chi è, e toccava a me buttarmi giù, però non avevo il coraggio di farlo, sono sincero, dico la verità, perché non mi sentivo neppure di poter camminare in mezzo alla neve. Senonché la SS si è accorta dell’ombra, ha fatto fermare il treno, e con le lampade è venuta a vedere di dove sono scappati, e ci avevano scassato il nostro vagone alla porta quindi lo han visto, hanno aperto, sono venuti su, han cominciato a tirare calci col fucile, ci mandavano indietro, e vicino a me a uno ci hanno staccato addirittura l’orecchio con un calcio, però non era uno spezzino, era non so se era di Bergamo o di Milano, poveretto anche lui, non è che …
Però lì non eravamo tutti spezzini, da Bolzano siamo partiti milanesi, torinesi, bergamaschi, insomma eravamo di tutte le città. Solo che qualcuno di loro, molti avevano le valigie piene, sia di indumenti che di mangiare. Mentre noi ci siamo salvati un pochettino perché non tutti facevamo i bisogni dentro al vagone, perché poi han messo a bordo i due della Wehrmacht di guardia e purtroppo quando portavano da mangiare a loro, per la paura che ci ribellassimo e tutto, questi poveretti erano due anzianotti della Wehrmacht, ci lasciava qualche briciola di pane. Insomma però non abbiamo patito la sete perché con la neve e tutto ci potevamo dissetare. Successe che loro li ripresero, mentre noi si proseguì per Mauthausen.
Arrivammo a Mauthausen che erano le tre del mattino, erano le tre del mattino e c’era una temperatura più di 13 mi sembra gradi sotto zero, c’erano i candelotti alle baracche, che dal tetto arrivano per terra. Era tutta una lastra di ghiaccio, c’era tutta neve, e noi abbiamo fatto dalla stazione a Mauthausen, che è in salita, tutto a piedi. Siamo arrivati là alle tre del mattino, il campo era tutto illuminato, e quando siamo arrivati, siamo entrati dalla porta principale, pertanto noi credevamo di andare in un campo di lavoro perché effettivamente non si prestava ad essere così drastica la faccenda, avevamo, sembrava una pagoda cinese, invece c’era le garitte con le mitragliatrici, che poi di giorno si è potuto vedere, ma di notte non potevi distinguere.
Cominciamo ad intravederlo, ci fanno depositare le valigie, ce le fanno aprire, è lì che mi sono sentito mortificato, siamo stati mi sembra 4 giorni in viaggio, tutti con la fame, e loro avevano ogni ben di Dio, io ero in camicia e avevano vestiario, nessuno si è degnato di dare una maglia, un maglione, qualche cosa per coprirmi. Non è servito a nessuno perché poi quando siamo arrivati là hanno lasciato lì valigie e vestiario e tutto e lo hanno preso i tedeschi quindi… Però mentre eravamo, ci hanno messi tutti in fila, appena entrati in una porta, sulla parte destra, che ci sono le scale per andare giù agli spogliatoi e alle docce.
Lì ad attenderci c’erano le SS con i cani e più c’era una donna della SS, che aveva dei cani alani. Quegli alani bianchi ma con le macchie nere, ma erano più alti però. Difatti l’interprete ha cominciato a dire: qui siete in un campo di lavoro, noi non vogliamo che voi facciate atto di sabotaggio, noi non vogliamo che voi facciate atti di ribellione, noi vogliamo che … Insomma ci hanno fatto una predica. Perché se un domani qualcuno di voi si permettesse … allora questa donna ha fatto così al cane, e il cane era più alto con le gambe della persona che ci è saltata addosso, però l’ha preso per il collo ma non l’ha ammazzato, cioè non gli ha dato l’ordine di ammazzarlo, poi gli ha detto di lasciarlo, vi succede questo, cioè vi mandiamo i cani dietro che vi riprendono e poi… non ci ha detto del crematorio, non ci diceva mica, io non lo sapevo che c’era il crematorio.

D: Mario, scusa, quando sei arrivato tu a Mauthausen in che mese era?

R: I primi di dicembre penso (1944). Era freddo, era freddo. Soltanto nella prima decade di dicembre, perché ricordo che a natale ero lassù e la prima volta che lì che sentivo parlare proprio di comunisti e tutto, è venuto la vigilia di natale Paietta, Paietta è venuto al blocco 28, dov’ero io, la vigilia di natale. E lì c’erano anche dei dirigenti di Milano mi sembra, c’era con me, io adesso i nomi, eppure fa parte del Nazionale (Associazione Nazionale Ex Deportati), è vecchio, ancora adesso.
Insomma arriviamo a Mauthausen, e poi ci spogliamo, ci fanno spogliare, e per andare alle docce bisognava scendere una decina di scalini. Quindi nudi come eravamo c’era chi ti dava delle nerbate. Siamo andati dentro, hanno cominciato a rasare i capelli, sotto i bracci, sotto le nudità, e poi ci hanno mandato a fare la doccia. Se ci penso l’acqua era tutto ad un tratto tutta bollente, ma dovevi scappare di sotto, proprio non ti potevi nemmeno scansare perché prendevi quella di dietro, e poi tutto ad un tratto acqua fredda. Insomma non vedevi l’ora di uscire. E mentre uscivi, bagno com’eri, c’era uno col pennello che ti dava delle pennellate di roba rossa sotto i bracci, qui, sotto, sarà stato un disinfettante.
Ci portano fuori ma lì non eravamo vestiti per niente ancora, i vestiti noi li abbiamo presi al blocco di quarantena, ci han dato una camicia e un paio di mutande. Ebbene siamo usciti e siamo stati lì un’ora, un’ora e mezza, anche due ore fermi a quel gelo. Per scaldarci cercavamo di stare vicini il più possibile. Quando hanno dato il via, tre o quattro persone davanti a me hanno dato una spinta a uno che non si muoveva, questo è stato il primo spezzino che ho visto cadere a Mauthausen, a me sembrava Rossi il farmacista, se fosse stato un giovane mi sarei ricordato anche chi è, ma questo era proprio un anziano. Ebbene quando è caduto per terra ha dato un colpo come una tavoletta, fai conto che fosse caduta una tavoletta, era gelato in piedi poveretto, il primo che è morto è stato quello, che ho visto morire.
Ci portano al campo di quarantena.
Il campo di quarantena è fuori dal perimetro di armatura del campo centrale, è stato aggiunto, difatti appena si entra dalla porta principale si va diritti, e poi sulla sinistra avevano aperto che si scendeva giù in discesa, ma era una discesa di 6 o 7 o 10 metri però era molto in pendenza. E lì si trovavano i blocchi 26, 27, 28, 29 e 30. Io ero al blocco 28.
Così ci danno la camicia e un paio di mutande, zoccoli niente perché gli zoccoli servivano solo quando dovevi uscire, erano tutti sulla porta. E combinazione noi siamo stati, credo di aver sverginato questa baracca qua perché era nuova, c’erano ancora i giacigli per terra, non c’erano gli scaffali, i castelli, non c’erano i castelli. E allora questi sacchi li stendevamo per terra, e poi ci mettevamo testa e piedi, testa e piedi, testa e piedi, e lasciavamo il corridoio per il controllo.
Adesso succede che nel blocco, anche lì sarà stata una forma di non so come chiamarla, perché noi dalla parte dove si entrava si dormiva, e vicino al pane, perché c’era al centro della baracca una catasta di pane, coperto dalle coperte, le coperte le mettevamo quando l’avevamo adoperate piegate in un angolo. E quindi alla mattina c’erano gli Stubedienst che dovevano fare la pulizia. Gli Stubedienst erano persone come noi che a turno dovevano pulire. Allora la prima settimana che sono stato a Mauthausen, fino a natale o giù di lì, non si stava tanto scomodi, perché ognuno si poteva stendere comodamente per terra, e pidocchi non ce n’erano, se non ce li ha portati qualcheduno dalle carceri però non c’erano, poi sono venuti. Succedeva che i capiblocchi invece erano divisi da noi, avevano un settore della baracca per conto loro.
C’era il capoblocco, il vice capoblocco, quello che gli faceva i capelli, perché noi un giorno sì e un giorno no, una settimana sì e una settimana no, a seconda come gli girava, gli passavano tutti i giorni col rasoio una striscia al centro della testa.
Allora questo pane qui, cominciava a sentirsi anche la fame, era un pane rettangolare tedesco di patate, che faceva la muffa. Quando noi eravamo in questa baracca, le scene che si vedevano incominciavano a farci … Io ho assistito padre e figlio Boccaletti di Valeriano, il padre non mangiava la zuppa di acqua e rape che ci davano per darla al figlio, il figlio non la mangiava, sono morti tutti e due a Gusen, tanto per dire. Con me c’era anche il dottor Negri, nella baracca lì. E quando, dunque io ero giovane e insomma tiravo a campare, tiravo a vivere, mentre gli altri, chi aveva famiglia, chi aveva il figlio, anziani, si rendevano forse più conto di quello che poteva succedere, cosa invece che a me non, cioè i pensieri che avevano loro a me non mi potevano toccare. Così giunse la settimana che anch’io dovetti fare lo Stubedienst. E’ stato nel periodo sotto natale. Uscii un giorno con un russo, hanno cominciato a venire anche già, si vede che gli americani e i russi avanzavano, al Lager è cominciato a venire quelli che via via ritornavano al campo principale e che evacuavano perché c’erano le avanzate degli americani e dei russi. Così cominciammo lì i primi pidocchi. Facevo lo Stubedienst con questo russo; un giorno siamo andati a prendere, andavamo tutti i giorni ma quel giorno lì si vede che quel pendio di scarpata che c’era era più scivolosa del solito, con gli zoccoli olandesi che avevamo ai piedi, io tenevo la marmitta con la destra, lui con la sinistra, e in più aveva una scatola di legno con della ricotta scremata, era per i kapo, era l’ora del mezzogiorno. C’era quindi zuppa. Senonché scivolò e mi trascinò. Sabotaggio!
La SS che ci accompagnava, perché quando si usciva dalla quarantena per andare fuori nel campo veniva quello della SS ad accompagnarci, non erano più i kapò, eravamo seguiti da loro. Ebbene devo dire la verità che con me non è stato molto severo, anzi di fronte al kapò gli ha detto come sono andate effettivamente le cose, che io sono caduto perché il russo mi ha trascinato. Ma la punizione la dovevo subire anch’io. Così è successo che al russo hanno dato 40 nerbate e poi nudo dal giorno fino alla mattina dopo doveva stare fuori della baracca, così pure io. Io con qualche nerbata me la sono cavata, il perché? Adesso qui vi posso dire: il kapò aveva la “moglie”, ma non era una donna, era una del triangolo rosa, e questo si chiamava Hans; ebbene in parte devo proprio la vita a lui. Sì, perché quando mi hanno dato le prime frustate si è avventato contro il marito diciamo, “nein nein nein!”, perché io ero uno dei più giovani del blocco, e si vede che mi aveva preso in simpatia, perché era proprio, a vederlo sembrava proprio il viso di una donna ecco. Ebbene alla sera alle nove, non so che ora era, faceva un freddo, per combattere il freddo trattenevo il respiro, mi gonfiavo più che potevo, muovevo i piedi perché ero nudo coi piedi scalzi, e alle nove ormai sentivo proprio che non ce la facevo più. Combinazione vuole che aprano la porta, e quest’uomo qui, con due spezzini è venuto dentro, mi ha preso e mi ha portato dentro, il dottor Neri mi ha subito preso dalla neve, mi ha massaggiato, mi ha fatto rimuovere, mi han coperto con le coperte, e insomma. Però la schiena ce l’avevo già rovinata di prima, lì si erano aperte anche le altre, allora mi faceva male, non potevo stare con la schiena sdraiata. Ebbene mi spargeva, non so se era sapone o margarina, non c’erano mica medicinali, e io non per non andare al Revier, perché le voci cominciavano già, difatti il dottor Neri m’ha tenuto. Quando veniva l’appello mi accompagnava là fuori, mi teneva, e per fortuna erano giorni che, si vede che la SS era proprio, era destino che io dovessi sopravvivere, perché di solito era un’ora, un’ora e mezzo che dovevi star fermo all’aperto, invece quelle mattine lì chissà come, forse era giunto all’orecchio che avanzavano i russi, più di mezz’ora non facevano, perché dico bene lui cominciava dalla baracca 26, e quindi fino a che non aveva finito tutto dovevi stare sull’attenti fuori, e non ti potevi muovere, perché se ti muovevi erano bacchettate.
Insomma mi portarono dentro, mi misero le coperte, mi allontanarono, sapevano che io ero da quella parte lì, però cominciava a venire molta gente. E qui le razioni cominciavano ad essere molto più scadenti, perché mentre inizialmente quando siamo andati noi, io non so che ordine avessero loro perché il pane c’era, non è che non c’era, c’era una catasta di pane proprio in mezzo al blocco. Cioè alla parete del blocco, dalla baracca dove non si passava, dove non c’era la porta di uscita. Ebbene prima, quando siamo andati su, i primi giorni a noi davano un quarto di pane di questo pane rettangolare, poi via via che la gente veniva era sempre la stessa razione, e loro avevano una taglierina, avevano una tavola con lo scontro e una taglierina che facevano così per tagliare, e tagliavano le fette del pane. Quindi a seconda se c’erano 100 persone loro calcolavano che il solito pane che mettevano per i primi giorni doveva bastare per quelli. C’erano 100 persone? Dovevano venire 100 pezzi, ce n’erano 200? dovevano venire 200 pezzi, adesso esagero però grossomodo la mentalità, e i pani che dovevano adoperare erano sempre gli stessi; se erano venti venti erano sempre quelli, non è che ti dessero sempre la stessa razione, mentre la zuppa effettivamente era un litro di acqua.
E qui succedeva che inizialmente avvenivano un po’, anche tra di noi, delle ripicche, insomma poi ci siamo organizzati, anche lì abbiamo capito come si doveva fare, perché nessuno, cioè il primo giorno è successo così, come è arrivata la zuppa tutti con la fame che avevamo ci siamo buttati per prenderla, caspita! ma quando tiravi su era acqua. Allora il giorno dopo nessuno più voleva essere il primo ad andar lì perché se no ti succedeva, e quindi anche tra di noi avveniva una conflittualità. Allora c’è stato proprio il dottor Neri che aveva detto: State a sentire, noi italiani dobbiamo comportarci in maniera, facciamo così, quanti siamo oggi 80? va bene, i primi 40 vanno per primi, i secondi, gli altri 40, vanno poi. Domani vanno loro per primo e voi dopo, però non va più sempre il primo, quello che è l’ultimo dei 40 passa per primo. E così ci si metteva in fila, non andavamo più là perché ormai sapevamo a che gruppo appartenevo. Insomma ci siamo salvati. Ci siamo salvati fino a che erano ritornati i russi e i polacchi e quegli altri, perché allora lì è ritornato il caos, però noi avevamo trovato la maniera di risolvere questo problema. Per prendere poi cosa? Qualche rapa, qualche pezzo di rapa, qualche pezzo di patata, mentre alla sera ci davano appunto, perché il pane al giorno ti davano la sera, ti davano questa fetta di pane con un po’ di margarina, con un po’ di würstel, con quelle fette di quel salame che hanno loro, insomma diciamo la razione era misera, misera, misera, perché avevi sempre fame, ma se uno stava fermo magari poteva campare forse un mese in più.
Il numero: io avevo il numero a Mauthausen, il 113.986. E qui, anche qui un problema. Come facevo io a dire in tedesco “hundertdreizehntausend…” perché loro l’ultima cifra l’anticipano alla penultima. Per me è stato un supplizio, per fortuna che il dottor Neri, a forza di dirmelo è riuscito a farmelo dire, ma io non lo capivo quando, cioè io non riuscivo, perché io lo dicevo così volgarmente, invece loro lo dicono con un accento. Anche se era il mio numero io non riuscivo. Allora lì erano botte. Però invece se prima ne prendevo spesso lì ne prendevo di meno.
Successe che venne un giorno, abbiamo passato, ripeto, tutto il natale, e a natale, è giusto, credevamo che ci dessero il pranzo, almeno qualche cosa in più, invece è stata più fame delle altre volte, ci han dato tre patate e basta, e manco la sera ci han dato la razione. Sono passate tutte le feste di natale, gli spezzini, il dottor Neri dopo natale è andato al Revier, insomma del mio blocco io ero rimasto ancora lì. Poi ero in mezzo a russi, polacchi, cecoslovacchi. C’erano anche degli altri italiani, milanesi, torinesi, però degli spezzini non c’era più nessuno, erano partiti tutti.
Alle tre del pomeriggio, dopo gennaio, il 4-5 gennaio (1945), il primo dell’anno era passato.

D: Scusa Mario assieme al numero di immatricolazione ti hanno dato anche un triangolo?

R: Sì il triangolo rosso, avevo il triangolo rosso, avevo il triangolo rosso con scritto “It”, italiano voleva dire, perché gli jugoslavi avevano pure il triangolo rosso, però avevano solo la “J”, fatta differente dalla nostra. E avevo al polso il numero con la targhetta e un fil di ferro, non avevo io la marcatura come ad Auschwitz, il numero tatuato.
Quindi alle tre del pomeriggio, sarà stato il 4 o 5 di gennaio, entra dentro un graduato della SS con l’interprete, il Lagerführer – c’è il capoblocco però sopra di lui c’è quello che comanda tutto il campo – almeno credo che fosse stato lui.
Chiamano il numero in tedesco, ah no prima dicono “Transport Börze”, una cosa così, perché ogni volta che venivano per un trasporto dicevano “Transport Melk“, “Transport Gusen”, lo dichiaravano. E lì è un nome un po’, io non ci ho fatto … Un po’ preso anche alla sprovvista, più che altro quando entravano loro cominciavo ad avere la fifa, perché dico qui succede qualcosa, perché tutte le volte che venivano spariva la gente, andavano via, però solo quella volta lì è venuto, gli altri poi venivano, invece gli ordini dal kapo. Invece quella volta lì c’era questo graduato della SS. Insomma anche gli altri sentivo che bisbigliavano un po’. Quando poi chiamano Ghinardi Mario, io non so, invece in tedesco “g” pronuncia “ghi”, capito. Poi allora l’interprete “Gianardi Mario, 113.996” “Sono presente” e “Perché non hai risposto?” “Scusi, io, vede, non ho sentito, ho toccato questo orecchio qua, mi fa un po’ male, non ho capito bene, mi deve scusare”. Cominciai a tremare come una foglia, tremavo, insomma ho trovato la scusa più appropriata che mi è venuta al momento. Allora io avevo messo che facevo il saldatore elettrico autogeno, però saldatore anche di leghe da farsi al banco. E lui allora mi ha chiesto: cosa vuol dire saldatore di leghe da farsi al banco? Io ero in un’officina di artigiani e pertanto saldavo i carter delle automobili di ghisa, i cosi di alluminio, ottone, bronzo e alluminio, quando ho detto “alluminio” mi hanno detto “Ist gut” (è buono). Allora sono andato via con loro, mi hanno fatto scendere le scale, sono uscito dalla porta, dal Lager, e sono andato sotto dove ci sono i vestiari. Nella piazza dell’appello c’erano tutti i magazzini; mi danno la giacca, un paio di pantaloni militari con le strisce, io non avevo la giacca con le strisce, avevo una giacca, non ce ne avevano più di giacchette a strisce, io avevo roba militare, però avevo il triangolo rosso sia nei pantaloni che dietro la schiena. Mi danno il cappello, mi danno gli scarponi, gli zoccoli e una gamella, e poi mentre sono lì vengono altri quattro. Mi sembra che fossero due cecoslovacchi, un francese e un belga, insomma italiani non ce n’erano, ero solo io, e io ero il più giovane, loro erano già persone più mature.
Ci portano giù a Mauthausen (in stazione), ci aspetta un vagone, un treno, è passata una tradotta con un treno con dei cavalli dentro, le SS ci mette dentro questi vagoni con la Wehrmacht, i soldati che c’erano, lui è salito invece al caldo, e lì abbiamo cominciato a capire. Si faceva un percorso: di giorno quasi stavamo fermi e di notte invece si camminava. Dunque io sono partito come questa sera, sono arrivato all’indomani sera con questo treno così, mi sono venuti a prendere alla stazione con un camion, e ricordo che la fabbrica era, per entrare nella fabbrica dovevo fare un ponte di ferro che aveva le arcate curve così. C’era la neve, non sapevo il tedesco, non potevo leggere, quindi era anche sera praticamente, non sapevo dove potevo essere, se era un lago, se era un fiume, se era … E lì al mattino subito mi hanno portato dentro la fabbrica. Guardate bene che era una fabbrica che i blocchi degli operai come noi che lavoravano erano nel recinto stesso della fabbrica, non era come quando sono andato a Vienna alla fabbrica di un posto che io mi spostavo, lì era guardato da militari. Pertanto, ho pensato, dato che anche il cibo lì non era tanto male, che fosse una fabbrica bellica, di importanza non indifferente. Allora mi hanno subito a saldare delle lastre di alluminio, che erano un metro di lunghezza per due metri di larghezza. Cosa facessero non lo so perché dove c’è la saldatura ci sono i teloni dalle parti per non danneggiare, e poi io non potevo vedere quello che c’era dove andava, ma arrivava sul carrello che io dovevo saldare, stare attento alla saldatura e basta. E lì così il terzo giorno, senza nessun preavviso, è venuto un bombardamento. La fabbrica l’hanno presa, e io col Meister ci siamo messi sotto questa lastra qui. E’ caduta la fabbrica, senonché le esplosioni della bomba, io ho battuto la testa, mi usciva il sangue dalle orecchie, avevo le api, insomma non capivo più niente. La bomba è esplosa vicino. Mi hanno portato, hanno fatto un tendaggio, cioè un ospedale da campo, e lì mi hanno portato insieme a questo Meister e c’erano anche degli altri. Adesso lì io sono un po’ indeciso di quanti giorni ci possa essere stato perché non avevo la cognizione del tempo, e anche quando sono stato dimesso non ero in grado ancora di connettere come si doveva. Comunque a me sembra di esserci stato uno o due giorni, invece devo esserci stato più di una settimana, senz’altro, perché non c’erano più gli incendi, c’era molta tranquillità. Mi liberano da questo ospedale, mi consegnano ad una camionetta delle SS.

D: Ti ricordi più o meno dov’era questa fabbrica? Era lungo il Danubio?

R: Se lo sapessi. Con sincerità non lo so, però dovevo essere oltre Vienna, perché se io al mio ritorno mi sono fermato a Vienna, però c’era anche questi, mi han detto che delle volte da lì ci portavano a Mauthausen, e quindi è difficile se io ero in Austria, forse ero, insomma questo è un problema che mi sono sempre chiesto, e pensavo che la Croce Rossa Internazionale mi desse delle spiegazioni, invece non c’è, non risulta, come non risulta che sono passato da Bolzano, come non risultano altre cose.

D: Scusa ancora Mario, c’erano dei civili a lavorare?

R: Sì sì c’erano dei civili, in fabbrica lì c’erano dei civili.

D: Germanici o austriaci?

R: Per me tedeschi o austriaci tutti tedeschi, difatti il mio era un tedesco, cioè parlava tedesco ed era tedesco il Meister che mi insegnava, no no, non potevano essere slavi o russi, quello sì, perché quella era un’altra lingua che la capivo anche se non sapevo cosa dicevano.

D: Mario, non ti ricordi di aver visto delle scritte magari all’esterno di questa fabbrica, oppure su dei disegni?

R: No, perché prima di tutto, te lo ripeto, io uscivo dalla fabbrica e andavo in baracca; la baracca era recintata dentro la fabbrica, quindi non c’era un’insegna per modo di dire come a Vienna che c’era l’insegna della fabbrica dove lavoravi che io non ricordavo però tramite la Croce Rossa poi ho visto come si chiamava, io credevo fosse la Schefelde, invece è tutto un altro nome.
Io mi stavo raccapezzando, però quello è un fenomeno che dico perché mi è successo, ma non ci sono al momento documentazioni che me lo possano comprovare.
Ebbene lì poi avanzavano o i russi o gli americani, piano piano ci hanno retrocesso, i campi venivano evacuati, perché queste SS che mi hanno preso poi non mi han portato via, mi hanno consegnato ai primi militari, e ci han detto, ci han spiegato, il primo campo che trovavano di me, dei triangoli rossi, di consegnarlo, perché la SS che mi aveva preso non era del campo, transitava, era sulle camionette, capito? Però si vede che quelli dell’ospedale avevano l’ordine di mettermi, cioè di consegnarmi alle SS non di consegnarmi alla Wehrmacht, dovevano consegnarmi alla SS e poi la SS si responsabilizzava verso di me e dava mandato a piedi dove mi dovevano portare. Difatti nel mio pellegrinaggio stavo un giorno, due, tre, quattro, poi avanzavano, non so se erano russi o americani, e anche lì dovevamo evacuare.
Insomma sono arrivato registrato dalla Croce Rossa Internazionale il 29 aprile a Vienna. Adesso io tutto questo mese, dal 5, praticamente in 20 giorni ho girato ma non so dove mi trovavo. Mentre a Vienna, essendoci stato due mesi, ho potuto rendermi conto un po’ di più, anche la fabbrica cos’era e cosa non era.
Quando sono arrivato a Vienna non c’era più da andare a saldare l’alluminio, mi hanno messo a fare il saldatore elettrico in una fabbrica di autocingolati. E saldavo le ruote dei cingoli. Ero insieme a un russo, facevamo 12 ore di giorno e 12 ore di notte. Nel campo dove io mi trovavo poi per andare a dormire non c’era neppure un italiano: erano tutti jugoslavi, polacchi, russi, e io devo dire la verità che da loro, sia dagli jugoslavi che dai polacchi, non sono stato trattato per niente bene. Io stavo meglio in fabbrica che non nella baracca. Sapete perché? Perché quando ero con loro non mi han mai chiamato italiano, mi han sempre chiamato Badoglio, Mussolini, Spaghetti, Maccheroni, Mandolino, Cìngali, mai una volta che avessero detto, e quando c’era da prendere la zuppa dovevo essere sempre il primo. Quindi mi hanno trattato proprio male, non so per quale ragione, ero uno di loro, eppure questo è stato. Io, ripeto, stavo meglio in fabbrica, e anche se si mangiava poche volte, perché tutti i giorni su Vienna un giorno sì e un giorno no avvenivano dei bombardamenti, alle 11 immancabilmente saltavamo il pasto per quella ragione, perché c’erano i bombardamenti.
Ebbene sono stato in questo Lager dal 29 di gennaio al 2 di aprile, che era il giorno dell’Angelo, il secondo giorno di pasqua. Questo lo sapevo perché il Vorarbeiter, che era un austriaco, e tra austriaci e italiani c’è un po’ più di affinità che con i tedeschi, poi questa era una persona anziana, e mi lasciava sempre un po’ di roba dal tegamino, insomma oltre che quella poca razione che mi davano magari una patata, un pochettino di würstel lo lasciava nel tegamino, con la scusa di andarlo a lavare lo lasciava.
E’ stato lui che mi diceva che veniva Ostern, Ostern in tedesco voleva dire pasqua, poi l’ho saputo a suo tempo. E difatti io il 2 di aprile del 1945 sono partito da Vienna per tornare a Mauthausen, a piedi. Dunque ci hanno dato, per partire, una razione, eravamo quattro per fila, io ero capofila e mi trovavo sulla sinistra, allora il peso di pane e di questo pacco di margarina che ci avevano dato lo dovevo tenere io, ma non avevo zaino, non avevo niente, lo dovevo portare sotto il braccio in mano. Mi costava fatica. Poi la paura che mi aggredissero! Quando partii di lì subito il primo giorno, cosa facemmo? Il russo che era vicino a me aveva fatto in fabbrica un cucchiaio schiacciato con una lamiera, e da una parte aveva schiacciato bene la lama per fare una lama da coltello, cioè aveva la possibilità di tagliare il pane o qualche cosa e in più aveva la possibilità di mangiare col cucchiaio. Ebbene me lo dette e io divisi subito il pane e la margarina, così ognuno ne poteva fare quello che voleva. Il primo giorno anch’io lo mangiai convinto che al giorno dopo ci fosse un’altra razione e invece non fu proprio così.
Cominciammo, cammina cammina, siamo partiti in 1300. Appena fuori da Vienna si sono sentiti i primi colpi tum tum.

D: Mario, dicevi della partenza da Vienna.

R: Partiamo da Vienna e sentiamo i primi colpi. Adesso succede che appena usciti da Vienna non prendiamo più la strada principale ma si prese per le campagne, in maniera da non essere di disturbo forse alle truppe che passavano o che venivano che andavano al fronte.
Allora questi colpi di pistola si facevano sempre più frequenti. Domani ci daranno da mangiare, oggi non ce ne hanno dato, pensavo io, domani ci daranno qualche cosa. Invece cammina cammina ma da mangiare … Per fortuna da bere ne potevamo avere perché c’erano canali, c’era la neve, insomma si poteva, c’erano dei posti che trovavamo la neve e ci potevamo dissetare. Senonché i morsi della fame dopo 4-5 giorni si cominciavano a far sentire, senza mangiare perché eravamo completamente a digiuno tutti, allora cominciavamo a mangiare quello che ci capitava. Sapete quelle radici, quella cicoria selvatica che fanno i fiori gialli, noi le chiamiamo “piscialette” in Italia, ebbene vi posso assicurare che erano più dolci dello zucchero che mettevano la mattina nel caffè. Poi quando ci fermavamo in questi ruscelli per dissetarci c’era la terra argillosa, gialla, è dolce sì, è buona la terra gialla, e ci sono i salici. I salici: vedevo che i russi staccavano la corteccia, la masticavano, poi la rigettavano, però il succo lo inghiottivano, io ho provato, era amara, però mi sforzavo anch’io, ho detto: Se la mangiano loro la devo mangiare anch’io. Insomma poi si piantava uno stecco in terra e venivano fuori i lombrichi e mangiavamo i lombrichi. Insomma noi brucavamo l’erba come le capre, come le pecore, dove si passava noi non c’era niente che si mangiava. All’ultimo mi ricordo che ho trovato un osso spugnoso in questo campo, ah com’era buono, l’ho tenuto per un giorno intero poco poco per volta per mangiarlo.
Avevamo trovato una volta in una cascina dove mangiavano i maiali, il truogolo: ci siamo buttati tutti a capofitto, mangiavamo la roba dei porci, se ce n’era leccavamo il truogolo come fosse una pasta.
Ebbene strada facendo via via che arrivavamo a Mauthausen e morivano i nostri, però anche gli altri campi dei nostri evacuavano e si aggregavano a noi. Un bel giorno finalmente sento “Ciao italiani”. Oh signore! io ho sentito per la prima volta dopo tre mesi parlare italiano. Era un certo Panardo di Torino. Anche lui era in solitudine, si vede che veniva da un campo disgraziato come il mio per gli italiani, ci abbracciammo tutti, a me sembrava già di essere a casa, poter parlare in italiano dopo tanti mesi. Insomma ci si confidava, ci si parlava. Abbiamo dormito in un granaio la sera, cioè in un fienile e ricordo che avevamo preso dei granelli di non so di che erba, di segala, si è riempito la tasca e ce li passavamo un po’ per uno. Una notte scapparono 40 russi, 40 prigionieri. Ordine immediato: fucilazione di 10, siamo stati cinque giorni insieme. 10 per ogni nazionalità, noi eravamo in due italiani, lui ritardò a venire all’appello perché si era nel fieno, la stanchezza, si vede chissà poveretto quanto era più stanco di me, era un ragazzo biondo con i capelli tagliati come noi, era dei nostri, presero lui. Sapete dopo averlo fucilato non moriva mai? Quando gli diedero il colpo di grazia persino la SS è inorridita, credo, quando gli dettero il colpo di grazia le sue cervella, eravamo tutti insieme … col triangolo rosso qui, ebbene sono venute ai miei piedi, davanti a me, adesso non dico sui piedi …
Insomma l’hanno fucilato insieme agli altri e non moriva mai, quando gli han dato il colpo di grazia le sue cervella volevano quasi stare ai miei piedi, io ero italiano e quindi lui era un italiano, perfino la SS mi sembrava che fosse rimasta in quel momento.
E così mi ritrovai solo, disperato perché il cammino da Vienna a Mauthausen è stato molto lungo, io non so i chilometri che ci potevano essere, soltanto che quando arrivavamo nei paesi o nelle città, noi non attraversavamo il paese, ma ad esempio se io per andare a La Spezia dovessi venire da Migliarina andare a Porto Venere avrei fatto la via più breve, mentre loro invece mi facevano passare in periferia dai monti addirittura, avrei fatto San Venerio, avrei fatto Buonviaggio, avrei fatto insomma poi Parodi e via. Quindi se c’erano per modo di dire cento chilometri ne abbiamo fatti il doppio. E quindi sono arrivato alla bell’e meglio a Mauthausen.
Arrivo a Mauthausen che ero sfinito: non c’è più posto. Ci portano indietro e ci fanno andare a Gusen, Gusen 1. Io quei 4-5 chilometri lì li ho fatti un po’ in piedi e un po’ carponi, porto ancora i segni nelle gambe, le abrasioni …
La debolezza non ti coglie le gambe, prima di prende alla testa, tu cammini con gli occhi chiusi, sembri un sonnambulo, non so, una foglia e un ragno, una pietra e un serpente, poi chiudi ancora gli occhi: vedi sfilarti i piatti di pastasciutta, il desiderio di mangiare. E poi ti prende le gambe, cioè prima mi ha colpito la testa, sarà perché ho avuto anche l’esplosione io non lo so, ma a me prima vedevo tutte queste cose prima di perdere le forze. Allora dato che è intervenuta la Croce Rossa Internazionale da Mauthausen a Gusen sulla strada erano sospese le esecuzioni, non sparavano più, non davano più il colpo di grazia, ma li caricavano sui carretti e li portavano a Gusen.
Allora guardi un po’, io sfinito com’ero non ci sono salito sul carretto, cioè sentivo che la liberazione doveva essere ormai vicina perché le voci bene o male… Resistevo, resistevo resistevo, fino a che sono arrivato a Gusen. Ebbene a Gusen era sera, pioveva quel giorno, ebbene a me sembrava di andare sotto l’acqua di morire, ma pensate un po’ ero fuori all’acqua e al freddo eppure mi sembrava di morire. Io sono stato uno degli ultimi a entrare nella baracca della doccia a Gusen, però di acqua io non ne ho vista, e vi posso dire una cosa, che nella baracca c’erano delle ditate macchiate di sangue nelle pareti, dopo circa un’ora che eravamo dentro ci hanno aperto, ci hanno abbracciati ma io non mi rendevo conto di che cosa era successo, però io vi assicuro che di docce io non ne ho fatte, e ancora nudo così sono andato ad un blocco di cemento di mattoni rossi, ce ne erano due nel Lager di Mauthausen, uno era della Messerschmitt e l’altro della Steyer, io sono andato nella Messerschmitt, nella Steyer c’erano Natali e Pistelli.

D: Scusa tu adesso stavi dicendo Mauthausen ma intendevi Gusen 1?

R: Sì Gusen 1 e Gusen 2, Gusen 1. Da Mauthausen ci han portato a Gusen perché non c’era più posto.

D: Sì sì ma dico quando tu sei entrato in baracca?

R: A Gusen, sì, la baracca delle docce.

D: Ecco, e dopo sei uscito.

R: Io l’acqua non l’ho fatta, non ho fatto la doccia.

D: E sei andato a finire in questo blocco di muratura ma a Gusen però.

R: A Gusen a Gusen, erano due, la Messerschmitt e la Steyer, io sono andato alla Messerschmitt. Questo l’ho saputo poi quando ho cominciato a riprendere conoscenza e sono stato nel campo. E lì ho conosciuto Pistelli e Natali. Io sono arrivato il 30 di aprile a Gusen, il 5 maggio siamo stati liberati, però io ero così sfinito che una volta che sono entrato nel blocco mi sono adagiato sui, c’erano questi castelli qui così, il primo al pian terreno vicino alla stufa io mi ci sono adagiato e non mi sono più mosso. E’ successo che due-tre giorni prima le SS il 2 di maggio credo, la SS ha evacuato il campo, se ne è andata, ha preso la Wehrmacht a Gusen, cioè non era più la SS. E allora hanno cominciato qualcheduno anche a scappare.
Difatti i russi che potevano camminare, tutti, per loro quasi la guerra era finita, ma la liberazione proprio del campo è avvenuta alle cinque del (5 maggio) 1945, perché a mezzogiorno ricordo che era passato un aeroplano a buttare i manifestini “Siete liberi”, però dalla parte del fiume del Danubio, cioè io ero dalla parte di Mauthausen, che non è dalla parte di Linz, dalla parte di Linz sono arrivati i russi e dalla parte di Mauthausen sono arrivati gli americani, c’era un ponte.
Quindi è venuta la liberazione, è arrivata dentro una camionetta. Una camionetta americana con, mi sembra, un militare e una militaressa o due militari erano, io non lo so perché non l’ho visti, però poi per sentito dire. Han lasciato però lì la camionetta. Questa camionetta aveva i menù del mangiare, però c’era anche il sapone in polvere, che a quei tempi io non avevo mai visto, l’Omo quello che usano adesso. C’erano anche quei detersivi lì.
Allora noi, anche io un po’ in piedi, saputo che c’era da mangiare ci siamo precipitati verso questa camionetta, come potevamo. Uno sopra, fino a che avevamo da prendere qualchecosa e ce lo mettevamo in bocca. Il giorno dopo la camionetta era coperta di cadaveri. Infatti l’hanno sepolti insieme a quelli che c’erano nel Lager, fuori dal campo. Quelli io li ho potuti vedere. Appena arrivati poi gli americani io avevo preso la dissenteria, gli ultimi giorni.
Tornando un passo indietro a Gusen, io avevo trovato Natali, Pistelli un certo Elefante e Ruggia, un ragazzo di Migliarina figlio del macellaio della Pieve, lui è morto dentro i gabinetti negli ultimi giorni, il 1° maggio o il 2 di maggio del 1945, è morto dentro i gabinetti, l’unica persona che ho visto del mio trasporto morire nel campo a Gusen.
Ebbene gli americani hanno fatto dove c’era la SS fuori dal Lager, diciamo un ospedale da campo, e così è successo che a me.
Io non mi reggevo in piedi, mi hanno preso mi hanno fatto delle flebo. Ero 32 o 35 chili; lo dico perché gli americani mi hanno fatto una fotografia con tre giacche da una parte sulle anche. Mi sono rivisto al (Cinema) Monteverdi (a La Spezia) con quei filmati che davano dei campi. Ebbene mi facevano queste flebo e il secondo giorno stavo ritto in piedi. Camminavo, barcollavo ma camminavo, dopo sei o sette giorni camminavo abbastanza bene, e mi dicono, dato che avevo riconosciuto un americano figlio di napoletani emigrati in America, questo mi aveva detto se gli facevo da attendente, gli pulivo le scarpe, tenevo a posto la sua roba, e mi aveva promesso che mi avrebbe portato in Italia quando lui sarebbe partito. Mi aveva regalato una fisarmonica.
Un giorno mi dicono “Vai a prendere insieme a degli altri le patate alla Kartoffelmiete”. I tedeschi mettevano le patate nei campi coperte dalla paglia. Era già caldo, insomma c’era odore, io non mi sentivo tanto bene, però tanto per evadere dal campo, ho detto: Vengo anche io. Sono andato. A mezzogiorno mi portano una zuppa di ceci, e non l’ho potuta mangiare: avevo già la febbre alta. Ritorno a Gusen e combinazione c’era la partenza per l’Italia. Dovevamo andare a Mauthausen. Io ero febbricitante ma pur di andare in Italia sono partito per andare a Mauthausen. Arrivo a Mauthausen e lì la febbre è salita e allora mi danno qualche aspirina, perché avevo i brividi di freddo e tutto.
Ci portano con i camion a Linz; ci fanno fare una scarpata dove c’era della carbonella, della ferrovia con i vagoni merci in attesa; quando salgo ho perso i sensi, sono rotolato giù, e mi hanno portato all’aeroporto su un trimotore della Croce Rossa Italiana. Portavano gli ammalati in Italia con l’aereo della CRI. Senonchè quando io sono sull’aereo il medico si accorge che la mia è una malattia infettiva, e allora per non far fare la quarantena agli altri, mi ha fatto sbarcare e sono andato a finire all’ospedale di Haide, non so come si pronuncia. Comunque qui era un ospedale di donne, infettivo, solo donne; eravamo io in camera e un certo Simonelli di Tortona, che era un soldato della guerra del 1915-18. Avevo preso il tifo, prima la dissenteria poi il tifo.
A lui arrivavano i pacchi, perché era un militare, e allora mi aiutava un po’. Mi è venuta una fame, poi il tifo più il campo di concentramento, sono riuscito a mangiare 13 piatti di riso al latte, di quell’orzo che fanno loro. Mi portavo dentro le caramelle addirittura, le portavo via alle donne ammalate che erano chiuse nelle gabbie, non so perché erano chiuse nelle gabbie, adesso penso se era un manicomio.
Lì feci la quarantena e fu la mia salvezza perché mi poterono curare e tutto. Ma dal mangiare e dai patimenti della prigionia sono diventato da magro che ero a pesare 70-80 chili, ero un mostro, avevo gli occhi … non ho più quella fotografia perché l’ho stracciata per non farla vedere ai bambini e a mia moglie perché era… avevo le sacche nere! Faccia conto di avere due mele qui, ero così, una pancia, gonfio, la reazione del cibo. Ero pieno d’acqua, mio papà quando mi faceva i massaggi, schizzava… va bene!
Sono uscito dall’ospedale e di fronte a questo ospedale c’era un campo di lavoratori coatti, diciamo, e c’erano ancora giacenti tutti i greci. Quando io mi sono presentato perché c’era un centro di raccolta, si accorgono di chi sono, questa donna qui una anziana che aveva dei figli: “Italiano, italiano!” Poveretta, la mattina mi dava sempre un uovo da bere. Quindi guardate con quello che abbiamo fatto noi in Grecia, i greci nei miei confronti mi hanno trattato bene.
Passa una camionetta “Se ci sono degli italiani si preparino a partire!”. Venivano dalla Russia nei camion i militari che rimpatriavano; allora io chiamo questo Simonelli, che tra parentesi era ancora in giacenza all’ospedale, lui viene giù e ci imbarcammo subito su questi camion. E abbiamo fatto.
Ci hanno portato alla stazione, dalla stazione siamo arrivati a Bolzano, da Bolzano siamo arrivati a Pescantina. Ed infatti siamo arrivati fino a Tortona, da Tortona a Genova in treno. Quando sono arrivato a Genova, la ferrovia di Genova non funzionava e allora abbiamo aspettato sulla strada un mezzo che ci portasse verso Spezia, difatti passò un camion targato Livorno, in blu con rimorchio. C’era un amico da ragazzo che conoscevo che abitava vicino a me che veniva dalla Russia e quindi ci ha fatto salire.
Io penso che siano state le ore più lunghe della mia vita. Non si arrivava mai a Spezia!
Quando finalmente sono arrivato alla Foce e ho visto la città, mi è venuta l’ansia proprio. Arrivo in via Chiodo, c’erano tram che funzionavano, tram che andavano a Migliarina. Salgo su un tram e c’è un bigliettaio proprio di casa mia. Gli chiedo: Come stanno i miei? Mi ha detto tutto bene (SI COMMUOVE). Mi sono rilassato, mi sono rilassato. Ma non sono andato direttamente a casa perché mio papà soffriva di cuore, allora mi sono fermato da uno zio, però la voce è arrivata prima di me e allora quando ero lì dopo un po’ è arrivato il mio papà e sono andato a casa. E’ stato lì che mi sono reso conto della tragedia di noi spezzini. Io non immaginavo che fosse stata una simile catastrofe!
Tutta la gente ad aspettarmi perché io ero l’ultimo che sono rientrato dalla Germania, io sono rientrato il 1° di agosto (1945), dopo di me non è rientrato più nessuno. Tutti a chiedere “Hai visto mio marito?” “No, era con me fino a Mauthausen” “Hai visto mio figlio?” “No”. Insomma questa gente dove è andata, io non lo so. Ho visto soltanto il povero Lucio morto a Mauthausen, non l’ho detto a loro, l’ho detto a suo fratello che lo dicesse poi a sua madre. Poi gli altri…
Io ero astemio, il primo bicchiere di vino della mia vita l’ho bevuto il primo d’agosto, adesso cosa succede? Succede che io ero come vi dico gonfio, e mio papà, un po’ con la farina di granoturco, un po’ con il borotalco, faceva i turni al Felettino che è una zona di Spezia.
Tempo due o tre mesi sono riuscito a tornare quasi alla normalità, senonchè dò un colpo di tosse (SI COMMUOVE) e sono andato in sanatorio perché avevo la tubercolosi, un fatto cavitario all’apice (del polmone) e va bene!
Ho saltato un pochettino, perché vi racconto un po’ la commedia di quando sono arrivato a casa che non avevo i capelli. Non c’è cosa peggiore per noi giovani, almeno per me, di non avere i capelli.
Prima che fossi arrestato si spaviciava con una ragazza che lavorava in farmacia. Senonché appena venuto, questa ragazza è venuta è rimasta perché effettivamente sembravo un mostriciattolo, poveretta mi ha detto: “Va bene ti preparo io” e io ho detto “Ma non ho i capelli” – mi preoccupavo più dei capelli che della persona – “Ti preparo io delle lozioni, vedrai che ti ritorneranno”. Allora lei mi preparò queste lozioni e mi diceva “Bevi il rosso dell’uovo, il bianco te lo sfreghi in testa”. Effettivamente io facevo così, in casa mia c’era un odore di freschino!
Insomma dal 1° di agosto alla fine di febbraio che è carnevale metà febbraio inizia il carnevale, ebbene non mi erano ancora nati i capelli. Una mattina tolgo questo strato di cerone che avevo in testa con il cotone, questa lozione, avevo la testa tutta nera e ohhh i capelli! Pensate che io da giovane ho sempre avuto i capelli dritti, non avevo le onde, se pioveva maccheroni erano tutti miei. Ebbene tempo due mesi mi è venuta una testa di capelli che se vi faccio vedere una fotografia voi non mi riconoscete. Finalmente ho potuto riprendere la tranquillità, la serenità.
Quando poi ho cominciato a tossire e a buttare il sangue avevano fatto la diagnosi che io avevo la tubercolosi, e ancora oggi devo dire che sembro il rappresentante della salute, invece sono pieno di acciacchi. Pensate che ho avuto tutte e tre le epatite A B C e D, ho la cirrosi, sono stato operato di stomaco, sono stato malato ai polmoni, sono diabetico.

D: Sei un ospedale.

R: Sì, ambulante! Mi si sono bloccate le dita che non posso stringere, sono stato operato sotto perché avevo un polipo, adesso ho avuto una trombosi all’occhio, all’occhio destro e non ci vedo, sono un ospedale viaggiante. Perché io vado sempre in giro con i ragazzi. Sarà conseguenza della prigionia o destino chissà? Chiuso.

Pedrotti don Guido

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Don Guido Pedrotti. Sono nato a Malè il 31 gennaio del 1914.
Ho vissuto prima a Malè, poi a Mezzolombardo e poi a Trento, dove ho intrapreso gli studi nel seminario minore e poi nel seminario maggiore. Consacrato sacerdote nel 1938 sono stato destinato cappellano in Val di Fiemme, a Tesero. Poi da Tesero a Isera e da Isera al duomo di Bolzano.
Eravamo ai tempi del fascismo e non sono mancate le parole dure e di condanna del fascismo; questo forse è stato l’inizio dei sospetti sulla mia persona. Purtroppo giunse la guerra, il duomo (di Bolzano) fu fortemente bombardato con tutta la zona intorno, la stazione fu pure fortemente bombardata. Anche le case della parrocchia furono fortemente bombardate, per cui la maggior parte delle persone rimaste in quel di Bolzano dopo l’8 settembre (1943), dalla parrocchia del duomo trovarono la possibilità di trasferirsi nella zona popolare e nella zona semirurale. Ecco quindi che era logico che io lasciassi la cura d’anime al duomo e mi portassi nella zona popolare e delle Semirurali. E avvenne quel che avvenne.

Dopo l’invasione nazista la cura d’anime era assai difficile. Tanto più che nella mia parrocchia delle Semirurali nel tardo, diciamo, tempo della mia permanenza, sorse il campo di concentramento o Polizeiliches Durchgangaslager di via Resia. Questo mi portò necessariamente a cercare di entrare nel campo a portare aiuto. Un fatto voglio sottolineare, perché è stupendo: quando io distribuivo la santa comunione, le donne delle Semirurali e delle case popolari mi portavano i bollini delle tessere e li deponevano sul piattino della santa comunione, così io avevo la possibilità di acquistare pane nella vicina bottega e mandarlo nel campo di concentramento. Questo mi è stato molto facile perché diversi miei parrocchiani lavoravano vicino al campo di concentramento nel Genio Militare e potevano avvicinare gente che dal campo di concentramento veniva mandata a lavorare proprio al Genio Militare. Un po’ alla volta sono entrato quindi a conoscenza del campo di concentramento e ho trovato una via meravigliosa per fare entrare ogni genere di aiuto, a cominciare dal denaro.
Gli aiuti mi venivano particolarmente da Milano, proprio dal cardinale Schuster e dal suo segretario monsignor Bicchierai. Vi erano anche diverse fonti di denaro da parte di ebrei parenti di deportati chiusi nel Lager.
La cosa andava avanti meravigliosamente bene, specialmente perché nel campo di concentramento di Bolzano vi era un sacerdote che usciva per vari servizi.

D: Chi ti aiutava nella parrocchia delle Semirurali? c’era un altro sacerdote?

R: Vi erano due sacerdoti, uno purtroppo è partito presto per andare nella sua valle, e l’altro era don Daniele Longhi, il quale aveva l’abitazione sopra la chiesetta delle Semirurali. Quello diventò il centro degli smistamenti e degli aiuti. Don Daniele Longhi era sacerdote cappellano dei lavoratori, e lavorava alla zona industriale. Anche da lì partivano le lettere che facevamo entrare, il denaro, gli aiuti, e particolarmente cibi che venivano depositati nelle baracche del Genio Militare e dagli stessi deportati introdotti nel campo di concentramento.

D: Quindi tu e don Daniele Longhi organizzavate gli aiuti dall’esterno?

R: Senz’altro.

D: Parlavi prima di un sacerdote deportato che usciva per lavoro.

R: Era don Andrea Gaggero di Genova. La cosa mi è riuscita particolarmente facile perché veniva condotto sempre a lavorare negli uffici tedeschi con il compito di accendere le stufe a carbone. Ho conosciuto un maresciallo che stava facendo le pratiche per sposare una bolzanina con rito religioso. Da lui avevo quello che volevo, potevo entrare, potevo parlare. Il maresciallo aveva la fidanzata in quel di Merano ed aveva piena fiducia in me. Il guaio è stato che nel campo di concentramento di via Resia quella mattina disgraziata due giovani deportati sono stati scoperti mentre stavano pulendo e oliando un revolver. Io venni a sapere subito la notizia e parlai a padre Gaggero, appunto là nel luogo dove lui si trovava a lavorare. Gli dissi: “Quando entri, mi raccomando, getta tutto quello che ti ho consegnato”. Si trattava di un malloppo consistente. E’ stato anche per la negligenza di don Daniele Longhi, ma è stato anche grazie a Dio un aiuto, poiché così sono potuto andare nei campi di concentramento ad aiutare tutta quella gente.
Dissi a padre Gaggero: “Getta tutto quando arrivi alle Semirurali, dentro i giardini, dentro le casette, qualcuno li raccoglierà, se è onesto mi riporterà il malloppo e se no servirà a quella gente”. Credendo che si trattasse della solita perquisizione, padre Gaggero invece portò il plico, tutti loro furono completamente perquisiti, e il malloppo uscì fuori. Fece un grande errore, e disse: “Me l’ha dato un cappellano militare italiano”. Ero io il solo dei cappellani militari italiani, ero cappellano dei vigili del fuoco, hanno fatto presto a trovarmi.
Quando sono venuto a conoscenza di questo, mi si sono presentate due soluzioni: la prima, di andare all’Adige, cioè fingere di gettarmi nel fiume e lasciare un biglietto d’addio: ma avevo due fratelli che lavoravano alla zona industriale, allo stabilimento Lancia, e senz’altro o loro o i miei genitori sarebbero stati portati in campo di concentramento. La seconda soluzione era quella di fuggire, ma, come nel primo caso, sentii una voce che mi disse: “Coraggio, vai avanti, avrai da soffrire molto ma tutto finirà bene”. Perciò tutta la notte non pensai ad altro che a far sparire dalla mia camera tutti i documenti; rimasero soltanto gli elenchi di presenza e di assenza dei chierichetti. Quando perquisirono la mia stanza e trovarono su questi elenchi un più in rosso e un più in blu, li interpretarono come liste di partigiani, ma io dimostrai loro che uno dell’elenco non aveva nemmeno 12 anni. Ricordo di aver fatto sparire durante la notte tutto quanto era compromettente. E così arrivò il mattino del 2 novembre, giorno della commemorazione di tutti i defunti.

D: Di quale anno stai parlando?

R: Del 1944.

D: Quindi quella mattina andasti a celebrare la messa?

R: Sono andato a celebrare le tre messe dei defunti. Alla seconda messa ho visto un ufficiale della SS e due guardie locali della SOD (Sicherheitsordnungsdienst) ahi ci siamo! Terminata la seconda messa, mi sono recato in confessionale. Si sono avvicinati, hanno aperto la tendina, “Raus!” fuori! e subito mi hanno portato nella mia abitazione. Hanno osservato a destra e a sinistra, e hanno osservato bene perché mi hanno fatto sparire – l’onestà del Terzo Reich era tutto quello che di bello c’era – particolarmente una bella radio Grundig, di valore. È partita la macchina da scrivere, è partita anche la bicicletta, che poi recuperai dopo la guerra, poiché l’avevano data ad un’impiegata della SS.

D: Ti hanno arrestato in quella circostanza?

R: Eh sì, e sono finito subito nel sotterraneo del Corpo d’Armata. Là rimasi chiuso tutto il giorno, ma fortunatamente avevo portato con me una borsa, l’avevano controllata, e c’era dell’ottimo strudel. Venne la notte, ero nel deposito del carbone, l’ho sistemato a forma di letto e ho dormito da prete, grande grazia del Signore. Alla mattina venne un bravo uomo non SS ma anziano, e mi diede uno spintone credendo che fingessi di dormire. Mi sono svegliato e siamo andati agli interrogatori. Io non parlo di torture perché la tortura più grande era la paura di dover parlare, allora giurai in partenza di non rispondere, e ad ogni domanda che mi rivolgevano io rispondevo: “Ich weiß es nicht” (Io non lo so). Dissi che quello che avevo fatto nel campo di concentramento era una cosa autorizzata da Verona, ed era vero, anche se non in quel modo, e che questa autorizzazione si trovava presso un sacerdote cappellano delle carceri. Un’ora dopo me lo vidi, anziano poverino, comparire davanti! Fortunatamente lui presentò questo permesso.
Ricordo un fatto terribile: dentro nel campo di concentramento c’era il famoso dottor Lepetit, che era stato arrestato a Milano e portato nel campo di Bolzano. Gli avevano detto che se avesse portato nel Lager una farmacia con molti farmaci avrebbe fatto il farmacista e sarebbe rimasto fisso a Bolzano. Quando tutto fu portato a cura del povero Lepetit, egli partì per la morte; io feci l’impossibile per fargli coraggio, gli dicevo sempre: “Tutto passa e si scorda, anche Hitler col suo partito”, ma lui negava. Forse perché nella sua vita aveva fatto sempre un lavoro di concetto e non aveva mai provato quello che abbiamo provato noi cappellani militari nell’esercizio del nostro ministero di assistenza ai soldati. Noi non vogliamo nessuna guerra, né l’abbiamo fatta, eravamo solo per l’assistenza, e spesso ho cavato fuori dalle macerie, come cappellano dei vigili del fuoco e comandante, anche tedeschi, e li ho salvati.

D: Dopo il Corpo d’Armata dove ti hanno portato?

R: Dopo il Corpo d’Armata mi hanno portato al campo di concentramento di Via Resia.

D: Ti avevano lasciato la veste talare?

R: Tutto, tutto. Allora ebbi un sentore. Fui chiuso subito nelle famigerate celle e capii che ero destinato ad altra sede. E venne il giorno.

D: Nel campo di Bolzano quanto tempo sei rimasto?

R: Vi sono rimasto tutto il mese di novembre. Venne il famigerato trasporto. Mi hanno dato le vesti sacerdotali e siamo stati condotti alla zona industriale, proprio di fronte allo stabilimento Lancia. Ho avuto dagli operai dello stabilimento Lancia l’ultimo saluto; a loro dissi di dare notizie ai miei fratelli e di andare a casa mia a portar via tutto quello che di bello e di buono c’era, e sono riusciti.
Una cosa è interessante: coloro che mi arrestarono, sulla porta della mia abitazione mi fecero scrivere “Torno subito / ich komme bald”, e da allora incominciarono a parlarmi in tedesco.

D: Del tuo trasporto cosa ricordi? In quanti eravate sul vagone?

R: Eravamo il solito vagone bestiame. Qualcuno è riuscito a segare le assi e a gettarsi dal vagone, alle fermate o durante i rallentamenti. Però ricordo un fatto che è una meraviglia: a Innsbruck sono riuscito ad avvicinare una persona dal finestrino, gettare un biglietto per annunciare alle mie due zie, Maria e Pia ambedue sposate a Innsbruck, che ero diretto alla destinazione che ero riuscito a leggere scritta col gesso sul vagone bestiame: “Mauthausen“.

D: Ricordi quanto è durato il viaggio?

R: Il viaggio è durato un giorno e una notte, poi siamo giunti alla stazione che serviva Mauthausen. Lì siamo stati scaricati dai kapò in maniera bestiale, e diretti a piedi al campo di concentramento. Dopo la solita storia di depositare, controllare, dare i dati, i vestiti ed anche i soldi che avevamo addosso, ecco che ad un certo punto io mi trovai nella zona di quarantena. Lì alla mattina la solita conta al freddo, batteva ormai il vento lassù nella famigerata rocca di Mauthausen.
Il nome vuol dire dogana, Maut è dogana, Haus è casa, casa della dogana: la navigazione sul Danubio si fermava lì dove a valle c’erano il controllo e la dogana.

D: Anche tu come gli altri deportati hai subito la spoliazione e la rasatura?

R: E abbondante perché, se purtroppo ne ho pochi in testa, ne avevo tanti sul corpo. Con dei rasoi che erano dei seghetti, con poco rispetto della dignità. Quando poi penso che i kapò era gente che era stata fatta a sua volta prigioniera, e, come è avvenuto nel campo di concentramento di Bolzano, sono poi passati ai tedeschi, la cosa era veramente umiliante. Per me l’umiliazione è sempre stata la peggiore e la più profonda pena, perché a mano a mano che il rasoio passava su di me, io pensavo ai kapò.
Un giorno si presentò un giovane, di cui fornisco particolari perché sarei contento se si facesse una ricerca in quel di Trieste. Mi disse: “Io qui nel campo di concentramento sono Oberschreiber: scrivo, annoto, sono triestino, cresciuto nel collegio di un istituto salesiano; si fidi di me perché c’è la possibilità di trasferire da Mauthausen a Dachau tutti i sacerdoti che sono residenti. Mi faccia un elenco.” Quella famosa notte non dormii, ma alla mattina mi dissi: “Giochiamo!”, e gli consegnai l’elenco. Noi sacerdoti siamo stati subito di nuovo vestiti coi nostri abiti, anzi ci hanno messo come divisa i vestiti della campagna di Russia della Prima Guerra Mondiale, che puzzavano maledettamente di naftalina. Alla stazione ci hanno messo sul vagone di un treno normale Vienna-Dachau, o meglio Vienna-Monaco.

D: Don Guido, ricordi il tuo numero di matricola di Mauthausen?

R: No.

D: Assieme al numero ti hanno dato anche un triangolo?

R: Il famoso triangolo, eccolo qui. Non l’ho voluto ricordare perché voleva dire essere ridotti come gli animali. La verità è che il numero originale l’ho dato per una mostra, ma quelle mostre sono mostri e nulla mi è più tornato indietro.

D: Assieme a te, quando hai compilato l’elenco dei sacerdoti a Mauthausen, hai messo solamente gli italiani?

R: No no. C’era anche il cardinale Beran, che allora era monsignor Beran, ed era nel campo di concentramento ancora dall’occupazione della Cecoslovacchia; era assistente spirituale degli universitari, e a resistere ai nazisti a Praga gli ultimi sono stati gli universitari. Sono stati fatti prigionieri e poi portati nel campo di concentramento. Però avevano un beneficio: ricevevano pacchi dalla Cecoslovacchia.

D: Ricordi qualche altro sacerdote che era con te a Mauthausen?

R: Al momento non potrei dire. Ci ripenso.

D: Quindi ti hanno portato alla stazione di Mauthausen e ti hanno caricato sul treno, non più sui vagoni bestiame.

R: Era un treno normale che fermava nelle varie stazioni; giunto in quel di Monaco, il vagone finì a 24 chilometri da Monaco, dentro il campo di concentramento di Dachau. Il campo di concentramento di Dachau era un campo di coltivazioni, come si direbbe oggi. Durante la Prima Guerra Mondiale avevano portato dalla Selva Nera tanta terra nera; lì c’erano le cosiddette Gewächshäuser, cioè delle vere e proprie serre. Adesso se volete vi posso dire chi lavorava particolarmente in quelle serre: i sacerdoti. Nel campo di concentramento vi era infatti anche un convento intero di benedettini, dal padre portinaio fino all’abate, che si distinguono nello studio e nelle ricerche di nuove piante e di nuove, diciamo, coltivazioni. Lì dentro eravamo adibiti al lavoro. Volete che vi racconti anche che cosa si faceva lì dentro? Si celebrava la messa. Avevamo una specie di cassa come quella della frutta, e vi avevamo nascosto tutto il necessario per celebrare la messa; noi si lavorava a curare le piante ed a trapiantarle mentre l’altro celebrava la messa; alla fine si faceva la comunione. Un bel giorno capitò uno della SS e trovò che le varie piantine non erano state mosse, ma una invece era stata nascosta. Appena si sentì la porta aprire, mi disse: “Tu maledetto, guarda, non hai fatto niente!”, e io risposi: “Mi scusi, ma quelle sono le piante riservate ad un altro e lui le deve curare”; così ce la siamo cavata. Volete anche qualche cosa sul famoso Plantage? Alla rivendita delle piante e dei vasi veniva sempre una Fräulein in bicicletta; veniva da un istituto di suore. La Fräulein arrivava e comprava. Alla rivendita erano addetti sacerdoti polacchi, e con domande e strategie capirono molte cose. Così fecero un doppio fondo nel cestino della Fräulein e di lì entrarono le ostie, il vino, anche l’olio per la consacrazione di un vescovo, che era uno jugoslavo.

D: Quando siete arrivati da Mauthausen a Dachau, eravate tanti sacerdoti?

R: No, eravamo un vagone. E in quel vagone è avvenuto quel che non doveva avvenire. Io avevo le mutandine corte per paura dei pidocchi, e il povero monsignor Beran si era portato sette paia di mutande di lana, sette paia! Quello della SS imprecò: “Maledetto, guarda quello, che ha le mutandine e tu invece hai tutto questo. Dov’è la tua carità cristiana?”. Mi ordinò di bastonarlo, lo feci con poca forza, e lui mi disse in latino: “Non suaviter sed fortiter”, perché se erano deboli, i colpi non venivano contati, cioè “non soavemente ma forte”, così gli diedi sette colpi forti.

D: Tra i sacerdoti italiani c’era per caso don Valota con te?

R: Sì, don Valota.

D: L’elenco era molto lungo?

R: Era molto lungo, perché vi erano molti sacerdoti, anche belgi e del paese del Papa, polacchi. Finimmo tutti nel Block 26, di cui metà era usata per soggiorno nostro.

D: Guido, ti ricordi se c’era con te anche Don Crovetti?

R: Don Crovetti, sì.

D: E c’era anche qualcuno di Bologna?

R: Anche. E’ una cosa che non dovrebbe essere ma il tempo, ringraziando il cielo, cancella.

D: C’era anche don Paolo Liggeri?

R: Don Paolo Liggeri, che poi tornò in quel di Milano ed ebbe una grande missione.

D: Quando siete arrivati a Dachau avete subito un’altra spoliazione?

R: Sì; il guaio è stato quello che avevano diffuso la voce di stare attenti perché dopo la doccia avrebbero mandato dentro il gas. Per delle ore ci lasciarono nel locale dopo la doccia, fortunatamente soffrimmo tanto il freddo ma non avemmo la condanna al gas. Io anche in quella occasione sono finito in quarantena. Il giorno preciso dell’8 dicembre, giorno dell’Immacolata, dopo l’appello, si avvicinò a me un sacerdote, il caro canonico rosso. Era redattore del giornale Dolomiten, che era un settimanale di lingua italiana e tedesca. Dopo l’8 settembre (1943) andò in ufficio, e subito fu preso e portato a Innsbruck poi nel campo di concentramento di Dachau.

D: Ti ricordi come si chiamava questo sacerdote?

R: Aiutami.

D: Don Rudolf.

R: Rudolf Posch, Rudolf Posch.

D: Di dove era don Rudolf Posch?

R: Rudolf Posch era proprio bolzanino, e aveva un altro fratello sacerdote, monsignore.

D: Prima accennavi al blocco 26 di Dachau. Nel blocco 28 chi avevano concentrato?

R: Praticamente di fronte al nostro blocco, nel blocco 27, c’erano jugoslavi. Alla fine i tedeschi se la prendevano con tutti coloro che avevano rallentato la loro marcia e la possibilità della loro finale vittoria, e volevano anche giustiziare i deportati jugoslavi. Noi italiani avevamo la “I” di Italia a forma di colonnina, loro avevano la “J” di Jugoslavia con un riccetto: io ho fatto tagliare il loro riccetto e sono diventati italiani.

D: Quando dici che celebravate la messa al Plantage, intendi dire che lo facevate di nascosto?

R: Senz’altro, come avevamo tutto clandestinamente. La ragazza poi è diventata suora e c’è anche un film su questo fatto tedesco molto importante ed interessante. A noi è andata sempre franca.

D: Anche in baracca celebravate messa?

R: Sì, avevamo una vera cappella, anche se povera; quando è stato consacrato il sacerdote deportato, malato di tbc, avevamo il pastorale in legno e l’ostensorio in legno, erano meravigliosi! Lì abbiamo deciso quello che è poi stato l’esito del Concilio Vaticano II. Abbiamo infatti deciso che, finita la prova e se il Signore ci avesse dato la grazia di poter ritornare a casa, allora avremmo unito tutte le vere fedi in un solo sforzo per ricordare che, se in nome di quel Cristo e in nome di Dio eravamo stati nemici, avremmo dovuto creare una nuova Europa.

D: Oltre ai cattolici nel blocco 26 e nel blocco 28, c’erano anche appartenenti ad altre religioni deportati con voi?

R: Sì, specialmente erano da notare i protestanti e poi quelli della nuova religione cecoslovacca, che cioè avevano aderito al regime comunista.

D: Voi sacerdoti deportati portavate la zebrata?

R: Eh sì, quello era il distintivo. Un fatto è interessante, che è valso poco per don Guido, ma quelli che più erano propensi alla fuga, ovvero i russi e gli italiani, venivano rapati con un rialzo, e poi in mezzo alla testa vi era una striscia rasata a zero che noi abbiamo soprannominato l’asse Roma – Berlino.

D: Don Guido, c’era qualche differenza tra voi sacerdoti deportati e gli altri deportati?

R: Sì.

D: Nell’alimentazione?

R: No, non nell’alimentazione, che era in mano ad un capoblocco, sacerdote pure lui, e che faceva i controlli del mattino e della sera. Sono arrivato al punto di ottenere che se uno aveva 40 gradi di febbre non doveva essere portato fuori e il Blockältester, cioè il sacerdote capoblocco diceva: “Più uno che ha la febbre”. Così abbiamo evitato, almeno per la nostra baracca, di portare fuori i moribondi.

D: Ricordi altri sacerdoti italiani con te nel blocco 26?

R: Sì, purtroppo quel povero padre milanese che è arrivato pieno di pidocchi. Era confessore. Lo conoscete, lo avete trovato? Era a Milano in duomo, proveniva dalla Val di Non.

D: Forse padre Giannantonio?

R: Padre Giannantonio. Ebbene era distrutto dai pidocchi, lo abbiamo aiutato. Quando uscivamo al lavoro, eravamo bestie da macello. Come tutti. Quando eravamo dentro…credo che ci sia stato anche un miglioramento perchè a un certo momento hanno chiamato sacerdoti che si trovavano dentro al campo di concentramento, ma le loro parrocchie erano ai confini della guerra russa che avanzava; venivano lavati, con doccia e bagno, e rivestiti e mandati ai loro paesi, per far vedere che non li avevano uccisi e si poteva mettere a tacere qualcosa.

D: Don Guido, ti ricordi di don Fortin?

R: Anche di Don Fortin.

D: E di padre Manziana?

R: Padre Manziana, poverino, in che stato era ridotto! Ricordo anche padre Girotti, il grande domenicano, il quale teneva conferenze che erano qualche cosa di stupendo e di meraviglioso perché era uno dei commentatori ufficiali della sacra scrittura, credo dei salmi. Anche quello in che condizioni. Se fossero rimasti in un altro blocco, Manziana e padre Girotti e altri sarebbero finiti male.

D: Don Aldrighetti te lo ricordi?

R: Come!? Chi dimentica Aldrighetti, che non capiva niente di tedesco, e mi stava sempre alla destra e a sinistra a chiedermi cosa avessero detto? Quando è stato il momento che gli americani hanno sfondato e sono sbarcati e hanno costruito il ponte, fuori a Dachau era una giornata di vento dalle Alpi Bavaresi e il discorso di Hitler era questo:”è un bene che gli Alleati siano sbarcati, perché oro sono più forti per mare e per aria, ma noi siamo più forti e fortificati: sbarcheranno 10 Alleati e ne annienteremo 100; 100 Alleati e ne annienteremo 1000; 1000 Alleati e ne annienteremo 10000 e così via.

D: Cosa ricordi della liberazione?

R: Della liberazione mi ricordo che abbiamo sentito sparare a salve da lontano i cannoni degli americani che puntavano su Dachau. Basta forni crematori per la povera gente! Bruciarono giorno e notte tutte le possibili documentazioni, tutti gli scritti, tutte le cose compromettenti, e girava per l’aria la carta bruciata.
La vergogna più grande era però questa: arrivarono nel campo di Dachau dei vagoni con dentro poveri figlioli che avevano come indumento una coperta con un buco, e basta. E basta. Dovemmo salire sui vagoni con le maschere, a causa dell’odore e del fetore, perché erano stati abbandonati a morirvi di fame e di sete.
Il giorno della liberazione fu intorno al 25 aprile, 27 aprile. Finalmente, alla mattina entrò un carro armato americano, sfondò il famigerato cancello dove era scritto Arbeit macht frei (il lavoro rende liberi) ed entrarono. Ecco che sulla torre di comando apparve un ufficiale che lesse queste parole e le tradusse in varie lingue: “Non è da discutere l’ordine: nessun deportato politico deve cadere vivo nelle mani degli alleati, usate qualsiasi mezzo, firmato Hitler. E tutti siamo rientrati nelle baracche avviliti. Io invece cantavo: “non hai sentito durante questa guerra, vedrai il giorno in cui ci sarà il crack. Ecco quale sarebbe stata la vostra fine, se la provvidenza di Dio non ci avesse mandati a liberarvi.” Poi incominciò a fotografare, recitò il padrenostro in diverse lingue, era cappellano militare, e alla fine gettò sigarette, confetti e biscotti, ogni ben di Dio dal comando. E lì in quel di Dachau, con il cardinale Beran, all’indomani fu eretto un grande altare e fu celebrata una grande messa di ringraziamento. Il cardinale disse queste parole testuali: “Confessando Cristo siamo entrati in questo campo di concentramento, dobbiamo essere pronti a ritornarci, se fosse necessario.” Così fu poi per lui, perché anche in seguito fu perseguitato e si dovette nascondere quando i russi giunsero a Praga.
Per finire, posso raccontare l’arrivo al Brennero? Arrivati al Brennero si diceva: “Giunti al Brennero, canteremo Fratelli d’Italia, Giovinezza – c’erano anche i nostalgici – Bandiera Rossa”. Io dissi: “Giunti al Brennero, canterò io!” E così, giunti al Brennero, andai al microfono e cantai: “Mamma son tanto felice, perché ritorno da te!”, e si fusero le lacrime e il canto.

Pedrotti Ginevra

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Pedrotti Ginevra. Sono nata a Novaledo il 26.07.1921.

D: Ginevra, quando Vi hanno arrestata?

R: Penso sia stato nell’anno 1944, prima del Natale del ’44, non mi ricordo di preciso il giorno, no.

D: Dove Vi hanno arrestato?

R: A Novaledo.

D: Perché?

R: Perché mio fratello era nella FLAK a Bolzano. Un dì moriva questo, un dì moriva quello e lui per paura è scappato. E’ scappato ma non era partigiano. Forse dopo sarebbe andato coi partigiani ma dopo l’han preso a casa. L’han preso a casa, era a letto; era nascosto ma gli era venuta la bronchite ed era tornato a casa malato e lo hanno trovato a letto. L’hanno preso e l’hanno portato fino a Campiello. A Campiello però mentre stavano arrivando per arrestarne altri due è di nuovo scappato. Gli hanno sparato dietro, ci sono ancora sui meleti tutti i bossoli. Lui e il cane, che era con lui sul camion, scappavano a zig zag e poi è scappato. Subito dopo essere scappato alla mattina sono venuti a prendere noi. Mio padre quando ha visto arrivare il camion delle SS è scappato anche lui. Hanno caricato un mucchio di roba che avevamo, una cassa di calzini nuovi, tutto quello che han voluto, poi hanno caricato anche noi e via. Ci hanno portato in carcere a Borgo Valsugana.

D: Hanno arrestato te e chi?

R: E la mamma. Io e mia madre ci hanno portato a Borgo, in carcere, e là ci hanno tenute 15 giorni prima di interrogarci. Mia madre non era neanche capace di parlare dallo spavento e le ho detto: “Noi non c’entriamo niente, che colpa abbiamo se questo ragazzo è venuto a casa! Chi è la mamma che non accoglie in casa un figlio?”. E ci hanno caricati sul camion dopo l’interrogatorio.

D: In carcere c’erano fascisti o tedeschi?

R: Italiani. Il carceriere era di Borgo. Il carceriere era uno di Borgo.

D: In cella ti hanno lasciato insieme a tua mamma?

R: Sì sì.

D: Assieme ad altre persone?

R: C’erano altre che non conoscevo. Sono venuti fuori 3 preti, 3 ragazzi, studenti preti. Sa che una volta dovevano portare la tunica, non erano preti ancora. Ecco quando poi ci hanno caricati sul camion ci siam trovati tutti assieme, ‘sti tre ragazzi, noi, e altre 4 o 5 persone che venivano da Castel Tesino.

D: Ginevra, quanto tempo siete rimasti nel carcere?

R: 15 giorni.

D: In 15 giorni avete subìto degli interrogatori?

R: Uno.

D: Chi ve lo ha fatto e cosa vi si chiedeva?

R: La SS mi domandava se avessimo dato da mangiare ai partigiani. Noi abbiamo detto: “Siamo gente che lavora e che non si preoccupa di altro”. Ecco, e la mamma continuava a piangere. Rispondevo io. Dicevo così. Loro non han capito ragione e ci han portati via.

D: Una bella mattina vi hanno caricati su un camion…

R: … camion e a Bolzano. Fino al Ponte di Vodi (a nord di Trento) e se non fosse andata bene sarei rimasta lì ma per fortuna si vede che hanno pensato che sul camion c’erano prigionieri e non hanno bombardato il camion, hanno bombardato il ponte di Vodi.

D: Sul camion in quanti eravate?

R: Saremo stati in 7, 8. Non mi ricordo bene.

D: C’eravate tu e la tua mamma.

R: E poi quei 3 preti e altre 2, 3 persone e il militare che ci faceva la guardia, 2 militari che ci facevano la guardia.

D: Tedeschi o italiani?

R: Oh, italiani e tedeschi.

D: Vi hanno detto dove vi portavano?

R: No, ci hanno caricato senza dirci niente, niente, niente, niente. Alè, andiamo!

D: Quindi quando è stato bombardato il ponte vi siete fermati?

R: Sì, dopo siamo ripartiti perché l’aereo è andato via. Siam ripartiti e siamo arrivati a Bolzano e in Bolzano ci han messo nel blocco A, nel blocco A.

D: Subito al campo di concentramento vi hanno portati?

R: Subito.

D: Cosa ti ricordi del campo di Bolzano quando sei entrata con tua mamma?

R: Un formicaio di gente. Un formicaio di gente disperata. E la paura che prendessero mio papà! Tutti i giorni guardavo fuori quando arrivavano i camion. Un bel giorno m’ha sorpresa l’ucraina, mi ha dato 2 o 3 bastonate e mi ha fatto stare tutto il giorno con la faccia al muro perché guardavo fuori chi arrivava. Invece il mio papà non l’hanno mai preso, neanche mio fratello, è stato nella tana della volpe tutti i mesi.

D: Cos’è la tana della volpe?

R: Un buco dentro nella montagna.

D: Dove? In che zona era?

R: Sempre a Novaledo, sopra vicino al Sella.

D: Nel blocco A, quando siete entrati nel campo di Bolzano, vi hanno tolto i vestiti?

R: Sì, mi han fatto spogliare e mi han dato la tuta di sacco col triangolo rosso perché noi eravamo ostaggio politico.

D: Vi hanno dato anche un numero?

R: Sì, ce l’avevo, ho un numero, l’ho scritto sul libro.

D: Te lo ricordi adesso il tuo numero?

R: No, ho il libro lì, basta andare a prenderlo. Non mi ricordo il numero, no.

D: Tu sei sempre rimasta con la mamma?

R: Io no, ero lavoratrice libera.

D: Ma quando sei rimasta e t’hanno portato lì?

R: Sì, sempre con la mamma son rimasta. Guai se mia mamma vedeva che mancavo! Non mi hanno mai staccata da lei; sono stati bravi a non staccarmi mai. Perché sennò sarebbe morta lì dalla disperazione.

D: Ricordi se c’erano altre donne nel campo?

R: Sì, certo mi ricordo. Ce n’era una di Levico con la figlia anche quella, e son già morte; c’era la professoressa Zasso di Belluno, proprio vicino al mio letto, carina, era dentro anche lei come ostaggio per il figlio.
Nel blocco E c’era uno di Levico: lo portavano fuori a prendere il sole, sembrava uno scheletro vivente e quando è finita la guerra a Vetriolo tutti gli anni mi veniva a portare le fragole. Mi han messa sì lavoratrice libera ma prima m’han messo in sartoria e lavoravo. Lavoravo? Non facevo niente, dormivo sul tavolo. E quando veniva il maresciallo a controllare, i ragazzi mi venivano a chiamare perché mi alzassi.
Sull’angolo del campo c’era la Polizia Trentina che ci guardava, e gli dicevo: “Ehi, traditore della patria, beh, domani devi portarmi pane per quei tuoi amici che dentro stanno morendo!” Mi portava filoni di pane, di nascosto, e sigarette perché ero giovane allora e ‘sto ragazzo diceva: “Guardo che vengo a trovarti dopo la guerra!”, “Sì, sì ven ti caro – dico – intanto portami il pane adesso e sigarette!”.
Guarda che avevo fame anche io, sai. Ma mi facevano tanta pena. Aveva il cuoco che mi faceva la corte. Veniva con il taschino pieno de zucchero, diceva: “Bisogna che tu mi sposi dopo la guerra”, ero bellina allora. E gli dicevo: “Non solo zucchero, portami anca qualcos’altro, il sale per salare”: Mi dava torsi di verza senza sale, senza niente.
A me le mestruazioni duravano 25 giorni al mese e sono venuta fuori dal sanatorio; le mie amiche, due, son morte in sanatorio, una di Torino e una di Levico.

D: Deportate anche loro?

R: Sì.

D: Come si chiamavano? Te lo ricordi?

R: Quella di Levico aveva un nome lungo lungo, ma tanti anni sono passati, e una di Torino, e anche di lei ho dimenticato il nome.

D: Ginevra, ti ricordi se hai visto anche dei ragazzini, dei bambini nel campo?

R: Un ragazzino si chiamava Giuseppe Maria. L’avevano messo con gli uomini, dopo lo chiamavano Maria e l’han messo con le donne. C’era dentro il rastrellamento di Bologna delle case di tolleranza, tutte lo volevano nel letto ‘sto Giuseppe Maria per vedere se era un uomo o una donna. Succedevano anche ilarità fra le lacrime e i pianti. Mi ricordo i ragazzini, i piccoli; una signora con 2 bambini, ebrea di Milano; quella è sparita, è stata dentro un po’ di tempo, poi è scomparsa come altre 2 ebree, mamma e figlia, sono state dentro un po’ di tempo e poi sono sparite. E dopo ho visto, han detto, passava fuori uno o due con una cassa sulla schiena, una cassa frugale e ha detto: “Lì ci sono dentro quelle due povere donne ebree, le hanno uccise, nel blocco chiuso.”

D: Il blocco celle?

R: Sì, le han messe nelle celle e dopo sono venute fuori morte.
Dopo hanno ucciso un uomo davanti a noi perché era uscito dalla fila andando a lavorar. Andava a lavorar in galleria: ha messo fuori un braccio per prendere un tozzo di pane da un signore e l’hanno portato in campo, l’hanno ucciso lì, col mitra, in terra morto.

D: Ti ricordi quando è avvenuto?

R: Sai che non mi ricordo, è passato tanto tempo. Sarà stato un mese che ero dentro, un mese e mezzo. Poi noi avevamo il terrore che tutte le notti ci caricassero perché tutte le notti partivano camion de uomini per la Germania, tutte le notti partivano uomini che andavano in altri campi di concentramento e noi vivevamo col terrore che portassero via anche noi.
Ma siccome dopo m’hanno messa come lavoratrice libera a fare il letto alle loro donne in una villa io uscivo dal campo, facevo il giro sulla strada che va a Bolzano, andavo dentro una stradina e andavo a fare i letti e un po’ di pulizia.

D: Tu da sola uscivi dal campo?

R: Da sola, mi dicevano: “Kaputt”: se non fossi tornata avrebbero ucciso la mamma, puoi immaginarti se scappo! mi premeva la mia mamma, l’ho sempre avuta cara, anche dopo.

D: Uscivi con la tuta?

R: Col bollo sulla schiena, col triangolo sulla schiena.

D: E le persone che incontravi ti guardavano?

R: Non c’erano mica tanti bolzanini che mi parlavano; c’era l’attendente del colonnello, c’era anche il colonnello.
Un bel giorno andando fuori mi son buttata in mezzo a un prato di margherite a dormire. Invece che andare a lavorare dissi: “Va bene, me la dormo qui in mezzo a un prato.” Mi son messa in mezzo a un prato di margherite, era tutto margherite, era di maggio, appena prima che finisse la guerra. Passa il colonnello con la macchina e mi dico: “Zitta, ormai non mi alzo, sto qui ferma”. Ha mandato l’attendente a portarmi il cuscino da mettermi sotto la testa. Ma te lo giuro, sai? E l’attendente me l’ha portato ma li giorno dopo mi ha detto: “Ginevra! Se ti prendo dopo la guerra! Era un bolzanino; ma guarda, c’è gente cattiva ma non c’è come quei bastardi di bolzanini che non sono né italiani né tedeschi, tremendi come i diavoli, è vera sai, erano figli di puttana quelli.
Sa che non mi hanno mai offerto niente, c’erano scatole grandi di caramelle buone, non mi hanno mai offerto una caramella quelle donne, mogli di colonnelli, di capitani, di tenenti, di SS: mai offerto una caramella. Ma io mi arrangiavo.

D: Ginevra, ma quando rientravi andavi sempre nel blocco A o vi hanno cambiato di blocco poi?

R: Sempre nel solito posto.

D: Sempre nel blocco A?

R: Sempre nel blocco A.

D: E mamma cosa faceva dentro?

R: La mamma stava dentro con la professoressa Zasso, anche quella non l’han messa a lavorare. Stavano assieme loro due; passeggiava tutto il giorno, sembrava impazzita, passeggiava indietro avanti, indietro avanti, nel blocco. Loro non potevano neanche uscire dal blocco; io come lavoratrice libera andavo nelle cucine, gli inglesi avevano la cucina e si facevano da mangiare, gli americani.

D: Dopo la guerra?

R: No, durante. Loro si facevano il mangiare a parte.

D: Ma scusa, nel campo c’erano degli inglesi?

R: Inglesi di quelli che cascavano con gli aerei, e americani.

D: E si facevano loro da mangiare?

R: Loro si faceva da mangiare, e io andavo a lavare i loro piatti e mi davano qualcosa; allora potevo rientrare nel campo.

D: A proposito di alimentazione, prima dicevi che il cuoco ti faceva la corte.

R: Sì.

D: Ricordi di che nazionalità era quel cuoco lì?

R: Uno di Belluno era, un bellunese. E’ arrivato a casa dopo, ah è venuto dopo la guerra e gli ho detto: “Tu credi che per una scorzella di zucchero prendi una donna?” E mia madre gli ha detto: “E’ lì mia figlia”. Sapeva che ero scaltra di carattere, non scaltra no, ma capace di difendermi alla mia maniera. Disse: “Lì è mia figlia”. Mamma poi se la rideva da morire.

D: Ginevra, anche la tua mamma aveva la tuta con un numero?

R: No, solo io. A mia mamma hanno lasciato i vestiti.

D: Senza numero?

R: Senza numero.

D: Senza triangolo?

R: C’era il numero ma non lo aveva attaccato sulla schiena.

D: Al lavoro sei sempre andata fuori da sola?

R: Sempre da sola.

D: A fare le pulizie?

R: Sì, quando ero arrabbiata le facevo come le facevo; facevo il letto, per ogni letto c’era un mitra, avevo anche paura. Qui c’è il letto, il comodino e fra il comodino e il letto, un mitra. Anche loro … avevano paura anche loro.

D: Mentre uscivi non hai avuto contatti con persone esterne?

R: Non mi parlavano, avevano paura di parlare a gente che usciva dal campo di concentramento. Si vedeva che si scansavano, i bolzanini tenevano ai tedeschi; lì erano tutti di quelli che avevano la campagna e l’hanno lasciata per seguir (Hitler). PARLA DEGLI OPTANTI PER IL TERZO REICH. Lo sa che hanno lasciato la campagna dove si erano trasferiti, poi hanno voluto venir dentro ma non l’hanno più trovata la campagna, non gliela hanno più data. Qui da noi c’è uno che ha una bellissima casa con un sacco di campagna: suo padre l’ha comperata da quelli che volevano andarsene. Abita qui nella nostra casa.

D: Ti ricordi nel campo di Bolzano di quella donna che veniva soprannominata la Tigre? E i due ucraini, te li ricordi, quelli del blocco celle?

R: Ma quelli erano quelli che davano botte! Sì mi ricordo, quelli erano quelli che davano legnate. Sì, anch’io avevo un’ucraina che mi faceva la guardia. Ma me la sono fatta buona l’ucraina. Dopo mi ha chiesto se fossi capace di lavorare a maglia, allora ho cominciato a farle le mutande di lana. “Si tenga calda, le faccio io le mutandine”. Sono sempre stata così di carattere, guai se non avessi avuto ‘sto carattere… Le facevo le mutande e dopo mia mamma e la professoressa ridevano. Le facevo due pezzi col triangolato, attaccavo il triangoletto bellino e lei mi diceva: “Oh Danke, Danke Ginevra, Danke Genf”. Genf mi diceva in tedesco. Un dì venne, mi portò della lana bianca e mi disse di farle una giacca. Beh non mi è mai riuscita così bene, glie l’ho fatta bellissima. E sai che cosa m’ha dato? Due scacchetti di cioccolata. Ho detto, un’altra volta non te la faccio più.

D: Ginevra, quando hai lavorato il primo periodo in sartoria, la sartoria era nel campo o fuori?

R: Dentro, sotto la garitta, sotto l’ultima garitta, sotto a quella d’angolo che guardava….allora erano tutti prati là.

D: Tu lavoravi sola?

R: Sì, io come donna ero sola con uomini da Torino, ero il jolly perché dicevano: “Arriva la nostra piccola”. Tutta brava gente e nessuno che mi ha mai fatto scherzo, mai. Tutta brava gente.

D: Ricordi se potevate scrivere o ricevere lettere o dei pacchi?

R: Nessuno mi ha mai mandato niente. Avevo un ragazzo che lavorava; l’unico che m’ha mandato delle mutande e dei pannolini è stato un signore che lavorava alla centrale di Albiano. Sopra Bolzano c’è una centrale.

D: Quella di Prato Isarco?

R: Lui lavorava nella centrale e aveva una forte simpatia per me, lo conoscevo prima. Dov’è?

D: Forse Appiano?

R: Appiano. (NB: è Cardano) Veniva qualche volta sulla porta a veder se mi scorgeva. Si vede che aveva dei permessi speciali, vestiva in divisa, veniva e mi portava mutande e pannolini perché ne avevo estremo bisogno, perché allora non c’erano i pannolini. Sempre lavarsi con l’acqua fredda e fuori passavano le finestrelle a questa altezza: così vedevano dentro la Polizia Trentina e le SS che passava a far guardia di notte, venivano dentro urlando. C’era da nascondersi perché c’era come un corridoio lungo con tutte fontanelle come gli abbeveratoi della bestie.

D: Da mangiare cosa vi davano?

R: Solo minestra. E il giorno di Pasqua hanno fatto la pastasciutta.

D: Il giorno di Pasqua è successo un altro fatto però, è entrato qualcuno nel campo, no?

R: E’ venuto il vescovo di Belluno a portare la comunione, ha portato pacchi a tutti i suoi bellunesi, a tutti.
E dopo era scappato uno di Levico, una persona altolocata, era un po’ maneggione dentro, non so come dirlo: aveva un compito dentro nel campo, e uno di quei giorni è scappato.

D: Ricordi se dentro nel campo voi avevate dei soldi per poter comperare qualcosa?

R: Niente, mai comprato niente mì.

D: Quindi non c’era uno spaccio dentro nel campo?

R: Io non ho mai comprato niente.

D: Non entrava un camioncino a vendere le mele?

R: Niente. Io non l’ho mai visto.

D: Ti ricordi di una deportata che veniva soprannominata “Cicci”? piccolina?

R: Ce n’erano dentro tante tante. Sì ci sarà stata ma io, siccome andavo a lavorare e dopo quando avevo tempo andavo a guardare i bambini ebrei e a giocar con sti popi ebrei. Dopo andavo sotto la garitta a prendere il pan e portarlo a quegli altri e le sigarette perché sa, uno che ha il vizio! E dopo ero sempre un po’ occupata, io e la, come si chiamava quella di Levico? Ha un nome strano, veniva anche lei insieme a me, aveva 2 o 3 anni più di me. E andavamo ma non me ricordo.

D: Ginevra, ti ricordi la liberazione?

R: Sì, me la ricordo. Mi han fatto una carta che ho perso, mia mamma l’ha persa. Per fortuna che avevo il libro io perché quando è morto il papà la mia casa è stata messa sotto sopra e mia cognata ha bruciato tutte le carte che ha trovato nel cassettone; ho una cognata calabrese, di quelle che non sanno né leggere né scrivere.

D: E alla liberazione tu e tua mamma dove eravate?

R: Eravamo in campo però fuori dal campo abbiamo trovato una famiglia di Bolzano che ci ha portate a casa sua e ci ha dato da mangiare e da dormire quella notte. Ho tanto mangiato che son stata male. E il giorno dopo noi ci siamo avviate a piedi, ma quella notte son venuti a bombardar Bolzano; un mucchio de prigionieri che dormiva sotto le porte del Duomo sono morti dopo.

D: Ma voi siete uscite dal campo, vi hanno detto che eravate libere?

R: Libere, mi han dato una carta, un biglietto così: a me e anche alla mamma.

D: E siete andate da questa famiglia?

R: C’era fuori questa famiglia. Lui era un commerciante di verdure, portava col camion le verdure dal Veneto e son venuti a prenderci e mi ricordo che c’han portati a casa loro. Abbiamo dormito lì, ci han dato da mangiare e poi la mattina presto a piedi ci siamo avviate. Siamo arrivati fino a Ora, penso. A Ora passa un camioncino di tedeschi e ci chiede dove andiamo. Abbiamo detto: “Andiamo in Valsugana”. Ci han caricati e portati fino a Levico, perché a Levico c’era ancora il comando, c’era ancora qualche rimasuglio. La mamma l’ho lasciata a Levico in famiglia a dormire e sono andata a Novaledo, 5 chilometri a piedi. Incontravo i tedeschi con buoi, con mucche, con vettovaglie che si portavano a casa.
Ma per noi è stata una distruzione: la nostra famiglia aveva 6 bestie nella stalla, 6 mucche, 2 maiali, pecore, conigli, galline, perché noi eravamo i “baccani” dicono, cioè i benestanti, prima della guerra. E’ stata una disfatta per noi. Abbiamo recuperato una mucca e era malata di polmoni, l’abbiamo dovuta vender anche lei. La mia famiglia è stata distrutta.

D: Ginevra, tu non hai mai raccontato di questa tua esperienza di deportazione?

R: Mai a nessuno, no. La racconto a qualche mia amica quando mi viene a trovare, per esempio se vado al mare, e dico: “Io sono stata anche al campo de concentramento”; allora mi chiedono qualche cosa ma non ci credono.

D: Ai tuoi figli lo hai raccontato?

R: Ai miei figli sì, e mi dicono: “E tu sei sopravvissuta?” Ma và, mia figlia ha un carattere diverso dal mio, io la sovrasto col mio carattere. Quando andiamo al mare assieme, siamo sempre andate insieme fino all’anno scorso, lei si sente più piccola perché dove vado io mi faccio il nido con il mio carattere; non so come, ma tutti mi vengono dietro: “Dov’è la Ginevra? Dov’è la Ginevra?” perché piace stare in mia compagnia.

D: Ginevra, cos’è stato per te e per tua mamma l’esperienza del campo di concentramento?

R: La disfatta della famiglia, per noi una tristezza tremenda, non abbiamo più trovato noi che eran tutte case e famiglie. D’estate venivo qua a aiutare a far da mangiare, a far le pulizie, a tener puliti gli uomini perché avevano la campagna e mio padre era capo al Genio civile. Mio papà era papà del secondo matrimonio, era della provincia di Sondrio mio padre, non è della Valsugana, e venivo ad aiutare la famiglia perché c’era bisogno di una persona.
D’inverno andavo a Novara e lavorava come commessa al Galtrucco, un negozio di stoffe, sì, sì. Tutti gli inverni trovavo il posto: “Arriva la Ginevra”. Il signor Galtrucco che era sulla via principale sotto ai portici: “Arriva!” e mi offriva il nome, non mi ricordo più come diceva, in novarese me lo diceva. E tutto contento mi dava lavoro, 3, 4, 5 mesi come volevo stare.

D: E poi l’arresto e il campo di concentramento?

R: E dopo là tutta la disfatta e dopo quando son venuta fuori: “Adesso – dico – voglio andare in Svizzera per imparar il tedesco”. E son andata 5 mesi a Laufen e lavoravo in un ristorante, ho lavorato in un ristorante. Si faceva di tutto, dalla cucina alla lavanderia, bisognava far di tutto, una settimana ci si alzava alle 7, una settimana alle 8, però mi son trovata benissimo perché erano perfetti nel modo di trattare; se facevo un’ora di straordinario la sera la pagavano subito, in contanti. Davano subito i due, com’erano i soldi là?

D: Franchi?

R: Due franchi, alla sera per un’ora davano due franchi, subito.

D: Ginevra, e tuo fratello che era in Germania?

R: E’ venuto dalla Germania a piedi, da in cima alla Germania in due; l’avevano portato vicino alla Polonia, a piedi è venuto fino a non so che città dell’Austria, sempre a piedi, sempre a piedi; l’ha attraversata tutta. Era del ’16. Pensa che è sempre stato militare tutta la sua vita, ha fatto l’attivo, stava a casa tre mesi, e poi richiamato, è sempre sta via a militare.

D: Lui era prigioniero in Germania?

R: In Germania prigioniero, sì, sì. E invece l’altro fratello che non doveva far neanche un giorno perché erano orfani di guerra, della guerra del ’14, quello è stato richiamato dai tedeschi e mandato in Sicilia, era in Sicilia. Non mi viene il nome, mi scriveva, mi metteva il nome della città. E lì è stato preso prigioniero degli americani e l’hanno mandato in Africa, in Marocco. E da là mi ha scritto una cartolina dal Marocco, ma è arrivata dopo la guerra perché non c’era il permesso.

D: Ginevra, cosa ricordi ancora del campo di concentramento di Bolzano?

R: Di male ricordo il maresciallo Haage, non l’ho mai dimenticato; stavamo ore e ore all’adunata anche fino a mezzanotte la sera. Avanti col frustino perché non gli tornava il numero, fuori nel cortile grande. E là tutti in fila passavano e contavano eins zwei drei si sbagliavano allora anche fino a mezzanotte in piedi a far l’adunata.

D: Anche se c’era brutto tempo?

R: Anche se c’era brutto tempo. Sì, sì.

D: E poi cosa ti ricordi ancora del campo do Bolzano?

R: Il letto comodo. Il letto di piume, un sacco di segature!! C’erano le stecche, le segature andavano giù e restavano le stecche.

D: C’era un’infermeria nel campo do Bolzano?

R: Ho sentito nominare era qualche medico e che qualcuno lo aiutava, gli dava qualcosa ma non ho mai voluto, non ho mai chiesto niente, avevo paura che mi avvelenassero, dico: “Mi danno la medicina e mi fanno morire quelli lì”, non son mai andata, mai chiesto niente.

D: Di mamma cosa ti ricordi, quando era nel campo con te?

R: La mamma continuava a piangere. Tutti i giorni diceva: “Tutta la vita ho lavorato” perché veniva da una famiglia benestante e il primo marito l’ha sposato povero, ha dovuto piantarlo povero con la sua roba insomma. Dopo questo è andato in guerra, ogni volta che veniva a casa la metteva incinta, ne ha avuti 4. A 26 anni era vedova con 4 figli! A 30 anni ha sposato mio padre, 5 anni più giovane, lui aveva 25 anni. Io ho 25 anni di differenza da mio padre.

Pichler Erich

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Pichler Erich Florian. Sono nato il 14 ottobre 1926 a San Leonardo in Passiria.
D: è stato in carcere a Silandro?
R: Sì. Ci siamo dovuti presentare a Silandro per evitare che a causa della Sippenhaft, arrestassero i nostri genitori (come ostaggi familiari) e li portassero nel Lager di Bolzano. Mio padre, che si era già fatto quattro anni di prigionia in Russia, dall’agosto del 1914 fino all’agosto del 1918, non voleva assolutamente essere arrestato e ha voluto che noi andassimo a costituirci.
L’abbiamo fatto e ci hanno incarcerati. Ci siamo consegnati il 19 agosto 1944 a Silandro e il 22 agosto ci hanno incarcerati nelle caserme del paese. A Malles è poi arrivato il reggimento e per un certo tempo hanno portato a Malles anche noi, ma alla fine hanno deciso di incarcerarci definitivamente e ci hanno riportato nella prigione di Silandro.
D: A Merano non c’era il carcere?
R: A Merano ci sarà stato certamente un carcere, ma noi siamo stati rinchiusi in quello di Silandro.
D: Sa per quale motivo a Silandro e non a Merano?
R: Perché noi siamo stati incarcerati a Silandro e la competenza l’avevano là. Da Silandro ci hanno portati a Bolzano per il processo.
D: Dove?
R: A Gries, nelle caserme. Là hanno condannato sia me che mio fratello a tre anni. Dopodichè ci hanno riportato a Silandro. Forse era il 10 di ottobre. Siamo rimasti lì e non abbiamo più sentito nulla fino all’11 novembre.
L’11 novembre ci è stato detto che dovevamo tornare a Bolzano per un nuovo processo, perché l’ultimo non era stato fatto bene, forse saremmo stati assolti. Sono venuti con noi a Bolzano. Ci hanno fatto un nuovo processo. Ci hanno condannato a 11 anni per diserzione, perché ci eravamo rifiutati di andare in guerra.
D: Chi erano i giudici in questo processo?
R: Erano uomini della giurisdizione speciale delle SS e della polizia.
D: Dove si trovava esattamente questo edificio?
R: Non lo so con precisione. Era a Gries, nelle caserme.
D: In piazza Gries o in un altro luogo?
R: Fuori Gries, nelle caserme.
D: In Via Vittorio Veneto? Sulla strada per Merano?
R: Sì, là fuori. Ci hanno condannati a 11 anni. Siamo rimasti per cinque giorni nel carcere di Bolzano.
D: Dove si trovava il carcere a Bolzano?
R: Dove si trova ancora oggi, vicino al Talvera. Da lì ci hanno prelevato il 16 novembre tra molti insulti: “Verrete fucilati!” “Credevate di poter disertare?” Ci hanno messo le manette, poi però ce le hanno tolte perché ci hanno portati in stazione. In quel momento è scattato l’allarme aereo e siamo entrati nel tunnel, quello dall’altra parte, per trovare rifugio. Passato l’allarme ci hanno ricondotti in stazione e spediti a Dachau. Ci hanno tolto le manette perché dicevano che non avevamo fatto resistenza e che non potevamo fare resistenza. Il 17 novembre siamo arrivati a Dachau.
D: Prima di passare a parlare di Dachau, può spiegarci cosa esattamente significa diserzione?
R: Ci siamo presentati alle armi il 2 giugno ed il 6 giugno ci siamo allontanati dalla truppa, siamo scappati e dal 6 giugno al 19 agosto siamo rimasti nascosti vicino a casa. Alla fine abbiamo dovuto costituirci per evitare che i nostri genitori finissero nel Lager di Bolzano.
D: Lei sapeva che a Bolzano c’era un Lager?
R: Sì, si sapeva che c’era un Lager, ma nessuno sapeva che aspetto avesse. Lo chiamavano Lager Kaiserau, ma noi non abbiamo avuto nulla a che farci. Noi siamo arrivati a Dachau. Arrivati là abbiamo dovuto …
D: Si ricorda di come siete arrivati a Dachau? In autobus? In treno?
R: In treno. La ferrovia era distrutta e abbiamo dovuto fare una deviazione per la Val Pusteria fino a Lienz e poi da Lienz a Dachau. È stato un viaggio lungo. Abbiamo impiegato una notte ed un giorno interi. Fino a Monaco abbiamo viaggiato in treno. A Monaco ci hanno fatti scendere e ci hanno anche dato qualcosa da mangiare.
D: Eravate su un treno o su un vagone merci?
R: No, era proprio un treno, ma con i finestrini rotti. Faceva freddo.
D: Quanti eravate su questo treno per Dachau?
R: Io, mio fratello e Haller Franz: eravamo in tre con tre guardie.
D: SS?
R: Sì, e polizia.
D: Siete arrivati alla stazione di Monaco?
R: Sì. Da qualche parte in un ristorante ci hanno dato da mangiare. Hanno mangiato anche le guardie. Con un camion ci hanno portato al Lager di Dachau, che si trovava a circa 30 chilometri di distanza. Siamo arrivati verso sera. Ci hanno consegnati davanti al portone.
Subito abbiamo dovuto correre dentro. Beninteso, noi non eravamo deportati del campo di concentramento. I deportati avevano un abito a righe bianche e blu mentre a noi, quando finalmente ci hanno dato degli abiti, hanno dato l’uniforme della fanteria italiana. Ci hanno fatto vestire così perché avevamo abbandonato l’esercito ed eravamo disertori.
D: Avete ricevuto anche un numero di matricola?
R: No, i militari processati e condannati (Strafgefangene) non avevano numero di matricola. Lo avevano solo i deportati.
D: Non avete ricevuto alcun contrassegno a forma di triangolo?
R: No, proprio nulla.
D: In quale blocco è stato portato?
R: C’era una baracca apposta per gli Strafgefangene. Si trovava in fondo al campo. C’erano anche tante celle, era una caserma o una baracca di sole celle. C’era anche un lungo corridoio. Quella sera ci hanno portati in una di queste celle.
Ci hanno fatti spogliare. Nudi abbiamo corso per circa 30 metri. Siamo arrivati in una stanza dove ci hanno dato un paio di mutande ed una camicia. Questo era tutto.
Più tardi ci hanno portato nel Bunker, nel blocco celle e ci hanno rinchiusi in una cella. La cella era larga 2 metri e lunga 3. In questa cella erano rinchiusi 23 uomini appena arrivati.
Eravamo io, mio fratello, Haller Franz e tanti sconosciuti, 20 altri sconosciuti. 23 uomini sono rimasti rinchiusi in questa cella dalla sera alla sera successiva. Da mangiare ci hanno dato una pessima zuppa. Questo era tutto.
D: C’erano solo sudtirolesi in questo blocco per gli Strafgefangene?
R: No. C’erano prigionieri da ogni dove: tantissimi croati, poi italiani, francesi, olandesi, persino norvegesi, ungheresi.
D: C’erano anche tedeschi?
R: Sì, perché era un blocco per Strafgefangene.
D: Questo blocco aveva un numero o una sigla?
R: Non me lo ricordo. Era una baracca a se stante. Aveva 15 camerate e in ogni camerata c’erano 24 uomini. Erano piene. Quando era tutto pieno, trasferivano i deportati in un campo esterno
D: Da questo blocco per Strafgefangene si poteva vedere il forno crematorio?
R: No, il crematorio no. Era separato. Noi eravamo isolati. C’era un cortile. Quando uscivamo dal cortile arrivavamo sulla strada principale. Fuori c’erano ovunque baracche del Lager. Da qualche parte c’erano anche le baracche delle SS e le postazioni di guardia delle SS. Le SS sorvegliavano anche noi, proprio come facevano con gli altri.
Non ce la passavamo tanto meglio, forse in alcuni giorni andava meglio, in altri peggio. Ci hanno tormentati e affamati nello stesso modo. Avevamo una fame spaventosa.
D: Quanto è rimasto nel blocco celle?
R: Nel blocco celle siamo rimasti un giorno, fino alla sera del giorno successivo. Poi ci hanno dato l’uniforme della fanteria italiana. Ci hanno vestiti con quella. Eravamo Strafgefangene, ognuno aveva questa divisa.
D: Le hanno rasato la testa o no?
R: No. Ci hanno rasati, ma non completamente. Nella baracca io e mio fratello siamo stati assegnati alla camerata. E bisognava innanzitutto pregare per avere il permesso di andare dove eravamo stati effettivamente assegnati. Si usava così.
Abbiamo ricevuto il posto. C’erano tre tavolacci uno sopra l’altro e letti per alloggiare 24 uomini. C’era anche un tavolino. E questo era tutto. All’esterno della camerata c’era un ampio corridoio, largo tre metri, dalla prima all’ultima baracca attraverso 15 camerate e da qualche parte c’era il lavatoio, non riesco a ricordare bene, e la latrina.
Al mattino dovevamo alzarci alle 5 per fare le esercitazioni, dovevamo anche marciare attraverso il campo di concentramento. Molto spesso c’era un uomo sul piazzale, ben visibile a tutti, che aveva tentato di scappare durante il lavoro all’esterno e reggeva un cartello con la scritta “Ho avuto sfortuna” oppure “Sono stato troppo stupido” oppure qualche altra frase simile. Rimaneva là dalla mattina presto alla sera tardi. Non riceveva nulla da mangiare. Doveva stare sempre in piedi.
Cosa hanno fatto di questi uomini non si sa, non sappiamo proprio se li hanno fucilati o se li hanno riportati dai loro camerati. Non lo so. Li riacciuffavano quasi tutti quelli che tentavano di fuggire. Anche noi avremmo avuto un’occasione per fuggire, ma era solo una fantasticheria, perché li riprendevano sempre. Noi non l’abbiamo fatto.
Uscivamo per circa 2-3 chilometri. Fuori c’era una collinetta. C’erano degli alberi. Ai piedi della collina dovevamo costruire un Bunker, un rifugio antiaereo, ma il terreno era tutto sabbioso. Si doveva rivestire tutto con blocchi. Con la carriola dovevamo trasportare fuori il materiale, zig-zag e fuori. Era un lavoro difficile. Il materiale veniva reinterrato fuori, accanto ai binari, e camuffato perché non venisse visto. Non abbiamo continuato a lungo con questo lavoro perché la caserma o la baracca erano troppo affollate, dopo pochi giorni hanno spedito Franz Haller a Norimberga e il 3 dicembre hanno portato via anche me e mio fratello. Siamo arrivati a Mosbach, nell’attuale Baden-Wüttemberg, dove c’era un Lager chiamato Goldfisch. Siamo rimasti là dal 7 dicembre 1944 fino al 27 marzo (1945). Poi hanno evacuato l’intero campo e ci hanno portati via.
Ci hanno fatti tornare a Dachau a piedi. Abbiamo marciato dal 27 marzo fino al 24 aprile. Il cibo era sempre terribile, avevamo tanta fame, eravamo estremamente deboli.
D: A Mosbach c’era un campo di concentramento o una caserma?
R: C’erano diverse baracche per Strafgefangene.
D: Solo per Strafgefangene?
R: Sì, solo per Strafgefangene.
D: Durante il trasporto da Dachau a Mosbach eravate soli, Lei e suo fratello, o c’erano anche altri Strafgefangene?
R: C’erano altri 300/400 Strafgefangene. Ci hanno caricati sui carri bestiame e ci hanno portato in ferrovia fino a Mosbach, dove ci hanno fatto scendere e ci hanno fatto camminare per una mezz’ora o forse più per raggiungere le baracche. Il campo era in costruzione.
Io lavoravo nella squadra “U”, cioè Unterkunft (alloggiamento) e dovevo coprire di ghiaia i vari sentieri, c’era un binario e dovevamo prendere la ghiaia da un vagoncino. Dovevamo anche mescolare il cemento, fare le gettate per i pavimenti e costruire i tetti delle baracche.
Quando il grosso del lavoro era stato fatto, mi hanno mandato alla fabbrica. Mio fratello aveva cominciato a lavorare alla fabbrica sin da subito. Era a un’ora di cammino dal campo. Dovevamo uscire e andare verso Neckarelz. Là scorreva il fiume Neckar e sul fiume c’era un ponte ferroviario con un passaggio pedonale. Tutti i giorni attraversavamo questo ponte.
Dall’altra parte c’erano 150 scalini da salire. Proprio in cima c’era una ripida scala in legno, con altri 35 scalini. Lassù c’era l’ingresso della fabbrica. La fabbrica era tutta all’interno di una collina. In questa fabbrica c’erano tanti stanzoni molto grandi, tutti scavati nella roccia.
Camminavamo un quarto d’ora per raggiungere la nostra postazione di lavoro. Venivamo divisi. Ciascuno doveva lavorare al proprio posto. Non ricordo più quanti stanzoni ci fossero, dieci, undici o forse anche di più. Non l’ho mai saputo perché non ho mai visto tutta la fabbrica per intero.
D: Cosa si produceva nella fabbrica?
R: Si produceva materiale bellico. Parti di carro armato, parti di aeroplano. Le parti non venivano assemblate in fabbrica, venivano mandate a Berlino e lì si provvedeva all’assemblaggio.
Mio fratello ha lavorato più a lungo di me nella fabbrica perché io all’inizio ero nella squadra “U”. È andata avanti così fino a febbraio e poi ha iniziato a cedere, a sgretolarsi. Gli aeroplani erano molto fastidiosi. C’erano molti bombardamenti e c’erano moltissimi allarmi aerei. Venne colpito anche il ponte ferroviario. La prima volta lo hanno ricostruito, ma venne subito bombardato di nuovo. La seconda volta non sono più riusciti a sistemarlo. È stato verso la fine di febbraio.
D: Nelle gallerie c’erano solo Strafgefangene o anche deportati?
R: La fabbrica era separata. Era a un’ora di cammino dal campo. Al mattino dovevamo camminare un’ora per andare e alla sera un’altra ora per tornare. Nella fabbrica c’erano dei civili, c’erano anche prigionieri italiani, altri prigionieri, civili, tedeschi. C’erano persone di diverse nazionalità.
D: Il suo preposto era un civile?
R: Si, il mio preposto era un civile, e anche quello di mio fratello lo era. Poi c’erano le SS. Il loro compito era solo di accompagnarci alla fabbrica e di restare lì tutto il giorno di guardia, ma non avevano nulla da dire sul lavoro. Per il lavoro avevamo un preposto civile e con lui dovevamo lavorare.
D: Ha notato differenze tra Dachau, Mosbach e Goldfisch per quanto riguarda la disciplina e le esecuzioni ?
R: Devo fare un distinguo. Goldfisch era il nome del Lager. Che si trovava nei pressi di Mosbach. Mosbach era solo la città. Il nostro Lager era vicino a Mosbach. Un paio di volte, non spesso, siamo andati a Mosbach per fare la doccia perché si doveva curare un minimo di igiene. Eravamo comunque sempre pieni di pidocchi. I nostri vestiti erano tutti pieni di pidocchi che ci davano il tormento.
D: Com’era la disciplina nelle gallerie? Ci sono stati dei morti?
R: Non lo so. Credo che là ci siano stati pochi decessi. Se capitava era in seguito a incidenti; forse qualche prigioniero è morto di fame. Questo è assolutamente possibile. C’erano anche dei deportati che lavoravano, perché una volta ho parlato con uno di loro.
È arrivato un sergente delle SS che non conoscevo e che mi ha visto. Ha urlato contro di me se non sapevo che non fosse permesso parlare contro i principali nemici dello Stato. Io gli ho detto: “No, non lo sapevo”. Ed io davvero non lo sapevo. Poi lui ha chiesto: “Da dove vieni?” e io ho detto: “Dall’Alto Adige”. “Che mestiere fai?” “Lavoro in agricoltura” “Come?” ha detto “Vuole sapere ancora del mio lavoro?”. Allora mi ha schiaffeggiato e insultato per un bel po’ di tempo. Alla fine sono riuscito a cavarmela. Mi ha lasciato andare. Ho avuto sfortuna. Il giorno dopo l’ho incontrato di nuovo ed è incominciato tutto daccapo. “Tu! Tu sei quello di ieri, vieni qui!”. Mi ha di nuovo preso a schiaffi. Per un bel po’. Me lo sono ben tenuto a mente e mi sono detto: “Te non voglio proprio incontrarti più!”
Non l’ho più incontrato perché lo evitavo, ho pensato che non volevo proprio farmi picchiare senza motivo. Sapevo di non avere colpe. E poi era un sergente delle SS sconosciuto, uno che non aveva nulla a che fare con il nostro Lager Goldfisch a Mosbach. Non lo conoscevo. Era un estraneo. Forse aveva a che fare con i deportati, ma non con noi Strafgefangene.
D: Quanti eravate nel Lager di Mosbach? Centinaia o migliaia?
R: Qualche centinaio, 500/600. Non lo so di preciso, all’incirca 300 / 600 / 700 Strafgefangene. Alcuni eravamo stati condannati per diserzione; altri per furto, altri per omicidio, altri ancora per storie di donne, avevano commesso crimini diversi.
D: E lei ha davvero commesso un crimine?
R: Il nostro unico crimine è stato di non esserci arruolati con i tedeschi.
D: E’ stato davvero un crimine?
R: Ai loro occhi sì. Non potevamo abbandonare la truppa. L’abbiamo abbandonata. Siamo diventati disertori ma abbiamo dovuto costituirci perché altrimenti avrebbero portato i nostri genitori in campo di concentramento. Nostro padre ha detto: “Vi dovete costituire prima che finiamo tutti nel Lager. Voi siete solo in due e noi siamo in tanti”.
D: Ritorniamo ancora per un momento alla Sua storia. Poi è tornato a Dachau?
R: Sì.
D: E poi?
R: Il 24 aprile siamo tornati a Dachau. C’era una gran confusione, perché la guerra stava finendo. Non c’era quasi più nulla da mangiare. Ricevevamo caffè da bere, ma pochissimo cibo. È andata avanti così fino al 29 aprile (1945). Il 28 aprile ci hanno scartati alla visita. Quelli come noi avrebbero dovuto prestare servizio in guerra. Io e mio fratello eravamo troppo male in arnese, secondo loro. Non ci hanno preso. Avremmo potuto offrirci volontari. Non l’abbiamo fatto. Non ci siamo offerti. Siamo rimasti nel Lager. Il 28 aprile ci hanno restituito gli abiti che ci avevano tolto in novembre, anche i soldi, non più in lire ma in marchi tedeschi. Non abbiamo saputo fare nulla di più furbo che indossare i nostri abiti civili. Oggi non lo rifarei più, perché questa decisione ci è stata quasi fatale.
Oggi mi procurerei il vestiario dei deportati. Sarebbe stato meglio anche allora, ma eravamo solo dei ragazzi e non sapevamo cosa fosse la guerra e cosa sarebbe successo.
Il 29 aprile sono arrivati gli americani. Gli americani ci hanno presi prigionieri insieme alla SS. Ci hanno catturati e messi insieme a loro semplicemente perché noi indossavamo i nostri abiti civili. Glielo abbiamo ben detto che noi eravamo detenuti nel Lager. Ci hanno chiesto se eravamo stati soldati. Si, per quattro giorni. E allora dovevano trattenerci. Ci hanno portato fuori con gli uomini delle SS e con tutti i prigionieri che avevano catturato. Improvvisamente ci siamo trovati dietro un muro, un muro di pietra, lungo forse 30-40-50 metri e alto 3 metri, o forse di più.
Fuori avevano due mitragliatrici pronte, nessun uomo accanto a loro ma tutte le guardie che ci avevano accompagnato là. Abbiamo dovuto metterci lungo il muro, con la faccia rivolta al muro e le braccia in alto. Volevano fucilarci sul posto, immediatamente. All’ultimo minuto è arrivato un ufficiale americano di grado elevato. Ha fatto fermare tutto.
Ci è stato permesso di rientrare nei ranghi. Così ci hanno fatti uscire dal Lager e ci hanno portato a Dachau, forse in un edificio pubblico. Era una casa grande a due piani, con un grande piazzale. Hanno portato lì tutti i prigionieri che avevano.
C’eravamo anche noi. Nel giro di due giorni, o forse di un giorno solo, si è riempito tutto l’edificio. C’erano forse 300 prigionieri al primo piano e 300 al secondo. Dopo due giorni ci hanno portati a Fürstenfeldbruck. Là avevano preparato un campo per prigionieri nuovo di zecca. Ai quattro angoli del campo c’era una torre con illuminazione e con sentinelle americane. Erano molto preoccupati che i prigionieri potessero scappare.
Hanno disegnato una riga bianca, un quadrato che racchiudeva il campo. Nessuno poteva oltrepassarla. Chi l’ha fatto è stato immancabilmente ucciso a colpi di fucile. Ogni mattina c’erano dei morti perché molti prigionieri credevano di potersene andare inosservati. C’erano anche dei posti di guardia intermedi, il quadrato disegnato in bianco misurava forse 150 x 150 m. C’erano continui arrivi di nuovi prigionieri. Era il primo maggio (1945). Ha nevicato e piovuto. Faceva freddo. Noi gelavamo.
I prigionieri si sono scavati delle buche, con le mani o con qualsiasi altra cosa potesse servire. Perlopiù avevamo a disposizione solo le nostre mani. Ci trovavamo in un campo in cui erano appena stati interrati i tuberi delle patate. Avevamo tantissima fame. Scavando le buche abbiamo scoperto le patate, che erano ancora fresche di semina. Le abbiamo dissotterrate tutte. La notizia si è diffusa immediatamente tra i prigionieri. In un giorno solo tutte le patate sono state dissotterrate. Le abbiamo arrostite o lessate e mangiate, perché c’era della legna che si poteva usare.
Per otto giorni gli americani non ci hanno dato assolutamente nulla da mangiare. Avevamo una fame tremenda. Eravamo io e mio fratello e poi c’era un certo Franz Thaler di San Martino in Val Sarentina, era molto debilitato, zoppicava. Era triste e disperato. Io gli dicevo spesso: “Franz, adesso che la guerra è finita, che siamo fuori dal Lager non devi disperare, riusciremo a tornare a casa”. Era molto scettico perché era malato.
Dopo otto giorni gli americani ci hanno dato due scatolette, una con biscotti e un paio di dolci e l’altra con un pasto, pasta e fagioli o roba simile. Era tutto buono, ma troppo poco. Nel campo noi abbiamo mendicato. Ma abbiamo ricevuto ben poco, perché ognuno si teneva il poco che aveva. Ogni giorno arrivavano nuovi prigionieri. Sono arrivati anche Franz Haller e suo fratello. Stavamo insieme.
Loro rubavano. Questa era la nostra unica possibilità di sopravvivere, perché altrimenti saremmo morti di fame e poco ci mancava. Rubavamo ciò che ci serviva. Però ci hanno scoperti. Hanno detto in tutto il Lager che noi eravamo ladri. Quello stesso giorno sono arrivati gli americani con dei grossi camion per trasferire i prigionieri da qualche altra parte. Noi ci siamo subito fatti avanti e siamo partiti. C’erano 12 camion in tutto.
Su ogni camion hanno fatto salire almeno 50 uomini. Correvano come dannati, in colonna, c’erano tre/quattro metri di distanza tra uno e l’altro e viaggiavano a grande velocità. Siamo poi arrivati in una città. Da qualche parte c’era un ostacolo, forse a un incrocio. Il primo camion ha inchiodato. Tutti gli altri si sono fermati in pochissimo spazio. Non ci sono stati tamponamenti. Abbiamo proseguito verso Ulma.
Siamo rimasti lì un paio di giorni, sempre senza mangiare. Prima di partire con i camion da Fürstenfeldbruck, la Croce Bianca tedesca aveva distribuito del cibo e noi ne avevamo quel tanto che ci avrebbe permesso di vivere per un giorno. Ci hanno trasferiti da Ulma a Heilbronn in un campo per prigionieri molto grande. Si diceva che ci fossero più di un milione di prigionieri, suddivisi in gruppi più piccoli. Giungemmo anche noi in uno di questi gruppi.
Gli americani erano di solito buoni e non ci stressavamo mai, ma da mangiare non ci davano nulla, quasi nulla. Almeno tre settimane abbiamo passato così. Adesso non ricordo con precisione, ma è stato all’incirca da metà maggio fino a giugno, forse fino alla metà di giugno. Ricevevamo da mangiare una volta al giorno, mezzo litro/tre quarti di litro di zuppa liquida. Così è stato all’inizio. Dopo ci è stato dato del cibo tedesco in più, prima da dividere tra 18 uomini poi tra 14, oltre a una piccola fettina di pane. Ma non bastava. Eravamo molto deboli e smagriti. Dormivamo 16-17 ore al giorno, come i bambini piccoli. Ogni tanto volevamo e dovevamo alzarci, per andare a prendere da mangiare o perché magari avevamo qualcosa da fare, ma altrimenti ci lasciavano in pace per quanto potevano.
In tutta la Germania non c’era più nulla da mangiare. Prima di tutti venivano i soldati americani, loro ricevevano tutto, come sempre. Poi venivano i lazzaretti e i campi degli ammalati. Poi veniva la popolazione civile e alla fine i prigionieri. Per noi quindi non rimaneva molto.
D: Quanto è rimasto a Heilbronn?
R: Tra le tre e le quattro settimane. Non ricordo più bene. È passato troppo tempo. Alla fine siamo andati via anche da Heilbronn. Ci hanno caricati su un treno, migliaia di uomini. Abbiamo attraversato la Germania e siamo andati in Francia. In Francia, nei dintorni di Parigi, a Soissons.
Dalla stazione partiva una strada ripida che conduceva su un’altura. Abbiamo camminato di sicuro per una buona mezz’ora, o forse di più. Non eravamo quasi più in grado di camminare. Avevamo semplicemente esaurito le forze, perché anche ad Heilbronn non riuscivamo a stare in piedi e continuavamo a cadere. Tutto diventava grigio e per breve tempo svenivamo. Cascavamo e poi riprendevamo i sensi.
Poi ci rialzavamo, sempre molto lentamente, ma non ce la facevamo. Eravamo così deboli e talmente sfiniti che proprio non riuscivamo a stare in piedi. Cadevamo di nuovo, non sempre, ma spesso. Solo al terzo tentativo riuscivamo davvero ad alzarci ed a camminare, per fare quello che dovevamo, per prendere il cibo e cose così.
Dopo che avevamo fatto tutto, tornavamo nella nostra tenda e dormivamo, dormivamo, dormivamo.
D: La vostra situazione è migliorata in Francia?
R: È migliorata perché tutti sapevano che noi, eravamo sette o otto, eravamo stati prigionieri a Dachau. Lo sapeva tutto il campo. L’amministrazione del Lager, dove c’erano naturalmente tutti prigionieri austriaci ed italiani, ci ha diviso per nazionalità. Nel nostro campo c’erano solo austriaci e italiani con la cittadinanza italiana, come noi l’abbiamo sempre avuta. Noi eravamo e siamo rimasti cittadini italiani.
A noi, quando distribuivano il cibo, che veniva preparato fuori dal campo e distribuito poi all’interno, a noi davano sempre uno/due litri di zuppa in più, perché sapevano che eravamo stati a Dachau, e se ne avanzava ce ne davano ancora. Ogni giorno ricevevamo tre, quattro, anche cinque litri di zuppa. E la zuppa non era per niente male. Ne avevamo bisogno.
Era il cibo più adatto per superare la nostra totale debilitazione, il nostro stato di denutrizione. Era una zuppa né troppo grassa né troppo ricca. In questo modo siamo riusciti a riprenderci. Avevamo cibo quasi a sufficienza. Ricevevamo anche un pane americano, le “aggiunte americane” o come chiamavamo le pagnotte. Si trattava di pane bianco. Dovevano essere suddivise in quattro parti, c’era una pagnotta ogni quattro uomini.
D: In Francia?
R: Sì, in Francia.
D: Quando è arrivato a casa?
R: In questo campo stavamo meglio e siamo rimasti fino al 17 agosto. Alcuni giorni prima, forse tra il 10 ed il 12 agosto, è arrivato un colonnello italiano. Ci ha consolati e ci ha detto che saremmo tornati a casa. Era venuto apposta. Non sapeva che nel campo ci fossero prigionieri italiani, dovevamo scusarlo, altrimenti sarebbe venuto prima.
Si è subito dato da fare. Due giorni dopo hanno fatto partire gli ammalati. Poi sono partiti i prigionieri fino alla lettera “H”, che erano proprio tanti, e poi quelli dalla lettera “H” alla “Z”. Noi, con la lettera “P”, eravamo tra gli ultimi. Siamo usciti dal campo il 17 agosto e abbiamo ripercorso la strada fino alla stazione.
Ci hanno fatto salire di nuovo sui vagoni, sempre con gli americani di guardia. Quello è stato un bene, perché i francesi ce l’avevano a morte con i prigionieri. I francesi pensavano fossimo tutti tedeschi. Venivano con le pietre e le lanciavano contro i vagoni, ma gli americani sapevano come tenerli a bada. Gli americani ci hanno accompagnato fino al confine con la Svizzera. E poi sono spariti. Ci hanno lasciati soli. Finalmente, intorno al 19/20 agosto, eravamo di nuovo uomini liberi.
Ci siamo fermati là per un giorno e mezzo. Poi siamo partiti per l’Italia, attraverso la galleria del San Gottardo siamo arrivati a Domodossola e da lì siamo andati a Novara. A Novara ci hanno dato un foglio di congedo. Abbiamo potuto proseguire, fino a Milano il gruppo è rimasto unito, da Milano a Verona eravamo ancora numerosi e poi siamo rimasti in pochi. Alla fine siamo rimasti soli e ci siamo dovuti arrangiare per tornare a casa, dove siamo arrivati il 23 agosto.
D: Finalmente.
R: Finalmente! Avevo un fratello più vecchio. Era nato nel 1922. Era nell’esercito italiano di stanza in Italia. Avremmo dovuto combattere contro nostro fratello. Non l’abbiamo fatto e non abbiamo mai voluto farlo. Mio fratello è tornato in congedo proprio quando noi siamo arrivati a casa. Ci siamo incontrati da una delle nostre sorelle. Ci ha detto “Cosa? Siete i miei fratelli? Così gracili? Così scheletrici? Macilenti? Siete allampanati, vi si può vedere attraverso”. Gli abbiamo detto: “Avresti dovuto vederci due o tre mesi fa. Allora avresti potuto dire queste cose, ora non più”. Infatti ci eravamo ripresi abbastanza. Siamo arrivati a casa il 23 agosto 1945.
D: Posso farle ancora una domanda: Riesce a dimenticare? Vuole dimenticare? Oppure non vuole farlo?
R: Ho dimenticato tante cose, ma è impossibile dimenticare tutto. È proprio fuori discussione. È un pezzo della mia vita, un pezzo crudele della mia vita. I tedeschi ci hanno martoriati e torturati e stressati e ci hanno fatto soffrire la fame.
Dormivamo poco. Alle 10 potevamo andare a dormire, ma verso le 11, le 12 partiva l’allarme aereo che durava circa due ore. Era estremamente raro che non ci fossero allarmi aerei. Forse all’inizio di dicembre, ma da febbraio in poi l’allarme aereo suonava due volte quasi ogni notte. Con l’allarme dovevamo andare nel Bunker e nel Bunker nessuno poteva dormire. E adesso Lei sa quante ore ci rimanevamo per dormire, se andavamo a letto alle 10 di sera, stavamo quattro ore nel Bunker ed alle 5 del mattino dovevamo di nuovo alzarci. Tempo per dormire non ce n’era più tanto.

(traduzione dall’originale tedesco dell’Ufficio Traduzioni del Comune di Bolzano / Dr.ssa Maddalena Rudari, giugno 2017)

Ich heiße Pichler Erich Florian. Ich bin geboren am 14. Oktober 1926 in St. Leonhard in Passeier.
FRAGE: Waren Sie in Schlanders im Gefängnis?
ANTWORT: Ja. Wir mussten uns dort zurückmelden wegen der Sippenhaft. Man wollte unsere Eltern hier nach Bozen ins Lager bringen. Das hat der Vater nicht angenommen, weil er schon vier Jahre russische Gefangenschaft mitgemacht hat von 1914 August bis 1918, vielleicht auch August. So hat er von uns verlangt, dass wir uns zurückmelden.
Das haben wir uns und dann haben sie uns eingekerkert. Wir haben uns am 19. August 1944 gestellt in Schlanders und dann haben sie uns am 22. August eingekerkert in Schlanders in den Kasernen. Das Reglement kam dann nach Mals. Auch uns brachten sie nach Mals eine Zeit lang. Dann haben sie entschieden uns endgültig eingekerkert zu lassen und haben uns in das Gerichtsgefängnis nach Schlanders zurückgebracht.
FRAGE: In Meran gab es kein Gerichtsgefängnis?
ANTWORT: In Meran wird es schon ein Gefängnis gegeben haben, aber uns haben sie in Schlanders eingekerkert im Gerichtsgefängnis.
FRAGE: Wissen Sie warum genau in Schlanders und warum nicht in Meran?
ANTWORT: Weil wir eigentlich in Schlanders eingekerkert wurden und dort zuständig waren. Von Schlanders hat man uns nach Bozen gebracht zu einem Prozess.
FRAGE: Wo?
ANTWORT: In Gries in den Kasernen. Dort haben sie uns dann verurteilt, mich und meinen Bruder, weil ich war nicht alleine. Dann haben sie uns drei Jahre Zuchthaus gegeben. Dann brachten sie uns wieder nach Schlanders zurück. Das war vielleicht um den 10. Oktober. Dann blieben wir wieder in Schlanders, haben nichts mehr gehört bis zum 11. November.
Am 11. November hieß es wir müssten noch einmal zu einem Prozess nach Bozen, weil das letzte Mal ist nicht richtig gewesen, vielleicht werden wir freigesprochen. Dann sind sie mit uns nach Bozen. Dann haben wir noch einmal einen Prozess gehabt. Da haben sie uns 11 Jahre Zuchthaus gegeben für die Fahnenflucht, weil wir uns geweigert haben, Kriegsdienst zu machen.
FRAGE: Wer waren die Richter bei jenem Prozess?
ANTWORT: SS und Polizeigerichtsbarkeit war das.
FRAGE: Wo war genau dieses Gebäude?
ANTWORT: Das kann ich nicht genau sagen. Draußen in den Kasernen, hier in Gries, Bozen.
FRAGE: Am Grieserplatz genau oder an einem anderen Ort?
ANTWORT: In den Kasernen draußen.
FRAGE: In der Vittorio-Veneto-Straße? Auf der Straße nach Meran?
ANTWORT: Ja, dort draußen. Dann haben sie uns die 11 Jahre gegeben. Dann brachten sie uns ins Gerichtsgefängnis hier in Bozen für fünf Tage.
FRAGE: Wo war dieses Gerichtsgefängnis hier in Bozen?
ANTWORT: Wo es auch heute noch ist, draußen an der Talfer. Von dort haben sie uns am 16. November geholt mit viel Schimpfen: “Ihr werdet erschossen! Was glaubt ihr Fahnenflucht zu begehen?” Sie haben uns dann in Handschellen gelegt. Später haben sie sie uns wieder abgenommen, weil man hat uns hinausgebracht zum Bahnhof.
Dann war gerade Fliegeralarm und wir mussten dann in das Tunnel, das auf der anderen Seite um Luftschutz gehen. Wenn der Fliegeralarm vorbei war dann haben sie uns auf die Bahn gebracht und nach Dachau abgeschoben. Sie haben uns die Handschellen abgenommen, weil sie sagten, dass wir eigentlich uns ja nicht wehrten oder wehren konnten. Dann sind wir am 17. November in Dachau angekommen.
FRAGE: Bevor wir von Dachau sprechen. Können Sie uns genau erklären was Fahnenflucht bedeutet?
ANTWORT: Wir sind eingerückt am 2. Juni und am 6. Juni haben wir uns von der Truppe entfernt, sind geflohen und dann haben wir uns zu Hause in der Nähe oder so aufgehalten, vom 6. Juni bis zum 19. August. Dann haben wir uns stellen müssen damit die Eltern nicht ins Lager nach Bozen gekommen sind.
FRAGE: Wussten Sie, dass es ein Lager in Bozen gab?
ANTWORT: Ja, das wusste man schon, dass es ein Lager gab, aber wie das aussah wusste eigentlich niemand. Das Lager Kaiserau hat man es geheißen, aber wir haben mit dem nichts zu tun gehabt.
Wir sind nach Dachau gekommen. Dort angekommen mussten wir…
FRAGE: Erinnern Sie sich wie Sie nach Dachau gekommen sind? Mit einem Bus? Mit dem Zug?
ANTWORT: Mit dem Zug. Der Zug war demoliert worden und so mussten wir einen Umweg fahren über Pustertal nach Lienz und von Lienz nach Dachau. Das war eine lange Strecke. Somit brauchten wir die ganze Nacht und den ganzen Tag. Bis nach München sind wir mit dem Zug gefahren. In München, da haben sie uns aussteigen machen, bekamen wir auch einmal etwas zu essen.
FRAGE: Waren Sie in einem Zug oder in einem Wagon?
ANTWORT: Nein, in einem Personenzug, aber mit kaputten Fenstern. Es war kalt.
FRAGE: Wie viele ward ihr in diesem Zug nach Dachau?
ANTWORT: Ich und mein Bruder und Haller Franz, unsere drei und drei Posten.
FRAGE: SS?
ANTWORT: Ja, und Polizei.
FRAGE: Dann kamen Sie auf den Münchner Bahnhof?
ANTWORT: Ja. Dann haben sie uns irgendwo in einem Restaurant ein Essen gegeben, auch die Wache hat gegessen. Dann haben sie uns mit einem Camion nach dem Lager Dachau gebracht. Das sind circa 30 Kilometer entfernt. Dort sind wir gegen Abend angekommen. Da haben sie uns am Tor abgegeben.
Dann mussten wir schon sofort hineinlaufen. Wir waren nicht KZ-ler, wohlgemerkt. Die KZ-ler hatten einen weißblau gestreiften Anzug und wir wenn wir einmal eine Kleidung erhielten, dann war es eine italienische Infanteriemondur. Mit dem haben sie uns Strafgefangene eingekleidet, weil wir die Truppe verlassen haben und fahnenflüchtig waren.
FRAGE: Haben Sie auch eine Matrikelnummer bekommen?
ANTWORT: Nein, die Strafgefangenen hatten keine Matrikelnummer. Das hatten nur die KZ-ler.
FRAGE: Auch kein Dreieck haben Sie bekommen?
ANTWORT: Nein, gar nichts.
FRAGE: In welchen Block wurden Sie gebracht?
ANTWORT: Das war eine extra Baracke für die Strafgefangenen. Das war ganz hinten drinnen. Da waren auch viele Zellen, eine Kaserne oder eine Baracke mit nur Zellen. Es war auch ein langer Gang. In eine dieser Zellen haben sie uns an diesem Abend hineingebracht.
Man hat uns zuerst die Kleidung abgenommen. Dann mussten wir nackt, vielleicht 30 Meter laufen. Dann sind wir in eine Stube gekommen wo sie uns eine Unterhose und ein Hemd gaben. Das war alles.
Dann haben sie uns später in den Bunkerbau gebracht, in einen Zellenbau und in eine Zelle gesperrt. Die Zelle war 2 Meter breit und 3 Meter lang circa. In dieser Zelle waren 23 Mann Neuzugänge eingesperrt.
FRAGE: Waren Sie zusammen mit den anderen drei…
ANTWORT: Ich, mein Bruder und Haller Franz und dann viele Fremde, 20 andere Fremde. 23 Mann waren in diese Zelle gesperrt vom Abend bis zum nächsten Abend. Zu essen haben sie uns einmal eine schlechte Suppe gegeben. Das war alles.
FRAGE: Waren nur Südtiroler in diesem Strafgefangenenblock?
ANTWORT: Nein. Da waren von allen Ländern Gefangene, Kroaten sehr viele, Italiener, Franzosen, Holländer, sogar Norweger, Ungarn.
FRAGE: Deutsche auch?
ANTWORT: Auch Deutsche, weil das war ein Strafgefangenenblock.
FRAGE: Dieser Block trug keine Nummer oder eine Ziffer?
ANTWORT: Das kann ich mich nicht erinnern. Das war eine extra Baracke. Die hatte 15 Stuben und in jeder Stube waren 24 Mann. Da war voll. Wenn voll war haben sie die Häftlinge abgeschoben und in ein Außenlager.
FRAGE: Konnten Sie von diesem Strafgefangenenblock das Krematorium sehen?
ANTWORT: Nein, das Krematorium nicht. Also das war separat. Wir waren abgeschlossen. Es war ein Hof. Wenn wir von diesem Hof hinauskamen, kamen wir auf die Hauptstraße. Draußen waren die KZ-Baracken überall herum. Irgendwo sind auch SS-Baracken gewesen und SS-Wache untergebracht. Auch wir wurden von der SS bewacht genau so wie die anderen.
Es ging uns nicht viel besser, vielleicht in manchen Tagen besser, in manchen schlechter. Uns hatte man genauso gestresst und hungern lassen. Wir hatten schrecklichen Hunger.
FRAGE: Wie lange blieben Sie im Zellenbau?
ANTWORT: Im Zellenbau waren wir einen Tag, bis zum nächsten Tag Abend. Dann gaben sie uns die italienische Infanteriemondur. Mit der haben sie uns eingekleidet. Das waren wir Strafgefangene. Jeder Strafgefangene hatte diese Mondur.
FRAGE: Wurden Sie auch rasiert am Kopf oder nicht?
ANTWORT: Nein. Sie hatten uns wohl geschoren, aber nicht kahl. In der Baracke sind ich und mein Bruder in die Stube eingeteilt worden. Dort mussten wir uns einbettlen, weil das war so üblich, dass man erst muss bitten, dass wir hier kommen dürfen, wo man uns doch zugeteilt hat.
Dann haben wir auch den Platz erhalten. Es waren drei Bridgen übereinander und so viele Betten, dass 24 Mann untergebracht waren. Es war noch ein kleiner Tisch dran. Das war eigentlich alles. Da war draußen ein breiter Gang, 3 Meter breit, von der letzten bis zur ersten Baracke, über alle 15 Stuben hinauf und da war auch noch der Waschraum irgendwo, kann ich mich nicht mehr genau erinnern, das Klosett.
Dann mussten wir am Morgen um fünf Uhr aufstehen zum Exerzieren, mussten auch hinausmarschieren durch das KZ-Lager. Dort stand sehr oft gut sichtbar auf dem Platz ein Mann, der geflohen war bei der Arbeit aus dem Lager und er trug eine Tafel: “Ich habe Pech gehabt.” oder “Ich war zu dumm.” oder irgend so ein Spruch. Er ist immer vom frühen Morgen bis zum späten Abend dort gestanden. Er bekam nichts zu essen. Er musste immer stehen.
Was sie damit getan haben, das wissen wir überhaupt nicht, haben sie sie erschossen oder wieder zurückgebracht zu ihren Kameraden. Das weiß ich nicht. Die meisten haben sie immer eingefangen, die stiften gegangen sind. Wir hätten auch einmal eine Gelegenheit gehabt abzuhauen, aber das waren Flausen, weil die haben sie immer erwischt. Das haben wir nicht getan.
Wir mussten 2-3 Kilometer hinausgehen. Draußen war ein kleiner Hügel. Dort waren Bäume drauf. Am Fuße des Hügels mussten wir einen Bunker machen, einen Luftschutzkeller, aber das war alles Sand. Da musste alles mit Blöcken ausgefüttert werden. Da war es nur “so” breit. Da mussten wir mit dem Schiebekarren das Material herausfahren, zickzack heraus. Das war eine schwierige Arbeit. Draußen wurde das neben dem Bahngleis irgendwo aufgeschüttet und getarnt damit sie das nicht sehen konnten. Das ging so nicht lange, weil die Kaserne war voll oder die Baracke.
Den Haller Franz haben sie nach wenigen Tagen nach Nürnberg geschickt und mich und meinen Bruder haben sie auch am 3. Dezember herausgesucht. Wir kamen dann noch Moosbach in Baden. Das Lager haben sie Goldfisch genannt. Dort sind wir gewesen vom 7. Dezember 1944. Dann mussten wir dort bleiben bis zum 27. März. Da wurde das ganze Lager geräumt. Sie haben uns fort.
Wir mussten zu Fuß nach Dachau zurückgehen. Vom 27. März bis zum 24. April sind wir wieder zu Fuß in Dachau angekommen. Das Essen war immer sehr schlecht und wir hungerten sehr und wir waren äußerst geschwächt.
FRAGE: War in Moosbach ein KZ oder eine Kaserne?
ANTWORT: Da waren mehrere Baracken für die Strafgefangenen.
FRAGE: Nur für Strafgefangene?
ANTWORT: Ja, nur für Strafgefangene.
FRAGE: Bei Ihrem Transport von Dachau nach Moosbach, waren Sie nur mit Ihrem Bruder oder mit anderen Strafgefangenen auch?
ANTWORT: Mit 300 / 400 Strafgefangenen. Da haben sie uns mit Viehwagon mit der Bahn nach Moosbach gebracht und dort auswagoniert, mussten auch eine halbe Stunde oder länger zu Fuß gehen bis wir zu diesen Baracken kam. Das Lager war erst im Aufbau.
Ich musste dann im Baustab U, das heißt Unterkunft, arbeiten, Wege einschottern, da war ein Gleis gelegt, und mussten Schotter holen in einer Lore. Wir mussten auch Beton mischen, Barackenböden herausgießen und auf den Baracken Dächer draufmachen.
Wenn das Meiste gemacht war, da kam auch in die Fabrik. Mein Bruder ist sofort in die Fabrik gekommen. Die Fabrik war eine Stunde Fußweg entfernt. Wir mussten da hinausgehen nach Neckarelz. Dort ging die Neckar und über die Neckar war eine Eisenbahnbrücke und auch ein Fußweg. Wir mussten jeden Tag über diese Brücke.
Auf der anderen Seite waren 150 Stufen hinauf. Ganz oben war noch eine steile Holzstiege. Da waren auch noch so 35 Stufen. Dann kamen wir hinauf. Da war der Eingang in die Fabrik. Die Fabrik war alle unterirdisch. Das war ein Hügel. In dieser Fabrik waren viele Hallen, große Hallen, alles im Felsen herausgehauen.
Wir brauchten eine Viertelstunde hinein bis wir auf den Arbeitsplatz kamen. Dann wurden wir verteilt. Jeder musste auf seinem Platz arbeiten gehen. Ich weiß nicht mehr wie viele Hallen waren, 10-11 oder mehr. Ich habe es auch nie gewusst, weil ich nie durch die ganze Halle der unterirdischen Fabrik gekommen bin.
FRAGE: Was wurde in dieser Fabrik produziert?
ANTWORT: Da haben sie Kriegsmaterial produziert. Ich glaube, Panzerteile, Flugzeugteile. Die ganzen Teile wurden nicht zusammengestellt dort, sondern sie kamen alle nach Berlin und dort wurden sie zusammengefügt und -gestellt und aufgebaut.
Mein Bruder war länger in der Fabrik und ich weniger lang, weil ich im Baustab U war. Das ging so bis Mitte Februar. Dann hat es angefangen etwas abzubröckeln. Nicht mehr die Flieger waren sehr lästig. Es wurde viel bombardiert und es gab sehr viel Fliegeralarm. Auch die Eisenbahnbrücke wurde getroffen. Die haben sie das erste Mal wieder so zur Not herstellen können. Doch sie wurde bald wieder bombardiert. Das zweite Mal haben sie sie nicht wiederherstellen können. Das war dann so gegen Ende Februar.
FRAGE: In den Stollen gab es nur Strafgefangene oder auch andere Häftlinge?
ANTWORT: Die Fabrik war separat. Sie war eine Stunde Fußweg entfernt. Wir mussten am Morgen eine Stunde und am Abend eine Stunde zurückgehen ins Lager. Die Fabrik, da waren Zivilpersonen, da waren auch italienische Gefangene so und auch anders Gefangene, Zivilpersonen, Deutsche. Da waren auch mehrere Nationen bei der Arbeit.
FRAGE: Hatten Sie einen Zivilmeister?
ANTWORT: Ja, ich hatte einen Zivilmeister als Vorarbeiter, mein Bruder auch. Da waren die SS. Die haben uns nur hingebracht und waren den ganzen Tag als Posten irgendwie da, aber die hatten nicht rein zu reden bei der Arbeit. Arbeit, da unterstanden wir einem Zivilmeisterchef und mussten mit dem arbeiten.
FRAGE: Haben Sie Unterschiede bemerkt bei der Disziplin, bei der Todesstrafe zwischen Dachau und Moosbach und Goldfisch?
ANTWORT: Ich muss unterscheiden. Goldfisch hieß das Lager. Das war ganz nahe an Moosbach. Moosbach war nur die Stadt. Unser Lager war nahe an Moosbach. Wir konnten einige Male, nicht oft, aber einige Male nach Moosbach um zu duschen, weil für ein bisschen Hygiene musste auch gesorgt werden.
Verlaust waren wir sowieso immer. Die ganzen Kleider waren voll Läuse und die plagten uns sehr.
FRAGE: In den Stollen, wie war die Disziplin? Gab es Todesfälle?
ANTWORT: Ich weiß das nicht. Ich glaube, es sind dort wenig Todesfälle gewesen. Wenn vielleicht irgendwann ein Unglück war oder tatsächlich ein Gefangener verhungert ist. Das ist schon möglich. Es gab auch KZ-Arbeiter dort, einige wenige, weil ich habe einmal mit einem KZ-ler geredet.
Da kam ein fremder SS-Unterscharführer und er hat mich gesehen. Dann hat er mich zusammen geschumpfen ob ich nicht weiß, dass man mit diesen Staatsfeinden Nr. 1 nicht sprechen darf. Ich habe ihm gesagt: “Nein, das weiß ich nicht.” Ich wusste es auch nicht. Dann sagt er: “Von wo kommen Sie?” Ich sage: “Von Südtirol.” “Was sind Sie von Beruf?” “Ich arbeite in der Landwirtschaft.” “Was?” hat er gesagt. “Von meinem Beruf auch noch?”
Dann hat er mich geohrfeigt eine ganze Zeit lang und beschumpfen. Schließlich bin ich schon einmal davon gekommen. Er hat mich entlassen. Ich habe Pech gehabt. Am nächsten Tag begegnete ich ihm wieder. Dann ging es von vorne los. “Sie da! Sie sind ja der Mann von gestern, kommen Sie her!” Dann hat er mich wieder geohrfeigt, auch eine längere Zeit. Dann habe ich es mir gemerkt. Ich habe mir gesagt: “Mann, dir begegne ich nie wieder.”
Ich bin ihm nie wieder begegnet, weil ich bin ihm schon früh genug ausgestellt, weil ich dachte mir: Ich lasse mich nicht hauen für nichts. Ich weiß mich nicht schuldig. Dann ist das auch ein fremder SS-Unterscharführer gewesen, der mit unserem Lager Goldfisch in Dachau nichts zu tun hatte. Den kannte ich nicht. Das war ein anderer. Der hat vielleicht wohl mit KZ-ler zu tun, aber nicht mit uns Strafgefangenen.
FRAGE: Wie viele Strafgefangene ward ihr im Lager Moosbach? Hunderte oder tausende?
ANTWORT: Da waren mehrer hunderte, 500 / 600. Ich weiß das nicht genau, so herum, zwischen 300 / 600 / 700 herum, Strafgefangene. Wir waren Gefangene wegen Fahnenflucht, andere wegen Diebstahl, andere wegen Totschlag, andere wegen Frauengeschichten. Die hatten alle andere Delikte begangen.
FRAGE: Haben Sie wirklich ein Delikt begangen?
ANTWORT: Wir haben kein anderes Delikt begangen als, dass wir den Deutschen nicht gedient haben, den Soldaten.
FRAGE: War das wirklich ein Delikt?
ANTWORT: In ihren Augen schon. Wir durften die Truppe nicht verlassen. Wir haben sie verlassen. Wir sind fahnenflüchtig geworden, weil wir mussten uns stellen, weil sie sonst die Eltern ins Lager gebracht hätten. Der Vater hat gesagt: “Bevor wir alle ins Lager gehen, müsst ihr euch stellen. Ihr seid nur zwei und wir sind mehrere.”
FRAGE: Noch eine Minute zurück zu Ihrer Geschichte. Danach kommen Sie wieder nach Dachau.
ANTWORT: Ja.
FRAGE: Und dann?
ANTWORT: Am 24. April sind wir in Dachau zurückgekommen. Dann war auch alles nicht mehr in Ordnung, weil der Krieg ja zu Ende ging. Es gab kaum mehr zu essen. Man bekam sehr wohl Kaffee, aber zu essen sehr wenig. Das ging bis zum 29. April. Am 28. April haben sie uns noch ausgemustert. Die Strafgefangenen hätten sollen Kriegsdienst leisten. Sie bekamen eine Bewährung an die Front zu gehen oder auch nicht.
Ich und mein Bruder waren ihnen zu schlecht. Uns haben sie nicht genommen. Wir hätten uns dann freiwillig melden können. Das haben wir nicht. Wir haben uns nicht gemeldet. Also sind wir im Lager geblieben. Am 28. haben sie uns die im November abgenommenen Kleider zurückgegeben, auch das Geld, nicht mehr in Lire, sondern in Deutsche Mark. Wir wussten nichts Gescheiteres zu tun als unsere Zivilkleidung anzuziehen.
Heute würde ich das nicht mehr tun, weil das ist uns ziemlich zum Verhängnis geworden. Ich würde mir heute eine KZ-Kleidung besorgen. Das wäre besser gewesen, aber wir waren Kinder und wir wussten nicht was Krieg ist und was da kommt. Am 29. April sind die Amerikaner gekommen. Dann haben uns die Amerikaner gefangen genommen mit den deutschen SS und allen wie sie waren. Sie haben uns einfach mit denen zusammen gefangen, weil wir hatten unsere Zivilkleidung an.
Wir haben ihnen schon gesagt wir sind im KZ gefangen gewesen. Ja, ob wir einmal eingerückt sind? Ja, vier Tage. Ja, dann müssen sie uns behalten. Sie haben uns hinaus mit den SS-Männern und mit den ganzen Gefangenen, die sie hatten. Plötzlich waren wir hinter einer Mauer, eine Steinmauer, die war vielleicht 30-40-50 Meter lang, etwa 3 Meter hoch oder auch mehr.
Draußen hatten sie zwei Maschinengewehre stehen, aber keinen Mann dabei und die ganzen Posten, die uns dort hingebracht hatten. Dann mussten wir uns an die Mauer stellen mit dem Gesicht an die Mauer, mit den Händen hoch. Sie wollten uns da erschießen, ganz augenscheinlich. Doch dann kam ein höherer amerikanischer Offizier noch rechtzeitig. Er hat dann alles abgeblasen.
Dann haben wir wieder können in die Reihe gehen. Dann haben sie uns dort weg und hinausgebracht nach Dachau in ein Staatsgebäude wahrscheinlich. Das war ein großes Haus mit einem großen Platz, einen Stock unten und einen oben. Da haben sie die Gefangenen, die sie hatten, hineingebracht.
Wir waren auch da. Da war vielleicht innerhalb nur zweit Tagen das alles voll, ja, schon nach einem Tag. Es sind vielleicht untenauf 300 Gefangene gewesen und obenauf auch 300 Gefangene. Nach zwei Tagen mussten wir gehen nach Fürstenfeldbruck hinaus. Dort hatten sie ein nagelneues Gefangenenlager bereitet. Auf allen vier Ecken da stand ein Turm mit Beleuchtung und mit amerikanischen Posten. Sie haben zu sorgen gehabt, dass die Gefangenen nicht abhauen.
Man hatte einen weißen Streifen gezogen, viereckig. Dort durfte niemand hinaus. Wer da hinausgetreten ist, den haben sie unweigerlich erschossen. Jeden Morgen gab es dort Tote, weil viele Gefangene glaubten sie kommen fort, sie können sich fortschleichen. Es waren auch Zwischenposten, weil das war vielleicht 150 m x 150 m eingekreist mit diesem weißen Band. Dort haben sie dauernd neue Gefangene gebracht. Das war am ersten Mai. Dann hat es geschneit und geregnet. Es war kühl. Wir froren.
Die Gefangenen haben sich dort Löcher herausgemacht mit den Händen oder mit was immer. Wir haben meistens nur die Hände gehabt. Es war dies ein Acker. Dort waren gerade Kartoffel gesetzt. Hunger hatten wir sehr. Mit Löchermachen haben wir entdeckt, dass Kartoffeln angepflanzt sind und die waren erst frisch da. Die haben wir alle herausgegraben. Das wussten die Gefangenen sofort. In einem Tag sind die alle herausgegraben gewesen. Die haben wir uns gebraten oder gekocht und gegessen, weil es war auch ein bisschen Holz herum.
Die Amerikaner haben uns acht Tage überhaupt nichts zu essen gegeben. Wir hatten großen Hunger. Ich und mein Bruder, wir waren nur wir zwei, auch ein gewisser Thaler Franz aus Sarnthein, aus Reinswald, der war sehr behindert, er hinkte sehr. Er war trostlos und verzweifelt. Ich habe ihm oft gesagt: “Franz, jetzt wo der Krieg zu Ende ist, wo wir aus dem Lager heraus sind, darfst du nicht verzweifelt, wir werden schon nach Hause kommen.” Er war sehr skeptisch, weil er war krank.
Dann haben uns die Amerikaner nach acht Tagen zwei Dosen gegeben, eine mit Kekse und ein paar Süßigkeiten und eine mit einem Essen, Nudeln und Bohnen und so. Das war gut, aber viel zu wenig. Wir haben wohl im Lager gebettelt. Doch da haben wir kaum etwas bekommen, weil ja jeder das bisschen, das er hatte, nicht hergeben wollte. Es kamen täglich Neuzugänge, neue Gefangene. Da kam auch Haller Franz und sein Bruder. Dann sind wir zusammen gegangen.
Sie haben geklaut. Das war eigentlich die einzige Überlebenschance für uns, sonst wären wir verhungert. Wir wären es ja schon so fast.
Wir haben dann geklaut was wir gerade brauchten. Doch dann haben sie uns erwischt. Dann haben sie das im ganzen Lager veröffentlicht, dass wir Diebe sind. Da kamen die Amerikaner genau an dem Tag mit großen Camion um Gefangene aus dem Lager anderswo hinzubringen. Wir haben uns sofort gemeldet und sind mit 12 Camion weiter gefahren.
In jeden Camion haben sie zumindest 50 Mann hineingepfercht. Sie sind gefahren wie die Neger, im Tempo und alle kurz hintereinander mit drei-vier Meter Abstand, großer Geschwindigkeit. Dann kamen wir in eine Stadt. Dort war irgendein Hindernis, vielleicht an einer Kreuzung. Der erste hat schnell abgestoppt. Alle anderen haben sofort in kürzester Strecke abgestoppt gehabt. Sie sind nicht aufeinander aufgefahren. Als es wieder weiter ging, sind wir weiter gefahren nach Ulm.
Dort sind wir ein oder zwei Tage gewesen, auch ohne Essen, aber bevor wir in Fürstenfeldbruck fort sind mit den Camion hat das weiße Kreuz Deutschlands Essen ausgeteilt und wir haben gerade soviel zusammengebracht, dass wir auch tatsächlich einen Tag leben konnten. Dann haben sie uns von Ulm nach Heilbronn in ein großes Gefangenenlager dort. Da waren, so sagte man, mehr als eine Million Gefangene in vielen kleinen Abteilungen. In so eine Abteilung kamen auch wir.
Die Amerikaner waren sonst sehr gutmütig und haben uns nie gestresst, aber zu essen gab es nichts, fast nichts. Das ging mindestens drei Wochen so, wenn nicht länger. Ich weiß es nicht mehr genau, von Mitte Mai herum bis ein Stück in den Juni hinein, vielleicht bis Mitte Juni. Einmal am Tag haben wir zu essen bekommen, eine dünne Summe zwischen einem halben und einem dreiviertel Liter. Das war alles am Anfang.
Später gab es dann einen deutschen Kommis zu 18 Mann am Anfang, dann zu 14, drauf nur so ein kleines Schnittchen Brot. Das reichte einfach nicht aus. Da waren wir so schwach und so ausgehungert. Wir haben von den 24 Stunden so 16-17 Stunden geschlafen wie die kleinen Kinder. Als wir aufstehen wollten und auch mussten zum Essen holen oder was immer, irgendwas wurde verlangt von uns, von den Gefangenen, sie haben uns gewiss in Ruhe gelassen soviel sie konnten, aber irgendetwas war eben manchmal.
Ganz Deutschland hatte nichts mehr zu essen. Zuerst kamen die amerikanischen Soldaten, die haben alles bekommen wie immer. Dann kamen die Lazarette und die Krankenlager. Dann kam die Zivilbevölkerung und dann kamen erst die Gefangenen. Für uns ist nicht viel übrig gewesen.
FRAGE: Wie lange blieben Sie in Heilbronn?
ANTWORT: Das muss so drei bis vier Wochen gegangen sein. Ich weiß es nicht mehr genau. Es ist zu lange her. Dann sind wir von dort weiter gekommen. Sie haben uns auf die Bahn gebracht, einen ganzen Zug voll, mehrere tausend Mann. Dann sind sie mit uns durch Deutschland hinaus, nach Frankreich gefahren. In Frankreich, so in die Nähe von Paris, nach Soissons.
Dann ging dort vom Bahnhof ein bisschen ein steiler Weg hinauf auf eine Anhöhe. Wir hatten dort sicher eine halbe Stunde oder mehr Fußweg. Wir waren auch kaum im Stande dort hinaufzugehen. Wir waren einfach am Ende unserer Kräfte, weil in Heilbronn wenn wir aufstehen wollten, sind wir immer hinunter gefallen. Es wurde alles grau und das Gedächtnis hat uns verlassen für kurze Zeit. Wir sind hinunter gefallen, dann sind wir wieder zum Bewusstsein gekommen.
Dann sind wir wieder aufgestanden, immer sehr langsam, aber es reichte einfach nicht. Wir waren so schwach und so herunter gekommen, dass es nicht ging. Auch ein zweites Mal sind wir herunter gefallen, nicht immer, aber oft. Erst das dritte Mal ist es gelungen wirklich aufstehen zu können und gehen zu können und das zu tun was wir mussten, unser Essen holen und so.
Sobald wir das alles wieder hatten, gingen wir wieder in unser Zelt um zu schlafen, schlafen und schlafen.
FRAGE: In Frankreich wurde Ihre Lage besser?
ANTWORT: In Frankreich wurde die Lage besser, weil da wussten sie schon, es waren unsere sieben-acht aus Dachau, Gefangene. Das wusste das ganze Lager. Die Lagerführung, es waren alles Gefangene natürlich, Österreicher und Italiener, die haben uns nach Nationen sortiert. In unserem Lager waren nur Österreicher und Italiener mit italienischer Staatsbürgerschaft, weil die hatten wir immer gehabt. Wir sind italienische Staatsbürger gewesen und geblieben.
Dort sind wir gewesen. Uns haben sie immer dann, wo sie das Essen ausgaben, in der Küche, es war nicht die Küche, gekocht haben sie draußen, aber sie haben das ins Lager gebracht, zur Obrigkeit, dort wurde es verteilt, weil sie wussten, dass wir in Dachau waren, haben sie stets um ein-zwei Liter Suppe mehr gegeben und wenn noch eine übrig war noch den Rest, einen Nachschlag. So haben wir am Tag drei, vier, auch fünf Liter Suppe erhalten. Die Suppe war nicht gerade schlecht. Man konnte sie schon gebrauchen.
Das war eine passende Kost zum Übergang von unserer Heruntergekommenheit, von unserer Unterernährung. Sie war nicht zu fett oder zu üppig. So haben wir uns erholen können. Wir haben annähernd genügend zu essen gehabt. Wir bekamen auch dort ein amerikanisches Brot, die amerikanischen Militärkommiss oder wie man die hieß, die Brote. Es waren weiße Brote. Sie mussten in vier Teile geteilt werden und zu vier Mann bekamen wir ein solches Brot.
FRAGE: Das in Frankreich?
ANTWORT: In Frankreich.
FRAGE: Wann kamen Sie endlich nach Hause?
ANTWORT: In diesem Lager ist es uns besser gegangen und dort sind wir gewesen bis zum 17. August. Einige Tage vorher, so vielleicht zwischen 10. und 12. August kam ein italienischer colonnello. Er hat uns getröstet und hat gesagt wir kommen nach Hause. Er ist deswegen hier. Er wusste nicht, dass hier italienische Gefangene waren, wir sollen entschuldigen, sonst wäre er früher gekommen.
Er hat dann alles in die Wege geleitet. Die Kranken haben sie schon zwei Tage später fort. Dann haben sie die Gefangenen bis zum Buchstaben H genommen, weil ja viele waren und dann zuletzt vom H bis Z. Ich mit “P”, wir waren bei den Letzten. Wir sind am 17. August aus diesem Lager herausgekommen und wieder den Weg hinunter auf den Bahnhof, wo wir herauf waren.
Man hat uns wieder einwagoniert, immer mit den amerikanischen Posten. Das war gut, weil die Franzosen waren sehr erpicht auf die Gefangenen. Sie glaubten wir waren Deutsche. Sie sind dann auch mit Steinen gekommen, haben die Wagons gesteinigt, aber die Amerikaner haben sich schon gewusst fernzuhalten. Die Amerikaner haben uns begleitet bis an die Schweizer Grenze. Dann sind die Amerikaner verschwunden. Dann haben sie uns allein gelassen. Endlich waren wir freie Menschen, so um den 20. August herum, 19.
Dort hatten wir eineinhalb Tage Aufenthalt. Dann ging es nach Italien durch den Gotthardtunnel, nach Domodossola, von Domodossola nach Novara. In Novara haben sie uns einen Entlassungsschein gegeben. Dann haben wir können, bis Mailand ist die Gruppe noch zusammen gewesen, von Mailand bis Verona sind noch einige wenige gewesen und dann sind nicht mehr viele gewesen. Dann sind wir auf uns alleingestellt gewesen und mussten sehen wie wir nach Hause kamen.
Wir sind am 23. August nach Hause gekommen.
FRAGE: Endlich am Ende?
ANTWORT: Endlich am Ende. Ich hatte einen Bruder, der älter war. Er war 1922 geboren. Er war beim italienischen Heer in Italien unten stationiert. Wir hätten sollen gegen unseren Bruder kämpfen. Das haben wir nicht getan und auch nie wollen. Der Bruder kam gerade auch in Urlaub als wir nach Hause kamen. Wir haben uns bei einer unserer Schwestern getroffen. Er sagte: “Was? Ihr seid meine Brüder? So dünn? So dürr? So mager? Ihr seid wie eine Laterne, man kann durch euch durchsehen.”
Wir haben ihm gesagt: “Da hättest du uns müssen vor zwei Monaten sehen oder drei. Dann könntest du das sagen, aber jetzt nicht mehr.” Wir hatten uns ziemlich erholt. So sind wir nach Hause gekommen am 23. August 1945.
FRAGE: Noch eine kurze Frage? Können Sie das vergessen oder möchten Sie das vergessen oder wollen Sie das nicht vergessen?
ANTWORT: Ich habe vieles vergessen, aber ich kann unmöglich alles vergessen. Das ist ganz ausgeschlossen. Das ist ein Lebensstück und ein böses Lebensstück. Die Deutschen haben uns sehr gequält und gepeinigt und gestresst und Hunger leiden lassen. Schlafen konnten wir wenig, weil um zehn Uhr durften wir schlafen gehen, aber um elf Uhr-zwölf Uhr war Fliegeralarm, der dauerte durchwegs zwei Stunden. Das war äußerst selten, dass kein Fliegeralarm war. Am Anfang im Dezember noch, wenn aber Februar wurde, dann war fast jede Nacht zweimal Fliegeralarm. Wir mussten immer in den Bunker gehen und im Bunker konnte niemand schlafen. Dann wissen Sie wie viele Stunden uns noch blieben zum Schlafen, wenn wir vier Stunden mussten im Bunker sein, um zehn Uhr abends ins Bett kamen und fünf Uhr morgens aufstehen mussten. Dann gab es Schlaf nicht mehr viel.

Thaler Franz

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Franz Thaler, sono nato il 6 marzo 1925. Negli anni Trenta, dal 1931 al 1939, ho frequentato la scuola italiana. Poi quando avevo 14 anni. Mio padre… Ci sono state le opzioni. Mio padre ha scelto di rimanere, ha scelto l’Italia. Dunque io ero italiano.
E poi la gente un pochino… “Tu sei un italiano!” (Walscher!, dispregiativo). Sono stato messo in disparte. Erano tempi brutti. Erano pochi quelli che avevano scelto di restare e sono stati un poco angariati. Dicevano: “L’italiano!” (“Der Walsche!”)
Poi è arrivato un maestro tedesco che doveva insegnare il tedesco ai ragazzi e ai bambini. Una domenica siamo andati tutti a scuola. Il maestro si scriveva i nomi e quando è stato il mio turno anch’io volevo dirgli il mio nome. Però sono intervenuti alcuni ragazzi che hanno urlato “Lui è un Walscher!”
Allora questo maestro mi ha guardato per un po’ e poi mi ha detto che dovevo andarmene, lui voleva insegnare solo ai bambini tedeschi. Questo è stato, per dire, il primo colpo. È andata avanti così. Avevo dei bravi compagni. Se qualche volta non andavamo d’accordo allora mi dicevano “maiale italiano!”.

D: In che paese abitava Lei all’epoca?

R: A Valdurna. È una frazione di Sarentino, proprio in fondo alla valle. Poi vennero tempi in cui molti dei tedeschi dovettero arruolarsi, anche degli italiani. Poi presto si cominciò a sentire che dei soldati erano caduti in guerra. E allora il grande entusiasmo per la Germania cominciò a scemare. C’erano quelli che imprecavano contro Hitler e che prima avevano gridato “Heil Hitler!”. Avevano visto che non andava bene.
Nel 1943 ci fu la capitolazione di Mussolini. Da lì in poi Hitler ha avuto tutto il potere su di noi. Si sono gettati su di noi. Abbiamo dovuto fare la visita di leva, tutti insieme, gente dai 16 ai 50 anni. Ovviamente la maggior parte era abile all’arruolamento. E anch’io lo ero.
Poi ho pensato che presto avrei dovuto arruolarmi. Sono scappato. Poi un accanito nazista del nostro paese ha detto a mio padre: “Se il Franz non si presenta, verranno messi in carcere suo padre e sua madre”. Allora mio padre mi ha cercato. Sapeva più o meno dove mi nascondevo. Stavo in montagna, non potevo farmi vedere da nessuno.
Quando volevo prendere qualcosa da mangiare dovevo muovermi di notte, senza luce. Avevo un fratello dall’altra parte (della montagna), andavo da lui. Mi dava burro e formaggio, lassù faceva il malgaro … la notte potevo andare a prendere qualcosa. C’erano anche un paio di altri compagni, da cui potevo andare.
Così la vita è andata avanti. Era estate. Mi sembrava di essere un animale selvatico. Appena sentivo un rumore mi spaventavo molto, volevo scappare
Un giorno passavo per il bosco, ho visto due uomini dietro un albero e volevo già scappare. Poi uno mi ha chiamato: “Fermati Franz! Non ti facciamo nulla!” Allora ho subito riconosciuto la voce. Era un collega di Vilandro. Ci conoscevamo da tanto tempo. Mi sono fermato, mi sono avvicinato un po’ a loro, abbiamo parlato e poi loro sono andati per la loro strada. Non è successo nulla..
Dovevo spostare continuamente il campo. Una volta sono stato forse tre settimane in una distilleria di pino mugo, ma me ne sono dovuto andare. Sono stato in un fienile, forse per due-tre settimane, e poi di nuovo in un altro fienile. Avevo tre fienili e la distilleria. Lì trascorrevo le notti.
Non era bello, tuttavia più bello di quello che è venuto dopo. Poi mio padre mi ha cercato e mi ha pregato: “Ti prego Franz, consegnati, altrimenti rinchiudono me e la mamma”. E tu cosa fai, allora? Volevo risparmiare un dolore ai miei genitori e mi sono consegnato. Sembrava che se mi fossi consegnato non sarebbe successo niente a me e ai miei genitori.
Io non ci credevo, ma la sera sono andato a casa. Poi è arrivato il comandante del posto (Ortsleiter), il nazista, e ha detto: “È bello, Franz, che tu adesso ti arruoli. Aiuti a combattere per Hitler.” Il giorno dopo sarei dovuto andare a Bolzano. Poi hanno chiesto un po’ e quindi mi hanno dato un foglio, una convocazione a Silandro per il servizio militare.
Sono arrivato là. C’erano molti conoscenti delle mie parti. “Come mai sei venuto qui?” Ho raccontato loro come era andata. Ho fatto due mesi di addestramento.

D: Quando sono stati questi due mesi?

R: Dal 21 settembre fino a due mesi dopo, in novembre. Terminato l’addestramento gli altri sono stati mandati giù in Italia, a Belluno ed io sono stato messo in prigione. Sono dovuto andare dal comandante del battaglione e lui mi ha letto una lettera: “Dovevi arruolarti a giugno e sei rimasto a gironzolare in montagna”. Mi ha chiesto se era vero. Ho pensato che ormai non potevo più negare.
Poi mi ha detto: “Domani andrai a Bolzano al Tribunale di Guerra!”. Il sergente (Wachtmeister) della mia compagnia mi ha portato a Bolzano. Sono entrato in una grande sala. C’era un tavolo. Dietro al tavolo sedevano otto/dieci SS. Erano i giudici. Uno di loro ha letto un foglio, il codice penale: “Per coloro che rifiutano il servizio militare c’è la pena di morte”. Ho pensato “In nome di Dio, qui mi fucilano.”
Le cose sono andate in modo diverso. Hanno guardato un po’. Pensavano che sarei svenuto, ma non l’ho fatto. Ho sorriso loro. Poi un SS ha preso un altro foglio e ha letto la sentenza: “Poiché l’imputato è minorenne”, perché allora si diventava maggiorenni a 21 anni ed io ne avevo solo diciannove, “e poiché si è presentato volontariamente, egli non viene condannato a morte, ma a 10 anni nel campo di concentramento di Dachau“.
In un primo momento ho pensato che mi fosse andata di nuovo bene, visto che non venivo fucilato. La parola Dachau non mi diceva nulla, non l’avevo mai sentita prima.
Sono rimasto altre tre settimane in prigione a Silandro. Quindi mi hanno portato a Dachau. Già il viaggio è stato un po’ duro, in viaggio verso Dachau, ho visto e vissuto tante cose. Quando siamo arrivati a Dachau un gruppo di lavoratori usciva proprio in quel momento dal portone, tutti magri, pallidi. Ho pensato a cosa si dovesse vivere in quel posto per avere quell’aspetto. L’ho capito più tardi.
Mi sono dovuto togliere i vestiti. Mi hanno chiesto perché ero lì, qual era la mia pena e la mia religione. Io ho detto: “Sono cattolico!” L’uomo delle SS allora mi ha risposto: “Qui da noi imparerà a pregare in modo diverso”.
Sono stato fotografato da tutti i lati. Ho ricevuto una camicia logora e un paio di mutande. Poi un SS mi ha portato nel bunker. È un edificio lungo, a destra e sinistra lungo il corridoio si aprono le celle, l’SS ha aperto una porta nel mezzo, mi ha dato uno spintone e buttato dentro. Mi sono guardato intorno. In alto c’era una finestra a bilico. Era stata verniciata di bianco, poi un castello, due letti. Non c’erano letti, solo… Non c’erano coperte, non c’era proprio niente.
Volevo sedermi. Era pressoché impossibile. Mi sono seduto sul coperchio del gabinetto e ho pensato: “Cosa mi succederà adesso?”. Erano già un paio di giorni che non mangiavo nulla. Mi sembrava che mi succedesse quello che accadeva alle bestie dei contadini, forse ai maiali, anche i maiali non venivano più nutriti al mattino. Mi sembrava di essere così: Oggi mi affamano e domani mi fanno fuori. Poi ho sentito dei passi nel corridoio. Ho sentito che veniva aperta la cella accanto alla mia e ho sentito urlare: “Fuori subito”. Ho sentito un uomo che usciva in corridoio. Poi è stata aperto la mia cella: “Fuori subito!”. Abbiamo dovuto pulire il lungo corridoio. All’ingresso c’era un lavatoio. Dovevamo prendere le pezze, un secchio con l’acqua, la paletta e la scopa. Ho pensato che la cosa più semplice era lavorare con la scopa e la paletta.
Allora l’uomo delle SS mi ha subito urlato addosso: “Fannullone! Imparerà con cosa si inizia!”, perché si doveva sempre iniziare dalle cose più pesanti, poi si passava a quelle più leggere. Quando vedevano che tu iniziavi dalle cose più facili, per loro eri il fannullone che voleva cavarsela.

Mi ha preso a ceffoni. Io avevo la paletta e la scopa, l’altro un secchio con l’acqua e le pezze. Mi sono dovuto accucciare e ho dovuto dare la paletta e la scopa all’altro. Poi mi ha dato una scopa. Accucciato ho dovuto saltellare due volte su e giù per tutto il corridoio. Alla fine ero stremato. E poi pulire in fretta il corridoio. Tutto doveva avvenire a passo di corsa.
Finito il lavoro abbiamo riportato indietro le cose e siamo rientrati nelle celle. Ho avuto tempo di pensare a quello che avevo fatto di sbagliato. È andata avanti così. Per cena mi hanno versato in una ciotola di alluminio un po’ di zuppa di cavolo. Sulla porta della cella c’era uno sportello che si poteva aprire e formava una specie di tavolino. Lì bisognava appoggiare la ciotola che veniva riempita. Ho mangiato quello che mi hanno dato, ma era troppo poco. Col dito ho pulito bene tutto.
Era ora di dormire. Non sapevo dove mettermi. Sulla cosa di legno, che era lunga ma nel mezzo aveva una trave, non ci si poteva quasi sdraiare. Quando hanno spento la luce mi sono messo sul pavimento. C’era un termosifone con due elementi ma sicuramente non scaldava. Io gelavo.
Al mattino presto ho sentivo che veniva distribuito il caffè. Si è aperto lo sportello, ci ho messo la ciotola e ho pensato: Mi daranno ben del pane. Sono rimasto così. Allora l’altro mi ha chiesto urlando che cosa aspettavo, mica il pane, vero? Io ho detto “Si.” “No, non c’è pane”. Allora ho bevuto il caffè, era solo acqua sporca. Sono rimasto tre giorni nella cella.
Una volta, finito di pulire il corridoio, dovevamo consegnare le cose e abbiamo sentito urla provenire dal bunker. Poi si è aperta la porta e sono entrate 8-10 persone, rasate a zero, in camicia e mutande. Abbiamo sentito: “Mamma mia!” e abbiamo capito che erano italiani. Li hanno rinchiusi tutti insieme nella stessa cella.
E di nuovo si doveva pulire il corridoio. Sono passati davanti alla mia cella e hanno aperto quella dopo. E l’SS ha urlato “Due uomini subito fuori!”, ma loro non capivano che cosa aveva detto. Così l’SS è entrato nella cella, ha buttato due ragazzi in corridoio e li ha picchiati duramente. Loro hanno dovuto pulire il corridoio.
Da quel giorno la pulizia del corridoio la facevano gli italiani. Dopo tre giorni ho ricevuto dei vestiti. Non era un abito a righe, era un’uniforme dell’esercito italiano. Mi hanno messo in una baracca. C’erano quattro/cinque diversi …Come si dice? Francesi, svizzeri, russi, appunto diversi.
È arrivato il Natale. Abbiamo detto, forse potevamo suonare qualcosa per Natale. Abbiamo persino fatto un alberello con appesi un paio di pezzi di carta colorata.

D: Ha ricevuto un numero di matricola a Dachau?

R: No. Eravamo un pochino separati dal campo principale. Per noi era previsto che andassimo in un campo esterno e avevamo “Frontbewährung”, cioè se avevano bisogno di noi potevano mandarci al fronte. Noi non abbiamo ricevuto l’abito a righe.

D: La sua baracca aveva un numero?

R: No, era separata, ma annessa all’edificio del bunker

D: Accanto al grande muro del campo di concentramento?

R: Ben dentro, dietro il muro. Ho visto come era fatta la recinzione. Prima c’era un fossato con l’acqua dentro. Poi c’era il filo spinato, in rotoli. Poi c’era anche il muro, con filo spinato sulla sommità. Tutto aveva la corrente ad alta tensione, perché non si poteva scappare, non c’era possibilità.
Ci hanno detto che il 27 saremmo andati in un campo esterno, a Hersbruck. Al mattino presto ci hanno detto “Preparate tutto per il trasporto“. Non avevamo tanto da preparare: la ciotola e il cucchiaio e una coperta, no, nessuna coperta. Poi ci hanno stipati in un carro bestiame, hanno chiuso le porte. Sulla parte alta c’era una finestrella con una grata.
Siamo partiti. Quando c’era l’allarme aereo il treno si fermava. In qualche modo ci mettevano al riparo. Stavamo fermi anche una mezza giornata, una mezza nottata o una notte intera. Poi si proseguiva. Penso che ci abbiamo messo due giorni ed una notte per arrivare a Hersbruck. Siamo arrivati di sera. Nevicava.
Le SS ci stavano aspettando. Siamo scesi dal treno. In fila per tre ci siamo avviati per un sentiero ripido e dovevamo camminare svelti, le SS ci davano addosso con i manganelli ed i calci dei fucili. Abbiamo camminato un bel po’ sotto la pioggia e la neve. Eravamo stremati. La notte non avevamo dormito e non avevamo mangiato. Ci avevano dato un pochino di rancio, che ognuno di noi aveva divorato subito. Abbiamo continuato la salita. Abbiamo visto delle luci. Allora era lì che saremmo andati? E invece no, siamo passati oltre. Poi siamo arrivati in un avvallamento. C’era un grande edificio. C’era un torrente. Abbiamo attraversato un ponte. Poi hanno distribuito delle fettine di pane che dovevano essere suddivise tra quattro persone: dovevamo stare attenti a dove andava l’uomo che aveva ricevuto il pane, altrimenti saremmo rimasti senza… Siamo arrivati.
Nel grande edificio, mi hanno mandato al secondo piano. Erano già passate le tre di notte. Hanno acceso le luci. C’erano dei tavolati a tre piani. Con la luce qualcuno ha guardato giù dalle cuccette e ha urlato. “Franz, sei qui anche tu adesso?” Con lui ero stato in prigione a Silandro. Mi ha fatto piacere trovare persone conosciute.
Mi hanno assegnato un giaciglio e mi sono potuto sdraiare. C’erano un pagliericcio sottilissimo ed una coperta. Ho preso la coperta, mi sono sdraiato, mi sono infilato sotto la coperta, mi sono tolto i vestiti e li ho messi sopra la coperta. Ero così stanco. Mi sono addormentato subito.
Al mattino ci svegliavano i fischietti. Tutti fuori in fretta dalle cuccette per andare a lavarsi. Bisognava togliersi la camicia e scendere al lavatoio al piano di sotto. Era andato tutto bene. Il giorno dopo lo stesso. C’era un italiano, era più giovane di me di un anno, che nella fretta dimenticò di togliersi la camicia. Arrivò al lavatoio con la camicia addosso. Le SS non aspettavano altro che arrivasse qualcuno con la camicia addosso. L’italiano ha dovuto spogliarsi completamente. Con un tubo gli hanno gettato addosso acqua gelata ed un altro con uno spazzolone lo ha spazzolato fino a che non era tutto rosso di sangue. Non lo abbiamo più rivisto. Abbiamo pensato che fosse morto …
Il giorno dopo ancora una visita. Ho dovuto raccontare perché ero lì e per quanto tempo. Poi siamo stati pesati. Pesavo ancora 45 chili. Prima di costituirmi ne pesavo 69.

D: Ho capito bene? Lei è stato pesato a Hersbruck?

R: Si.

D: Dalle SS?

R: Si. No, c’erano anche dei prigionieri. Ho pensato: Più giù di così non può andare. E invece è andato ancora tanto più giù. Per il lavoro pesante, il cibo scadente, al mattino l’acqua sporca senza pane, senza zucchero, a mezzogiorno la zuppa di cavolo o forse una volta la zuppa di piselli o se tutto era andato davvero bene, a Pasqua abbiamo ricevuto due patate lessate, se erano piccole tre patate, se erano grandi due. Non si toglieva la buccia. Si riceveva anche un cucchiaio. Si mangiava tutto insieme. Questo era il cibo buono.
Oggi non riesco più a immaginarmi com’era con quel cibo, quel lavoro. Si faceva il possibile per sopravvivere…
Ero contento che ci fossero tanti italiani con me, italiani, croati, la maggior parte erano però italiani, ho imparato un po’ di italiano. Il mio miglior compagno era uno che veniva dal Trentino. Si chiamava Filzi, credo, Giovanni Filzi.
Più di tanto non potevamo parlare durante il lavoro. Solo quando tornavamo alle baracche avevamo forse una mezz’ora libera. Allora potevamo parlare. Di cosa volete che si parlasse? Di cosa sarebbe successo? Si parlava del cibo. Era sempre il primo pensiero. Avevamo tutti una tale fame.

D: Che lavoro faceva?

R: Ero alla cava.

D: Andava a piedi alla cava?

R: A piedi. Fino alla cava ci si metteva circa 10 minuti. Abbiamo costruito noi un Lager vicino. Era mezzo finito quando siamo arrivati. Dovevamo sistemare le pietre.
Un prigioniero francese con una slitta ed un cavallo trasportava le pietre al Lager. Era un lavoro tremendo senza guanti. Le pietre coperte di neve… Era duro. Avevamo pessime scarpe, senza calze. Stavamo tutto il giorno nella neve.
Era tremendo alzarsi al mattino e infilare i piedi nudi nelle scarpe gelate. Non era piacevole. Così è andata avanti.
Poi mi è venuta la scabbia. È una malattia che comincia tra le dita. A me è venuta su tutto il corpo, ero tutto ulcerato. Se si faceva pressione, dalle ulcerazioni uscivano sangue e pus. Stavo sempre peggio, e la scabbia è una malattia contagiosa. I miei migliori compagni mi evitavano. Questo non l’ho più sopportato.
Ho detto al kapò: “Per favore, domani mi dia malato.” Non ci si dava malati volentieri, perché se si era malati troppo poco la si sarebbe pagata cara. Io non ce la facevo più. C’era anche un italiano, quasi con la stessa malattia. Il giorno dopo ci siamo presentati. Dietro la scrivania sedeva un SS. Ci siamo spogliati. Mi ha guardato. Cosa c’era che non andava? “Guardi lei stesso!”
Allora mi ha guardato da capo a piedi: “Porco! Perché non l’ha detto prima?”. E così sono stato mandato via. Poi si è presentato il prossimo. Gli ha subito gridato addosso. Ci hanno cosparso tutto il corpo con un liquido. Sembrava olio da cucina.
Poi dovevamo tornare al lavoro. Dopo una settimana eravamo quasi guariti. Ho trovato di nuovo il coraggio per vivere ancora. Si andava avanti così. Un mattino avevo brividi tremendi. Ho pensato che non potevo più darmi malato. Poi ho pensato che se avessi ricevuto un caffè caldo e acqua calda mi sarei scaldato. Sono andato al lavoro. Dovevo continuamente andare di corpo. Avevo la dissenteria. Cioè, dovevo andare sempre alla toilette. Lo stomaco, tutto andava fuori.
Il kapò della squadra di lavoro se ne accorse. Dovevo sempre chiedere. Uno delle SS mi ha urlato “Vuoi forse scansare il lavoro?” Il kapò mi ha detto che non dovevo più lavorare, mi potevo sedere. Dovevo comunque svuotarmi continuamente.
A mezzogiorno tornavamo sempre alla baracca per mangiare.
Ho detto al kapò che non c’era niente da fare, doveva darmi malato. Allora qualcuno mi ha portato un termometro. Avevo la febbre ben oltre i 39°. Ero idoneo all’infermeria. Ci sono andato. Nella cuccetta c’erano già tre uomini. Non sapevo se erano ancora vivi o no. Erano pallidi. I vivi si distinguevano dai morti per il respiro e per gli occhi che si muovevano.
Alla sera stavo malissimo. Ci hanno portato una zuppa. Ero talmente debole che non ero neppure in grado di mangiarla. Il mio vicino si era già un pochino ripreso e continuava a guardare la mia zuppa. Ho detto “La puoi mangiare. Io non ce la faccio.”
Era il giorno del mio compleanno, il 6 marzo. Ho pensato che fosse la fine, in nome di Dio, adesso mi addormento e non mi sveglio più. Poi ho perso conoscenza. Il giorno dopo quando mi sono svegliato stavo un pochino meglio. Ho mangiato metà della zuppa. lentamente ho cominciato a stare meglio. È venuta un’infermiera e ci ha dato un cucchiaio pieno di carbone macinato. Questa era la medicina per la dissenteria. Poi ci ha prelevato il sangue, per cosa poi non sono ancora riuscito a capirlo.
La volta dopo è venuta un’infermiera della Croce Rossa. Non so se era un’infermiera della Croce Rossa o meno. Doveva farci un prelievo di sangue. Quattro, cinque volte ha mancato la vena, non l’ha trovata. Allora è andata da un altro. È successa la stessa cosa. È un po’ arrossita e se ne è andata. È tornata allora l’altra infermiera. Era vecchia, non ha detto assolutamente niente. Lei ce l’ha fatta.
Ho dimenticato qualcosa. Abbiamo pregato l’infermiera… Io dovevo ancora svuotarmi. Ho pensato “Come faccio?” Non ero in grado. In quello stesso momento me la sono fatta addosso. Non si poteva chiamare nessuno per fare pulire. Sono rimasto nei miei escrementi.
Il giorno dopo abbiamo chiesto all’altra infermiera se ci portava un vaso da notte. Si, ce l’ha portato. Però non l’abbiamo usato. Dovevamo restare nei nostri escrementi.
Miglioravo. Il terzo giorno al mattino ho visto che due uomini non c’erano più. Ho chiesto al mio vicino cosa fosse loro successo. Non sapeva se erano morti o se li avevano solo portati via, probabilmente erano morti. Siamo rimasti 16 giorni all’infermeria. Poi siamo tornati al lavoro.
Con la coperta sotto il braccio, il cucchiaio e la ciotola in mano… Da una parte tornavamo volentieri dai nostri compagni, dall’altra avevamo già di nuovo paura della vita del Lager, di quanto accadeva. Eravamo così deboli che potevamo stare appena in piedi e fare qualche passo.
Non siamo più andati al lavoro fuori nella cava, nel Lager c’erano diversi lavori da fare. C’erano un francese ed un tedesco. Non avevano alcun interesse a maltrattarci. Se solo avessimo ricevuto cibo a sufficienza ci saremmo ripresi più in fretta. I tempo era bello, il sole splendeva. Eravamo alla fine di marzo.
Se solo avessimo ricevuto cibo a sufficienza ci saremmo ripresi più in fretta, purtroppo il cibo era scadente. Poi ci hanno detto che tornavamo a Dachau. Il fronte si avvicinava sempre più, arrivavano gli americani. Hanno sgomberato il Lager. Non so più con precisione se il 4 o il 5 aprile ci hanno detto: “Prepararsi per il trasporto a Dachau”. Anche quello fu un brutto viaggio.
Arrivavano gli aerei americani a bassa quota. Quando vedevano un treno sparavano. So che una volta dovevamo andare al bagno, abbiamo bussato alla parete. Ci hanno urlato dentro: “Fatela come la fanno tutti i maiali!”. Ognuno l’ha fatta nel posto dove si trovava. C’era una puzza tremenda.
Una volta stavamo mangiando, siamo potuti scendere e abbiamo ricevuto da mangiare. Mentre eravamo fuori sono arrivati gli aerei americani, sono passati oltre ma hanno visto che c’era qualcosa. Allora sono tornati indietro. Su una strada c’erano 5-6 uomini delle SS. Gli hanno sparato…
Due erano feriti in modo grave, abbiamo visto, ed un paio feriti in modo più leggero li hanno caricati nel vagone, noi ci hanno chiusi di nuovo nel carro bestiame. Siamo ripartiti.

D: Purtroppo il tempo passa molto in fretta. Abbiamo ancora cinque minuti. Può raccontarci dove è stato liberato? Quando? Cosa Le accadde dopo la liberazione ufficiale?

R: Giunse il 29 aprile. Avevamo sempre il fronte … sentivamo gli spari e vedevamo tutto. Eravamo contenti che arrivavano gli americani, ma avevamo anche paura, cosa avrebbero fatto di noi prima di lasciarci liberi?
Giunse il 29 aprile. La guardia era un po’ sparita. Abbiamo pensato, io e due della Val Passiria e diversi italiani, adesso guardiamo in cucina. Non c’erano guardie da nessuna parte.
Uno ha detto: “Guardiamo se la porta del Lager è aperta”. Siamo andati e era aperta. Siamo usciti dal Lager e siamo arrivati agli alloggiamenti delle SS. È stato uno sbaglio. Ho pensato di cercare qualcosa da mangiare. Non abbiamo trovato nulla.
Siamo entrati in una baracca. C’erano divise delle SS. Uno ha detto: “Cambiamo le nostre camicie sporche e piene di pidocchi”. Detto fatto. Dopo che ci siamo cambiati sono arrivati due americani e ci hanno fatto segno di seguirli. Siamo andati. Abbiamo sorriso loro. Erano i nostri liberatori! Abbiamo camminato un po’, c’era un grande cortile, un grande portone. Abbiamo visto che avevano fucilato un gran numero di SS, gli americani.
Abbiamo pensato: “Giusto che vi succeda questo!”. Siamo andati avanti ancora per 25 m. Poi ci hanno messo al muro, con la faccia verso il muro e le mani sopra la testa. Abbiamo pensato, adesso fanno a noi quello che abbiamo visto hanno fatto agli altri. Siamo rimasti lì un bel po’.
C’erano due o tre ufficiali americani ed un paio di soldati. Ci hanno detto: “Abbassate le mani e giratevi!” Discutevano su cosa fare di noi. Eravamo vestiti per metà da SS e per metà da prigionieri. Ne siamo usciti vivi. Non ci hanno rimandato nel Lager, bensì con i soldati tedeschi prigionieri. Il sesto giorno abbiamo ricevuto per la prima volta da mangiare.
Ancora una volta mi sono lasciato andare. Avevo perso i miei compagni della Val Passiria. Pioveva e nevicava. “Così” alto era il sudiciume. Non ci si poteva sdraiare. Il quinto giorno ho pensato: non ce la faccio più, mi lascio cadere, mi addormento e non mi sveglio più. Quelli della Val Passiria mi hanno visto, hanno detto: “Franz, alzati! Così muori!” Io ho detto: “Non ce la faccio più”.
Mi hanno aiutato ad alzarmi: “Si, ce la farai!” Ho pensato che a casa sarei tornato volentieri. ma non ci credevo proprio tanto. Gli altri: “Certo. Ce la faremo. Ora siamo pronti”. Poi ci è stato detto che il giorno dopo avremmo ricevuto di sicuro qualcosa da mangiare. Ero contento, forse era vero che avremmo ricevuto qualcosa da mangiare.
Si, è successo. Il giorno dopo abbiamo visto dei furgoni davanti al Lager, era tutto all’aperto, hanno scaricato delle scatole di cartone, hanno cominciato a distribuire, due piccole scatolette. In una c’erano fagioli, un po’ d’olio e nell’altra un paio di biscotti e delle caramelle. Io ero l’ultimo. Guardavo continuamente. Chissà, forse non ce n’era abbastanza anche per me.
E invece ce n’era abbastanza! Mi sono seduto con le gambe incrociate, ho cominciato a mangiare, ho pianto. Poi è andato tutto meglio. Sono rimasto quattro mesi prigioniero degli americani. Ci davano poco da mangiare, ma quello che ci davano era buono.

D: In quali Lager, in quali città ha trascorso questi quattro mesi?

R: Dapprima un mese in Germania in diversi Lager, sempre all’aperto, e poi in Francia, in un grande campo di prigionia. Lì i malati o i deboli avevano una tenda separata… C’erano grandi tende. Io sono finito in una tenda per malati. Poi è andata un pochino meglio.

D: L’ultima domanda. Quando è arrivato finalmente a casa?

R: Il 19 agosto.

D: Di che anno?

R: 1945.

D: Si è pesato?

R: Poco dopo essere uscito dal Lager mi sono pesato. Pesavo poco più di 30 kg, forse 31.

D: Grazie infinite, signor Thaler.

(traduzione dall’originale tedesco dell’Ufficio Traduzioni del Comune di Bolzano)

Ich heiße Franz Thaler, bin geboren am 6. März 1925.
Dann bin ich den 30er Jahren, von 1931 bis 1939 in die italienische Schule gegangen. Da war ich dann 14 Jahre alt. Mein Vater… Da kamen die Wahlen. Mein Vater hat sich für das Hierbleiben, für Italien entschlossen. Dann war ich ein Italiener.
Da haben die Leute dann ein bisschen… “Du bist ein Walscher!” Da war ich auf die Seite geschoben worden. Das waren damals schlimme Zeiten. Es waren wenige, die für das Dableiben gewählt haben und die hat man schon ein bisschen schikaniert. Es hat geheißen: “Der Walsche!”
Dann kam ein deutscher Lehrer in die Ortschaft und er sollte die Jugendlichen und die Kinder Deutsch unterrichten. An einem Sonntag gingen die Jugendlichen und die Kinder alle zur Schule. Der Lehrer hat den Namen aufgeschrieben und als er zu mir kam wollte ich auch meinen Namen sagen. Dann kamen schon welche vor und schrieen: “Das ist ein Walscher!”
Da hat mich dieser Lehrer ein bisschen angeschaut und hat gesagt ich soll gehen er möchte nur deutsche Kinder unterrichten. Es war so zu sagen der erste Schlag. Dann ging es so weiter. Ich hatte gute Kollegen. Wenn wir einmal nicht gut auskamen dann war ich “Der walsche Schwein!”.
FRAGE: In welchem Dorf wohnten Sie zu jener Zeit?
ANTWORT: Durnholz. Das ist eine Fraktion von Sarnthein, ganz hinten drein. Dann kamen die Zeiten, es mussten ziemlich viele einrücken von den Deutschen, auch Italiener. Dann hörte man bald einmal, dass Soldaten gefallen sind. Da war dann die große Begeisterung für Deutschland schon ein bisschen gesunken. Da waren schon manche, die über Hitler geschimpft haben, die vorher “Heil Hitler!” geschrieen haben. Sie haben dann gesehen es geht nicht gut.
Im Jahre 1943 hat Mussolini kapituliert. Dann hat Hitler die Macht gehabt über uns. Dann ging es auf uns los. Da wurden wir gemustert, von 16 Jahre bis 50 Jahre alte Leute, alle zusammen. Natürlich waren die meisten tauglich zum Einrücken. Ich eben auch.
Dann habe ich mir gedacht ich werde müssen bald einmal einrücken. Ich bin geflüchtet. Dann hat ein großer Nazi von unserem Dorf zum Vater gesagt: “Wenn sich der Franz nicht stellt, wird der Vater und die Mutter eingesperrt.” Dann hat mich mein Vater gesucht. Er hat ungefähr gewusst wo ich mich aufhalte. Ich war am Berg droben, durfte mich von niemandem sehen lassen.
Wenn ich etwas zum Essen holen wollte oder so, habe ich immer nachts gehen müssen ohne Licht. Ich hatte einen Bruder auf der anderen Seite, bin zu dem hingegangen. Er hat mich mit Butter und Käse, er war Senner droben… habe ich können nachts hingehen ein bisschen etwas holen. Es waren noch ein paar Kollegen, zu denen ich konnte hingehen.
So ist das Leben weiter gegangen. Es war Sommer. Ich bin mir irgendwie vorgekommen wie ein wildes Tier. Wenn ich ein Geräusch hörte, bin ich immer aufgeschreckt, wollte davonlaufen.
Einmal bin ich durch den Wald gegangen, da sah ich zwei Männer hinter einem Baum stehen und ich wollte schon die Flucht ergreifen. Dann hat mir einer nachgerufen: “Halt Franz! Wir tun dir nichts!” Dann habe ich gleich die Stimme erkannt. Es war ein Kollege aus Villanders. Wir hatten uns vorher schon lange gekannt. Da habe ich gehalten, bin ein bisschen näher zu ihnen gegangen, haben ein bisschen gesprochen und sie sind ihre Wege gegangen, ich meine. Es ist nichts passiert.
Ich musste immer das Lager wechseln. Einmal war ich in einer Latschen Brennerei, war vielleicht drei Wochen, musste wieder gehen. Ich war in einem Heuschuppen, vielleicht zwei-drei Wochen, dann wieder zum nächsten Heuschuppen. Ich hatte drei Heuschuppen und die Latschen Brennerei. Das war mein Nachtlager.
Es war nicht schön, aber trotzdem schöner als nachher. Dann hat mich mein Vater gesucht und hat mich gefunden und hat mich gebeten: “Bitte Franz, stell dich, sonst sperren sie mich und die Mutter ein!” Was machst du dann? Ich wollte den Eltern ein Leid ersparen, dann habe ich mich gestellt. Dann hat es noch geheißen wenn ich mich stelle passiert mir nichts und auch den Eltern nichts.
Geglaubt habe ich es nicht, aber ich bin abends nach Hause. Dann kam der Ortsleiter, der Nazi, hat gesagt: “Das ist schön Franz, dass du jetzt einrückst. Hilf für den Hitler kämpfen.” Am nächsten Tag hätte ich sollen nach Bozen gehen. Da haben sie ein bisschen gefragt und nachher einen Zettel gegeben, eine Einberufung nach Schlanders zum Militär.
Dann bin ich da hingekommen. Da waren viele Bekannte aus meiner Ortschaft. “Wieso kommst du da her?” Ich habe ihnen erzählt wie es gegangen ist. Dann habe ich zwei Monate Ausbildung gemacht.
FRAGE: Wann waren diese zwei Monate?
ANTWORT: Das war vom 21. September, zwei Monate weiter dann war November. Als die Ausbildung fertig war, die anderen kamen in Einsatz in Italien unten, Belluno und mich haben sie ins Gefängnis getan. Da musste ich dann zum Bataillonskommandeur gehen und der hat mir dann einen Brief vorgelesen: “Du solltest im Juni einrücken und hast dich im Berg herumgetrieben.” Er hat gefragt ob das stimmt. Ich habe mir gedacht jetzt kann ich auch nicht mehr leugnen.
Dann sagt er: “Morgen kommst du nach Bozen auf das Kriegsgericht!” Da hat mich dann mein Wachmeister von meiner Kompanie, wo ich vorher war, nach Bozen gebracht. Da kam ich in einen großen Raum hinein. Da war ein Tisch. Dahinter saßen 8-10 SS-Männer. Das waren die Richter. Dann hat einer einen Zettel herunter gelesen, das Strafgesetz: “Für diejenigen, die den Kriegsdienst verweigern ist die Todesstrafe.” Ich habe mir gedacht: “In Gottesnamen, werde ich eben erschossen.”
Da kam es ein bisschen anders. Sie haben ein bisschen geschaut. Sie haben gemeint ich werde in Ohnmacht fallen, aber das bin ich nicht. Ich habe ihnen entgegen gelächelt. Dann hat einer einen anderen Zettel aufgeklaubt, hat das Urteil herunter gelesen. Da hat es geheißen: “Weil der Angeklagte minderjährig ist”, weil damals warst du mit 21 Jahren volljährig und ich war erst 19, “und, weil er sich freiwillig gestellt hat, wird er nicht zum Tode verurteilt, sondern zu 10 Jahren KZ Dachau.”
Im ersten Moment habe ich mir gedacht es ist noch einmal gut gegangen, dass ich nicht erschossen werde. Mit Dachau wusste ich nicht was anfangen, habe ich noch nie gehört davor.
Dann war ich wieder in Schlanders im Gefängnis drei Wochen. Nachher haben sie mich nach Dachau geführt. Das war schon ein bisschen ein harter Weg, schon der Weg nach Dachau, habe ich viel gesehen und erlebt. Als wir in Dachau ankamen, da ging gerade eine Gruppe Arbeiter heraus beim Tor, alle mager, blass. Ich habe mir gedacht was wird man da erleben müssen damit man so aussieht? Das bin ich später draufgekommen.
Ich habe müssen die Kleider ausziehen. Sie haben mich gefragt warum ich hier bin und welche Strafe ich habe, welchen Glauben ich habe. Ich habe gesagt: “Einen katholischen.” Dann sagt der SS-Mann: “Hier bei uns werden Sie einmal anders beten lernen.”
Dann wurde ich fotografiert von allen Seiten. Dann bekam ich so ein abgenutztes Hemd und Unterhose. Dann hat mich ein SS-Mann in den Bunker geführt. Das ist ein ganz langes Gebäude, links und rechts die Zellen und mitten drinnen hat er aufgesperrt und hat mir einen Schubs gegeben und hinein. Ich habe einmal geschaut. Dann war oben ein Klappfenster. Es war mit weiß überstrichen gewesen, dann ein Stockbett, zwei Betten. Es waren keine Betten da, nur… Keine Decke und gar nichts war da.
Dann wollte ich mich niedersetzen. Das war fast nicht möglich. Dann habe ich mich auf den Klosettdeckel hingesetzt und nachgedacht: “Was wird jetzt gehen mit mir?” Ich hatte schon ein paar Tage nichts mehr gegessen gehabt. Ich kam mir vor wie früher beim Bauern, vielleicht ein Schwein, den hat man auch nicht mehr gefüttert am Vormittag. Ich bin mir so vorgekommen: Heute werden sie mich aushungern und morgen wird es drüber gehen.
Dann hörte ich auf dem Gang draußen Tritte. Ich habe gehört neben meiner Zelle hat er aufgesperrt. Dann hat er geschrieen: “Sofort heraus!” Ich habe gehört, dass ein Mann auf den Gang hinausgeht. Dann hat er bei meiner Zelle aufgesperrt: “Sofort heraus!” Dann sollten wir den langen Gang putzen. Beim Eingang war ein Waschraum. Wir sollten Waschlappen, einen Eimer mit Wasser, Kehrschaufel und Besen nehmen. Ich habe mir gedacht leichter ist es mit dem Besen und der Kehrschaufel.
Da schrie mich der SS-Mann an: “Sie Faulpelz! Sie werden schon noch lehren was man zuerst anfängt!”, weil man musste immer auf das Schwerere hingehen, dann kamst du eher auf das Leichtere. Wenn sie sahen, dass du auf das Leichte gehst, bist du der Faulpelz, wolltest dich sträuben.
Dann haut er mir schon links und rechts eine herunter. Ich hatte die Kehrschaufel und den Besen und der andere einen Eimer mit Wasser und einen Waschlappen. Ich musste in die Hocke gehen und den Besen und die Kehrschaufel dem anderen lassen. Dann gab er mir einen Besen. Dann musste ich zweimal den ganzen Gang in der Hocke abhüpfen. Da war ich total fertig. Danach schnell den Gang putzen. Da musste alles im Laufschritt gehen.
Als wir fertig hatten haben wir die Sachen zurückgetragen, dann wieder in die Zelle hinein. Da hatte ich Zeit nachzudenken was ich falsch gemacht hatte. Da ging es so weiter. Zum Essen kam am Abend so eine Aluminiumschale, ein bisschen eine Krautsuppe bekommen. In der Tür war eine Luke aufzuklappen. Sie hat einen Tisch gebildet. Da hat man müssen die Schale hinstellen. Da haben sie reingeschöpft. Ich habe dies gegessen. Es war viel zu wenig. Ich strich mit dem Finger sauber aus.
Dann kam es zum Schlafen. Ich wusste nicht wo hinlegen. Auf der Holzding, der war recht lang, aber inzwischen war ein Balken durchgezogen, dass man fast nicht liegen konnte. Als das Licht ausging, habe ich mich am Boden hingelegt. Da war eine Zentralheizung mit zwei Streifen, aber bestimmt nicht zum Verbrennen. Ich habe gefroren da.
In der Früh habe ich gehört, dass man Kaffee austeilt. Dann ist das Ding aufgegangen, habe die Schale hingestellt und habe mir gedacht: Da wird schon noch ein Brot kommen. Ich stand da. Dann schrie der andere auf was ich warte, etwa nicht auf Brot? Ich habe gesagt: “Ja.” “Nein, da gibt es kein Brot.” Ich habe dann den Kaffee getrunken, es war nur ein trübes Wasser. Dann war ich da drei Tage drein in der Zelle.
Einmal nach dem Putzen des Ganges als wir fertig hatten, haben wir müssen die Sachen abgeben, dann haben wir schreien hören aus dem Bunker. Dann ging die Tür auf. Dann kamen so 8-10 Leute herein, kahl geschoren, Hemd und Unterhose. Dann haben wir gehört: “Mamma mia!” Dann haben wir gewusst es sind Italiener. Die haben sie alle zusammen in der gleichen Zelle hinein getan.
Dann kam wieder das Putzen des Ganges. Dann gingen sie bei meiner Zelle vorbei und in der nächsten aufgesperrt. Dann schrie der SS-Mann: “Sofort zwei Mann heraus!” und die verstanden nicht was er gesagt hatte. Dann ging er hinein, warf zwei Bursche auf den Gang hinaus, hat sie richtig hin- und hergeschlagen. Dann haben sie den Gang putzen müssen.
Von nun an haben dann müssen die Italiener den Gang putzen. Nach drei Tagen habe ich Kleider bekommen. Das wird nicht ein gestreiftes Kleid, sondern ein italienisches Militärgewandt. Dann kam ich in eine Baracke hin. Da waren für vier-fünf verschiedene… Wie sagt man? Franzosen, Schweizer, Russen, eben verschiedene.
Dann kam Weihnachten. Wir haben gesagt ob wir vielleicht etwas spielen für Weihnachten. Ja, da wurde sogar ein kleines Bäumchen aufgestellt und ein paar farbige Papierfetzen drangehängt.
FRAGE: Hatten Sie eine Matrikelnummer bekommen in Dachau?
ANTWORT: Nein. Wir waren vom großen Lager ein bisschen abgeschlossen. Für uns war vorgesehen wir kommen in ein Außenlager und wir hatten Frontbewährung, d.h. wenn es uns braucht kann man uns auch an die Front schicken. Wir bekamen nicht das gestreifte Gewandt.
FRAGE: Hatte Ihre Baracke eine Nummer?
ANTWORT: Nein, das war ganz separat im Bunkerbau angebaut.
FRAGE: Neben der großen Mauer des KZ?
ANTWORT: Schon drinnen, hinter der Mauer. Da sah ich wie die Umzäunung ausgeschaut hat. Zuerst war ein Wassergraben und Wasser drinnen. Dann war ein Stacheldraht, Rollen. Dann ist die Mauer gewesen und mit oben hinauf auch Stacheldraht. Das war mit Starkstrom alles, weil da abhauen das gab es nicht, keine Möglichkeit.
Dann hat es geheißen am 27. kommen wir in ein Außenlager nach Hersbruck. In der Früh hat es geheißen: “Alles packen zum Abtransport.” Wir hatten nicht viel zu packen, die Essschale und den Löffel und eine Decke, nein, keine Decke. Da haben sie uns in einen Viehwagon hinein gepfercht, haben die Türen geschlossen. Auf der Seite oben war ein ganz kleines Fenster vergittert.
Dann fuhren wir los. Wenn einmal Fliegeralarm war hat der Zug gehalten. Uns haben sie irgendwie auf die Seite geschoben. Wir haben manchmal einen halben Tag gewartet, eine halbe Nacht oder eine ganze Nacht. Dann ging es wieder weiter. Ich glaube, wir haben zwei Tage und eine Nacht gebraucht nach Hersbruck zu kommen. Da kamen wir abends an. Es hat geschneit.
Dort haben sie schon auf uns gewartet, die SS-Leute. Wir sind ausgestiegen. In 3er Reihen mussten wir steil über einen Weg hinauf und es sollte immer schnell gehen, die SS-Männer hinter uns mit den Gummiknüppeln oder Gewährkolben. Wir sind eine Zeit lang gegangen, geregnet, geschneit. Wir waren ein bisschen fertig schon. Wir haben eine Nacht nicht mehr geschlafen, kein Essen. Wir haben schon Marschverpflegung bekommen, ganz wenig. Das hat jeder schon gleich aufgegessen. Wir sind hinauf. Dann sahen wir auf der Seite Lichter. Dann werden wir da hinkommen.
Nein, da sind wir vorbei. Dann kamen wir in einen Graben. Da war ein großes Haus. Da war ein kleiner Bach. Wir mussten über eine Brücke gehen. Da hat dann jeder vierte einen kleinen Laib Brot bekommen. Das war zu teilen gewesen für vier Mann. Da hat man müssen aufpassen wo der Mann mit dem Brot hingeht, sonst wärst du leer ausgegangen. Wir sind da hingekommen.
Ich bin dann in dem großen Haus da, mich hat man in den zweiten Stock hinauf. Es war schon nach drei Uhr. Dann haben sie Licht gemacht. Da waren dreistöckige Bridgen. Die anderen, als wieder Licht war, hat der eine und der andere ein bisschen herunter geschaut, und schreit: “Franz, bist du jetzt auch hier?” Ich war mit dem in Schlanders im Gefängnis. Mich hat es gefreut, dass da auch Bekannte sind.
Dann haben sie mir eine Bridge gegeben, habe mich können reinlegen. Es war ein ganz dünner Strohsack und eine Decke zum Übernehmen. Ich habe die Decke genommen, habe mich nieder gelegt, habe die Decke übergenommen, habe das Kleid ausgezogen, auch über die Decke gelegt. Da war ich so müde. Ich habe gleich geschlafen.
In der Früh gingen große Pfeifen. Da musste alles schnell heraus aus den Bridgen zum Abwaschen. Man hat müssen das Hemd ausziehen und in den Waschraum hinunter. Alles gut gegangen. Am nächsten Tag wieder dasselbe. Da war ein Italiener, er war um ein Jahr jünger als ich, der in der Eile vergaß das Hemd auszuziehen. Dann kam er mit dem Hemd im Waschraum unten an. Da haben schon SS-Männer gewartet sollte jemand mit dem Hemd an kommen, dann fehlt es.
Der Italiener hat müssen die Hose und alles ausziehen. Sie haben ihn mit einem Schlauch und eiskaltem Wasser abgespritzt und ein anderer mit einer groben Bürste abgerieben bis er blutig rot war. Dann haben wir den nie mehr gesehen. Wir haben uns gedacht er wird zu Grunde gegangen sein.
Am nächsten Tag wieder einmal Visite. Ich habe müssen erzählen warum ich hier bin und wie lange. Dann wurden wir noch gewogen. Ich hatte noch 45 Kg. Bevor ich mich gestellt habe, habe ich 69 Kg gewogen.
FRAGE: Habe ich richtig verstanden? In Hersbruck wurden Sie gewogen?
ANTWORT: Ja.
FRAGE: Von der SS?
ANTWORT: Ja. Nein, da waren schon auch Häftlinge. Ich habe mir gedacht: Weiter runter kann es nicht mehr gehen. Es ging aber noch viel weiter hinunter. Durch die schwere Arbeit, das schlechte Essen, in der Früh das trübe Wasser ohne Brot, ohne Zucker, zu Mittag Krautsuppe oder vielleicht einmal eine Erbsensuppe oder wenn es ganz gut gegangen ist zu Ostern hat man drei Pellkartoffeln bekommen, wenn es kleinere waren drei, wenn es größere waren zwei. Da hat man nicht die Schale herunter getan. Man bekam noch einen Löffel. Das hat man alles zusammen gegessen. Das war das gute Essen.
Ich kann mir das heute nicht mehr vorstellen mit dem Essen und die Arbeit noch. Man hat getan was möglich war um zu überleben.
Mich hat es gefreut, es waren ziemlich viele Italiener bei mir, Italiener, Kroaten, meistens Italiener, da habe ich ein bisschen Italiener gelernt. Mein bester Kollege war einer von der Trientner Gegend. Er schrieb sich Filz, Filzi, glaube ich, Giovanni Filzi.
Mehrer reden durften wir nicht bei der Arbeit. Nur als wir in das Lager der Baracken kamen, hatten wir vielleicht eine halbe Stunde frei. Da durften wir zusammen reden. Was redest du dann? Wie wird das weiter gehen? Man hat über das Essen gesprochen. Das war das Erste immer. Alle haben so einen Hunger gehabt.
FRAGE: Was für eine Arbeit machten Sie?
ANTWORT: Ich war im Steinbruch.
FRAGE: Kamen Sie zu Fuß zum Steinbruch?
ANTWORT: Zu Fuß. Ungefähr 10 Minuten zu Fuß zum Steinbruch. Da haben wir uns selber ein nahes Lager gebaut. Es war halb fertig als wir da ankamen. Wir mussten die Steine herrichten.
Ein gefangener Franzose hat mit einem Pferd und einem Schlitten die Steine zum Lager hingefahren. Das war eine harte Arbeit ohne Handschuhe. Die schneeigen Steine… Es war hart. Wir hatten schlechte Schuhe, ohne Socken. Man hat den ganzen Tag im Schnee herum müssen.
Ganz schlimm war in der Früh als man aufstand, da musste man in die gefrorenen Schuhe barfuß hineinschlüpfen. Es war kein Vergnügen. So ist es weiter gegangen.
Dann bekam ich die Krätze. Das ist eine Krankheit. Das fängt zwischen den Fingern an. Das habe ich auf dem ganzen Körper bekommen, alles ein Geschwür, der ganze Körper. Wenn man gedrückt hat ging Blut und Eiter heraus. Ich wurde immer schlechter und das war eine ansteckende Krankheit. Da haben mich die besten Kollegen gemieden. Das habe ich dann nicht mehr vertragen.
Ich habe zum Capo gesagt: “Bitte, möchten Sie mich morgen krank melden.” Man hat sich nicht gerne krank gemeldet, weil wenn man zu wenig krank war, der hat drauf gezahlt. Ich habe es nicht mehr ausgehalten. Es war noch ein Italiener, fast mit derselben Krankheit. Wir sind hingekommen am nächsten Tag. Da war ein SS-Mann hinter dem Tisch. Wir haben ausgezogen gehabt. Dann schaut er mich an. Was mir fehlt? “Das sehen Sie doch.”
Dann hat er mich von unten bis oben angeschaut: “Sie Schwein! Warum haben Sie es nicht früher gemeldet?” Dann war ich entlassen. Dann kam der nächste dran. Den hat er gleich angeschrieen. Dann hat man uns mit einer Flüssigkeit bestrichen, den ganzen Körper. Man hat ausgesehen wie ein Kochöl ungefähr.
Wir mussten dann wieder zur Arbeit gehen. Nach einer Woche waren wir fast heil. Da habe ich wieder Mut bekommen zum Weiterleben. Da ging es so weiter. Einmal in der Früh habe ich so einen Schüttelfrost bekommen. Ich habe mir gedacht krank melden kann ich mich nicht. Dann habe ich mir gedacht wenn ich einen warmen Kaffe bekomme und warmes Wasser werde ich schon wieder warm bekommen. Dann bin ich zur Arbeit hin. Ich musste dann immer wieder austreten. Ich hatte die Ruhr. Das ist, eben immer auf die Toilette gehen. Der Magen, ging alles nach außen.
Das hat der Arbeitskapo gesehen. Ich habe immer fragen müssen. Dann war ein SS-Mann, der schrie mich an: “Willst du dich vielleicht von der Arbeit drücken?” Der Capo von der Arbeit hat gesagt ich brauche nicht mehr arbeiten, darf mich hinsetzen. Ich habe trotzdem immer wieder müssen austreten. Zu Mittag haben wir immer zur Baracke zurück müssen um zu essen.
Da habe ich zum Capo gesagt es geht nicht mehr, er soll mich krank melden. Dann brachte mir einer einen Fiebermesser. Ich hatte ein Stück über 39 Grad Fieber. Dann war ich für das Krankenrevier tauglich. Dann kam ich dahin. Es waren schon drei Männer in der Bridge. Ich habe nicht gekannt: Leben sie noch oder nicht mehr. Sie haben ausgeschaut blass. Da hat man nur von Lebenden und Toten den Unterschied gekannt durch das Atmen und die suchenden Augen tief drein.
Dann am Abend war ich ganz schlecht beisammen. Man hat uns eine Suppe gebracht. Ich war so schwach. Ich war nicht mehr im Stande die Suppe zu essen. Mein Nachbar hat es schon ein bisschen überstanden gehabt, hat immer auf meine Suppe geschaut. Ich habe gesagt: “Die kannst du essen. Ich schaffe es nicht.”
Das war mein Geburtstag. Der 6. März. Ich habe mir gedacht jetzt wird es am Ende sein, in Gottesnamen, schlafe ich ein und wache nicht mehr auf. Dann verlor ich das Bewusstsein. Am nächsten Tag als ich aufwachte ging es ein bisschen besser. Dann habe ich die Hälfte von der Suppe gegessen dann. Da ging es langsam aufwärts. Dann kam eine Krankenschwester. Sie hat uns einen Löffel voll gemahlene Kohle gegeben. Das war die Medizin gegen den Durchfall. Dann hat sie uns Blut abgenommen, für was weiß ich heute noch nicht.
Das nächste Mal kam eine andere Schwester vom Roten Kreuz. Ich weiß nicht war es eine Schwester vom Roten Kreuz oder nicht. Sie sollte uns Blut abnehmen. Sie hat vier-, fünfmal die Ader abgefehlt, nicht getroffen. Dann ging sie zum nächsten. Da war dasselbe. Dann bekam sie ein bisschen einen roten Kopf und ging fort. Dann kam wieder die andere. Es war eine alte, die hat überhaupt nicht gesprochen. Die hat es schon gemacht.
Ich habe vorher etwas vergessen. Da haben wir die Krankenschwester gebeten… Ich musste wieder austreten. Ich habe mir gedacht: Wie mache ich das? Ich bin nicht im Stande. In dem Moment ging es schon in die Hose. Man konnte niemanden rufen um vielleicht auszuräumen. Dann lag ich im eigenen Kot.
Am nächsten Tag haben wir die andere Krankenschwester gefragt ob sie uns einen Nachttopf bringt. Ja, hat sie uns gebracht. Wir sind trotzdem nicht raus gegangen. Im eigenen Kot haben wir liegen müssen.
Dann ging es ein bisschen aufwärts. Am dritten Tag in der Früh habe ich gesehen, dass zwei Männer weg sind. Ich habe meinen Nachbar gefragt was mit denen los gewesen ist. Er weiß nicht waren sie tot oder haben sie sie sonst weg, wahrscheinlich waren sie tot. Dann waren wir 16 Tage im Krankenrevier. Dann hat es geheißen wir müssen wieder zu den Arbeitern zurück.
Mit der Decke unter dem Arm, dem Löffel und der Essschale in der Hand sind wir… Einerseits sind wir gerne zu den Kollegen zurück gegangen, aber andererseits hatten wir schon wieder Angst vom normalen Lagerleben was alles passiert ist. Wir waren so schwach, gerade so, dass wir stehen haben können und ein bisschen gehen.
Dann haben wir nicht mehr zur Arbeit gebraucht hinaus in den Steinbruch, aber im Lager waren so verschiedene Arbeiten zu tun. Es war ein Franzose und ein Deutscher. Sie hatten auch kein Interesse uns zu sekkieren. Wenn wir genug zum Essen hätten bekommen, hätten wir uns schneller erholen können. Es war damals schönes Wetter, die Sonne hat geschienen. Es war so Ende März.
Wenn wir genug zu essen bekommen hätten, hätten wir uns können erholen, aber leider war das Essen schlecht. Dann hieß es wir kommen wieder nach Dachau zurück. Da kam die Front immer näher, die Amerikaner. Da haben sie die Lager geräumt. Ich weiß nicht mehr genau, am 4., 5. April hat es geheißen: “Packen zum Abtransport nach Dachau zurück.” Das war auch eine schlimme Fahrt.
Es kamen immer wieder die Tiefflieger, die Amerikaner. Wenn sie einen Zug gesehen haben, haben sie meistens herunter geschossen. Ich weiß einmal, da haben wir austreten müssen, haben an die Wand geklopft. Da haben sie herein geschrieen: “Scheißt hin wie ein normales Schwein!” Jeder wo er gestanden ist hat er hingemacht. Es war ein Gestank.
Einmal waren wir beim Essen, haben wir können aussteigen, haben wir ein Essen bekommen. Während wir raus sind kommen wieder die Tiefflieger, sind sie vorbei gewesen, haben aber gerade gesehen, dass da etwas los ist. Dann haben sie umgedreht und sind die gleiche Richtung her. Da auf einer Straße standen vielleicht 5-6 SS-Männer. Dann haben sie auf die hingeschossen.
Zwei waren schwer verletzt, haben wir gesehen, und ein paar weniger verletzte haben sie in den Wagon hinein getan und wir schnell wieder in den Viehwagon hinein. Dann ging es wieder weiter.
FRAGE: Leider geht die Zeit sehr schnell weg. Wir haben noch fünf Minuten. Können Sie uns erzählen wo Sie befreit wurden? Wann? Was geschah nach der offiziellen Befreiung für Sie?
ANTWORT: Es kam der 29. April. Wir haben schon immer die Front… schießen gehört und alles gesehen. Wir hatten uns gefreut, dass die Amerikaner jetzt kommen, aber wir hatten noch Angst was würden sie mit uns machen bevor sie uns frei lassen?
Da kam der 29. April. Der Wachmann ist ein bisschen verschwunden. Dann haben wir uns gedacht, ich und zwei Passeirer und etliche Italiener, jetzt schauen wir in der Küche. Es war nirgends eine Wache.
Es hat einer geschaut: “Schauen wir ob das Lagertor offen ist.” Wir sind hin, ja es war offen. Wir sind beim Lagertor hinaus, da kamen wir ins SS-Lager hinaus. Das war ganz falsch. Ich denke mir da herum auch etwas zum Essen suchen. Wir haben nichts gefunden.
Da sind wir in eine Baracke hinein. Da war SS-Bekleidung. Da hat einer gesagt: “Tauschen wir unsere verlausten und schmutzigen Hemden aus.” Gesagt getan. Während wir das gemacht haben kamen zwei Amerikaner bei der Tür herein, haben uns gewunken wir sollen mitgehen. Dann sind wir mitgegangen. Wir haben ihnen entgegen gelächelt. Das sind ja unsere Befreier! Wir gingen ein Stück hinaus. Da war ein großer Hof, ein großes Tor. Wir haben gesehen da haben sie eine menge SS-Leute erschossen gehabt, die Amerikaner.
Wir haben uns gedacht: Recht geschieht euch! Dann ging es vielleicht noch 25 Meter weiter. Da haben sie uns an die Mauer hingestellt, mit dem Gesicht zur Mauer, den Händen über dem Kopf zusammen. Wir haben uns gedacht jetzt machen sie es gleich wie wir die anderen vorher gesehen haben. Wir sind eine Zeit lang gestanden.
Da sind zwei-drei amerikanische Offiziere gewesen und ein paar Soldaten. Es hat geheißen: “Hände herunter und umdrehen!” Sie haben beraten was sie mit uns machen. Wir sind halb SS-bekleidet gewesen und halb Sträfling. Wir sind dann davon gekommen mit dem Leben. Dann haben sie uns nicht ins Lager zurück, sondern zu den Gefangenen, den deutschen Soldaten. Da haben wir am sechsten Tag das erste Essen bekommen.
Da habe ich noch einmal aufgegeben. Ich habe meine Kollegen verloren, die Passeirer. Da hat es geregnet und geschneit. “So” tief war Kot gewesen. Man hat sich nicht können hinlegen. Am 5. Tag habe ich mir gedacht ich packe es nicht mehr, ich lasse mich fallen, einschlafen und nicht mehr aufwachen. Die Passeirer haben mich gesehen, haben gesagt: “Franz, steh auf! Da gehst du zu Grund!” Ich habe gesagt: “Es geht nicht mehr.”
Sie haben mir aufgeholfen: “Doch, es wird schon gehen!” Ich habe mir gedacht nach Hause käme ich gern wieder. Ich glaube nicht mehr recht. Die anderen: “Doch. Das werden wir schon. Jetzt sind wir soweit.” Dann hat es geheißen morgen bekommen wir bestimmt etwas zum Essen. Ich habe mich gefreut: Vielleicht stimmt es, dass wir etwas zu essen bekommen.
Ja, es ist dann gegangen. Am nächsten Tag haben wir gesehen Lastwagen vor dem Lager herum, es war alles im Freien, haben Kartons abgeladen, haben angefangen auszuteilen, zwei kleine Dosen. In einer waren Bohnen, ein bisschen Öl und in der anderen Dose waren ein paar Kekse, ein paar Bonbons. Ich war der Letzte. Ich habe immer geschaut. Vielleicht reicht es für mich nicht mehr?
Doch! Es hat gereicht. Ich habe mich hingesetzt im Schneidersitz, angefangen zu essen, geweint. Dann ist es wieder aufwärts gegangen. Ich bin noch vier Monate in amerikanischer Gefangenschaft gewesen. Wir haben wenig zu essen bekommen, aber was wir bekommen haben war gut.
FRAGE: In welchen Lagern, in welchen Städten wurden Sie in diesen vier Monaten…
ANTWORT: Zuerst ein Monat in Deutschland in verschiedenen Lagern, immer im Freien, nachher in Frankreich in einem großen Gefangenenlager. Dort haben sie diejenigen, die krank oder schwach waren, separat ein Zelt… Dort waren große Zelte. Ich kam dort in ein Krankenzelt hinein.
Da ging es ein bisschen besser dann.
FRAGE: Die letzte Frage. Wann kamen Sie endlich nach Hause?
ANTWORT: Am 19. August.
FRAGE: Des Jahres?
ANTWORT: 1945.
FRAGE: Haben Sie sich gewogen?
ANTWORT: Als ich vom Lager herauskam habe ich mich bald einmal gewogen. Da wog ich noch ganz wenig über 30 Kg, vielleicht 31 Kg ungefähr.

Bocchetta Vittore

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Nato a Sassari il 15.11.1918. Sono stato arrestato il 4 luglio del 1944, a Verona, dai fascisti. Sono stato portato alle casermette di Montorio, vicino a Verona, dove sono stato interrogato e torturato. Poi, insieme ai compagni del secondo CLN provinciale di Verona, sono stato trasferito alle Carceri degli Scalzi di Verona, dove sono rimasto per un certo tempo, e dove ho subìto altri interrogatori dalle SS. Da lì, insieme ai miei compagni, sono stato portato al Palazzo delle Assicurazioni in Corso allora Vittorio Emanuele, a Verona, dove c’era il Comando Generale della SD. Dalle celle di quel sotterraneo, insieme ad altri prigionieri che ho trovato già lì, e che erano stati torturati, sono stato condotto al Campo di concentramento di Bolzano; insieme con questi compagni, considerati pericolosi, siamo stati chiusi nel blocco E. Dal blocco uscivamo solo per un’ora al giorno, a prendere aria; vi siamo rimasti pochi giorni. In questi pochi giorni una parte di noi è stata fucilata. Un’altra parte, ad un certo momento, è stata fatta uscire dal blocco: insieme ad altri circa 450 detenuti a Bolzano siamo stati caricati su un vagone, su cui eravamo in circa 130/150 ed era uno di quei famosi carri bestiame delle ferrovie tedesche che ci ha condotti in Germania, al Campo di Flossenbürg. Alla stazione di Flossenürg siamo usciti e ci siamo incamminati verso questo famoso campo, di circa 75.000 prigionieri; siamo stati consegnati alle torture e alle note sevizie dei campi di sterminio nazisti, a Flossenbürg.

D: Lungo il tuo tragitto sul vagone piombato è successo qualcosa di particolare a te e ai tuoi compagni?

R: Sì, nel pavimento del vagone io ed un compagno siamo riusciti ad aprire un piccolo varco per poter scappare, ma siamo stati trattenuti dagli altri prigionieri, dagli anziani, che ci hanno impedito la fuga, o meglio il tentativo di fuga, perché si poteva anche morire, visto che si doveva scendere in mezzo alle ruote del convoglio. Quindi abbiamo dovuto tacere, molto a malincuore, ed accettare le sorti imposte adesso non dalle SS ma dagli stessi compagni. Da lì, dopo un paio di giorni, il treno si è fermato: noi non avevamo niente, specialmente il nostro gruppo non aveva niente, eravamo stati prelevati dalle carceri, non eravamo neanche preparati alla deportazione, e non avevamo scorte di nessun genere, eravamo con i vestiti che avevamo addosso. Il treno si è fermato un paio di giorni dopo la partenza, si sono aperte le porte e ci hanno dato dell’acqua, l’unica cosa che abbiamo visto. Dopo non so quanto tempo, dopo 2 o 3 giorni, siamo arrivati a Flossenbürg. Siamo scesi alla stazione di Flossenbürg, abbiamo camminato in fila per 5 fino al piazzale del Campo, dove abbiamo visto la grande caserma della SS, tuttora esistente, e dove si apriva il Campo di concentramento che noi credevamo fosse un campo di lavoro, non un campo di sterminio. Infatti sul pilone sinistro del cancello d’entrata, c’era una placca con scritto “Arbeit macht frei”. Sapevo il significato di queste parole, e ho pensato che forse andavamo a lavorare. Noi non sapevamo del nostro destino ma siccome il nostro gruppo era già stato condannato a morte, il nostro destino sembrava migliorare con queste parole; andare a lavorare voleva dire ancora vivere. Per la maggior parte del mio gruppo sarebbe stata meglio la morte perché sono morti ugualmente di stenti e di percosse e di sevizie nei primi 2 mesi. Io mi sono salvato con un altro, per la mia età e anche per una serie di circostanze. La delusione della speranza dell’Arbeit macht frei viene stroncata subito, perché alla sinistra del campo ho visto una colonna di sciagurati vestiti malamente, erano di stracci quei vestiti, se si vogliono chiamare vestiti, questi indumenti zebrati, a righe; caricavano delle grosse pietre. La scena è stata forte, anche se poi abbiamo visto molto di peggio. Siamo arrivati, abbiamo varcato il cancello che ci ha portato in questa grande piazza. Da lì siamo stati radunati vicino ad una specie di cantina, con una scala di ferro che scendeva. Prima di scendere queste scale, che portavano alle docce, ci hanno fatto spogliare nudi, tutti. Con me c’erano persone che stimavo molto: c’era Francesco Viviani, c’erano dei preti, c’erano dei professori, c’erano delle persone insigni e molto austere, e questa austerità è stata, credo, eliminata con un colpo di spugna, solamente con la spoliazione e con la rasatura di tutti i nostri peli, in tutte le parti del corpo, e con l’ispezione fisica. E poi, una volta nudi e puliti, siamo stati spinti lungo queste scalette e siamo entrati nella cantina, che era uno scantinato grande, dove c’erano le famose docce. Qui siamo stati ricevuti da una squadra di dèmoni, che avevano dei pezzi di gomma, Schläger o Gummi si chiamavano e li usavano come scudiscio, come arma, senza nessuna ragione, senza nessuna provocazione. Così, di colpo, sono cominciate le grida furibonde di questa gente che non diceva parole ma urlava, urlava in una maniera sconnessa, ci terrorizzava. Siamo stati spinti come anime dell’inferno, e questo provocò panico e caos tra di noi.

Ecco già tra di noi il primo istinto di sopravvivenza: l’uno contro l’altro, una grande confusione, le grida che continuavano finché non si sono aperte le docce; le percosse sono continuate, completamente irrazionali, senza nessuna logica in apparenza, perché in realtà la ragione c’era, il fine era molto preciso: quello di cominciare a farci scrollare di dosso la nostra personalità e la comunione tra di noi, quello di disorganizzarci, e soprattutto di spaventarci e di annullare la nostra volontà. Cosa che è avvenuta puntualmente. Finalmente chiusa l’acqua, siamo stati spinti in un altro capannone dove abbiamo avuto il primo silenzio dopo queste grida, questa cosa terribile tra l’acqua e le nostre stesse grida. Nel secondo capannone ci siamo rivestiti e ci siamo spogliati dell’ultimo possesso che avevamo e che erano la nostra persona, il nostro nome, la nostra personalità. Ci hanno dato degli indumenti a righe, zebrati, ci hanno dato un maglione verde dell’esercito italiano, una cuffia di lana verde dei nostri alpini, cosa molto strana perché era roba italiana, poi un paio di zoccoli che non erano veramente zoccoli: erano una specie di ciabatte con la suola di legno. Abbiamo avuto la nuova personalità, abbiamo perso il nome, abbiamo acquisito un numero che veniva applicato sulla giacca con un triangolo. Eravamo circa in 450 dal Campo di Bolzano. Siamo partiti anche con le donne, ma siamo stati separati appena arrivati al campo, quindi non sappiamo che sorte loro abbiano avuto. Con la perdita della nostra persona abbiamo cominciato ad avere anche i primi soprusi, cioè i capricci del kapò, che era un caporale. Il primo kapo che abbiamo avuto era un caporale, non so se era delle SS; aveva l’uniforme militare tedesca, ed era, credo, un caso patetico di pazzo, perché ci ha torturato per una ventina di giorni in una baracca chiamata baracca di quarantena. E’ una cosa molto strana che si faccia la quarantena in un campo dove tutti sono destinati a morire in breve tempo; credo che la morte violenta arrivasse molto prima della morte per epidemia. Questo forsennato non ci diede possibilità per giorni e giorni di dormire. Noi venivamo spinti in una baracca dove c’erano dei castelli e dove eravamo circa 400/450, adesso il numero non lo so, ma eravamo in soprannumero. I posti nella baracca saranno stati un centinaio, intendo i posti per dormire, cioè questi castelli a tre cassoni, e dovevamo metterci insieme al primo che capitava. Anche il fatto di non destinarci con ordine, anche questo era studiato perché serviva proprio alla lotta tra di noi, all’istinto di occupare il posto non si sa contro chi o per chi. In queste cuccette poi, una volta riempite e pochi minuti dopo che noi si cominciava a trovare non dico riposo ma quiete, tornava dopo qualche minuto il caporale: “Raus!” e ci faceva uscire. Poi restavamo fuori, faceva molto freddo, ed eravamo appena in settembre. Abbiamo avuto anche delle bufere di neve in quei giorni, stavamo fuori mezz’ora, un’ora, al freddo, poi ci faceva rientrare per qualche minuto e ci faceva uscire. Così per diversi giorni.

Una delle vicende che sono rimaste scolpite nella mia memoria è stata la spoliazione ultima, quella dei denti d’oro: un paio di giorni dopo il nostro arrivo, il caporale ci ha fatto uscire, ci ha fatto mettere in fila, e con una tenaglia ha tolto a tutti quanti quelli che li avevano il dente o i denti d’oro, poi raccolti in una latta. In quelle occasioni c’è stata un’altra vicenda interessante e nuova per me, quella che poi si chiamò, non so come si chiamava allora, la “stufa umana”. Avevamo avuto una bufera di neve, un freddo intenso, e non so se per istinto, visto che eravamo tutti “nuovi”, o perché qualcuno lo abbia indicato o che altro, ma quando ci buttavano fuori dalla baracca, e dovevamo correre e formare un circolo, intorno a questo circolo dal centro ancora ancora e ancora, formavamo tutti un circolo – come di buoi muschiati – per ripararci dal freddo. Quindi “stufe umane” in quanto quelli che stavano nel centro si proteggevano dal freddo. E lì ho visto i primi morti, morti di freddo; i più anziani sono caduti lì. In questa quarantena, che è durata poi solo 20 giorni, ho visto la peggiore delle esperienze che si possa avere nell’anima, diciamo così, perché mi sono reso conto dell’assuefazione alla morte della gente del campo, e parlo non solo dei kapò e del caporale, ma di tutti. La baracca di quarantena era su una specie di altopiano, chiusa su tre lati, mentre il quarto lato dava su una scarpata: sotto la scarpata c’era quello che sapevamo chiamarsi il crematorio. Nella nostra cultura il crematorio allora non era concepito, e ci sono voluti molti anni, ed anche questioni religiose, per capirlo, ma non è stato tanto il crematorio di per sé a spaventarci quanto l’odore costante, il fumo che ci entrava nelle narici e che a me è rimasto per moltissimi anni, questo odore di carne bruciata. Queste sono state le prime emozioni.

Ma il concetto della morte è arrivato presto, perché dal cancello che ci divideva dal resto del campo, entravano di continuo degli “zebrati puliti”: così chiamavamo quelli che erano addetti a lavori non sporchi, ed erano coloro che abbiamo poi chiamato “monatti” ovvero 2 che portavano delle barelle. Entravano con delle barelle vuote, accompagnati da questi spettri, figure indescrivibili di uomini non più uomini, senza più carne, scheletri coperti di pelle, teschi non morti ma ancora vivi, però non vivi, con questi occhi che mi sono rimasti infissi nella memoria, occhi senza vista, che guardavano, puntavano nel vuoto, ma non vedevano, erano ciechi e nello stesso tempo erano aperti, ed erano impressionanti. Camminavano barcollando, probabilmente – anzi quasi sicuramente – incoscienti, spinti pacificamente da questi monatti e barcollando andavano a cadere in quella che hanno voluto chiamare latrina. E’ un eufemismo per quello che era considerata una latrina: era una buca scavata per una decina di metri, sotto una tettoia di lamiera. Nel mezzo di questa buca c’era un sostegno, e bisognava appoggiarvisi per non caderci dentro; qui si gettavano le nostre viscere. Vicino a questa latrina venivano accumulati questi personaggi non più vivi e ancora vivi, queste figure surreali, questi esseri non più umani che avevano perduto la loro anima, la loro coscienza; cadevano lì, alcuni seduti, alcuni distesi. Poi veniva un monatto specializzato. Nei primi giorni non avevamo il concetto di quella che era la gerarchia del campo: c’erano “i puliti” e “gli sporchi”. Pigliavano una manichetta di acqua gelata e irroravano di continuo questi corpi. Insomma molti morivano lì, anche se la morte cerebrale era già sopravvenuta in precedenza. Poi, quando dovevamo fare i nostri bisogni, dovevamo camminare su questi corpi e, per evacuare, dovevamo attaccarci a questa trave. E’ lì che ci siamo abituati alla morte, perché abbiamo cominciato ad ancorarci, per non cascare nella buca, ai piedi o sulle mani di questi poveretti. Poi tornavano questi monatti, sempre con le lettighe vuote, le riempivano di 2/3 corpi e vedevamo che li portavano lungo questa specie di sentiero serpeggiante dall’orlo della scarpata verso il crematorio. Qualcuno l’ho visto che aveva ancora dei movimenti, però non credo che fosse vivo; forse erano le ultime contrazioni, o forse erano davvero ancora vivi. Una volta arrivati nel crematorio, venivano buttati sul pavimento del crematorio; c’erano delle vasche in cui venivano preparati, spogliati, quelli che non erano già spogliati, e poi messi nel forno. Di forno ce n’era uno solo, e lavorava continuamente, notte e giorno, con esalazioni terribili; serviva per bruciare i morti di questo terribile campo di 75.000 anime, se anime si possono chiamare. Questo è stato il battesimo del KZ tedesco, nazista. La quarantena si ridusse ad una ventina di giorni. Dopo una ventina di giorni di tortura – perché questo “Raus, weg, raus” – dentro fuori dentro fuori – è continuato per 20 giorni, abbiamo perduto i primi compagni.

Finalmente, un giorno siamo chiamati all’appello e portati nella piazza dell’appello con una nuova, chiamiamola se vogliamo, vita. Ora, mi domando: che cosa c’entra la quarantena in una città di morti, in una città di gente destinata a morire il più presto possibile? Non solo la gente è destinata a morire ma la stessa morte è calcolata in maniera scientifica perché la vita duri 3 mesi. A noi era dato cibo corrispondente a 180 calorie giornaliere, calcolato esattamente per 90 giorni, 90 giorni di vita e di lavoro d’inferno; quindi non era più una questione né di punizione né di condanna, era già tutto un calcolo di eliminazione.

Ecco la parola “sterminio”.

Io mi sono domandato molte volte: questa che noi chiamiamo morte, e che ancora costituisce la principale ragione del nostro muoverci e del nostro pensare, questa paura della morte cosa era arrivata a costituire – non dico per il popolo tedesco che vedeva la morte tutti i giorni dagli aerei dai bombardamenti, dai figli che morivano su tutti i fronti – ma per i nazisti che custodivano questo campo? Arriviamo all’assuefazione alla morte; il concetto della morte è stato superato così da arrivare a concepire qualcosa che potesse compensare questo concetto della morte; mancava un brivido, mancava un’emozione. Questa gente era veramente senza anima, e questa emozione veniva probabilmente ricreata con la tortura, con questi 3 mesi di vita. Infatti noi sapevamo che eravamo stati condannati a morte e che la morte era il nostro destino: perché allora non ucciderci subito? Perché quei 3 mesi erano il concetto massimo della punizione: dovevamo essere non eliminati ma puniti, perché eravamo i loro nemici. Questo è stato il programma dei campi di concentramento nazisti.

D: Vittore, dopo la quarantena a Flossenbürg, cosa succede?

R: La mattina di cui ho parlato siamo usciti dalla quarantena, siamo entrati in questo piazzale, dove ci hanno radunato; ci hanno chiesto chi sapeva usare il calibro, visto che si sarebbe dovuto andare a lavorare nelle fabbriche di guerra – cioè sembrava che ci venisse offerta una via di scampo. Sono stato io – ed anche qui avrei un peso sulla coscienza – a suggerire al nostro gruppo del CLN di Verona di non piegarci, di non andare a costruire le bombe che bombardavano e le munizioni che uccidevano i nostri concittadini e i nostri paesi. Abbiamo rifiutato. Fra di noi c’erano degli ingegneri, gente che conosceva benissimo quel lavoro. Tra questi c’era Guglielmo Bravo, un geniale meccanico che poi mi morì tra le braccia un paio di mesi dopo. In quel momento poteva essere un atto di protesta, che però pian pianino svanì, perché l’eliminazione totale della nostra coscienza era veramente arrivata al punto di superare le persone e le amicizie; l’amicizia ad un certo momento veniva tolta. Comunque, su questa piazza ci hanno denudato e ci hanno attribuito, a seconda del nostro fisico, ad una di 3 categorie (1, 2, 3), scrivendo i numeri sul petto, con un inchiostro rosso. Da lì hanno portato noi che avevamo il numero 3 – tra cui io ed un paio di compagni del CLN che sono rimasti con me fino alla loro morte – a Hersbruck. Hersbruck era un qualche cosa che la stessa Germania sta scoprendo ora. Hersbruck era un campo di lavoro. Hersbruck era un campo aperto nell’agosto del 1944 che ha avuto 8 mesi di vita perché è stato chiuso nel marzo del 1945; era un campo fatto per ospitare – diciamo ospitare – 5.000 individui. La forza del campo non ha mai raggiunto il numero di 4.000. Nel giro di 8 mesi sono morti circa 20 mila uomini: 10 mila sono morti a Hersbruck, e altri 10 mila, se non di più, moribondi non ancora morti, venivano portati al crematorio di Flossenbürg, poiché Hersbruck non aveva crematorio. Quindi i corpi che avevamo visto, quegli spettri ancora vivi, erano parte di questo programma. I morti di Hersbruck venivano denudati e accumulati in una baracca, che io ho visto; rimasero congelati per l’intenso freddo dell’inverno, e vennero poi tolti nella primavera, ai primi di marzo, cioè poco prima dell’evacuazione del campo: vennero bruciati nei boschi di Happurg, vicino a Hersbruck. A Happurg c’era appunto il lavoro, che consisteva nello scavo di enormi gallerie, che non sappiamo a cosa sarebbero servite; perlomeno certamente noi non potevamo saperlo. L’inferno di Hersbruck non è indicato solo dalla morte di 10 mila persone, da questo avvicendarsi continuo, da questa morte costante che era come una mitragliatrice di morti. Anche lì l’assuefazione era totale, non c’era più differenza tra vita e morte; anche fra noi, quando moriva un nostro compagno, una volta morto non esisteva più. Forse qualcuno rimaneva oggetto anche utilitario di scambio di speranze, di cose fra di noi. La grande imperatrice, la grande torturatrice era la fame, una fame che non si può descrivere, una fame, come una malattia. La fame era diventata padrona assoluta di tutte le parti del nostro corpo, anche del pensiero: la fame era fisiologica, il desiderio di vivere era psicologico, se si può chiamare desiderio perché c’era addirittura indifferenza; però non ho mai assistito a dei suicidi. Si vede che la spes ultima dea fa parte del processo biologico della nostra vitalità. Qui ho visto morire ad uno ad uno i miei compagni: per la maggior parte mi sono morti nelle braccia. La fame con le torture, ma più che le torture l’inimicizia fra di noi, la mancanza totale di solidarietà, mors tua vita mea, le torture fatte da questi che erano in maggioranza polacchi, ucraini, da questi kapo, il cui bisogno di sopravvivere arrivava ad estremi di crudeltà inenarrabili; poi ognuno di loro a sua volta soccombeva davanti a uno più crudele. Come dico e come ho detto, ho visto morire personaggi meravigliosi, e ho visto morire migliaia, migliaia di persone.

Appena arrivati al campo di Hersbruck, subito siamo stati messi in colonna; ci hanno dato la baracca 14, quella degli italiani; poche ore dopo ci hanno fatto mettere in colonna, uscire dal campo, attraversare con gli zoccoli – con questa specie di zoccoli – seminudi come eravamo, con questi vestiti insufficienti a coprirci, la cittadina di Hersbruck, quella che io ricordo come due file di case. I tedeschi, gli abitanti di Hersbruck, ci vedevano molto bene. Ci accompagnavano dei Posten, soldati che abitavano fuori del campo, e insieme a loro c’erano delle SS che avevano il cane, uno, due, tre cani. I cani venivano allenati con queste marce; lo posso dire con certezza perché venivano aizzati sulle nostre caviglie, sulle nostre carni. Attraversavamo il paese per circa 6/7 chilometri, accompagnati da questi cani che erano delle bestie feroci, ed arrivavamo in un luogo in cui ci aspettava un altro dei soliti treni. Salivamo su questi vagoni; ci stipavano in maniera che non si poteva mettere un capello fra di noi, tant’è vero che ho imparato a dormire in piedi nel corso di quei circa 40 minuti del tragitto del treno, per 7/8 km. Questa era la distanza – una quindicina di chilometri tra Hersbruck e Happurg. A Happurg c’era il lavoro. Bisognava scendere dal vagone, salire o meglio inerpicarsi su questa collina molto ripida, con dei boschi; si arrivava su spiazzi, su specie di terrazze, dove c’erano gli ingressi delle gallerie. In questi spiazzi ricordo molto bene le grandi marche dell’industria meccanica tedesca: BMW, Siemens, Junker ed altre marche che ora non ricordo, scritte sulle gru, macchine enormi. E lì c’erano ingegneri tedeschi; ricordo bene uno di loro che mi chiamò “Badoglio! Arbeit, sempre manciare niente lavorare”, secondo il concetto che avevano dell’Italia. Infatti ci riconoscevano appunto dalla “I” che avevamo sopra il triangolo rosso.

Qui ho cominciato a lavorare. Il primo giorno che sono entrato ho avuto l’opportunità di scegliere tra prendere picco e pala oppure il Transport; stupidamente ho scelto il Transport. Non mi ero reso conto che ero un po’ troppo alto per quel lavoro: dovevamo trasportare enormi pesi sulle spalle. Ricordo che il primo peso è stato un’enorme bombola di gas. A 3 di noi hanno ordinato di portare questa bombola; io, che ero il più alto, dovevo camminare con le ginocchia piegate perché gli altri si abbassavano a loro volta, e così il peso ricadeva su di me; era una cosa atroce. Però in qualche modo sono riuscito a passare al picco e pala e ho lavorato lì per qualche tempo. Passavamo davanti ai cittadini di Hersbruck. C’è un particolare molto interessante: nessuno – che io abbia visto – dal campo di Hersbruck è riuscito a scappare, perché veniva ripreso dai villici. In testa avevamo la Lagerstrasse, ci rasavano una volta alla settimana, ogni 10 giorni ci levavano la barba, i peli ecc., ma ci lasciavano qualche millimetro di capelli con una striscia in mezzo alla testa che noi chiamammo Lagerstrasse. Serviva ad identificarci nel caso ci fossimo coperti o travestiti ed anche in caso di fuga. Tre prigionieri russi tentarono la fuga, furono sorpresi e presi, condannati all’impiccagione nella piazza del Lager di Hersbruck: noi siamo stati obbligati ad assistere per garantire che non saremmo scappati. Tutto il sistema era terrore, e anche questo ne faceva parte. Ho visto morire i 3 russi con un’indifferenza che aveva colpito anche me, che avevo già assorbito cose orribili; tuttavia in questi 3 russi c’era una specie di scherno; pensavo che non fossero spaventati solo per far dispetto ai loro carnefici. Sono stati impiccati e poi hanno fatto diverse altre esecuzioni. Dicevo che i corpi dei morti venivano accatastati in una baracca. Verso la fine di questa odissea, io ricordo che, in un giorno d’inverno, sono riuscito ad avvicinarmi ad una di queste baracche. Ho avuto la malasorte, in questi miei 7/8 mesi nel campo di Hersbruck, di vedere le vicende più importanti di questo campo, tanto è vero che ero diventato un esperto del campo: sono stato uno di quelli che ha resistito di più. Ho visto appunto il trasporto di questi morti, accatastati, levati da questa baracca, messi su dei camion. Coprivano il camion, li portavano nel bosco, proprio vicino ad Happurg, dove c’erano le gallerie. Ho saputo molto tempo dopo – era una cosa completamente segreta – che lì facevano delle fosse comuni e li bruciavano, facevano cioè delle pire, perché non c’era crematorio. Nel corso di un mio viaggio circa un paio di anni fa, mi è stato riferito che due contadini avevano visto l’operazione, e che sono stati scoperti, uccisi e bruciati: erano tedeschi. Questo ce lo hanno detto gli stessi tedeschi, quindi non c’è ragione che non sia vero, perché ci sono i loro nomi.

Questa era l’assuefazione alla morte: per il tedesco di allora era indifferente uccidere o non uccidere, e forse questo più che spiegare giustifica, se giustificare si può, il concetto dello sterminio, il programma di distruzione, e questo odio, calmo e calcolatore.

Sono riuscito a salvarmi appunto perché sono diventato un esperto, e anche grazie all’alma mater, vogliamo chiamarla così? Nel campo infatti si era distinto un italiano, che si chiamava Teresio Olivelli, di cui oggi è in corso il processo di beatificazione, al quale sono stato chiamato per testimoniare. Era un uomo molto intelligente, sapeva parlare benissimo il tedesco ed era stato per caso – l’unico caso di un italiano – che era riuscito a diventare furiere della nostra baracca. Olivelli è stato furiere, cioè ci ha dato un po’ di sollievo per breve tempo: di solito i furieri erano delle persone terribili, erano dei castigatori. Olivelli fu poi ucciso da loro, ma nel breve periodo in cui è vissuto, mi ha presentato al Doktor cioè al medico. Il medico era un gobbetto ucraino, era del Revier, cioè dell’infermeria o quel che sia. Olivelli disse a questo medico ucraino, del quale probabilmente era amico, e che parlava il francese: “Questo è un giovane professore”, e il gobbetto rispose: “Professore di cosa?”, “Di filosofia”. Il gobbetto rispose semplicemente “Ah!” e cominciò a parlare in francese, accennando a qualche teoria filosofica. particolarmente mi chiese se io, che sapevo parlare un po’ di francese, conoscessi Voltaire. Risposi “Naturalmente!”, e poi mi chiese se avevo letto Le Candide di Voltaire. Tutto qui, questa è stata la nostra conversazione. Qualche giorno dopo hanno “sostituito” Olivelli, e io sono stato perseguitato dal nuovo Schreiber, perché mi avevano rubato gli zoccoli e dovevo andare a lavorare scalzo: allora decisi di sfidarli e di darmi ammalato. Senza sapere che in quel Revier dove sono andato a farmi visitare c’era il gobbetto, l’ho trovato, guarda le coincidenze!. Ha fatto finta di trovarmi febbricitante, mi ha regalato un termometro, cioè me lo ha dato e non me lo ha ripreso – quasi fosse un messaggio. E io per 2 mesi e mezzo o 3 sono rimasto ricoverato in questa infermeria truccando il termometro, scaldandolo, quando una volta alla settimana venivamo controllati. Così ho potuto resistere fin a quando non mi hanno scoperto. Questo lo devo forse all’alma mater o alle vicende strane della vita che ti fanno incontrare nei momenti più disperati delle àncore di salvezza. E’ stato il dono che ho avuto da Voltaire. Mi hanno scoperto proprio nel momento in cui qualcuno mi ha visto, ed avrebbe potuto tacere perché non c’era nessun bisogno di dirlo, ma la solidarietà era sparita. La prima cosa era rivelare quello che faceva l’altro, anche per distogliere l’attenzione da sé: un polacco mi vide e mi fece subito la spia, così mi “pescarono” mentre scaldavo il termometro, mi presero, mi diedero la punizione solita – che consisteva in 50 gommate sul sedere, che è una cosa terribile – e mi mandarono allo Strafkommando o Compagnia di punizione. La compagnia di punizione di un campo di sterminio!! E che altro poteva essere? si chiamava Scheissekommando ed era la “compagnia degli escrementi”: si doveva riempire una botte a ruote, prelevando con un bussolotto dai pozzi neri e dai depositi delle latrine. Poi io ed altri due dovevamo spingere la botte sui pendii per concimare: vendevano le nostre feci ai contadini per i loro crauti!

E’ durato poco tempo perché eravamo già al mese di marzo (1945), e un giorno hanno smesso i lavori fuori, hanno sospeso i lavori della galleria, e si è rilassata un po’ la disciplina del campo.

Finalmente si cercava di nasconderci, non si usciva più, ma si cercava la gente da far lavorare nel campo per la pulizia. Sono riuscito ad evitare tutto, ormai ero un esperto, fin quando è venuto il momento dei Transport, cioè dei trasferimenti da un campo all’altro. Praticamente Hersbruck è stato evacuato nel giro di 15 giorni, con le colonne che uscivano dal campo.

Io sono rimasto nel campo perché ero molto malridotto e sono stato spedito con l’ultimo gruppo, non so quanti saremo stati, eravamo quasi tutti molto malandati, e abbiamo cominciato la famosa “marcia della morte“. Io sono riuscito a fuggire insieme con un giovane francese durante uno di questi Transport.

E così sono qui.

Cherchi Anna

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Anna Cherchi, sono nata a Torino il 15 gennaio del 1924.

Ho vissuto nelle Langhe fino all’arresto, eravamo contadini. Sono stata arrestata dai tedeschi e sono stata arrestata il 19 marzo del 1944 nelle Langhe, perché ero partigiana combattente. Perché partigiana combattente?

Prima ero staffetta ma al 7 gennaio del 1944 i tedeschi sono venuti e hanno bruciato la nostra casa, allora sono riuscita a fuggire, malgrado tutto è rimasta mia mamma nelle sue mani, ma le è andata abbastanza bene. Hanno portato via anche lei ad Asti, l’hanno messa a confronto con un capitano degli alpini che abitava a Cassinasco e che lavorava con la resistenza ma da casa, infatti quando c’erano delle riunioni venivano a casa nostra. Tanto è vero che la casa è stata bruciata perché secondo loro – era vero – era il covo dei ribelli; i fascisti del paese hanno insistito coi tedeschi con ben 5 lettere che io poi ho visto e dirò come le ho viste. Nell’ultima di queste lettere c’era scritto che se il comandante della piazza di Asti tedesco non avesse preso provvedimenti si sarebbero rivolti ad altri comandi. Allora questo in un certo senso è stato obbligato a farlo, perché forse, ma magari l’avrebbe fatto, è stato obbligato da queste parole. Sono venuti su accompagnati dai repubblichini e, come ho detto, prima hanno razziato tutto quello che hanno potuto, c’erano 5 camion, li hanno riempiti di tutto, biancheria, grano, mais, le bestie, avevamo i buoi, avevamo una mucca che aveva due vitellini e li allattava, avevamo un cavallo, hanno portato via tutto. Il cavallo non voleva salire sul camion, hanno fatto di tutto e non è salito, e allora un italiano, un repubblichino, ha detto al tedesco che parlava italiano: “Uccidiamolo e lo portiamo via morto.” Mia madre non se l’è sentita di vedere fucilare questa bestia, perché per noi quel cavallo era un emblema, era anziano, gli mancava solo la parola. Allora mia mamma ha detto: “No, non uccidetelo, ci penso io”. E’ salita sul camion, il cavallo si chiamava Torrido, e lei gli dice: “Torrido vieni!” e allora lui adagio è salito sopra con grande stupore dei tedeschi, perché loro avevano fatto di tutto per fallo salire e non è salito; lei è salita con tre parole e il cavallo è salito, poi è andato da lei e col muso come a dire “sono qui”. Questa è la storia del nostro cavallo.

Poi l’hanno portata ad Asti e l’hanno messa a confronto con il capitano degli alpini perché sapevano che faceva le riunioni a casa nostra e che lei doveva riconoscerlo. Quando poi sono tornata dal campo di sterminio il capitano mi ha detto – Novello si chiamava questo capitano: “Credimi che quando ho visto tua mamma entrare in quella camera mi si è raggelato il sangue nelle vene perché conoscendo tua mamma, la sua lealtà, questa dice la verità”. Invece dice che quando è entrata i tedeschi le hanno detto, sempre questo tedesco che parlava italiano: “Allora, questo signore quante volte è venuto a casa sua?” Lei l’ha guardato bene e poi ha detto: “Io a casa mia non l’ho mai visto, perché se viene uno a casa mia, la mia testa è una macchina fotografica, lo ricordo, non lo dimentico, però questo qui non è mai venuto, non l’ho mai visto”. Mi ha detto questo capitano: “Io non so cosa avrei fatto a tua mamma dalla gioia perché non mi sarei aspettato, conoscendola, non mi sarei aspettato questo”. Comunque, fatto questo lei è stata portata ad Alessandria. Ma anziché metterla in prigione l’hanno messa nella caserma dei carabinieri, e i carabinieri le facevano pelare le patate, insomma le facevano fare quei lavoretti della cucina, e quando è venuta a casa ha detto: “Mi trattavano bene, erano bravi, mi chiamavano tutti nonnina”. Sennonché, bruciata la casa, io sono riuscita a fuggire e sono andata a chiamare i partigiani. Quando siamo arrivati su, loro erano a Santo Stefano Belbo; quando c’era necessità di una riunione, per partire suonavano le campane e tutti si trovavano in piazza. Siamo arrivati su, la casa bruciava e i camion erano già partiti, abbiamo visto l’ultimo camion dove c’erano le bestie e c’era mia mamma sopra. Allora il comandante partigiano Poli, lui e il padre, erano in due, ha detto: “Non possiamo sparare, perché se spariamo la prima ad andarci di mezzo è lei”. Così l’hanno portata via e da quel momento io ho cessato di fare la staffetta. Certo, avrei trovato chi mi dava ospitalità, ma voleva dire rovinare anche loro, e allora il comandante partigiano, sia il figlio che il padre, hanno detto: “No, tu adesso vieni con noi”. Là c’era già mio fratello, quello che poi è stato fucilato; mio fratello era a casa in convalescenza, era del ’20, l’avevano richiamato e l’avevano mandato in Albania e lì si è preso la malaria, dopo varie peripezie l’hanno rimpatriato a Civitavecchia, poi l’hanno portato all’Ospedale Militare di Roma e di lì l’hanno poi mandato a casa in convalescenza. Lui doveva presentarsi all’Ospedale Militare di Roma il 12 settembre del 1943; l’8 settembre è venuto fuori quello che è venuto fuori e lui non si è più presentato. Ha fatto tutta la pratica per il viaggio, ha fatto tutto per partire, è partito ma ha preso un’altra strada ed è andato in montagna, per cui era considerato un disertore da quelli che comandavano a loro.

Il comandante partigiano ha detto a me: “Vieni con noi, perdiamo una valida staffetta ma non possiamo fare diversamente, non possiamo abbandonarti”.

Ecco perché sono diventata partigiana combattente: non è stato facile per me perché ho dovuto imparare tutto. Prima di tutto ho dovuto imparare ad operare con le armi – io avevo una paura matta – ma purtroppo quando si è lì bisogna fare anche quello. Ho imparato a fare l’infermiera, non l’avevo mai fatto, bisognava curare anche i feriti perché ogni tanto c’era qualcuno che restava ferito, il dottore veniva ma poi bisognava… e lì ho imparato anche quello ma è durato troppo poco perché il 19 marzo del 1944 c’era un rastrellamento in atto e sono stata arrestata dai tedeschi. Mi hanno messo in una prigione di fortuna.

D: Scusa Anna, dove ti hanno arrestata?

R: Mi hanno arrestata nella Langhe, tra Carrù e Dogliani. Mi hanno tenuta una notte in una prigione di fortuna, un magazzino di pali, dritti, lunghi, penso che fossero pali della luce perché allora i pali erano di legno, non di ferro come sono adesso. C’era un tedesco in questa prigione, l’hanno fatto uscire, lui tutto felice, e sono entrata io. Al mattino presto bussano alla porta: dovevo prepararmi, vestirmi, io non mi ero nemmeno svestita, e andare a Torino, mi dicono. Io ero pronta perché non avevo niente, non mi ero svestita, ho passato tutta la notte seduta su quella branda con una coperta sulle spalle, era marzo e faceva ancora freddo, c’erano due coperte e una me la sono avviluppata intorno alle gambe e sono stata tutta la notte così. Ad un certo punto ho visto su quei pali una bestia, ho detto: guarda, c’è un gatto, ho la compagnia di un gatto. Invece guardando bene non era un gatto, era un topo grosso, e allora avevo paura di quel topo, di grossi così non ne avevo mai visti. Dico: Se a questo gli prende di saltare! Ecco perché sono stata tutta la notte seduta, io guardavo lui, lui guardava me, non si è mosso e io neanche. Il mattino, quando mi hanno bussato alla porta, ho messo le coperte da una parte ed ero pronta; mi portano al treno e non mi ricordo più dove, mi sembra tanto Alba però non sono sicura dove mi hanno portata per prendere il treno. Alba è grande e io so che siamo entrati in una stazione che non era tanto grande, non me lo ricordo più. Siamo entrati in questa stazione, abbiamo preso il treno e siamo arrivati a Torino, alla stazione di Porta Nuova. Prima di portarmi in carcere, le Nuove, in Corso Vittorio 27, mi hanno portato all’Albergo Nazionale. Lì c’era il famoso capitano Schmidt, che a vederlo ti sembrava una persona gentile, per bene, e io ho detto: “Non sono poi tutti come crediamo noi”, ma mi sono ravveduta subito. Mi sono ravveduta subito perché non ho risposto alla domanda che lui mi ha fatto come voleva lui, ha incominciato a diventare burbero, a diventare quello che veramente era.

D: Scusa Anna, all’Albergo Nazionale c’era la sede di che cosa?

R: Della SS. il comando territoriale di Torino della SS. Cosa volevano sapere? Volevano sapere da me dove erano state nascoste delle armi. Noi avevamo ricevuto due paracadute con delle armi, perché con noi c’era un comandante inglese che mio marito ha scortato fino a Cortemilia. Pensare che io ho uno scritto di mio marito a casa che parla di questo comandante inglese che è riuscito a salvare la radiotrasmittente e si è messo in contatto non so con chi e sono arrivati questi due lanci di armi, però questi due lanci sono arrivati che c’era già il rastrellamento in atto, e allora cosa è successo? Queste armi bisognava scartarle, montarle, ci voleva del tempo e tempo non ce n’era e allora con l’aiuto di un contadino … Qui vorrei dire due parole sui contadini: qualcuno ha detto che i contadini erano egoisti e non ci aiutavano, non è vero. I contadini ti aiutavano, certo avevano paura perché vedevano che per un nonnulla bruciavano la casa; chi non aveva paura? Tutti avevano paura, però nel loro piccolo e nella loro possibilità siamo sempre stati aiutati. Un contadino che aveva un cunicolo sotto un terrapieno dove metteva le robe per lavorare la campagna, la zappa, la vanga, il badile, tutte queste cose per non portarle a casa tutte le sere, ha detto: “Se volete possiamo metterle là, c’erano delle fascine di legno, mettiamo quelle fascine davanti, è tanto tempo che sono lì, speriamo di salvarle”, e così hanno fatto.

Loro volevano sapere da me dove erano state messe le armi e io ho detto: “Non lo so, ero lì però ero in un altro gruppo”. Non potevo dire che le armi non erano arrivate perché le avevano portate via, nascoste ma i paracaduti erano rimasti lì, e al contadino hanno detto se voleva prendere i paracaduti perché la stoffa del paracadute era bella. Lui ha detto no: “Se vengono in casa a farmi una perquisizione e mi trovano quello!” e li ha lasciati lì. Loro sono arrivati, hanno trovato i paracadute e io non potevo negare questo; allora dicevo: “Le armi so che sono arrivate però dove le hanno messe non lo so perché ero in un altro gruppo” e ho sempre sostenuto quello. Ma il capitano Schmidt non lo ha digerito tanto, lui voleva sapere dove erano le armi e io dicevo di non saperlo, e lì non è stato tanto gentile, aveva dei metodi abbastanza… più che botte adoperava i suoi mezzi, era ben attrezzato, metteva anche le matite in mezzo alle dita, poi serrava le dita in mezzo alla morsa e la morsa ce l’aveva appesa alla scrivania: stringevano le dita in mezzo a questa morsa con le matite dentro, le unghie sanguinavano, aveva quei metodi. Appunto ho detto che subito sembrava gentile, ma ha messo fuori le sue bravure, e lì sono stata tutto il giorno. A mezzogiorno loro sono andati a mangiare, mi hanno messo in un corridoio, c’era già una persona anziana e un ragazzo. Il ragazzo era tutto euforico perché dovevano misurargli una camicia rossa: se quella camicia rossa gli andava bene lo fucilavano, se non gli andava bene lo lasciavano uscire. Ma lui sapeva che quella camicia non gli andava bene, non era sua, e allora era felice perché diceva: “Mi lasciano uscire, non mi va bene, lo so già”. Gli hanno portato da mangiare, della roba che io non avevo mai mangiato – io a dire la verità fino a quel momento la fame non l’avevo provata, perché in campagna avevamo la farina, la nostra roba, non avevamo la tessera però anche polenta e minestra, il pane lo facevamo noi, la fame non l’avevo ancora provata. Hanno portato un piatto di tutti pezzettini di quel pane nero dei tedeschi, e il signore più anziano si è messo a fare tre parti, io alla fine ho detto: “Quella minestra non lo mangio e quel pane neanche!” Lui mi guarda e mi fa: “Sei sicura?” “No, no io non mangio quella porcheria”. Mi ricordo sempre che questo signore anziano mi ha detto se hai la disgrazia di stare quattro mesi qui dentro come ci sono io, mangerai quello ed altro; dico quando sarà ora mangerò anch’io, però in questo momento non mi va giù quella roba. Sicura? Sì. Allora hanno fatto due parti sia del pane che di quel gries lo chiamavano, lo tiravi su e faceva le bave, solo a vederlo faceva schifo, poi … ne avessimo avuto! Alla sera mi portano in carcere nella cella 22, trovo tre donne: c’erano la De Angeli, Marconi Ines che adesso è mancata, che è la mamma di quel partigiano di cui c’è la lapide vicino al Corso, Mirko De Angeli – era sua mamma ed era con me, padre e figlio erano con me nelle Langhe, poi il padre è stato venduto ai tedeschi dal nostro famoso comandante Davide che ha tradito, cioè ha detto ai tedeschi che era un ebreo, per cento mila lire. Sì, allora cento mila lire erano soldi, ma vendere una persona… noi lo stimavamo, credevamo che fosse un persona… e invece purtroppo abbiamo dovuto constatare che era un traditore. Finita la giornata vado in cella e trovo queste tre donne: la De Angeli, Ines, poi c’era una certa Margot che non hanno mandato in Germania, l’hanno poi lasciata uscire, era una ballerina: avevano fatto la spia dicendo che lei aiutava i partigiani ma diceva che non era vero: “L’avessi fatto ma non l’ho mai fatto!” Solo che una era gelosa perché lei riusciva bene nei suoi balli ma quella no, e allora sempre le solite storie, comunque non l’hanno mandata in Germania. Poi c’era un’ebrea, una certa Levi ma il nome non lo ricordo più, una persona anziana, e verso il 10 o 12 di aprile è arrivata Lidia (Beccaria) Rolfi. Le due più anziane dormivano nelle due brande che c’erano e che al mattino si tiravano su per avere più spazio nella cella e alla sera si tiravano giù, e noi altre dormivamo per terra perché non c’era posto. Adesso si lamentano, anche allora, però nessuno è intervenuto per noi ma non facciamo commenti su questo, è un altro argomento. Io per un mese consecutivo tutti i giorni venivo presa al mattino, portata all’Albergo Nazionale e riportata indietro alla sera. Quel giorno mi hanno dato da mangiare a mezzogiorno perché le carceri non sapevano ancora del mio arrivo, ma quando poi tutti i giorni venivano a prendermi dovevano mettermi via il mangiare; io poi arrivavo ma era tutto freddo perché potete immaginare, là da mangiare non me ne davano, a mezzogiorno loro andavano a mangiare ma io stavo nel corridoio e non mi davano niente. Per un mese la solita storia, entravo dentro e il capitano Schmidt insisteva su quello, e io insistevo sulla mia tesi, ho sempre detto: “Non lo so, non ero lì, non ero presente e non so dove le hanno messe”. Ha adoperato tutti i mezzi, persino la scossa elettrica: c’era una sedia di ferro come una volta negli ospedali, quelle con i braccioli; vicino a una gamba hanno messo una presa, era il mese di marzo e faceva ancora freddo e lui aveva una stufa elettrica nell’ufficio, aveva l’interprete che era un ragazzino ebreo, parlava tedesco e l’hanno tenuto, la famiglia l’hanno mandata via e lui l’hanno tenuto lì, gli facevano fare da interprete e anche quel lavoro: staccava la spina dalla stufa e toccava il gambo della… ma appena toccato già mi dava… finché un bel giorno si vede che l’ha lasciato un attimo di più e io sono svenuta, sono andata per terra. Si vede che ho battuto la testa in qualche posto, perché quando mi sono ripresa ero tutta bagnata, si vede che mi hanno buttato acqua addosso per farmi rinvenire, e avevo già un cerotto sulla testa, sanguinavo. Da quel giorno non sono più venuti a prendermi, ho continuato a stare in carcere, andavo all’ora di aria, perché ci davano un’ora di aria al giorno, e lì ho cominciato a conoscere le mie compagne; prima conoscevo solo quelle che erano in cella con me perché mi portavano all’Albergo Nazionale e lì non vedevo nessuno, arrivavo la sera.

Solo che anche lì è durato poco perché al 30 giugno sempre del 1944 sono arrivati i tedeschi e hanno detto che ci portavano in Germania a lavorare. Noi non avevamo mai sentito parlare dei campi di sterminio, mai nessuno aveva parlato di quelli, perché c’erano solo le persone altolocate che sapevano, gli altri non sapevano niente. Nella notte sono venuti e da quel giorno non mi hanno più portata all’Albergo Nazionale.

Ho fatto la vita con gli altri, la vita del carcere, che certamente era diversa da quella che avevo fatto fino a quel giorno.

Al 29 di giugno i tedeschi ci dicono che ci portano in Germania e la notte sono venuti, ci hanno chiamati sotto, c’era anche lei, eravamo in 14, ci hanno caricate su un camion e ci hanno portate a Porta Nuova, c’era già la tradotta pronta. La chiamavano tradotta ma era poi un treno, un carro bestiame. Noi eravamo solo in 14, ci hanno chiuso dentro questo carro bestiame e siamo state lì tutto il giorno ad aspettare gli avvenimenti. Intanto si sentiva… e non si capiva niente di quello che stava succedendo perché eravamo chiuse dentro, c’era solo quel piccolo sportello là sopra che bisognava fare la scala per salire, e finalmente la sera il treno è partito. Si fermava perché si vede che avevano paura di trovare qualcosa sui binari, sospettavano, chi ha la coscienza sporca sospetta sempre degli altri. Poi finalmente siamo arrivate a Innsbruck. Ci hanno fatto scendere dal treno, gli uomini da una parte perché noi eravamo in 14 donne chiuse in un vagone, ma poi c’erano 280 uomini chiusi in altri vagoni, che loro erano stipati così, certi vagoni dice che non li hanno nemmeno potuti chiudere perché non riuscivano, e allora c’erano i tedeschi sulla porta del vagone che sorvegliavano questi uomini che non scappassero, perché qualcuno era riuscito a scappare. Arriviamo a Innsbruck, ci fanno scendere a tutti, il nostro vagone è stato agganciato a un treno che andava a Berlino, nel frattempo ci hanno dato una scodella di quel gries che faceva le bave che non avevo mangiato in carcere, ma lì l’ho mangiato, era già buono anche se faceva le bave, poi ci hanno fatto di nuovo salire sul nostro vagone, gli uomini li hanno smistati ma noi non c’eravamo più, chi a Dachau chi a Mauthausen, chi negli altri campi, a noi ci hanno fatto salire di nuovo sul nostro vagone bestiame e siamo andate fino a Berlino. A Berlino ci hanno fatto scendere, abbiamo attraversato nei sotterranei tutta la stazione di Berlino che è grandissima, allora non era ancora tutta bombardata come era poi alla fine della guerra, e ci hanno portati in una stazione dove c’era un treno locale. Ci hanno fatto salire su questo treno locale e finalmente non eravamo più in carro bestiame ma eravamo in un vagone normale di terza categoria, o forse era anche di quarta, comunque un vagone normale, c’era la gente che saliva perché era presto e si vede che andavano a lavorare, e ci hanno sistemate, eravamo in 14, in due scompartimenti. Loro erano in due che ci accompagnavano e ci hanno sistemati lì e c’era uno per porta, e ci guardavano, perciò la gente che saliva ci vedeva, doveva capire che eravamo delle prigioniere perché c’era un tedesco sulla porta che ci sorvegliava, poi magari non eravamo le prime, e lì devo dire che abbiamo provato la prima delusione della Germania, dei campi di sterminio, perché questa gente saliva e non ti degnava di uno sguardo, ma se ti degnava di uno sguardo era uno sguardo cattivo, tanto che a noi ci ha obbligati a dire questi sono tedeschi. Questo treno è partito, non abbiamo viaggiato tanto, mezz’ora, di preciso non lo so, siamo arrivati in una piccola stanzioncina che era la stazione di Fürstenberg. Fürstenberg è una bella cittadina, l’ho vista dopo, e la stazione è ancora adesso tale e quale come allora, brutta, tutto arrugginito. Ci hanno fatto scendere e lì a piedi ci hanno portate al campo, c’era una bella strada asfaltata, ad un certo punto abbiamo avuto una visione bellissima, dalla parte destra c’era il lago, alla parte sinistra c’erano tutte villette, una più bella dell’altra, eravamo poi alla fine di giugno, il 1° luglio, piene di fiori, uno più bello dell’altro, sembrava che avessero fatto una gara, chi aveva la finestra e il balcone più bello degli altri, tanto era bello da vedere, tanto che noi ingenue, sapevamo che andavamo a lavorare e abbiamo detto: guarda in che bel posto ci hanno portate! E quella visione dopo un po’ è sparita.

Ci siamo trovate davanti a un muro altissimo, nero, brutto, e abbiamo detto: guarda che fabbrica brutta è questa, non possono dare un po’ di bianco, con tutto il bello che abbiamo avuto fino ad adesso? Lì c’era una sbarra come i passaggi a livello, hanno alzato questa sbarra e ci hanno fatto entrare. I due tedeschi che ci accompagnavano sono entrati negli uffici, hanno consegnato la loro cartella con tutti i nostri documenti, poi sono spariti e non li abbiamo più visti tanto che anche lì siamo state ingenue, perché non sapevamo niente e abbiamo detto: guarda che maleducati quei due, sono andati via e non ci hanno neanche salutate. Durante il tragitto su questa strada asfaltata bellissima, avevamo una compagna, la Carletti Cesarina cosiddetta “nonna Mao”, aveva due valigie, grosse, piene zeppe, perché i tedeschi avevano detto a sua mamma di procurarle tanta roba di lana perché dove andava faceva freddo. Effettivamente era una zona fredda perché il mese di luglio, al mattino alle sette quando si andava all’appello si battevano i denti, faceva freddo, si battevano i denti un po’ per la paura ma si battevano i denti per il freddo, tanto è vero che la chiamano la piccola Siberia perché è proprio una zona fredda. Allora ci hanno fatto entrare; lungo questo percorso lei chiede a questi due tedeschi di aiutarla a portare queste valigie: figuriamoci! Loro che sapevano cosa c’era in quella villette, non lo facevano anche per loro.

Allora lei si è arrabbiata e dice: sì, non mi aiutate, e io le metto qui e non mi muovo più. Ha messo quelle due valigie in mezzo alla strada, si è seduta sopra, noi a cercare di convincerla, dai ti aiutiamo noi; andavamo incontro all’incognito e non sapevamo cosa poteva succederci, lei: nient’affatto, sono loro che mi devono aiutare. Ad un certo punto da una di queste villette si apre una finestra e viene fuori una che si mette a sbraitare in tedesco, quello che diceva per noi era tabù perché non capivamo, e ha sbraitato. Finito lei ha cominciato la nostra compagna, la Carletti, tutto quello che le è venuto in mente, tutto quello che si può dire di brutto a una persona, lei glie l’ha detto. Alla fine le abbiamo strappato quelle valigie, l’abbiamo tirata fino a che l’abbiamo fatta partire e siamo arrivati lì. Loro hanno consegnato i documenti e poi se ne sono andati, ci hanno fatto entrare nel piazzale, quando siamo lì vediamo, a un certo punto, una carabiniera che arriva, vestita in divisa, in mano da una parte aveva la bustina, dall’altra il frustino, entra tutta marzialmente; entra dentro e non si sbaglia, va a beccare la Carletti. Era riconoscibile perché aveva dei bei capelli neri ed era pettinata alla Rita Hayworth, con quell’onda, perciò era riconoscibile, non si è sbagliata, è andata, l’ha presa, l’ha tirata fuori, quelle che non ha voluto gliele ha cambiate, poi l’ha presa subito e l’ha portata dentro, e lì dice che l’hanno di nuovo picchiata e poi le hanno tagliato i capelli. Quando è uscita fuori siamo rimaste stupefatte a vederla, la testa sotto i capelli neri ancora più bianca, quella testa tutta bianca, poi lei aveva gli zigomi grossi, aveva una faccia… era una bella donna però con quella testa pelata. Ed io ho avuto… non so perché mi è venuto quello, glie l’ho detto e non me l’ha mai perdonato, quando era arrabbiata me lo rinfacciava sempre. Lei si chiamava Cesarina ma noi la chiamavamo Cesi per fare più in fretta, le ho detto: Cesi sembri il duce! Non gliel’avessi mai detto! Ho fatto male a dirle questo, lo so, ma mi è venuto così spontaneo, ho visto la testa più grossa del solito, la testa pelata, sarà che poi il giorno dopo l’hanno fatto a noi. Comunque, quando il giorno dopo, perché poi ci hanno fatto fare tutto il giorno lungo quel muro, sotto il sole perché c’era una giornata come fosse oggi, tutto il giorno sotto quel sole cocente, alla sera quando già veniva buio hanno aperto una porta e ci hanno fatto entrare dentro, ma non abbiamo visto cosa c’era là dentro perché era buio, non c’era luce, ci hanno fatto entrare e poi hanno chiuso la porta e ci hanno lasciato lì. Abbiamo capito che era una doccia perché c’erano le pedane ed erano bagnate. Allora ci siamo rannicchiate tutte in un angolo e abbiamo cercato di stare vicine l’una con l’altra piene di paura perché non sapevamo cosa succedeva; durante la notte abbiamo sentito un fracasso della malora, è arrivata altra gente, sono arrivate altre donne, hanno aperto quella porta e le hanno fatte entrare, noi non capivamo una parola, l’unica parola che capivamo (era) quando chiamavano mamma. Mamma è una parola internazionale, poi abbiamo saputo al mattino che erano russe, 540 russe, il giorno dopo tutte in fila lungo quel muro e lì una per una si andava dentro.

Noi l’abbiamo definita l’immatricolazione quella: tagliavano i capelli, guardavano se avevamo i pidocchi, poi ti passavano la visita, una visita schifosa, sputavano per terra, noi non eravamo abituate a quelle cose lì, una volta era tutto diverso, poi anche fosse adesso essere trattate come ci hanno trattato allora sarebbe sempre schifoso. Poi più avanti c’era anche la parrucchiera che tagliava i capelli, poi c’era la disinfezione. Erano sempre deportati che facevano quei lavori, non erano tedeschi, deportati col triangolo rosso anche. Cosa facevano? Avevano un secchio, dentro il secchio c’era un pennello e un liquido che te lo passavano dalla testa ai predi che bruciava, e una delle prime, non so se la .. o Irma di Biella che non lo sapeva, non ha chiuso gli occhi e le è andato negli occhi! Quella era creolina, puzzolente che non finiva mai, le è andata negli occhi e le ha dato problemi per un po’ di giorni perché quello brucia e può anche rovinarti gli occhi, e allora sapendo quello quando si entrava l’unica cosa si cercava di tenere gli occhi e la bocca chiusa.

Finita la disinfezione c’era poi la vestizione. Ho dimenticato di dire che tutto il giorno mentre siamo stati lì lungo quel muro, ci hanno fatto spogliare, togliere tutto quello che avevamo indosso, piegare tutto per bene, mettere tutto ammucchiato vicino a quel muro, per ultimo le scarpe sopra perché questo mucchio non andasse per terra e siamo rimaste nude, allora alla fine ci hanno vestite. Siamo state fortunate che ci hanno dato uno di quei vestiti rigati tipo quella bandiera.

D: Quando sei entrata nel campo hai visto se sul campo c’era una scritta, un nome del campo?

R: Non abbiamo visto niente, scritte non ce n’erano, c’era soltanto quella sbarra come c’è nel passaggio a livello.

D: E il nome del campo quando l’hai scoperto?

R: L’abbiamo scoperto quando già eravamo là in quarantena, che poi non era quarantena, che continuavamo a chiedere “che cosa è questo, è una fabbrica?” e allora c’era una professoressa greca, una bravissima persona, parlava molto bene l’italiano, il tedesco, e questa ci ha salvate tante volte dalle botte, perché quando ti chiamavano ti chiamavano col numero, ma lo chiamavano in tedesco, tu che non capivi il tedesco non uscivi e allora erano botte. Allora lei: hanno chiamato il tuo numero, esci fuori, rispondi! Ma nomi io non ne ricordo, non ho visto nessun nome quando siamo entrate, abbiamo visto solo quella sbarra che si è alzata e ci hanno fatto entrare su quel piazzale, il nome del campo l’abbiamo saputo dopo.

D: E l’hai saputo. Il campo era?

R: Ravensbrück. Allora per noi Ravensbrück aveva un nome insignificante, perché non sapevamo cosa voleva dire, Ravensbrück vuol dire in tedesco “ponte dei corvi”, ma noi non lo sapevamo questo, l’abbiamo saputo in seguito. Abbiamo avuto delle lezioni e abbiamo imparato tante cose, abbiamo passato cose brutte, ma abbiamo avuto anche delle cose belle, soprattutto si è creata in mezzo a noi la solidarietà, io oserei dire, forse dico una cosa di troppo, la solidarietà è stata il 50% di aiuto per la sopravvivenza, chi ti dava solidarietà non è che ti dava un pezzo di pane perché non poteva darcelo, però l’aiuto morale che tu ricevevi da quelle compagne più anziane di te, che noi eravamo giovani, lei aveva 16 anni io quasi 20, ma eravamo giovani e inesperte. Noi credevamo di sapere tutto, io credevo – con la casa bruciata, sono andata nei partigiani, ho imparato a fare questo – credevo di sapere tutto ma quando sono arrivata là ho capito che non sapevo proprio niente, che dovevo incominciare da capo e non era facile perché incominciare a lottare contro queste belve umane non era facile; le nostre compagne più anziane, sua sorella, un giorno Irma, la Beltrando Lucia che erano tutte persone anziane e che avevano un’altra esperienza della vita, vuoi sia familiare che politica, e allora cercavano di insegnare a noi il modo in cui si doveva agire per sopravvivere, perché per loro il capo essenziale era sopravvivere, ritornare, raccontare al mondo quello che succedeva là dentro, perché succedevano delle cose talmente inverosimili che ancora oggi, a parte che quelli che non vogliono capire oggi è perché non vogliono, non che non riescono; ancora oggi mi trovo a domandarmi: ma come facevano delle persone che si dicevano umane a fare quello che facevano ad altre persone umane. Come facevano? Eppure lo facevano. C’erano le kapò, le kapò chi erano? A parte che erano avanzi di galera, erano persone tolte dalla galera a vita, ergastolo, perciò quando uno prende un ergastolo non ha rubato una gallina, ha fatto qualcosa di peggio, ebbene hanno tolto dalle galere tutta questa gente, uomini e donne, e hanno dato loro il potere di fare quello che facevano a noi, questa gente aveva il potere nelle mani di farti vivere, farti morire come e quando volevano loro, e quando ti picchiavano godevano se tu soffrivi; ecco perché le nostre compagne ci dicevano quando ti picchiano non gridare, tanto il male lo senti lo stesso, ma il grido viene spontaneo, perché senti male e gridi. Loro dicevano: non gridare ma non era facile fare quello ed avevano ragione perché se tu non gridavi loro non avevano la soddisfazione di vederti soffrire e allora smettevano prima, invece se tu gridavi voleva dire che soffrivi, loro erano talmente contente di vederti soffrire che continuavano a picchiare a sangue. Io ricordo che sono arrivate un giorno tre suore, erano vestite come noi, noi abbiamo poi saputo che erano suore perché erano francesi queste suore, due erano anziane, avranno avuto circa 80 anni più o meno, là erano tutte così malmesse che a dire l’età era difficile da poter indovinare, arrivano due anziane e una era giovane, avrà avuto 30-32 anni ma era minutina, piccola, magrolina, dice che gestivano un asilo nido e in questo asilo nido c’erano tutti i bambini, in Francia, figli di partigiani, maquis, in Francia si dice machì, che avevano bambini e loro prendevano questi bambini e li guardavano, li gestivano. I tedeschi sono venuti a saperlo, loro hanno avuto una spiata che i tedeschi sarebbero venuti su e avrebbero preso loro e tutti i bambini, hanno fatto in tempo a far sparire i bambini, però loro sono rimaste lì: i tedeschi sono arrivati ma i bambini non c’erano più. Loro hanno chiesto dove erano i bambini, dice li avevamo qui provvisori ma adesso i genitori sono venuti a prenderseli e li hanno portati via, perché dice che andavano via dalla città per i bombardamenti. Loro non ci hanno creduto e allora hanno preso queste tre suore, le hanno deportate e le hanno portate a Ravensbrück. Da Ravensbrück le hanno portate dove lavoravamo noi, perché a Ravensbrück siamo rimaste dal 1° luglio, quando siamo arrivate fino verso il 20 di agosto, poi hanno formato il comando e ci hanno portato a lavorare. Ci hanno portato a lavorare in una fabbrica dove facevamo apparecchi da bombardamento; Volkanblum si chiamava questa fabbrica, e facevamo i Messerschmitt 709, facevamo tutto meno l’impianto elettrico, l’impianto elettrico arrivava già tutto predisposto, era solo da montare ma non era compito nostro, era in un altro reparto.

D: Anna scusa, il tuo numero di Ravensbrück te lo ricordi?

R: Sì, il primo era 44145, poi però quando siamo andate in quella fabbrica, a Schönefeld, vicino al campo d’aviazione e c’è ancora adesso, perché io nel ’70 sono andata con la Regione, abbiamo preso l’aereo e siamo scesi proprio lì e la fabbrica era dietro ma adesso non c’è più perché nel ’79 io sono andata a cercarla e non c’era più e mi ha detto il direttore del museo di Ravensbrück che la fabbrica l’hanno spostata ma che esiste ancora, lavora ancora, però forse non ci ho pensato, non mi sono fatta dire dove l’hanno spostata, adesso la prima volta che vado a Ravensbrück voglio indagare. La Volkanblum era una fabbrica grande, noi quando siamo arrivate lì ci hanno dato un altro numero, che era il numero di lavoro, perché leggendo quel numero loro sapevano qual era il mio posto di lavoro: ho avuto 1721, detto in tedesco siebzehnhunderteinundzwanzig, comunque io ero 1721. Siamo arrivati a 4500, tutte donne e la maggior parte erano francesi; noi italiane eravamo poche e siamo anche state sfortunate, perché essendo poche siamo state un po’ mandate una da una parte una dall’altra, non è che siamo riuscite a stare tutte in gruppo; quello vuol dire volere o no che ti parli assieme, ti consoli l’una con l’altra invece una era da una parte e una dall’altra, questo era già brutto ma quello che era più brutto di tutto è che noi quando siamo entrati in campo, non avevamo solo i tedeschi come nemici ma avevano le prigioniere stesse, perché ce l’avevano con gli italiani, ce l’avevano perché gli italiani erano dei traditori, e allora a noi ci chiamavano sempre “musulinì” e “macaronì”, e noi dicevamo magari ne avessimo un bel piatto, sì che andrebbe bene, ma quel “musulinì” non andava bene perché se eravamo là non eravamo con Mussolini, questa è la verità, eppure soprattutto le più giovani ce l’avevano a morte con noi. Per fortuna che quelle anziane, vuoi anche francesi, che capivano più delle altre, sapevano che se noi eravamo là non eravamo con Mussolini perché fossimo state con Mussolini saremmo state in casa, in Italia perlomeno. Poco per volta sono riuscite a far capire questo e allora la cosa è cambiata, anche noi ci siamo trovate meglio, anche se c’era la difficoltà della lingua perché quella è stato un handicap grossissimo: tu non capivi quello che ti dicevano loro e loro non capivano quello che dicevi tu.

D: Anna, dicevi di quelle tre suore che poi hanno portato…

R: Queste tre suore sono arrivate, il primo giorno sono rimaste lì tutte e tre, noi abbiamo saputo che erano suore perché c’erano le francesi e siscome queste suore erano francesi … bisogna dire che le francesi si aiutavano in un modo stupendo, erano solidali l’una con l’altra, una cosa incredibile. Loro hanno cercato subito di fare qualcosa per queste tre, vuoi perché erano suore, vuoi perché erano francesi, le due anziane però il giorno dopo le hanno portate via subito ed è rimasta la più giovane. Era vestita come noi, l’avevano messa a lavorare, non ricordo che lavoro faceva, fatto sta che questa era una suora, tutte le sere o tutte le mattine, perché noi si lavorava 12 ore al giorno, una settimana di giorno e una di notte, allora questa finito il lavoro, prima di andare nel letto a castello, diceva le preghiere, si inginocchiava ai piedi dei castelli e diceva le sue preghiere, questo non era permesso perché dire le preghiere voleva dire farti animo da sola, metterti nelle mani di Dio, va a sapere cosa pensavano loro, fatto sta che era proibito. Loro, le kapò, le cablò, le stubò, ma soprattutto le kapò cosa facevano? Sapevano che lei era una suora e diceva le preghiere, allora aspettavano che lei fosse in ginocchio a pregare, venivano fuori dal loro harem, perché loro avevano il loro harem, venivano fuori e la pestavano di santa ragione. Queste nostre compagne più anziane, vuoi russe, tutte, non c’era differenza, tutte si prestavano, tutte. C’erano le italiane che si prestavano per noi, tutte si prestavano, e allora tutte a dire a questa suora: vai nel castello, prega tutto il giorno, prega tutta la notte, non metterti lì, queste un giorno o l’altro ti uccidono, e lei diceva: le preghiere vanno dette così, sarà la volontà di Dio e ha continuato, e loro hanno continuato a darle le botte, tanto che un giorno, facevamo la notte, lei era di giorno che stava pregando in ginocchio per terra, sono arrivate e l’hanno caricata di botte, noi eravamo nel castello, dormivamo già in due, ero con la Irma Bianco, si guardava; dice: questa qui la uccidono perché non è possibile, poi lei è caduta per terra, ha incominciato a venirle fuori il sangue dal naso e dalla bocca, allora hanno chiamato le sue compagne, le altre francesi, portatela all’infermeria, e loro l’hanno presa, l’hanno portata là, quando è arrivata lei era già morta. Questa è stata la storia di una suora, e le altre due le hanno portate via. Non hanno detto dove le portavano ma abbiamo capito, sapevamo già dove le portavano. Quella è un po’ la storia di come si viveva, poi c’è la storia del mangiare, il mangiare era una cosa schifosa, un mestolo di zuppa, loro la chiamavano zuppa ma era acqua sporca con qualche pezzo di barbabietola o di rapa che galleggiava sopra; erano rarissime le volte che trovavi un pezzettino di patata e toccavi il cielo con le dita, anche solo bollita, senza sale senza niente ma riempie la bocca ti da quale senso di…..perciò il mangiare era quello. Poi ti davano un filone di pane diviso in otto ma non era mai un chilo quel filone perché le kapo prima di dividerlo se ne tagliavano una bella fetta per loro; perché loro dovevano fare le loro orge perché alla sera o al mattino, ma soprattutto alla notte questo lo facevano perché di giorno potevano arrivare i tedeschi da un momento all’altro.

(Fine prima parte intervista)

D: Nella vita del campo nella vita del Lager cosa vi davano da mangiare?

R: Quello era il problema, però il problema grave anche per noi, soprattutto io parlo per noi giovani era quella che quando siamo arrivati ci hanno tolto il ciclo mensile. No? E in mezzo a tutto quel frastuono riuscivamo ancora a pensare a quello, riuscivamo ancora a dire, ritorneremo come prima? Quella era una incognita, una cosa che non si era mai sentita. Per fortuna che c’erano appunto queste persone più anziane che ci dicevano, non dovete pensare a quello, non dovete pensare a queste cose, queste cose abbiamo tempo a pensarci quando arriviamo a casa. Era facile dirlo. Ma non era facile a metterlo in pratica, perché quando arrivi a casa, intanto non sapevi se arrivavi a casa, prima cosa, seconda cosa, eri ancora in tempo quando arrivavi a casa a metterti a posto? Quella era una incognita che ti tormentava; ogni tanto ti veniva in mente quello e ci pensavi e quello ti dava quel senso di scoraggiamento ti faceva venire di cattivo umore, e quella era la cosa peggiore che potevi avere dentro di te, perché essere di cattivo umore voleva dire tu che eri già debole, fisicamente ecc. voleva dire cadere proprio nell’abisso completo, ecco perché le nostre compagne dicevano non pensate a quello, adesso pensate a vivere, domani penseremo a quello. Ma malgrado che ce lo dicevano loro, sapevamo che avevano ragione, non era facile mettere in pratica quelle cose. E’ stato difficile. Quando siamo riuscite tanto abbiamo capito abbiamo detto: qui non c’è niente da fare, o facciamo come dicono loro sperando che ci vada bene e se non ci va bene loro hanno fatto tutto quello che hanno potuto e non ci sono riuscite e allora abbiamo cercato di dare retta a quello che loro ci dicevano quello che loro ci insegnavano, perché tanto non avevamo altre vie di uscita che quelle e nel medesimo tempo si cercava di girare al largo e cercare di non incontrare pericoli, anche se i pericoli ti venivano a cercare, ovunque tu ti trovavi, tu dovevi sempre cercare di girare l’angolo, cercare di allontanare il pericolo.

D: Anna, ti ricordi a Ravensbrück o in quest’altro sottocampo se c’erano anche dei bambini?

R: A Ravensbrück sì nel sottocampo no, perché nel sottocampo ti passavano la visita prima, e allora prima di mandarti loro già sapevano quelle che arrivavano in stato interessante, perché d’accordo, (nel caso degli) gli ebrei prendevano tutta la famiglia, c’erano bambini anziani ammalati ecc. ma anche (nel caso delle) politiche c’erano donne che erano in stato interessante e le portavano lì e che cosa facevano.

Intanto le obbligavano a lavorare, a fare come facevano tutte le altre, senza nessuna distinzione senza nessun riguardo per quello, poi la obbligavano a partorire, all’inizio non c’eravamo ancora, però questo ce l’hanno raccontato quelle che erano già lì all’inizio facevano partorire la donna, poi la mamma stessa doveva uccidere suo figlio o annegarlo in un secchio, prendere la testolina e metterla nel secchio e farlo annegare o in un altro modo strangolarlo, ma dovevano. Pare che qualcuna si sia rifiutata di fare quello e hanno ucciso prima la madre e poi il bambino.

A Ravensbrück c’erano i bambini; io grazie a quella professoressa greca che come ho detto era una bravissima persona, una volta perché noi a Ravensbrück ci facevano lavorare, ci chiamavano mangiapane a tradimento perché non si faceva un lavoro produttivo, come siamo andati a fare dopo ma finché siamo stati lì al primo di luglio circa al venti di agosto, non è che ci hanno lasciate lì in panciolle a fare niente, ci facevano lavorare, ci facevano pulire i gabinetti, ci facevano pulire la piazza d’Appello, ci facevano pulire le baracche, ci facevano andare a prendere i bidoni della zuppa, quello era l’unico lavoro che facevamo volentieri, perché quando arrivavamo avevamo la speranza di prendere quel mestolo di brodaglia; non sempre ce lo davano, perché dicevano che noi eravamo mangiapane a tradimento, non ci guadagnavamo niente e allora a volte ce lo facevano anche saltare.

Allora un giorno siccome io mi lamentavo sempre, ero quella che borbottavo sempre, non accettavo il sistema che avevano era una cosa talmente brutale, talmente non era facile accettarlo anche se tu eri lì eri obbligata, non avevi nessuna (TOSSE)

E allora un giorno eravamo col carretto e andavamo a prendere i bidoni della zuppa, avevamo sopra (TOSSE) allora un giorno questa professoressa greca che mi vedeva sempre, un giorno dice: la prima volta che ci mandano assieme a prendere i bidoni della zuppa, ti faccio vedere una cosa che tu quando l’hai vista non protesterai più. E io dicevo: mah, chissà cosa mi fa vedere. Un giorno o due dopo ci chiamano e ci mandano col carretto, avevamo quattro bidoni vuoti sopra, due dietro spingevano il carretto e due davanti tiravano e si faceva proprio la strada lì dove, a un certo punto lei ha guardato che non ci fosse pericolo, poi mi fa: vai a quella finestra e guarda dentro cosa c’è. Allora io vado a quella finestra e guardo: c’era una camera grossa il doppio di questa, dentro c’erano tutti bambini, ma piccoli, bambini che avranno avuto dai tre ai cinque anni, ma forse cinque non li avevano, nudi come erano venuti al mondo, quella camera era disadorna non c’era un tavolo, niente, questi bambini erano messi in quella camera da soli. Non è che ho potuto stare tanto a guardare questi bambini però c’era una bambina che piangeva, si era avvicinato un bambino, ho capito che era un bambino perché aveva il suo pistolino, caro va! si è avvicinato, le ha fatto una carezza a questa bambina, le ha detto qualcosa, ma io ero fuori non ho sentito quello che ha detto, si può immaginare le avrà detto di non piangere, adesso arriva la mamma, una cosa del genere, ma vedere quel bambino che poi avrà avuto un anno di più di quella che piangeva non di più, vederlo con quella carezza con quella affettuosità, ecco ho detto, ha ragione; se i bambini così piccoli si comportano in quel modo non è giusto che io debba sempre (lamentarmi), e da quel giorno ho cercato di evitare, ho fatto fatica, ma ho cercato di evitare proprio questo modo di protesta, questo modo di ribellione che non riuscivo ad accettare quello che loro facevano.

Quando non avevano niente da farti fare, fuori, tutti fuori. Eri fuori, cinque minuti dopo tutti dentro, tanto per tenerti, non volevano a nessun costo lasciarti tranquillo. Quella è stata.

Ci saranno stati, io non li ho contati, il tempo era limitato anche dal fatto che bisognava fare attenzione che non arrivasse nessuno, saranno stati una quarantina, non so quanti erano, soli abbandonati, quelli erano i bambini di Ravensbrück, poi ci sono quelli che han dovuto farli morire, che li hanno fatti morire. Un’altra volta sempre con questa professoressa greca, quando si andava a prendere questi bidoni – la cucina era dietro alla piazza dell’appello, e si doveva fare il giro, passare di fianco alla piazza e andare dietro dove c’era la cucina. Arriviamo quasi all’altezza della piazza Appell, lei sempre più esperta di noi perché era più tempo che era lì, poi sapeva parlare il tedesco; ha visto che la piazza Appell era piena di gente, e allora ha detto: rallentiamo il passo, non fermiamoci, perché non possiamo fermarci, ma andiamo piano e vediamo cosa c’è là sopra; la piazza era piena era piena di donne, stavano facendo la selezione, gli uomini da una parte le donne dall’altra. E lì abbiamo visto una donna che aveva un bambino in braccio piccolo piccolissimo, e poi abbiamo poi saputo dopo il comandante tedesco ha dato ordine alla Hauserin di prelevare quel bambino, la mamma naturalmente lo teneva stretto e non voleva darglielo, allora è andato, in quel mentre noi arriviamo proprio all’altezza di dove erano loro; il comandante tedesco va, strappa via il bambino dalle mani della mamma lo butta in aria: a fianco c’era uno con la pistola e ha fatto il tiro a segno. Il bambino è caduto, ed è caduta anche la mamma, ma questo noi l’abbiamo saputo dopo, noi abbiamo solo visto il bambino che cadeva, poi siamo andati via perché lei ha detto: andiamo via perché qui se ci vedono andare piano! Allora abbiamo pedalato un pochino e siamo andate via. Questa greca, questa professoressa greca aveva stretto amicizia con una tedesca prigioniera, perché le prime ad andare nel campo sono state le tedesche, perché non hanno accettato la politica di Hitler; allora i campi non erano di sterminio, ma erano campi di rieducazione, speravano di rieducarle, di riportarle e quando siamo arrivate noi al mese di luglio del ’44 c’erano delle donne tedesche che erano quattro o cinque anni che erano lì. Allora questa greca ha stretto amicizia con una di queste tedesche che essendo le prime ad andare in campo, essendo tedesche, sapendo la lingua, perché era la sua lingua, le hanno messe nei punti chiave a segnare tutti i trasporti che arrivavano, a segnare chi moriva e chi non moriva, insomma tutti quei lavori, loro li chiamavano lavori di fiducia; tramite questa tedesca la professoressa greca era venuta a sapere che il bambino è morto e quando è caduto l’han colpito è morto, la mamma è caduta anche lei è morta sul colpo, come il bambino è venuto giù è caduta anche la madre ed è morta anche lei, l’ha saputo appunto da questa tedesca, ecco perché abbiamo saputo che, il bambino l’abbiamo visto, con i nostri occhi, ma la mamma no, perché poi abbiamo pedalato perché abbiamo detto se, cioè lei ha detto se ci prendono ad andare piano pensano che noi guardiamo lì e ci portiamo le conseguenze, andiamo in fretta, ormai quello che abbiamo visto abbiamo visto.

D: C’erano anche degli uomini?

R: Per gli uomini c’era un campo dietro, io questo l’ho saputo dopo anni che ero a casa, questo non lo sapevo; c’era un campo dietro di uomini, ma da noi non venivano gli uomini; da noi gli unici uomini che vedevamo erano gli ufficiali tedeschi, poi c’erano i Meister, quelli che quando si lavorava in fabbrica avrebbero dovuto insegnarti a lavorare ecc., quelli erano civili; altri noi uomini non ne abbiamo mai visti.

D: Anna, tu quanto tempo hai trascorso nel Lager?

R: Nel Lager ho trascorso dunque dal primo luglio ’44 al 27 aprile del ’45, perciò tredici mesi, più i mesi di prigionia sempre sotto i tedeschi, totale circa 15 mesi.

D: Anna, come è possibile spiegare con parole la vita quotidiana dei lager, cosa era un Lager?

R: Non è facile spiegarlo perché i ricordi sono talmente tanti, talmente tanti che uno non riuscirà mai e poi mai a raccontarli tutti, e questo ti rende già difficoltà, perché salti, da una cosa salti all’altra, perché ti sembra che sia più importante quello di questo, mentre invece se uno potesse fare una didascalia, le cose sono tutte importanti uguali, perché erano tutte brutalità che questi mostri facevano su persone umane. Qualsiasi cosa, anche un pizzicotto era già una brutalità che vale la pena di ricordare. Ma non è facile dire tutto.

D: La fame, le malattie.

R: Ma noi ti dirò.. Almeno io l’unica cosa che ho avuto (è stata) la pleurite secca bilaterale, però non lo sapevo, la pleurite non è che ti da una febbre alta; tu non potevi andare all’infermeria se non avevi quaranta di febbre e tutti si cercava di non andare all’infermeria, chi andava era perché proprio era obbligato altrimenti si cercava di non andare. Io ho fatto questa pleurite ma non lo sapevo perché mi sentivo stanca, mi sentivo fiacca, mi sentivo molle, ma si dava la colpa a tutto meno che a quello, si dava la colpa al mangiare niente e male, lavorare 12 ore, ma lavorare sodo, e quello era un logorio giorno dopo giorno della tua vita, del tuo corpo, e davi la colpa a tutto questo; io ho saputo poi che ho fatto la pleurite secca bilaterale quando sono tornata a casa. Avere qualche cosa per essere aiutata ho dovuto fare un mucchio di visite e la prima cosa mi hanno fatto i raggi: ma tu hai fatto la pleurite secca bilaterale! Ma che ne so io; ma non sei mai andata all’ospedale?; no, mai! Perché? Perché uno attribuiva tutte queste cose al modo in cui ti facevano vivere, ma non andavo a pensare. Invece chi gli venivano il tifo, chi aveva il tifo petecchiale, ad esempio c’era una francese, ecco questa era una cosa, c’era una francese aveva la mia età, Audette, si chiamava, e all’inizio era una accanita contro di noi “Mussolinien maccaronian”, non ci accapigliavamo perché ci avevano tagliato i capelli, altrimenti tutti i giorni ci saremmo accapigliate. Poi come ho detto sono riusciti a far capire che se noi eravamo lì non eravamo con Mussolini e siamo diventate amiche. Lei mi raccontava quello che faceva quando era a casa, che amava le pietre, andava in giro cercava quelle pietruzze belle colorate. Quando andiamo a casa, era di Parigi, quando andiamo a casa, se andiamo, vieni a trovarmi, ti faccio vedere, mia mamma non mi butta niente, mia mamma lascerà la mia camera come è adesso e si parlava di questo. A questa viene la dissenteria, non riusciva a farla cessare e dalla dissenteria le è venuta la tubercolosi intestinale. E le sue compagne, perché l’ho detto all’inizio, le francesi si aiutavano in un modo stupendo, queste compagne la portavano di peso all’appello, poi di peso la portavano sul posto di lavoro, le facevano loro il lavoro bastava solo che lei restasse in piedi quando c’era pericolo, restasse in piedi; loro magari una era lì che le faceva il lavoro faceva finta che era andata a prendere un martello o qualche cosa per fare il suo lavoro, le facevano il lavoro, le facevano tutto. Finché hanno potuto l’hanno portata lì, ma un giorno le gambe non la tenevano più in piedi, e sono state costrette a portarla all’infermeria. Caso strano, caso strano, quando c’era qualcuna che moriva, o c’era qualcuna che stava male che non guariva più tipo questa, allora arrivava quando c’era un numero tot di persone da prendere, sia morte che vive, arrivava – noi lo chiamavamo il carro funebre – era un camion coperto da un tendone nero, arriva lì: caricava le morte, c’era uno sgabuzzino, era una camera come fosse quella con le piastrelle bianche, e allora quando moriva una la portavano lì, quando c’erano circa dieci, meno di dieci no, quando c’erano circa dieci persone da prendere, sia morte che vive, vive parlo di quelle ammalate che non c’era più niente da fare, perché finché riuscivano a sfruttarti ti sfruttavano, allora arrivavano caricavano, tutte morte vive, mettevano tutto su quel camion, e le portavano via, caso strano questa non l’hanno mai portata via, non si sa il perché. Dentro l’infermeria c’era una dottoressa francese, che era una prigioniera anche lei e l’hanno presa perché portava avanti un ospedale da campo dei maquis, dei partigiani francesi, e l’hanno arrestata, l’hanno portata a Ravensbrück, poi siccome quando arrivavi ti chiedevano cosa facevi, da civile, a lei hanno chiesto e ha detto: dottoressa. Si vede che avevano bisogno e l’hanno mandata all’infermeria, lì dove eravamo noi. Bravissima era. Io tramite il suo aiuto andavo a trovare questa compagna francese, andavo sovente a trovarla, anche perché avevo il permesso di andare all’infermeria a medicarmi, non aveva niente da darmi, mi dava un bicchiere d’acqua e basta per sciacquarmi la bocca che mi avevano tolto i denti e avevo tutta la bocca, e mi avevano dato il permesso a fine lavoro, vuoi quando si faceva la notte che quando si faceva il giorno potevo andare all’infermeria a sciacquarmi la bocca, andavo lì e mi dava quel bicchiere d’acqua. Sembra una stupidaggine, mi dava quel bicchiere d’acqua mi sciacquavo la bocca e mi passava il male, avevo tutte le gengive rovinate, perché poi quello che mi ha tolto i denti non era un dentista; avevo le gengive brutte, io mi sciacquavo con quel bicchiere d’acqua mi passava il male, poi tornava, perché il male c’era, però mi passava il male. Ora vuoi perché l’acqua era fresca, vuoi anche perché era il modo in cui ti veniva dato quel bicchiere d’acqua con garbo con gentilezza con affetto, cosa che noi là non conoscevamo più da nessuna parte, perché da nessuna parte tu trovavi il rispetto, da nessuna parte tu trovavi, niente, trovavi soltanto brutture, soltanto persone che facevano di tutto per poterti picchiare, tutto quello che noi si trovava in giro, ed arrivare lì e avere una persona che ti dà quel bicchiere d’acqua con garbo con gentilezza, per me era anche quello il motivo che mi sciacquavo la bocca e mi passava il male.

D: Anna, quando eri lì nel sottocampo nella fabbrica, fino a quando siete rimasti lì?

R: Dunque la fabbrica ha funzionato fino verso i primi di febbraio (1945), poi cominciava a mancare i pezzi; il materiale arrivava ma non arrivava tutto, e allora ai primi di febbraio la fabbrica praticamente ha chiuso, non si lavorava più in fabbrica.

Allora ci portavano a tagliare le piante, c’è ancora adesso, una grossa pineta tra dove c’era la fabbrica e il campo e il campo d’aviazione. Allora ci portavano lì, ci facevano tagliare le piante, loro dicevano, per me era una balla quella, che si tagliava le piante per fare la strada, che così loro gli apparecchi che c’erano sul campo, gli apparecchi che venivano finiti in questa fabbrica, poi li collaudavano su quel campo di aviazione; allora dice che gli apparecchi che venivano finiti venivano collaudati, potevano portarli via dal campo per evitare il bombardamento del campo d’aviazione. Ma se noi tagliavamo le piante la strada che si faceva per portare questi aerei era allo scoperto lo stesso. Quello era un modo come un altro per farti lavorare, per non lasciarti in ozio, secondo me poi posso anche sbagliarmi perché magari era..

D: E questo lavoro è continuato fino a quando?

R: Noi abbiamo fatto quello e poi ci hanno portato a fare le trincee, per i militari tedeschi che indietreggiavano, trincee che non servivano a niente, perché quando avevi fatto mezzo metro di profondità, la terra dai lati franava, perciò non servivano a niente quelle trincee. Mi ricordo che era Pasqua, stavamo andando giusto in uno di quei campi dove ci facevano fare le trincee, c’erano delle baracche di legno, e abbiamo visto che dalle finestre, avevano le finestre aperte, perché eravamo già a Pasqua, abbiamo visto dalle finestre aperte, c’erano dei militari dentro. Questi militari hanno sentito, noi abbiamo cercato di parlare italiano per farci sentire, loro hanno capito che c’erano degli italiani, e allora ci hanno gridato: va a pochi! Allora noi quello ci rallegrava, perché se ci dicono loro che va a pochi vuol dire che la guerra finirà presto, e allora anche quella era una medicina per tirarti su il morale perché ti facevano girare come delle ciotole. Da quando non hanno più potuto lavorare in fabbrica perché non arrivava più il materiale ci faceva girare come delle stupide e ci facevano fare dei lavori inutili, inutili erano quei lavori, pur di non lasciarci lì a non far niente, finché un giorno hanno deciso di riportarci a Ravensbrück per la soluzione finale, come loro avevano stabilito. Noi abbiamo viaggiato per tre giorni e tre notti ma non avevamo mai viaggiato, non sto a dire quanti chilometri abbiamo fatto, ma pochissimi, perché ormai c’erano i bombardamenti su Berlino. Era una cosa! Gli aerei erano così, facevano il setaccio proprio. E ogni volta che, specialmente di giorno, ci facevano buttare per terra nei fossi ecc. mi ricordo che siamo partiti di lì erano, dicevano eravamo in 550, quando siamo arrivati che i russi ci hanno liberati eravamo ancora 250, le altre le abbiamo perse per la strada in pochissimi chilometri perché era più quello che stavamo ferme buttate giù nei fossi in prati che quello che si camminava, solo che tante buttarsi giù si buttavano, poi non riuscivano più ad alzarsi e quando loro ordinavano di alzarsi se tu non ti alzavi più che in fretta ti sparavano, ecco perché abbiamo perso tutte quelle compagne.

D: Come ti ricordi la liberazione?

R: Eh, eh, devo dire una cosa, la ricordo strana perché ci hanno chiusi in un locale e noi avevamo anche delle russe con noi, e ci hanno liberato i russi, siamo state liberate dai russi noi, e in quel locale non sapevamo, le russe però che parlavano il russo e sentivano fuori a parlare, hanno capito che c’erano i russi fuori e allora si sono messe a gridare in russo, chiamare ecc. Han fatto la scala, perché c’erano tutte finestre però che si aprivano così, han fatto la scala sono andati da quella finestra e poi hanno chiamato questi militari russi che erano fuori dicendo: siamo chiuse qui dentro! Loro sono venuti per entrare ma non potevano perché c’erano quelle porte che sembravano porte blindate di alluminio ma spesse così, tanto è vero che hanno gridato di toglierci davanti alla porta di andare in un angolo e loro hanno sparato contro la serratura e hanno aperto questa porta, poi ci hanno prese e ci hanno portato in un magazzino, ci hanno detto di stare lì e di non muoverci, perché c’era ancora pericolo, c’erano i cecchini che sparavano e c’era pericolo. E noi siamo rimaste lì, però lì è successo un fatto gravissimo. E’ successo un fatto gravissimo, perché là c’era la camera dove ci han messi loro, poi in un angolo c’era una porta, questa porta era chiusa; per noi ormai vedere le porte chiuse era un dilemma, e siamo state talmente tanto chiuse in mezzo insomma quella porta doveva venire aperta, perché non si poteva lasciare quella porta chiusa, e allora le russe che erano più robuste, perché le russe avevano un temperamento diverso dal nostro erano più robuste resistevano di più, anche loro si aiutavano molto erano tante, si aiutavano molto, ma avevano un temperamento molto più forte del nostro, noi eravamo… vicino a loro, a dirla proprio, allora con le spallate hanno aperto quella porta, dietro quella porta cosa c’era? Un magazzino di patate. Si sono buttate tutte su quelle patate, patate sporche con la terra vicino, era tanta la fame che uno non la vedeva la terra e tante lì sono morte proprio per aver mangiato quelle patate. E ci ho provato anche io, c’era la Irma quella di Biella, mi diceva (fermati)…. E’ una parola, fai presto a dirlo ma quando uno ha fame, e sono andato ho provato anche io, per fortuna da una disgrazia è stata una fortuna: a me mancavano i denti, avevo solo questi pochi davanti, però avevo tutto male alle gengive ancora, anche se era dal mese di gennaio che mi avevano fatto quello, e allora non ho potuto mangiare quelle patate, ho tentato ma non riuscivo. Allora mi ha preso anche la rabbia perché vedevo le altre che mangiavano volente o nolente, terra o no, si tolgono la fame ma io non potevo; allora con un po’ di rabbia, allora poi sono arrivati i russi, ci hanno preso, ci hanno portate in una casa, di lì i tedeschi erano scappati tutti, erano scappati tutti i tedeschi.

D: Ecco questo quando è avvenuto e dove se te lo ricordi.

R: Il nome del paese non lo ricordo, non lo ricordo affatto.

D: E quando?

R: Il 28 di aprile (1945) e questo sarà successo il 29 o il 30 di aprile, quando i russi ci hanno preso e ci hanno portato lì in questa casa disabitata abbandonata dai tedeschi perché avevano paura dei russi, e allora sono scappati tutti e hanno abbandonato le case, e i russi quando ci hanno liberati non avevano niente da darci, perché loro hanno combattuto da Stalingrado fin a Berlino, ma han fatto veramente la guerra, non erano come gli americani, gli americani sono arrivati in Germania con gli aerei, con tutto ogni ben di Dio dietro, giacché gli americani avevano tutto da darti, ma i russi non avevano niente, erano laceri, non dico come noi, però loro l’acqua l’hanno sempre trovata e si sono sempre lavati, invece noi neanche quello. Però ci prendevano, ci portavano nelle case, se gli armadi erano chiusi li spaccavano con i fucili, prendetevi la roba, cambiatevi, toglietevi ‘sta puzzolenza da dosso e tutto finiva lì.

Allora ci hanno sistemate in questa casa, e da quel momento siamo state un po’ sotto controllo, c’era un ufficiale russo anziano, te lo ricordi? Una bravissima persona, ci aveva fatto un documento che era intestato a tutte e due, è andato a finire nelle mani di un fiorentino che si interessava di un gruppo di italiani e questo documento è rimasto, io l’ho cercato questo fiorentino, non sono più riuscita a trovarlo e così questo documento è sparito, era un documento che era, allora non si pensava …

Allora lì i primi due o tre giorni quasi quasi non credevi di essere libero, io mi ricordo che avevo freddo e sono andata a sedermi ai piedi di una pianta al sole, e poi ho chiuso gli occhi, questo sole mi scaldava le ossa. Dicevo: Ah sì sto bene, questa volta sento proprio il caldo. A un certo punto sento parlare straniero, c’era un russo che passava, ha visto che io ero lì appoggiata la testa contro la pianta con gli occhi chiusi, non sapeva se ero viva o se ero morta, allora è venuto lì per vedere se ero viva o se ero morta, quando l’ho sentito mi sono … Subito ho detto: Ah, ma è stato un sogno, sono di nuovo qui. Mi ci sono voluti due o tre giorni, poi poco per volta ci siamo rese conto che effettivamente eravamo libere e dovevamo poi pensare a ritornare, a ritornare a casa, e l’avevamo fatto. Eravamo arrivati fin lì, speravamo anche se avevamo tutta la Germania da attraversare, perché noi eravamo a 80 chilometri dal Mar Baltico, oltre 80 chilometri sopra Berlino, avevamo tutta la Germania da attraversare. C’è voluto del tempo ma ce l’abbiamo fatta.

D: Come è stato il ritorno Anna?

R: Il ritorno è stato bello, perché ho trovato mia mamma viva, pensavo di non trovarla più viva, questo è stato bello, però ho saputo poi di mio fratello che l’avevano preso e l’hanno fucilato e poi…

D: Partendo da Berlino…

R: Proprio da Berlino non siamo più passate, però a distanza abbiamo visto Berlino era distrutta, ma non solo Berlino Dresda, noi che l’avevamo visto prima e l’abbiamo vista dopo era una cosa spaventosa, era rasa al suolo, Berlino era rasa al suolo. Quegli aerei che facevano il setaccio che andavano e venivano …

D: Con cosa sei ritornata, con che cosa siete ritornate.

R: Ah, ah abbiamo fatta più strada a piedi che con tutti i mezzi che abbiamo trovato, ma i mezzi più grandi erano le nostre gambe.

D: E siete rientrati in Italia da dove?

R: Da Bolzano. Poi ci hanno detto: Quando entrate in Italia vi danno un pacco, noi tute contente, oh meno male, siamo arrivati a Bolzano una domenica mattina, piovigginava, c’era la nebbia, ma faceva un freddo! Eravamo ad agosto, faceva un freddo cane, e il pacco sa cos’era? Era tre rosette di pane, quelle rosette dure così, e cinque mele, quelle mele che cadono da sole dalle piante. Poi a noi donne ci hanno dato un mestolo di latte caldo e agli uomini cinque sigarette. Lei assaggia il latte prima di me e poi mi fa. “E’ andata a male, l’è acido” l’abbiamo bevuto lo stesso, eh?

D: Ma questo dove?

R: A Bolzano alla stazione, sotto la tettoia della stazione.

D: E chi c’era a distribuire lì?

R: C’erano degli uomini, delle donne, però non erano crocerossine, erano gente del posto, tre rosette grosse così dure come non so cosa, e cinque mele di quelle lì tarate, perché poi dentro erano guaste, quello è stato il pacco che ci hanno dato. Poi ci hanno portato a Pescantina, lei è stata fortunata, perché ha trovato subito un treno che veniva a Torino e allora con degli internati militari ha preso il treno con loro ed è arrivata a Torino. Io invece purtroppo mi sono fermata più di una settimana lì a Pescantina, perché poi mi ero gonfiata tutta, non ci vedevo più, ero gonfiata, allora non mi hanno fatto partire. A Pescantina dalla provincia di Asti venivano su coi camion a caricarci e lì ero in quelle condizioni, volevano ricoverarmi all’ospedale e io ho detto: vado a casa a piedi ma all’ospedale non ci vado. Fossi andata in ospedale forse avrei preso la pensione, invece io volevo andare a casa e allora ho sentito che il dottore ha detto alla suora: facciamo queste iniezioni poi se non le passa la portiamo di brutto all’ospedale. Eh beh dobbiamo fare i conti assieme, gli ho detto. Non vedevo ma la lingua parlava. Invece mi ha fatto quelle iniezioni e dopo tre o quattro iniezioni ho cominciato a vedere il buio che si diradava, ho cominciato a vedere delle ombre che passavano: Ma io vedo già le ombre” “Eh beh allora andiamo bene, continuiamo le iniezioni”. Finita la scatola di iniezioni io non è che proprio ci vedessi chiaro, ma comunque vedevo, vedevo cosa avevo davanti a me cosa avevo nel piatto ecc,ecc,

D: Ma Pescantina dentro l’ospedale?

R: No, era un asilo nido quello dove raggruppavano tutti gli internati che arrivavano dalla Germania passavano di lì e poi ognuno andava per la sua direzione; quello che andava nella bassa Italia prendeva il treno per la bassa Italia, loro che venivano a Torino prendevano il treno che andava a Torino ed io che andavo ad Asti c’erano i camion della Curia di Asti che venivano a caricarci che ci portavano ad Asti, solo che io ho dovuto stare una settimana.

D: Allora una settimana dopo finite le iniezioni …

R: Ho cominciato a vederci e allora sono andata a casa.

D: Anna tu parlavi dei denti

R: I denti è stata una storia quella! Il mattino facevamo la notte, siamo alla piazza Appell: chiamano il mio numero e io che non sono mai riuscita a imparare il mio numero di Ravensbrück a memoria, come il solito, quella greca, quella professoressa, mi tocca: chiamano te! E allora esco fuori, quando ti chiamavano dovevi uscire fuori, in un angolo c’era un angolo apposta, eravamo in cinque. Ci hanno portate davanti all’infermeria, ci hanno fatto entrare una per una, io quando sono entrata mi hanno guardata in bocca ma io i denti li avevo tutti sani, non avevo male in bocca male ai denti. Loro dicono krank e lì c’era la signora Berna, non so se te la ricordi, quella che faceva da interprete che aveva la fascia rossa, e loro dicono “krank”, voleva dire che eri ammalata in bocca; io dico all’interprete: io non ho male in bocca, i denti sono sani cosa dicono che sono ammalata? E lei si vede che sapeva e mi ha detto: bisogna aver tanta pazienza! Parlava bene l’italiano, era di Lubiana la signora Berna, bisognava avere tanta pazienza.

Usciamo fuori, quando arrivano anche le altre quattro ci caricano su un camioncino e partiamo.

Ci hanno portato a Sachsenhausen. Siamo arrivate davanti a una casetta, una casetta fatta di pietra non di legno, che c’è ancora adesso con scritto sopra “Patologia” e dentro ci sono ancora tutti i ferri nelle vetrine come allora, entro dentro c’era un signore grande e grosso che ungeva da dentista ma non sapeva nemmeno come tenere le pinze in mano, si vede che voleva imparare. Loro erano convinti di vincere la guerra, voleva imparare per aprire uno studio dentistico alla fine della guerra, non so, e allora mi fissa le braccia su questi braccioli delle poltrone, mi fissa la testa, mi fa mettere i piedi dietro la traversa della sedia perché non gli dia calci, e poi va alla vetrina: vedo che viene avanti con le pinze per togliere i denti e incomincia, e incomincia dai molari, resto dietro, di sopra non ne ho più. Solo che è quello che mi ha rovinato tutte le gengive; fatto sta che da quel giorno dal mattino verso le dieci, dieci e mezza, fino alle quattro e mezza del pomeriggio ne ha tolti sette, poi ha smesso mi ha dato un pezzo di carta per pulirmi la faccia, e poi fuori c’era di nuovo il camioncino che ci aveva portate, ma non c’era nessuno, c’ero solo io, le altre non sono più tornate. Ero tutta frastornata: togliere sette denti senza iniezione e senza niente, non so se mi spiego; poi ero tutta sporca qui davanti per la bava, tutto quello che veniva fuori dalla bocca, non è che mi hanno messo qualcosa qui davanti.

Fatto sta che arrivo fuori lì c’era quello lì del camioncino e mi fa segno di salire su quel camioncino, ma io non ero capace a salire, non ero capace perché non gliela facevo, ero distrutta, allora lui mi ha presa, ora pesavo poco mi ha presa così mi ha buttata sul camion, come si fa a un sacco di patate, il camioncino è partito e mi ha riportato.

Vado lì, loro si stavano già alzando perché siamo arrivati lì erano le cinque cinque e un quarto, vado a fare un’altra notte, era già la seconda notte che facevo senza dormire, vado a fare un’altra notte, il mattino dopo mi chiamano di nuovo, questa volta mi chiamano da sola, mi caricano un’altra volta su quel camioncino e mi riportano a Sachsenhausen. Allora mi è venuto in mente che il giorno prima quel famoso dentista, nel mandarmi fuori, mi aveva detto “Auf Wiedersehen” che vuol dire arrivederci, e io subito non ci avevo fatto caso, mi è venuto in mente il giorno dopo quando mi hanno riportata lì. Ecco perché mi ha detto “Auf Wiedersehen”! Lui sapeva che io il giorno dopo dovevo ritornare. Allora sono tornata, la medesima cosa: mi ha fermato le braccia, la testa e tutto mi ha tolto altri otto denti, in tutto quindici denti, infatti io i molari non li ho più.

Nel ’79 quando sono andata per la prima volta in Germania con mio marito, abbiamo visitato tanti campi, tra i quali anche Sachsenhausen, adesso no, c’è solo l’emblema, ma allora c’era un tavolo che era più lungo di questo, pieno di denti, perciò non è che, ce n’erano d’oro, certo se li prendevano subito, ma i denti non d’oro non gli servivano a niente, perché erano tutti lì, ce ne erano una montagna, tanto che io scherzando ho detto a mio marito, guarda bene perché lì dentro ci sono anche i miei! Perciò toglievano questi denti ma non si sa il perché, lo sanno solo loro; forse per vedere quanto una persona resiste, per vedere, non lo so, non lo so! I denti erano tutti lì, adesso c’è ancora nel museo poca roba, non c’è più tutta quella quantità di denti come c’era allora. Ma nel ’79 c’era un tavolo pieno, l’abbiamo visto noi, perciò perché l’hanno fatto non l’ho mai saputo, e non lo saprò mai.

D: E’ difficile raccontare il Lager.

R: E’ difficile perché non si racconta bene, si salta da una parte e dall’altra perché comunque, io ho fatto del mio meglio…

D: No, sto dicendo tu sei brava, ma spiegare.

R: Rivivi quello che hai passato, rivivi.

D: La vita di un giorno nel Lager come si può sintetizzare, come si può…

R: Non è facile dirlo.

D: Perché non sai quale giorno prendere.

R: Ecco, bravo. Perché tutti i giorni erano brutti poi c’era quello più brutto ancora, c’era quello che magari avevi un momento, hai avuto un momento di solidarietà, hai avuto un momento che ti ha dato un po’ di forza e non sai quale prendere.

D: Parlavi delle francesi, con le francesi cantavate?

R: Loro cantavano, fra di loro facevano tante cose. Poi c’è un fatto: loro ricevevano i pacchi, cosa che noi non avevamo mai ricevuto, loro scrivevano, noi non avevamo mai scritto.

D: Tu non hai mai scritto?

R: Mai, mai, mai.

D: Loro invece sì.

R: Loro ricevevano dei pacchi, scrivevano e diciamo che dai pacchi che ricevevano qualcosa saltava sempre fuori. Ho mangiato tanto di quell’aglio, ricevevano delle teste di aglio così, e allora … Quella compagna che poi è morta, l’ultima volta che sono andata a trovarla grazie a questa dottoressa che io andavo con la scusa dei denti, poi andavo a trovare lei, lei stava sulla porta, se vedeva che c’era pericolo, allora eravamo già d’accordo, lei diceva: Achtung, e io venivo lì.

C’era già il mio bicchiere di acqua, prendevo il mio bicchiere, mi sciacquavo i denti, avevo il permesso di fare quello … Sono andata a trovarla lei mi ha detto con un fil di voce, perché non riusciva nemmeno più a parlare mi ha detto: Io sono alla fine, la mia liberazione arriva prima della tua.

Ecco, questa è una cosa molto importante, queste persone sapevano di morire…..

Desandrè Ida

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Ida Desandrè, sono nata ad Aosta il 10 ottobre 1922.

Sono stata arrestata nel mese di luglio del 1944 dai fascisti, e in seguito deportata in Germania. Prima di essere deportata sono stata rinchiusa nelle caserme militari di Aosta, poi nella prigione di Aosta. In seguito sono stata a Torino nelle carceri nuove, di passaggio al carcere di San Vittore a Milano, e poi sono stata trasferita a Bolzano. A Bolzano sono rimasta circa una ventina di giorni.

D: Ida, dove sei stata portata a Bolzano?

R: Nel campo di concentramento di Bolzano, e in seguito da Bolzano sono partita per la Germania. Il primo posto in cui sono stata è il campo di Ravensbrück. Nel campo di Ravensbrück ho fatto la quarantena; in seguito sono stata trasferita in un campo di lavoro, sempre alle dipendenze del campo di Ravensbrück. Questo campo era situato nella località di Salzgitter e vi sono rimasta sino verso la metà di aprile (1945): dalla metà di aprile sono stata trasferita un’altra volta e sono finita nel campo di Bergen Belsen.

D: Questo è stato il tuo percorso di deportazioni; iniziamo col campo di Bolzano.  Quando sei arrivata nel campo di Bolzano dove ti hanno messo, te lo ricordi? 

R: Sì, ricordo perfettamente l’ingresso nel campo di Bolzano: ricordo un grande capannone

modo da una rete metallica. Ricordo perfettamente dove erano situate le cucine, le toilettes.

La mia permanenza a Bolzano non è stata troppo malvagia perché ci portavano a lavorare dentro a caserme, dove c’erano diverse mansioni, non per tutti uguali. Con il mio gruppo attaccavamo bottoni ai telo-tenda dei militari. Poi alla sera si rientrava nel campo.

D: Con te c’erano molte altre donne?

R: Sì tante, tante donne. Con il gruppo con cui sono partita dalle carceri di Torino e anche da Milano siamo quasi sempre rimaste unite. Erano donne che provenivano da diverse località, c’era anche una compagna di deportazione della Valle d’Aosta, e operaie delle fabbriche di Torino, donne di Milano, di Cremona, di Imperia; insomma, da parecchie zone del Piemonte, della Liguria …

D: Poi da Bolzano sei partita; tu ricordi in maniera precisa il giorno della tua partenza.

R: Sì, ricordo in modo perfetto il giorno della mia partenza perché era il 10 di ottobre (1944), il giorno del mio compleanno.

D: Ti ricordi da dove siete partite? 

R: Siamo partite appunto dal campo, adesso non so ricordarmi con precisione, se siamo state caricate su dei camion oppure se abbiamo fatto la strada a piedi verso il binario dal quale partivano tutti i treni che ci portavano in Germania. Questo binario esiste tuttora, sono tornata tempo fa a rivederlo.

D: In quanti eravate più o meno sul tuo vagone?

R: Il mio vagone poteva al massimo contenere 40 persone: eravamo invece più di 100.

D: Tutte donne?

R: Tutte donne, anche anziane, chi più chi meno.

D: Avevate dei vettovagliamenti, del cibo?

R: Aveva dei vettovagliamenti chi aveva avuto la possibilità di ricevere ancora qualcosa nel campo di Bolzano. Io per esempio sono stata tra una di quelle che aveva anche ricevuto dei soldi dai familiari e dagli amici che mi avevano anche fatto arrivare dei pacchi. Siamo partite per la Germania con un po’ di mele, un po’ di zucchero, qualche tavoletta di cioccolato, qualche pezzo di pane, non tanta roba.

D: Il trasporto ha fatto qualche fermata?

R: Il trasporto si è fermato alla stazione di Innsbruck verso sera, al calar del sole: ricordo perfettamente i raggi di sole che sparivano dietro la montagna. A Innsbruck ci hanno fatto scendere più che altro per mandarci alla toilette, poi immediatamente ci hanno fatto risalire sul treno.

D: Il treno si è più fermato?

R: Il treno non si è più fermato, almeno che io ricordi, e sono passati tanti anni. Dopo 5 giorni e 5 notti di viaggio siamo arrivate a Ravensbrück.

D: Come avete provveduto ai vostri bisogni fisiologici, se il treno non si è più fermato?

R: Questa è stata veramente una cosa molto penosa, non soltanto per me, ma certamente anche per

tutte quelle che erano sul vagone. Abbiamo dovuto in qualche modo risolvere questo problema facendo un buco tra le tavole del vagone. Queste cose si svolgevano così, con grande umiliazione … trovarsi così di fronte anche a persone sconosciute. Questa è stata, posso dire, la prima grande umiliazione che abbiamo subìto.

D: Poi siete arrivate a Ravensbrück. Cosa è successo quando hanno aperto il vostro vagone?

R: Arrivammo a Ravensbrück su un binario morto, cioè il binario arrivava sino lì. Ci hanno fatte scendere e ci hanno incolonnate 5 per 5. Ci hanno contate ed era un grosso problema per le guardie che ci accompagnavano questo contare: non doveva mai mancare nessuno in rapporto alle cifre che loro avevano. Purtroppo anche durante il viaggio qualcuna è morta.

Ricordo in modo particolare la presenza del lago (nel campo di Ravensbrück); non so di averlo visto con precisione, comunque sentivo la presenza del lago e soprattutto ho il ricordo dolcissimo del suono di una campana. Quando si arriva in questi luoghi anche soltanto il suono della campana ti dà la sensazione di non essere in un posto sperduto, cioè ti fa sperare che ci sia la presenza di qualcuno vicino a te.

D: Come ricordi l’arrivo al campo?

R: Dopo che ci hanno contate e ricontate ci siamo avviate lungo un viale circondato da aiuole ben curate, con casette in stile tirolese, molto belle, con i gerani fioriti alle finestre nonostante che fossimo già nel mese di ottobre. Più che altro guardavo le tendine. Quando siamo partite per la Germania eravamo convinte di andare in Germania a lavorare, anzi in un certo senso era come una liberazione partire per la Germania, perché non sapevamo nulla di ciò che ci aspettava. Pensavamo di andare a lavorare; e questo era il nostro pensiero vedendo queste aiuole, tutte queste casette, che poi erano le case dei nostri aguzzini. Dicevamo: “Qui ci faranno lavorare”, speravamo che la nostra vita si sarebbe svolta in questo modo sino alla fine della guerra. Invece purtroppo le cose poi si sono presentate in un altro modo: finito il viale, ci siamo trovate di fronte un grande ingresso, un grande portone, abbiamo cominciato a vedere le torrette con le guardie sopra, con le armi puntate, il filo spinato, si è spalancato il grande ingresso.

Cosa abbiamo visto entrando nel campo? Abbiamo visto le prime prigioniere incolonnate. C’erano colonne di donne vestite a righe, qualcuna coi capelli rasati e con gli attrezzi agricoli, e le facevano sfilare cantando, le facevano anche cantare. Altre invece trascinavano misere carrette su cui erano andate a raccogliere le morte nel campo, destinate al forno crematorio. A Ravensbrück funzionava giorno e notte il forno crematorio.

D: E l’ingresso nel campo?

R: Per prima cosa non siamo state guardate subito perché siamo state due giorni fuori, dormendo all’addiaccio sul piazzale del campo. Fortunatamente avevamo ancora con noi i nostri indumenti e quel poco da mangiare che era rimasto nei nostri fagotti; li tenevamo ben cari questi fagotti perché le poverine, le prigioniere che erano già lì prima di noi anche di notte cercavano di rubare quel poco che noi ci eravamo portate appresso. Fortunatamente io avevo con me il cappotto, mi ci sono coperta e non ho sofferto

eccessivamente il freddo. Dopo due giorni siamo state chiamate dentro la baracca adibita alla vestizione; ci hanno fatto spogliare nude e abbiamo dovuto lasciare tutto; tutto ciò che avevamo con noi ci è stato preso, non ci è rimasto neanche un ago per cucire né uno spazzolino da denti, niente. Tutto ci è stato portato via, tutti gli oggetti cari, le fotografie, tutto tutto tutto, siamo rimaste nude. E poi siamo state anche notevolmente depilate, visitate nelle parti più intime del nostro corpo: pensavano che qualche oggetto avrebbe potuto essere nascosto. Dicendo oggetto intendo una catenina d’oro, un anellino che sarebbe servito come merce di  scambio nel campo per qualche miska di zuppa.

D: Dopo la spoliazione, la depilazione, la rasatura e le visite corporali, è la volta delle docce.

R: Sì, la doccia e poi la vestizione, cioè dopo la doccia ci hanno consegnato i vestiti. Allora c’era chi otteneva il vestito zebrato e chi no, ed è ciò che per esempio è successo a me: mi è stato dato un vestito nero con una croce di stoffa di diverso colore cucita davanti e dietro. Sul braccio era cucito il triangolo già col mio numero.

D: Il triangolo di che colore era?

R: Il mio era rosso; il triangolo rosso era per le deportate politiche. C’erano anche altri colori: il triangolo giallo per gli ebrei, il triangolo verde non ricordo … insomma, c’erano parecchi colori.

D: Poi il blocco di quarantena.

R: Ci hanno assegnato il posto nelle baracche. C’è da precisare che il campo di Ravensbrück era stato costruito per, non so, 9.000 / 10.000 persone circa, ma purtroppo verso la fine della guerra eravamo già più di 50.000, e il campo non si è ingrandito nel frattempo. Il campo è rimasto quello che era, le baracche sono rimaste quelle, perciò  eravamo pigiate dentro queste baracche. Mi è stato dato un posto per dormire, c’erano i letti a castello, chiamiamoli letti ma erano semplicemente dei tavolacci con un po’ di paglia e una coperta. Il mio posto è stato assegnato al quarto castello, ma questo posticino era occupato da 3 prigioniere polacche; le poverine erano già da un po’ di tempo nel campo; vedendosi arrivare un’intrusa ad occupare una parte di questo piccolo posticino mi riempirono di botte. Io non capivo perché mi picchiassero così; non avevo colpa se mi avevano rifilata in questo angolino.

Voglio raccontare un particolare: entrando nella baracca in attesa appunto che ci venisse assegnato il posto, io mi sono appoggiata sul primo lettino del castello, che era ricoperto da una copertina a quadretti bianchi e blu, tutta diversa dagli altri letti. Era il letto di una kapo: non pensavo di fare qualcosa di male, ma lei senza dirmi niente mi allungò un ceffone. E mentre mi picchiava mi chiamava “Badoglio”. Tutte noi italiane eravamo chiamate “Badoglio”. Perché? Perché in fondo in fondo la considerazione che i tedeschi avevano delle prigioniere italiane era doppiamente terribile: noi non eravamo il nemico, noi eravamo i traditori, e questo certamente ha influito molto sulle punizioni e sul comportamento che loro avevano nei nostri riguardi.

D: Quanto tempo sei rimasta a Ravensbrück?

R: Io penso grossomodo di avervi fatto la quarantena, adesso dire con precisione non lo so, ricordo

vagamente. Nei giorni in cui siamo rimaste a Ravensbrück – io parlo sempre al plurale perché siamo quasi sempre rimaste assieme noi del gruppo partito da Torino e da Milano, noi che provenivamo dal Piemonte e dalla Liguria – ci portavano a lavorare. Andavamo a lavorare dalle parti in cui c’era il laghetto; ci facevano caricare sabbia su grandi carrelli sistemati su rotaie: dovevamo caricare, riempire questi carrelli, spingerli e svuotarli. Certamente era un lavoro inutile ma era un modo anche questo per toglierci le forze, per debilitarci e per farci capire che eravamo là per soffrire, ecco.

D: Lo specifico di Ravensbrück è quello di essere un campo tutto femminile.

R: Sì, nel campo di Ravensbrück c’erano tutte donne.

D: Solo donne.

R: Giovani, vecchie, anziane, insomma c’era un po’ di tutto.

D: Tu hai subìto esperimenti in questo campo?

R: Sì, in questo campo sono stati fatti degli esperimenti sulle prigioniere. Esperimenti anche terribili. Quello che è stato fatto a me, come a tante altre, consisteva nel toglierci il ciclo mestruale: a qualcuna mettevano qualcosa nel mangiare, invece tante altre venivano messe su un tavolo e veniva iniettato direttamente nella salpinge un liquido molto irritante; questo liquido ci ha tolto le mestruazioni. Da quel momento sino a quando non sono tornata a casa, anzi anche per un periodo di tempo successivo al mio rientro a casa, non ho più avuto le mestruazioni.

D: E il vostro corpo si è riempito di che cosa?

R: Togliere il ciclo mestruale era un problema molto grave per la donna, ma i nazisti sapevano benissimo le conseguenze di tutto questo: loro dicevano che noi eravamo degli schiavi e che gli schiavi si riproducono troppo in fretta, come i topi. Certamente anche in questo senso cercavano il modo di eliminare il più possibile le persone, e così anche con noi, che non avremmo potuto magari più avere figli. Questo penso sia stato lo scopo di questo esperimento, e forse anche vedere l’effetto che poteva fare sulla donna togliere il ciclo mestruale. L’effetto è stato che i nostri corpi si sono riempiti di grossi foruncoli sempre pieni di pus, e i  pidocchi  si accompagnavano benissimo coi foruncoli ….

D: Durante il periodo che tu sei rimasta a Ravensbrück hai subìto anche una selezione. Te la ricordi?

R: La selezione è stata quando ci hanno scelte per portarci fuori dal campo di Ravensbrück, perché il campo aveva dei campi satellite, dei campi di lavoro. Sono arrivati degli industriali tedeschi e ci hanno scelte, cioè individuavano tra le prigioniere quelle che più o meno avrebbero potuto rendere nella loro fabbrica e nel lavoro. Ci guardavano soprattutto, mi ricordo, le mani: chi aveva anche le mani callose era evidente che fosse una persona già abituata a lavorare e senz’altro avrebbe reso in fabbrica. Io fortunatamente avevo già i calli alle mani perché abituata a lavorare, ho lavorato sin da piccola.

Prima di tutto questo però diciamo dell’appello al mattino a Ravensbrück. Alle 5 dovevamo uscire fuori dalle baracche per l’appello, qualunque fosse stato il tempo, qualunque fosse stato il modo in cui potevamo uscire; tante volte dovevamo uscire anche nude, e l’appello durava tante ore, a seconda se durante la notte qualcuna era morta oppure se qualcuna era assente per qualche altra cosa. Contavano, contavano e ricontavano; l’appello durava fin a quando i conti non tornavano. A Ravensbrück succedeva anche questo. Cosa posso dire? Tra tante altre sempre del mio gruppo, siamo state scelte per andare a lavorare in una fabbrica in un campo di lavoro che si chiama Salzgitter. Ci hanno caricati su dei treni un’altra volta e ci hanno portato in questo posto. Non abbiamo viaggiato tanto perché Salzgitter non era tanto lontano da Ravensbrück. In questo campo di lavoro c’erano parecchie baracche, adesso ricordo vagamente quante baracche c’erano, ma c’erano donne di tutte le nazionalità: greche, polacche, russe, francesi, italiane.

D: E lì a Salzgitter cosa facevate?

R: A Salzgitter ci portavano a lavorare dentro delle fabbriche. Noi andavamo a lavorare in una fabbrica in cui si costruivano i cerchi di rivestimenti per le bombe. Ci davano della polvere tipo polvere di alluminio, non so bene di che cosa fosse composta questa polvere, e si cominciava a costruire dal piccolo cerchio via via sempre più in grande, fino a quando la forma della bomba veniva data da tutti questi cerchi l’uno sopra l’altro. Questo era il lavoro che si svolgeva nella nostra fabbrica; si facevano i 3 turni, si lavorava dalle 6 del mattino alle 2, o dalle 2 alle 10 di sera; poi c’era il turno di notte. Questo è stato il lavoro di Salzgitter.

D: Poi anche da Salzgitter sei stata trasferita.

R: Sì, da Salzgitter siamo state trasferite perché il fronte stava avanzando. In una notte tremenda ci hanno fatto uscire dalle baracche, con urla tremende, e bastonandoci ci hanno caricate su dei camion e ci hanno portate via: la nostra destinazione era nuovamente Ravensbrück. Purtroppo durante il viaggio il nostro convoglio è stato bombardato, e naturalmente il treno non ha più potuto proseguire per Ravensbrück. Allora abbiamo camminato, ma non quella notte, che abbiamo passato nel bosco. Il giorno dopo abbiamo camminato, e dopo tanti chilometri siamo arrivate nel campo di Bergen Belsen.

D: Quando siete state trasportate da Salzgitter a Bergen Belsen siete state bombardate nella stazione di Celle, te lo ricordi?

R: Siamo state bombardate nella stazione di Celle presso Hannover; abbiamo subìto un bombardamento terribile, e in seguito a questo bombardamento abbiamo dovuto proseguire sulla strada a piedi. Facendo tutti questi chilometri a piedi per arrivare nel campo di Bergen Belsen avevamo tanta sete, tantissima sete, e soffrire la sete è una cosa molto brutta. E poi anche fame, perché non ci è stato distribuito più niente da mangiare. Io avevo con me un pezzo di pane, un piccolo pezzo del pane che ci veniva distribuito nel campo. Non so con che farina fosse fatto, se ci fosse almeno un po’ di farina ma forse non c’era neppure. Questo pezzo di pane me l’aveva dato una compagna di deportazione che era riuscita a rubarne un po’ e che aveva distribuito tra noi compagne; io, per non mangiarlo e perché mi durasse di più, ho continuato a leccarlo tutto il tempo che abbiamo camminato; tra l’altro eravamo anche mitragliate. Quando arrivavano gli apparecchi aerei si lasciava la strada e si correva a ripararsi nei boschi. Dopo tanti chilometri finalmente arrivammo a Bergen Belsen. Io avevo sempre in mano questo pane che si era ridotto ormai ad una palla a furia di leccarlo, era una piccola palla. E non appena sono entrata nel campo di Bergen Belsen, sono stata avvicinata da una prigioniera che aveva un po’ d’acqua dentro il recipiente che chiamavamo miska: mi ha fatto segno che se le avessi dato il pezzo di pane lei mi avrebbe lasciato bere un sorso d’acqua: ecco, ho rinunciato al pane per bere un po’ d’acqua, perché la sete era stata talmente grande.

Del campo di Bergen Belsen cosa possiamo dire? La nostra prima impressione nel vedere tutto ciò che c’era attorno a noi, un inferno dantesco, è stata: “Qui è finito, qui loro hanno vinto, noi abbiamo senz’altro perso”, vedendo tutto il disastro che c’era. Nel campo non c’era più nulla che funzionasse, non c’era acqua, non davano più da mangiare. I cadaveri erano tutti sparsi nel campo, erano cadaveri accatastati, mucchi e mucchi di cadaveri che la notte buttavano fuori dalle baracche. Vedere questi cadaveri così, con le membra tutte storte, con gli occhi aperti, le bocche aperte, con le piaghe da decubito, è stata una cosa terribile, una cosa che ancora io non ho dimenticato, nonostante siano passati tantissimi anni. Il mio pensiero va sempre a questa povera gente che è morta in un modo così terribile.

D: Ida, perché sei stata portata nei campi di concentramento?

R: Io sono stata portata nel campo di concentramento perché mio marito era militare ad Aosta; l’8 settembre (1943) c’è stata la disfatta dell’esercito italiano, e anche lui, come tutti gli altri, dopo 8 anni di servizio militare è scappato assieme agli altri. Ha fatto parte della Resistenza in un modo abbastanza blando, ma non ci voleva tanto per essere arrestati; anche se non si partecipava alla Resistenza, in quel periodo bastava una frase fuori luogo, oppure un’imprecazione per il pane che non ci davano o per la fame che si pativa e si poteva benissimo essere arrestati.

Io ho visto persone arrestate perché trovandosi in un luogo pubblico, in un bar o in una cantina, con la radio che trasmetteva il giornale radio, non si alzavano in piedi e non si toglievano il cappello, come invece si doveva fare. Ebbene, bastava che ci fosse un fascista dentro al locale, e potevano arrestarti per questo.

Essere arrestati non significava aver fatto qualche cosa, essere arrestati significava questo: il governo italiano doveva consegnare al governo tedesco un certo numero di prigionieri, e per raggiungere la cifra tutto andava bene: quelli presi nel rastrellamento e quelli presi per delle sciocchezze.

Ripeto, mio marito ha lasciato l’esercito e siamo stati arrestati tutti e due, lui è finito in Germania prima di me, perché ha fatto tutto il mio viaggio sino a Bolzano, e poi è partito per la Germania qualche giorno prima di me, inviato in un campo di lavoro vicino a Lipsia, non in un campo di sterminio, ed è rientrato in Italia nel mese di agosto (1945), mentre io sono rientrata in Italia nel mese di settembre del 1945.

D: Ritorniamo ancora a Bergen Belsen, che è l’ultimo campo in cui sei stata deportata e dove sei stata liberata. Ci stavi descrivendo le immagini del tuo arrivo; quanto tempo vi sei rimasta?

R: Noi siamo stati liberati dalle truppe inglesi il 5 di maggio (1945), non mi vorrei sbagliare ma mi sembra tanto che fosse il 5 di maggio. E poi siamo rimasti ancora parecchi giorni dentro a questo campo, perché la situazione era caotica e doveva essere organizzata anche l’evacuazione del campo. Le prime persone che sono state portate fuori dal campo sono stati i prigionieri che quasi quasi erano all’ultimo stadio. Sono stati portati via i bambini, perché c’erano anche bambini e delle giovanette, lì dentro. Non bisogna dimenticare che nel campo di Bergen Belsen è morta Anne Frank e tantissime ragazzine.

Quando hanno potuto, gli inglesi ci hanno portate via, ci hanno fatto fare la doccia e ci hanno disinfettate tutte con il DDT, spargendo sui nostri corpi nudi, un’altra volta nudi, tutta la polvere di DDT. Siamo state portate via e ci hanno di nuovo, non tutti, sparsi in questa regione; noi siamo ritornate a Celle dove eravamo state bombardate, e siamo state messe dentro delle caserme, precisamente nella scuderia delle caserme, a dormire un’altra volta per terra sulla paglia. Così per un paio di giorni; io ero già abbastanza malata, avevo sempre la febbre. Fortuna volle che incontrassimo dei prigionieri militari che avevano requisito una casa tedesca, dove forse c’era un laboratorio perché c’erano dei letti a castello. In attesa del rimpatrio l’avevano requisita e ci diedero una camera, per tutte tranne la mia carissima compagna di deportazione di Imperia, che purtroppo è stata portata in ospedale perché era gravemente ammalata; gli inglesi infatti l’avevano portata via dal campo di Bergen Belsen, quasi subito.

D: A Celle fino a quando sei rimasta?

R: Lì siamo rimaste fino a settembre, quando ci hanno rimpatriate. Tante volte ci chiamavano, ci radunavano perché si doveva partire, e poi invece il convoglio non c’era. Ci sono stati dei grossi problemi in quel momento, perché eravamo talmente tanti e le ferrovie funzionavano non in modo tanto buono. La Germania era anche distrutta nelle ferrovie, nei ponti, nei treni e tutte queste cose. Per organizzare il rimpatrio c’è voluto tanto tempo. Primo Levi nel suo libro “La tregua” descrive molto bene le fasi del rimpatrio. Non tutti siamo stati fortunati da avere subito un convoglio che ci portasse a casa. E poi, ripeto, io ero già ammalata; sono stata poi ricoverata in una clinica tedesca, dove bene o male sono stata curata dalla febbre, diciamo, intestinale; avevo anche la scabbia in tutto il corpo, soprattutto sulle mani, dove si vedeva un po’ di più e questo mi tormentava un po’ di più.

D: Quando sei rientrata in Italia?

R: Sono rientrata in Italia verso la fine di settembre (1945).

D: Attraverso quale percorso?

R: Sono passata di nuovo dal Brennero, come quando sono partita, e sono ritornata a Bolzano. Siamo arrivati a Bolzano quando spuntava l’alba; bellissimo questo ingresso a Bolzano, dove la Croce Rossa ci ha accolti. La prima cosa che ci è stata data è stato un pezzo di pane, un panino bello grande, molto bianco, che forse era fatto anche con farina di riso. Eravamo talmente commosse, in modo particolare, nel ricevere questo pezzo di pane dopo tanto tempo che non riuscivo neanche a mangiarlo, me lo baciavo.